Bibliografia

Cento anni di Europa / J. Joll. – Laterza, 1975

La grande Europa, 1878-1919 / Norman Stone. – Laterza, 1986

Tramonto di un’epoca / Barbara Tuchman. – Mondadori, 1982

Studi di storia del movimento operaio / W. J. Hobsbwawm. – Einaudi, 1972

Il lavoro delle donne: la divisione sessuale del lavoro nello sviluppo economico / E. Roserup. – Rosenberg & Sellier, 1982

Uomini, tecniche, economia / C. M. Cipolla. – Feltrinelli, 1966

L’imperialismo / J. A. Hobson. – Milano, 1974

La sociologia del partito politico nella democrazia moderna / R. Michels. – Il mulino, 1966

L’invenzione della tradizione / E. J. Hobsbawm, T. Ranger. – Einaudi, 1987

Storia del pensiero socialista / G. D. H. Cole. – Laterza, 1967

Kautsky e la rivoluzione socialista, 1880-1938 / M. Salvadori. – Feltrinelli, 1976

L’Europa del Novecento: storia e cultura / George Lichtheim. – Latera, 1973

Il criterio dell’oggettività: un’interpretazione della storia del pensiero scientifico C. C. Gillispie. – Il mulino, 1981

Storia sociale dell’arte / A. Hauser. – Einaudi, 1955

I pionieri del movimento moderno / N. Pevsner. – Rosa e Ballo, 1945

Dal naturalismo all’espressionismo: letteratura e società in Austria e Germania, 1880-1918 / R. Pascal. – Feltrinelli, 1977

Storia dell’analisi economica / J. A. Schumpeter. – Boringhieri, 1968

Nuove tendenze della storiografia contemporanea / G. Iggers. – Edizioni del prisma, 1981

Le origini della repubblica di Weimar / A. Rosenberg. – Sansoni, 1972

Storia della Germania / G. Craig. – Ed. Riuniti, 1984

L’impero degli Absburgo / C. A. Macartney. – Garzanti, 1981

Storia d’Italia dal 1861 al 1969 / D. Mack Smith. – Laterza, 1972

L’Italia dal liberalismo al fascismo, 1971-1925 / C. Seton.Watson. – Laterza, 1980

Storia della Spagna, 1808-1939 / R. Carr. – La Nuova Italia, 1979

Storia della Spagna, 1874-1936 / G. Brenan. – Einaudi

Storia dell’Asia orientale / John K. Fairbank … et al. – Einaudi, 1974

Storia degli Stati Uniti / S. E. Morrison … et al. – La Nuova Italia, 1974

Le origini sociali della dittatura e della democrazia / B. Moore. – Einaudi, 1971

La rivoluzione russa del 1917 / M. Ferro. – Mursia, 1970

Le origini della prima guerra mondiale / J. Joll. – Laterza, 1985

La grande guerra / M. Ferro. – Mursia, 1972

Citazioni

La memoria è vita. Ne sono portatori, sempre, gruppi di persone viventi e quindi essa è in perpetua evoluzione: soggetta alla dialettica del ricordare e del dimenticare, ignara delle sue successive deformazioni, aperta a usi e manipolazioni di ogni sorta. Rimane a volte latente per lunghi periodi, poi ad un tratto rivive. La storia è ricostruzione, sempre incompleta e problematica, di quello che non è più. La memoria appartiene sempre al nostro tempo e forma un legame vissuto con l’eterno rpesente: la storia è rappresentazione del passato.
Pierre Nora 1984
P. 3

La semplice esposizione del corso degli eventi, sia pure su scala mondiale, di rado giova a comprendere meglio le forze in gioco nel mondo d’oggi: se non abbiamo, al tempo stesso, cognizione dei cambiamenti strutturali di fondo. Ciò che anzitutto ci occorre è una prospettiva nuova e nuovi termini di riferimento. Sono questi che il presente lavoro tenterà di fornire.
Geoffrey Barraclough, 1964
P. 3

Come riassumere i tratti dell’economia mondiale dell’età imperiale?
1. Anzitutto essa aveva una base geografica molto più ampia di prima
2. Ne consegue che l’economia mondiale era adesso considerevolmente più pluralista di prima
3. Questo crescente pluralismo dell’economia mondiale fu in certa misura mascherato dalla sua persistente, e anzi accresciuta, dipendenza dai servizi finanziari, commerciali e marittimi britannici
4. Di fatto la centralità britannica fu per il momento rafforzata proprio dallo sviluppo del pluralismo mondiale
5. La terza caratteristica dell’economia mondiale è a prima vista la più ovvia: la rivoluzione tecnologica
6. La quarta caratteristica era la duplice trasformazione della struttura e del modus operandi dell’impresa capitalistica
7. La quinta caratteristica era la straordinaria trasformazione del mercato dei beni di consumo: trasformazione qualitativa e quantitativa
8. Con questa quinta caratteristica dell’economia si accordava naturalmente la seste: la notevolissima crescita, assoluta e relativa. Del settore terziario dell’economia, pubblica e privata: il lavoro negli uffici, nei negozi e in altri servizi
9. L’ultima caratteristica economica del periodo è la crescente convergenza fra politica ed economia, cioè il ruolo crescente del governo e del settore pubblico.
10. Nondimeno, se il ruolo strategico del settore pubblico era a volte cruciale, il suo peso effettivo nell’economia rimaneva modesto… Le economie moderne largamente controllate, organizzate e dominate dallo Stato furono il prodotto della prima guerra mondiale.
11. In questi vari modi l’economia del mondo sviluppato crebbe e si trasformò
Pp.59-64

Solo una totale cecità politica e un ingenuo ottimismo possono impedirci di capire che gli inevitabili sforzi di espansione commerciale compiuti da tutti i paesi civili dominati dalla borghesia, dopo un periodo transitorio di concorrenza apparentemente pacifica, si vanno chiaramente avvicinando al punto in cui soltanto la forza deciderà la parte di ciascuna nazione nel controllo economico della terra e quindi la sfera d’attività del suo popolo e in particolare il potenziale di guadagno dei suoi lavoratori
Max Weber, 1894
P. 66

Nell’Europa centrale la “piccola gente” era di un nazionalismo e specialmente di un antisemitismo sena remore.  Infatti gli ebrei si potevano identificare non solo con il capitalismo, e in particolare con quella parte del capitalismo che toglieva spazio all’artigianato e al piccolo commercio – banchieri, grossisti, creatori di nuove catene di distribuzione e di grandi magazzini – ma anche spesso con i socialisti atei e più in generale con gli intellettuali che minavano i vecchi e pericolanti valori della morale e della famiglia patriarcale.
P. 105

I movimenti operai e socialisti, come abbiamo visto, erano internazionalisti e sognavano anche un futuro in cui tutti avrebbero parlato un’unica lingua mondiale, sogno che sopravvive in piccoli gruppi di esperantisti
Pp. 179-179

Pertanto il nazionalismo linguistico aveva un’insita tendenza alla secessione. E viceversa la rivendicazione di un territorio statale indipendente appariva sempre più inseparabile dalla lingua: di modo che vediamo il nazionalismo irlandese impegnarsi ufficialmente (negli anni 1890) a favore del gaelico anche se – e forse proprio perché la maggioranza degli irlandesi si adattavano benissimo a parlare solo l’inglese; e i sionismo inventare l’ebraico come lingua quotidiana perché nessun’altra lingua degli ebrei li impegnava alla costruzione di uno stato territoriale.
P. 183

Le masse tedesche, francesi e inglesi che marciarono in guerra nel 1914 lo fecero non come guerrieri e avventurieri ma come cittadini e civili. E tuttavia proprio questo fatto dimostra a un tempo la necessità del patriottismo per i governi operanti in società democratiche e la forza del patriottismo stesso. Perché solo se pensavano che la causa dello Stato era la loro causa le masse potevano essere mobilitate efficacemente e questo, nel 1914, pensavano inglesi, francesi e tedeschi. Finché tre anni di massacri senza precedenti e l’esempio della rivoluzione russa fecero loro capire di essersi sbagliati.
P. 190

Mentre i propagandisti hanno prediletto i confronti con gli anni antecedenti la seconda guerra mondiale (l’età di Monaco), gli storici, sempre più, hanno trovato inquietanti somiglianze tra i nostri anni ottanta e il primo decennio del secolo. Le origini della prima guerra mondiale tornano a essere quindi un problema di scottante interesse immediato. In queste circostanze lo storico che cerchi di spiegare, come è compito di uno storico del nostro periodo, perché avvenne la prima guerra mondiale, si trova immerso in acque profonde e agitate.
P. 354

In nessun modo, prima o dopo, uomini e donne hanno avuto aspettative tanto alte, tanto utopistiche, per la vita su questa terra: pace universale, cultura universale grazie a un’unica lingua universale, una scienza che non si sarebbe limitata a sondare ma avrebbe risolto i problemi fondamentali dell’universo, emancipazione delle donne da tutta la storia passata, emancipazione di tutta l’umanità mediante l’emancipazione del lavoratori, liberazione sessuale, una società di abbondanza, un mondo in cui ognuno avrebbe dato secondo le sue capacità e ricevuto secondo i suoi bisogni
P. 385

Ma se non possiamo più credere che la storia garantisca un buon esito, neanche però essa ci garantisce un esito funesto. La storia ci offre una scelta senza permetterci di calcolare con chiarezza la probabilità di successo di ciò che sceglieremo. Gli indizi che il mondo del 21. Secolo sarà migliore non sono trascurabili. Se il mondo riesce a non distruggersi, le probabilità favorevoli sono molto forti. Ma non equivarranno mai alla certezza. La sola cosa certa riguardo al futuro è che esso sorprenderà anche coloro che meglio avranno saputo decifrarne i segni.
P. 387

 

Citazioni

Il 7 novembre 1917 i bolscevichi, con l’aiuto delle truppe passate al loro fianco e delle prime guardie rosse,  - cioè operai armati – rovesciarono il governo di Kèrenskij e si impadronirono saldamente del potere.
Restava ancora ai socialisti rivoluzionari e ai menscevichi un’ultima speranza di rivincita. Il proletariato russo non era la nazione russa, perciò se i soviet erano l’espressione del proletariato, le assemblee rappresentative elette da tutta la nazione avrebbero contrastato il loro potere e impedito il dominio di una classe unica. Già l’antica Duma aveva riflesso pensieri e sentimenti assai diversi da quelli di Lenin e dei suoi amici, ed egualmente si erano manifestate nell’ultimo periodo del governo di Kerenskij, la Conferenza di Stato convocata a Mosca, e la Conferenza democratica convocata a Pietrogrado. Proprio nei primi giorni successivi alla vittoria dei bolscevichi, era stata eletta l’Assemblea costituente per stabilire il nuovo ordine della Russia rivoluzionaria. L’Assemblea costituente avrebbe potuto, dunque, non ratificare e quindi capovolgere l’ordinamento instaurato da Lenin. E infatti le elezioni dettero una notevole maggioranza ai socialisti rivoluzionari, rinforzati dall’apporto dei menscevichi, mettendo in minoranza i bolscevichi, che raccolsero soltanto un quarto dei voti complessivi. Ma costoro non rispettarono il responso della nazione e, proclamando che la volontà sovrana della classe proletaria non può patire diminuzioni od opposizioni, disciolsero con l’autorità del potere centrale l’Assemblea costituente. Così l’appello alla volontà popolare, il suffragio universale, il governo della maggioranza, il Parlamento specchio della nazione, tutti questi principi della concezione democratica furono cancellati di colpo. Si sostituì loro la volontà della sola classe lavoratrice, manifestata officina per officina, borgo per borgo, caserma per caserma, senza norme uniformi per la sua espressione, da proletari operai contadini e soldati. Per tale modo veniva instaurata in Russia, agli inizi del 1918, la dittatura del proletariato.
P. 50-51

Quindi leghe operaie e contadine, leghe bianche per distinguerle dalle rosse insufflate si spirito marxista ma in sostanza leghe del tutto simili a quelle socialiste e proponentesi quegli stessi miglioramenti di salario e di orario e quelle stesse riforme sociali che il movimento operaio della Confederazione generale del lavoro affiancante il Partito socialista agitava allora l’Italia.
P. 79

Così la prima battaglia politica del neonato Partito popolare fu coronata da successo. Aiutando i socialisti, aiutando tutti i numerosi fautori della proporzionalità, il nuovo sistema elettorale venne approvato dalla Camera nel luglio 1919 e adottato nelle elezioni generali del novembre
P. 87

In sostanza la Chiesa non aveva in quegli anni che un fine assai limitato: impedire che lo Stato ricadesse nelle mani degli anticlericali e assuefare il paese alla penetrazione dei cattolici nelle scuole, nelle organizzazioni economiche, negli istituti donde un tempo erano stati cacciati. Per questo bastava che il Partito popolare collaborasse in sott’ordine nei vari gabinetti, e formasse parte indispensabile e necessaria della maggioranza governativa senza alcuna ambizione di capeggiarla e di dirigerla.
P.113

Così maturava in previsione della prossima campagna elettorale l’inclusione dei fascisti nella maggioranza giolittiana. Quell’avvenimento che nessuno nella primavera del 1920 avrebbe potuto prevedere, coronava la rapida evoluzione del fascismo che, da movimento di estrema sinistra, andava assumendo funzione di restauratore dell’ordine contro gli eccessi del movimento rosso e, nuovo alleato delle forze conservatrici, veniva a prendere il posto fra i partiti d’estrema destra.
Naturalmente quell’avvenimento era visto in diversa luce da Giolitti e da Mussolini. Per Giolitti quell’inclusione di un modesto nucleo di fascisti nelle file del suo grosso esercito non rappresentava se non il riconoscimento della loro funzione sussidiaria nel ristabilimento dell’ordine già in via di attuazione per forze molteplici e complesse. Per Mussolini, invece, l’inclusione sua e di una trentina dei suoi nelle liste ministeriali voleva significare che egli aveva vinto la battaglia anticomunista, e che egli solo aveva evitato all’Italia il rischio di ripetere la rivoluzione russa. Certo quel suo orgoglio smisurato gli fece credere sin d’allora che egli fosse il salvatore atteso e che, in quella veste, tutto fosse possibile osare.
In realtà Mussolini non era che la mosca che si pone sul timone e crede di trascinare il carro.  Nell’Italia del 1921 le forze dell’estremismo rosso erano già in declino e piegavano in ritirata. Esse si ritiravano per il clamoroso insuccesso della occupazione delle fabbriche, per la progressiva prevalenza degli elementi di ordine nello stesso partito socialista, per la naturale resipiscenza dell’opinione pubblica oramai stanca di vane agitazioni e non già per effetto del “manganello fascista” che si abbatteva, nella sue furia cieca, su tutte le istituzioni proletarie distruggendo anche ciò che poteva essere elemento di civiltà e di progresso.
Ma questa verità non poteva essere accolta dall’ambizioso capo dei fascisti, al quale giovava far credere che egli era l’artefice della vittoria e che l’Italia gli doveva la sua salvezza.
Così cominciava la leggenda di un Mussolini che preservava l’Italia dal bolscevismo e la menzogna, riecheggiata dall’estero, troppo superficiale e troppo credulo, gli preparava le prossime fortune
P. 144-145

In un libro di Nitti, edito nel 1945, si legge: ”Giolitti, avvezzo alle combinazioni parlamentari, considerò il fascismo come aveva considerato tutti i fenomeni parlamentari: volle attirarlo a sé e assorbirlo per valersene contro i propri avversari. Pensando di poterne disporre per i propri interessi l’aiutò e gli fornì armi, creando quella situazione equivoca che finì con la marcia su Roma , eseguita da piccoli gruppi senza importanza”
P. 159

Ricordo con commozione la consegna degli uffici della presidenza ch’egli fece a me nei primi giorni di luglio del 1921. Dopo la rituale consegna o lo accompagnai fino al portone del palazzo e chiamai l’automobile presidenziale perché lo portasse a casa. Ma egli m’interruppe: “No – disse – io non sono più presidente, l’automobile non mi spetta”. E si incamminò solo verso la sua casa dove, lui potentissimo, aveva vissuto sempre in una semplicità austera e decorosa.
P. 161

Dunque nella Camera dei deputati (e altrettanto deve dirsi per il Senato), una forte maggioranza avrebbe potuto opporsi ai metodi violenti adottati dai fascisti e costituire tempestivamente un argine contro il loro dilagare e contro i loro piani insurrezionali. Perché non si è tentato una difesa sul terreno parlamentare? Perché la Corona non ha trovato nel Parlamento lo strumento atto a reprimere un movimento che apertamente confessava di volersi impadronire con la forza dello Stato?
A queste domande occorre dare qualche risposta.

La radice del male era nel rifiuto a collaborare di una grossa frazione della Camera: il gruppo socialista che, già costituito da quasi un terzo dell’assemblea prima delle elezioni del 1921, era pur sempre rimasto per il suo numero e per la sua combattività oppositrice, l’elemento determinante della  situazione.

I 253 voti contrari contro 89 favorevoli, con cui la Camera votava contro il governo nella seduta del 19 luglio 1922, significavano che coloro si erano decisi a condannare il governo per la sua politica contraria, cioè una politica di difesa energica delle libertà fondamentali dello Stato. E, poiché in quei 253 voti di maggioranza avevano confluito popolari e socialisti  insieme ad alcune frazioni liberali e democratiche, era logico che il nuovo governo dovesse essere fondato su queste forze e rappresentare l’espressione  genuina della nuova maggioranza.

Filippo Turati non lasciò finire la domanda senza rispondere immediatamente e con estrema chiarezza. Egli mi disse che i più autorevoli socialisti ritenevano ormai che un’opposizione perpetua diretta a combattere tutti i ministeri avrebbe finito per fare il gioco dei fascisti, che occorreva pertanto uscire dalla sterile intransigenza che il rivoluzionarismo massimalista aveva fatto prevalere e che, con una chiara aperta decisione di appoggiare ungoverno di difesa, si sarebbe potuto entrare nella maggioranza per sostenervi il gabinetto.

Io mi arresi alle esortazioni di Turati. Avrei fatto un governo di sinistra con l’appoggio dei socialisti, ma senza la presenza dei socialisti.

Di ciò il re si mostrò contentissimo. Da tempo egli deplorava l’instabilità delle maggioranze parlamentari, il loro rapido farsi e disfarsi, la loro isterica mutabilità, che contribuiva alla debolezza del governo e alla sua perpetua perplessità.

Il gruppo socialista, sulla cui avvedutezza aveva contato Turati, non volle arrendersi alla dura realtà. I massimalisti, ipnotizzati dal grande sogno di una vicina palingenesi, per la quale occorreva mantenere immuni da contatti impuri, avevano silurato le intese e reso impossibili le più ragionevoli soluzioni. Quando il mattino successivo Turati ormai scoraggiato per l’esito della sua vana battaglia mi condusse a casa gli interpreti autorizzati del gruppo socialista, capii subito che la partita era perduta.

Invano io dimostrai che l’ora non consentiva mezze misure, che il pericolo era mortale e che per evitarlo occorreva superare le formule antiche dell’intransigenza rivoluzionaria. Alle mie esortazioni e a quelle accorate di Filippo Turati, che fu, per suo destino, un veggente inascoltato, si rispose che i socialisti avevano il diritto per la Carta costituzionale d’essere difesi nelle loro persone e nelle loro cose, senza che per tale difesa essi dovessero deflettere dalla intransigente custodia delle loro verginità politica che non ammetteva né connubi, né stabili accostamenti.

Mancato quell’argine che per l’incomprensione di quelli stessi che dovevano essere per primi esserne sommersi, l’ondata fascista non trovò alcuna barriera e quando, il 28 ottobre 1922, essa inviò le sue cosiddette legioni su Roma trovò la via aperta e tutti i poteri dello Stato o inefficienti o travolti.
PP. 162-168

Citazione bibliografica nel testo

Il ministro della buona vita / Giovanni Ansaldo
Biblioteca Universitaria - Pavia – PV
Biblioteca di scienze politiche Enrica Collotti Pischel dell'Università degli studi di Milano - Milano - MI

Il ministro della malavita / Gaetano Salvemini

Giolitti e gli italiani / Gaetano Natale

 

 

Citazioni:

Che vuol dire: “Si verificò la rivoluzione industriale”? Vuol dire che ad un certo momento, dopo il 1780, e per la prima volta nella storia dell’umanità, vennero spezzate le catene che imprigionavano le capacità produttive delle società umane che, da allora in poi, furono in grado di perseguire un costante, rapido e fino a oggi illimitato incremento demografico, dei beni di consumo e dei mezzi di produzione
P. 46

Una espressione completa di questi sentimenti ci è data da un bandito e patriota greco, Kolokotrones: “Secondo il mio giudizio, egli diceva, la rivoluzione francese e le gesta di Napoleone hanno aperto gli occhi al mondo, Prima le nazioni non sapevano nulla e i popoli pensavano che i re fossero dei sulla terra e che quindi tutto ciò che facevano fosse necessariamente ben fatto. Con i cambiamenti che si sono ora prodotti, è ben più difficile governare i popoli”.
P. 131

I modelli erano diversi, anche se tutti erano scaturiti dall’esperienza compiuta dalla Francia tra il 1789 e il 1797. Essi corrispondevano alle tre tendenze principali dell’opposizione dopo il 1815: quella liberale moderata (o in termini sociali quella dell’alta borghesia e dell’aristocrazia liberale), quella radical-democratica (o in termini sociali quella della piccola borghesia, di una parte dei piccoli proprietari di fabbriche, degli intellettuali e delle classi gentilizie insoddisfatte) e quella socialista (in termini sociali quella dei lavoratori poveri o delle nuove classi operaie industriali)

  1. 161

Le ristrette minoranze culturali sono in grado di servirsi di lingue straniere per lo svolgimento della propria attività: ma quando la schiera delle persone colte diventa abbastanza numerosa, comincia allora ad imporsi la lingua nazionale (ne abbiamo una prova nella lotta per il riconoscimento linguistico combattura negli stati indiani dal 1940 in poi)

  1. 191

Come abbiamo visto, il primo obiettivo era di trasformare la terra in una merce qualunque. Le eredità inalienabili e gli altri impedimenti alla vendita e alla suddivisione basati sulla proprietà nobiliare dovevano essere abbattuti e perciò si doveva assoggettare il proprietario terriero alla pena salutare del fallimento per incompetenza economica, che avrebbe permesso ad acquirenti economicamente più competenti di prendere il suo posto

 

Citazioni

Per chi non innalzava la bandiera rossa risultò molto difficile tenere comizi. La tecnica dei socialisti era semplice. Appena un avversario cominciava a parlare, in una sala o sulla piazza di un paese, un paio di costoro si facevano sotto il palco e domandavano il contraddittorio, ossia la possibilità di replicare con un loro comizio Subito la truppa della Federazione proletaria cominciava a urlare ordinando all’oratore di smettere per lasciare il posto a un loro dirigente. E di solito l’avversario pensava bene di cedere
Pp. 45-46

Domenica 5 ottobre a Sant’Angelo Lomellina i socialisti aggrediscono una riunione della Federazione agricola, sfondano un portone, entrano, tirano sassate, il giorno dopo i carabinieri arrestano il sindaco Pietro Protti e altri dieci della lega, subito poi scarcerati. Sabato 11 ottobre a Sannazzaro de Burgundi i socialisti impediscono un comizio del Partito popolare, un maestro cattolico viene picchiato.
P. 46

Claudio Treves: “Sentiamo circolare intorno a noi un vento sinistro di controrivoluzione prima che sia avvenuta la rivoluzione”

“L’errore della Confederazione generale del lavoro e del PSI – proseguì Nora – fu di lasciare che nelle campagne padane le leghe diventassero un potere dispotico. Chi non lo riconosceva e non gli obbediva, padrone o bracciante che fosse, era destinato al boicottaggio. Ossia veniva scaraventato nel girone degli appestati. E non trovava più nessuno che lo rifornisse di merci, che gli riparasse gli attrezzi di lavoro, che gli vendesse anche soltanto un etto di zucchero”

“A storia finita, ossia nel dopoguerra, lo riconobbe uno dei capi della Federazione proletaria, Paolo Moro. Ritornando con alla memoria all’aprile del 1920 scrisse nel suo libro “Non vogliamo morire”: Un ordine contro natura veniva dato ai salariati: di abbandonare nelle stalle il bestiame. Quella notte ebbi una sensazione precisa: una forza oscura unisce le reazioni nei diversi campo in lotta, per portare distruzione e la morte”.
P. 64

I socialisti chiedevano di essere protetti proprio dal quello Stato che avevano continuamente dichiarato di voler abbattere. E da quella polizia e quei carabinieri sempre considerati una guardia bianca, al servizio della borghesia, degli industriali, degli agrari.
P.120

Ma fu la ‘Giustizia’ il quotidiano di Turati, di Treves, di Matteotti, a scrivere la sintesi più schietta di quella disfatta del sindacato e del Partito socialista. Se lo ricorda? Mi domandò Nora.
No, e forse non l’ho mai letta, ammisi.
Lei prese un vecchio giornale e disse: Le citerò soltanto poche righe: Lo sciopero generale è stato la nostra Caporetto. Usciamo da questa prova clamorosamente battuti. Abbiamo giocato l’ultima carta e nel gioco abbiamo lasciato Milano e Genova, che sembravano punti invulnerabili della nostra resistenza. Nella capitale lombarda le fiamme hanno ingoiato ancora una volta il giornale del partito e il comune è stato tolto violentemente ai suoi legittimi rappresentanti. A Genova, la roccaforte dei marinai e dei lavoratori del porto le sedi delle organizzazioni sono state occupate dai fascisti, mentre del quotidiano socialista non rimangono che le ceneri. In tutti i più importanti centri la raffica fascista si sferra con egual violenza distruggitrice…Bisogna avere il coraggio di riconoscerlo: i fascisti sono oggi i padroni del campo.
P. 161

E come andò dà ragione a chi sostiene che sarebbero bastati qualche reggimento dell’esercito e un po’ di carabinieri a stroncare le gambe a Mussolini.
P. 165-166

La sera di Pasqua, il 27 marzo, Cagnoni andò a parlare a Casorate primo, un paese della provincia di Pavia, già al di là del Ticino. E secondo la versione dei fascisti disse che l’attentato al Diana per quanto biasimevole fosse, ‘rappresentava una ritorsione alle violenze di cui il proletariato era vittima da parte del fascismo’
P. 201

Anni dopo Gramsci avrebbe affermato che la scissione di Livorno era stata ‘il più grande regalo fatto alla reazione’. Ma in quel 1921, già carico di pericoli per la sinistra, pochi se ne resero conto. Fra questi c’era Nenni, che scrisse: A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano. E un altro giornalista, o un politico vicino al PSI, sfornò un’immagine che per mio nonno restò indimenticabile: La scissione è il cacio sulla minestra della borghesia.
P. 231

Due giorni dopo, in prima pagina, il Proletario tradusse il consiglio in un ragionamento che oggi lascia allibiti: Le scorrerie fasciste in Lomellina servono magnificamente alla propaganda socialista. Il sistema della violenza incendiaria e sanguinaria contro le nostre istituzioni, l’odio diffuso contro i loro dirigenti, ottengono lo scopo di disseminare nelle pacifiche popolazioni rurali lo sdegno e il disprezzo contro la borghesia, madre naturale del fascismo.
P. 243

Nenni poi avrebbe scritto: Il proletariato italiano, con un sacrificio veramente eroico, aveva rinnovato la sua devozione al socialismo. In compenso esigeva di essere difeso e assistito nella durissima battaglia che doveva condurre nel paese. Ma questo non avvenne
P. 244

Concludeva Zibordi nel 1922, con un’immagine che mi convince molto: Come il don Rodrigo manzoniano, il fascismo fruisce al tempo stesso della violenza e della legalità. Si spiega così la resa quasi generale dei lavoratori: si sentono di fronte a una forza armata che ha la guardia regia, il carabiniere che le passa i moschetti, l’ufficiale che le sorride, il prefetto che non vuole o non può infrenarla, il magistrato che dorme il sonno del giusto.
P. 248

Bibliografia

Il ras e il dissidente / Pierangelo Lombardi. – Bonacci, 1998

Mauro Canali, storico, allievo di Renzo de Felice

 

Cap. 1. Il fascismo agrario e i blocchi nazionali

Nelle pagine conclusive del primo volume abbiamo schematizzato la svolta fascista della fine del 1920, riassumendone i caratteri essenziali in tre avvenimenti chiave: l’inserimento del fascismo nel gioco politico-parlamentare a livello nazionale, realizzato da Mussolini attorno all’epilogo dell’avventura dannunziana, il sorgere e il rapido affermarsi del fascismo agrario nelle zone agricole padane e soprattutto in Emilia, il rapido costituirsi, sulla spinta del fascismo agrario, di un fronte unico conservatore-reazionario della borghesia agricola, di quella commerciale e di quella industriale, deciso a sfruttare l’esaurirsi della spinta rossa per provvedere esso stesso a quella reazione che il governo non sembrava essere capace – secondo alcuni non voleva – di realizzare in prima persona. Nell’ambito di questo schema generale, il discorso va però ora approfondito, visto nel tempo e, soprattutto, nelle sue varie componenti, prima di tutto quella mussoliniana.
p. 3

La spinta rivoluzionaria del massimalismo andava rapidamente decrescendo e ormai si può dire che fosse in pieno riflusso mentre era in atto una controspinta reazionaria.

Storicamente non vi è dubbio – oggi – che il fascismo fu soprattutto reazione borghese-capitalistica contro la classe lavoratrice; se se ne vuol capire però l’ascesa al potere non basta essere convinti di ciò, non basta spiegare la sua ascesa con gli aiuti, le connivenze, le debolezze di cui si giovò. Bisogna rendersi conto anche di come esso apparve agli italiani. Se storicamente è stato una cosa, esteriormente fu un’altra cosa.

Fino a quando andò al potere, il fascismo non apparve ai più come un movimento reazionario “ma piuttosto come un movimento progressista, anzi, rivoluzionario che prometteva e sosteneva di difendere la salvezza delal nazione, gli interessi di tutto il popolo, in particolare di quelli delle classi medie e dei lavoratori onesti d’idee e di sentimenti nazionali, contro gli interessi della borghesia pezzente e dei bolscevichi, nemici della patria e traditori della patria.
P. 4-5

Specie dopo che il successo di fatto, che il fascismo si era conquistato nell’inverno 20-21 armi alla mano, fu sancito politicamente da due fatti altrettanto determinanti: la dimostrata incapacità del movimento dei lavoratori, cioè del partito socialista – ché quello comunista era ancora più causa di confusione e di debolezza che effettivo strumento di lotta – sia di opporsi con le armi alla violenza fascista sia di superare il suo massimalismo e di concorrere al rafforzamento dello Stato in modo da renderlo capace di fronteggiare l’ondata reazionario-fascista; e l’avallo, il riconoscimento dati al fascismo dalla classe dirigente liberale e dallo stesso Giolitti con l’accoglierlo, in occasione delle elezioni politiche del maggio 1921, nel blocchi nazionali.
p. 11-12

Se l’operazione fosse riuscita, un accordo di Giolitti con i riformisti ed i popolari avrebbe indubbiamente impresso alla vita politico-sociale italiana un indirizzo quale certo né gli agrari, né la parte più retriva ed economicamente più dissestata del mondo industriale, né la piccola borghesia sulla quale maggiormente gravavano le conseguenze negative della guerra, auspicavano ma, anzi, temevano, nella loro grettezza e nel loro misoneismo, quasi quanto il bolscevismo.
Che la neutralità dello Stato nelle controversie di lavoro fosse il vero obbiettivo degli attacchi delle forze conservatrici appare chiaro appena si sfoglino i giornali e gli atti parlamentari del tempo ed è confermato dal fatto che, anche dopo che fu a tutti evidente che il movimento socialista non costituiva più un pericolo per le istituzioni, era ovunque sulla difensiva e molto spesso in rotta e le violenze alle quali si abbandonava una parte di esso (soprattutto gli anarchici ed i comunisti) erano in gran parte determinate, per reazione, dalle violenze fasciste, queste forze non cessarono di chiedere a gran voce che lo Stato si assumesse “la difesa delle città e delle campagne dalla violenza rossa” (difesa alla quale i fascisti avevano provveduto e provvedevano per la “carenza” dello Stato); dove è chiaro che col termine “violenza rossa” esse definivano ormai l’estrema difesa proletaria delle proprie libertà e dei propri diritti sindacali.
P. 21

Citazione da D. Grandi:
Il fascismo non è un partito e non vuole essere un partito. Esso è al di sopra di tutti i partiti e tutti li riassume in una sintesi meravigliosa. Il fascismo è profondamente rivoluzionario perché rivoluzionari sono soltanto coloro che di fronte alla disgregazione di una società imputridita e agonizzante, di fronte ad una autorità dello Stato inservilita, invigliacchita, marcia nelle midolla, sorgono in piedi, colle armi in pugno, per creare una nuova autorità ed una nuova disciplina. Per creare una nuovo stato che sia veramente la traduzione pratica e giuridica della volontà del popolo e della nazione. Per questo il fascismo, nell’unico intento di ristabilire la dignità e la disciplina dello Stato, non può oggi se non congiurare contro la attuale decadenza dello Stato. Il fascismo non è pregiudizialmente monarchico o repubblicano… Ma per questo, e soltanto per questo, noi non possiamo dimenticare che la monarchia in Italia – per debolezza ed opportunismo poco importa – ha tradito due volte l’Italia; ieri concedendo il premio dell’immunità a tutti i disertori ed a tutti i traditori, oggi calpestando la libertà repubblicana di Fiume che potrà essere forse domani la libertà nuova d’Italia.

Citazione da Lusignoli, prefetto di Milano:
Noi che siamo sorti contro la rivoluzione, ci persuadiamo sempre più che bisogna per la nostra pace onesta di domani, bisogna fare a tutti i costi la nostra rivoluzione…. Tutto è puzzolente e marci, ormai a Roma come a Bologna. I vecchi uomini, i vecchi partiti, i vecchi ceti sociali sono diventati il letamaio di ogni sorta di immondezze. A Roma un Presidente del Consiglio che dopo aver tentato di assassinare il paese in guerra va oggi a braccetto con Misiano, il disertore, il vigliacco, ed apre i battenti a tutti i delinquenti di tutte le galere… Bisogna andare fino in fondo nella nostra opera risanatrice. Ognuno deve armarsi e decidersi: O coi bolscevichi o con noi! La guerra civile, che il governo e i bolscevichi hanno voluto nella nostra città e nella nostra provincia, noi l’accettiamo e la faremo tutta quanta e tutta in fondo, senza quartiere e senza pietà. Noi abbiamo domandato un governo che governi – e poiché questo continua a tradire e a tradirci, governeremo noi. La comune rivoluzionaria la faremo noi…Popolo di Bologna all’Armi!
P. 43

E’ probabile pertanto che Mussolini, nella necessità di assicurarsi nuove fonti di finanziamento, preferisse non assumere atteggiamenti troppo intransigenti: una guerra civile poteva riuscire vantaggiosa agli agrari, che ne avrebbero approfittato per far piazza pulita delle organizzazioni contadine; gli agrari finanziavano però i fasci e i giornali fascisti locali, non il Popolo d’Italia; i finanziamenti per il suo giornale Mussolini doveva cercarli soprattutto negli ambienti industriali e a questi una prospettiva apertamente rivoluzionaria, sia pure in senso reazionario, non conveniva, per le difficoltà e i danni che – almeno in un primo tempo – avrebbe arrecato loro e, ad essa, preferivano una reazione meno aperta, a livello politico-parlamentare, con la quale una rottura aperta tra Mussolini e Giolitti mal s’accordava. A ciò si deve aggiungere poi che, proprio negli stessi giorni nei quali Lusignoli cercava di esplicare la sua azione moderatrice, si diffondeva la voce che Giolitti, per ingraziarsi i socialisti, fosse disposto ad agire energicamente contro i fascisti.
P. 45

Citazione da P. Nenni:

A Livorno cominciò la tragedia del proletariato italiano. Nella scissione, che lasciava sussistere due partiti comunisti in lotta feroce e spietata fra di loro in uno dei quali erano come prigionieri i riformisti ed i centristi, deve ricercarsi la causa del deterioramento che colse le masse e che le offrì, inermi, gli assalti della reazione….. Degli iscritti, circa 100000 non rinnovarono la loro adesione né all’uno né all’altro partito; gli altri si esaurirono in una reciproca contumeliosa polemica, che offrì armi preziose alla stampa borghese nella sua lotta per annientare il prestigio dei capi sulle masse….. Conseguenza di ciò furono lo sbandamento di forze considerevoli e la diminuita capacità offensiva e difensiva delle forze rimaste sulla breccia, dopo le delusioni del biennio rosso e di fronte alla borghesia in armi
P. 49-50

Al di là della polemica contingente, gli articoli di Mussolini mostrano chiaramente come il loro autore avesse capito il significato più profondo di quanto stava avvenendo; al punto di sentirsi autorizzato – ancor prima che l’assise socialista si iniziasse, il 14 gennaio – ad anticipare, quasi suggerire, a Giolitti cosa doveva fare: “La divisione del Pus, potrebbe fornire al governo motivo sufficiente per indire nuove elezioni generali, poiché, a partito diviso, i quindicimila non rappresentano più nessuno”. Dopo di che è evidente l’importanza che per Mussolini, il politico del fascismo, assumesse la scadenza elettorale del maggio 1921 e che per lui l’essersi assicurato la posta in gioco fu un successo che non esiteremmo a definire determinante.
P. 50

Alla base delle adunate regionali (le prime furono quelle di Trieste, Venezia e Milano, probabilmente perché i rispettivi fasci erano di più antica data e soprattutto più legati al gruppo dirigente centrale, sicché il loro esito poteva influenzare quello delle altre) furono poste quattro relazioni particolari: il fascismo e lo Stato (Marsich), il fascismo e la politica estera (Mussolini), il fascismo e il movimento operaio (Pasella), il fascismo e la questione agraria (Polverelli). La relazione Marsich faceva perno soprattutto su due concetti chiave: che il fascismo non dovesse avere pregiudiziali istituzionali e che dovesse preoccuparsi piuttosto di gettare le premesse di un proprio Stato basato sull’ordine e sulla libertà.
P. 54

Mussolini e la politica estera italiana, 1919-1933 / E. Di Nolfo. – Padova, 1960

Mentre le adunate regionali (sette ne furono tenute sino alla convocazione dei comizi elettorali) approvarono a larghissima maggioranza la parte del programma d’azione fascista compendiata nelle relazioni Marsich e Mussolini, le relazioni Marsella e Polverelli passarono meno facilmente e con tali riserve ed annacquamenti che, in effetti, le avviarono al classico dimenticatoio, mostrando chiaramente come il fascismo avesse ormai assunto un preciso carattere di classe che non tollerava ripensamenti sia pur timidi e che avrebbe finito per tagliare le gambe anche a quei gruppi di fascisti sindacalisti che in alcune zone sembravano volersi opporre in qualche misura agli agrari e volersi differenziare dai metodi di lotta puramente negativi della grande maggioranza degli altri squadristi legati a filo doppio agli agrari.
P. 75

Nel ’19, nel ’20, nel ’21 negli ambienti fascisti e non solo in essi, ma in tutto quel vasto mondo più o meno immediatamente politico nato dal travaglio della guerra e dalla crisi postbellica e che successivamente si sarebbe avvicinato al fascismo o che, pur schierandosi su posizioni antifasciste, affondava le sue radici nello stesso humus combattentistico e polemizzava anch’esso col vecchio mondo liberaldemocratico contestandogli la sua inadeguatezza a far fronte alle esigenze nuove del paese, in tutto questo vasto mondo, dicevamo, si era – sia pure confusamente – affermata tutta una serie di esigenze che si possono definire di tipo tecnocratico e che riassumevano in una precisa accusa alla classe politica al potere: essa era tecnicamente sprovveduta, priva di competenze specifiche, governava in base a schemi astratti, che non si adeguavano più alla realtà vera della società italiana o che, se vi si adeguavano, era ai suoi aspetti più deteriori e retrogradi, sfruttando i quali conservava un potere tutto negativo, che le permetteva di controllare la macchina dello Stato e delle amministrazioni locali a tutto scapito della loro efficienza e funzionalità e a danno dei nuovi ceti e gruppi sociali che – bene o male – rappresentavano la nuova Italia.
P. 77

 

Intanto, forte della approvazione di massima avuta, qualche colpo “sociale” al timone dei fasci poteva servire a saggiare meglio gli umori della base, a riqualificare a sinistra il fascismo e a costituire altrettante pedine per il suo successivo gioco politico. In questo senso veramente tipiche furono in quei primi giorni di giugno alcune prese di posizione del Popolo d’Italia e del fascio di Milano in favore delle rivendicazioni degli impiegati statali e soprattutto delle agitazioni contro il carovita che andavano riaccendendosi in tutto il paese; nonché alcuni articoli di fondo sul carattere e i fondamenti del fascismo pubblicati dal quotidiano mussoliniano.
P. 99

Cap. 2. Il patto di pacificazione

Per quel che più ci interessa in questa sede, in forse sembrò soprattutto la posizione dello stesso Mussolini, contro la cui linea politica si levò la parte più numerosa ed attiva del fascismo – sia agrario sia sindacale – che proprio in questo periodo riuscì ad esprimere due veri capi in opposizione a Mussolini: Dino Grandi che, sia pure per breve momento si contrappose addirittura esplicitamente a lui nella leadership del fascismo, e Roberto Farinacci che, se nella burocrazia specifica non ebbe il ruolo di Grandi, avrebbe meglio saputo conservare la posizione raggiunta, si da essere, d’allora in poi, il grande “secondo” del fascismo, l’unico capace di prospettare al fascismo un’alternativa vera alla politica di Mussolini, senza che questi riuscisse, sino alla fine, ad aver ragione della sua insidiosa opposizione interna.
P. 101

Scaricare tutte le responsabilità sul mancato accordo riformisti-popolari o sulla incapacità della borghesia a dar vita ad un vero blocco centrista delle cosiddette forze medie, dai quali solo il governo avrebbe potuto acquistare quell’autorità che non aveva, è, infatti, un assurdo che denota una concezione meramente numerica del Parlamento, non diversa da quella di Giolitti e, oltre tutto, priva di quell’afflato liberale – sia pure ormai inadeguato alla complessa realtà dei nuovi tempi – che quest’ultima aveva – qualunque sia la valutazione delle sue conseguenze – ne fa qualcosa di rispettabile. Ridare allo Stato la sua autorità non poteva essere il frutto di una ennesima combinazione parlamentare, sia pure di tipo più o meno nuovo.
P. 104

Una battaglia liberale / G. Amendola. – Torino, 1924

Storia di quattro anni / P. Nenni

Citazione da Gramsci

L’avvento di Bonomi al potere, dopo l’ingresso dei fascisti in parlamento, ha questo significato: la reazione italiana contro il comunismo da illegale diventerà legale… Si svolgerà in Italia lo stesso processo che si p svolto negli altri paesi capitalistici. Contro l’avanzata della classe operaia, avverrà la coalizione di tutti gli elementi reazionari, dai fascisti, ai popolari, ai socialisti: i socialisti diventeranno anzi l’avanguardia della reazione antiproletaria poiché meglio conoscono le debolezze della classe operaia e perché hanno delle vendette personali da compiere.
P. 108

E’ mai possibile che dei vecchi uomini politici che avevano a disposizione l’apparato dello Stato, con le sue molteplici fonti di informazione e di indagine, o che potevano valersi di una vastissima organizzazione politica e sindacale, che si estendeva in tutto il paese, non sapessero quali fossero la realtà del fascismo, dei suoi legami con il mondo capitalistico, l’effettiva rispondenza che i propositi di Mussolini avrebbero trovato nella base fascista, il rapporto di forze che attorno ad essi si sarebbe determinato? Non erano allora più nella realtà – a parte il loro assurdo settarismo antisocialista – i comunisti e gli anarchici che in quelle condizioni rifiutavano il patto di pacificazione, denunciavano il carattere squisitamente classista del fascismo e parlavano di situazione rivoluzionaria?
P. 111

Da qui il suo credere (di Mussolini) di poter giocare la carta della pacificazione e, in caso, persino dell’alleanza con i popolari e i socialisti. In realtà il fascismo del ’21 non aveva nulla in comune con quello del ’19 o anche del ’20, cos’ come non aveva nulla in comune con gli altri movimenti politici ai quali, bene o male, Mussolini con la sua esperienza si rifaceva. E ciò non tanto perché il vecchio nucleo di origine interventista rivoluzionaria fosse stato sostituito o affogato, sia al livello di base sia al livello dei quadri dirigenti locali, dalla massa dei nuovi iscritti, politicamente più rozza e immatura, più portata a risolvere tutto in chiave di mera violenza e di forza, né, tanto meno, perché fosse ulteriormente mutato il rapporto tr agli idealisti e i teppisti, quanto perché al nuovo fascismo mancavano proprio e soprattutto la dimensione e le sensibilità politiche. Sebbene parlasse sempre di radicale rinnovamento politico, di patria, di nazione, la grande maggioranza della massa fascista tutto era psicologicamente – e non diciamo politicamente – tranne che un’entità politica unitaria, nel senso tradizionale del termine. Nel ’20, nel ’21 lo sviluppo del fascismo era stato un’aggregazione negativa. Uomini, forze, ideali, metodi, interessi diversissimi, contraddittori erano confluiti nel fascismo e lo avevano appoggiato all’esterno a tutti i livelli solo in base a fattori e considerazioni di ordine negativo.
P. 114

La politica era per la grande maggioranza della massa fascista la causa di tutti i mali d’Italia; in attesa di realizzare il regime della gerarchia e della competenza, , tutto ciò che sapeva di politica (i partiti, il parlamento, il governo, i sindacati, le cooperative ecc.) era da combattere e da distruggere con la maggior intransigenza, soprattutto se sapeva in qualche modo di bolscevismo.
P. 116

Col ’21 dire, dunque, che i fasci si qualificarono come un movimento espressione della piccola e media borghesia non solo è corretto ma è l’unico modo per capire il vero fascismo. Ciò – per altro – non significa accettare la schematizzazione marxista del fascismo reazione di classe del capitalismo. Che il capitalismo, dal ’21 in poi, rientri per taluni aspetti tra le manifestazioni della lotta di classe è un dato di fatto che non può essere contestato; è però altresì un fatto che la schematizzazione marxista è insufficiente a spiegare il fascismo: perché non tiene conto delle componenti psicologica e patriottico-nazionalista e perché – come è stato ampiamente dimostrato da tutta una serie di ricerche economiche e sociologiche che non è qui, ovviamente, il caso di ricordare – le classi – nel senso marxista – non corrispondono più alla realtà della società contemporanea. Contrariamente alla previsione marxista, gli strati intermedi (piccola e media borghesia) non solo non vanno sparendo ma, al contrario, la società del 20 secolo è caratterizzata da una moltiplicazione-differenziazione di strati e ceti sociali molto più complessa. In questo quadro va visto il fascismo; non come contrapposizione netta di una classe all’altra, ma come espressione di quadri intermedi – sottoposti ad un profondo travaglio morale e integrale determinato dalla crisi economica e dalla rapida trasformazione della società, travaglio che provoca a sua volta una crisi psicologica di insicurezza – in lotta contemporaneamente contro il capitalismo e contro il proletariato. Se, dunque, si vuole parlare del fasciamo come di un fenomeno di classe, bisogna parlarne come ne ha parlato il Salvatorelli: come “la lotta di classe” della piccola borghesia, incastrantesi fra capitalismo e proletariato, come il terzo fra i due litiganti. Il che, per dirla ancora col Salvatorelli, spiega – al di là della demagogia fascista, che indubbiamente c’era, ma che da sola non può spiegare tutto – “il fenomeno della duplicità contraddittoria, delle due facce, delle due anime, che tanto ha dato da fare ai critici del fascismo e – aggiungiamo noi – ha fatto si che a lungo i più non si rendessero conto di cosa veramente fosse il fascismo.
P. 117-118

Più difficile è parlare – come si vedrà – di un analogo legame politico (al vertice cioè, ché a livello locale – tra singoli industriali e singoli fasci o squadre – gli accordi, i legami furono innumerevoli, ma non tanto a sfondo politico quanto per l’interesse di singoli industriali ad assicurarsi i servizi della guardia bianca fascista ogni qual volta fossero necessari) tra fascismo e mondo industriale. Se questo legame non vi fu – e siamo a quello che a nostro avviso è il punto centrale della questione - o vi fu in una misura da sola non sostanzialmente determinante ai fini del successo del fascismo, il merito non fu dovuto però tanto a Mussolini e al gruppo dirigente fascista che difficilmente, anche volendolo, avrebbero potuto – nella nuova situazione – resistere ad un’azione di classe industriale per catturarli, quanto piuttosto a una diversità di fondo dell’atteggiamento del mondo industriale rispetto a quello degli agrari, che – invece -  si impegnò a fondo nell’azione di cattura e di strumentalizzazione dell’organizzazione fascista. I problemi che assillavano gli agrari erano in un certo senso pochi e chiari ed erano risolvibile per essi in modo univoco, si aa livello locale sia a livello nazionale, politico. Ad entrambi i livelli il fascismo del ’21.22 rispondeva bene alle loro esigenze. Molto più complessi erano invece i problemi del mondo industriale, con in più una sfasatura tra i vari livelli e tra i vari settori. Senza dire che – almeno nei suoi elementi più qualificati e politicamente responsabili – la classe industriale era più moderna e consapevole degli agrari, meno facile quindi alle avventure e alla rottura di un sistema politico che, bene o male, dava ad essa sicure garanzie di salvaguardia dei suoi interessi di categoria. Da qui una gamma di posizioni politiche e nel complesso – come organizzazione – un atteggiamento cauto e – sia pure con qualche contraddizione – più portato alla ricerca di un compromesso (non a caso si è parlato di un suo costante empirismo ministeriale) che non si soluzioni di rottura, tutto sommato incerte e pericolose.
P. 121-122

Una cosa però cominciò a diventare chiara: il fascismo era un movimento, un partito sostanzialmente di destra, inconciliabile con il socialismo; quanto a Mussolini, egli era un capo così poco capo che, più che guidare effettivamente il fascismo, doveva – almeno per il momento – subirne altrettanto sostanzialmente gli umori e gli orientamenti. Tra i primi ad accorgersene furono i socialisti.
P. 123

La prospettiva politica di Mussolini risulta chiara a queste parole: se lo squadrismo non voleva la pacificazione con il Partito socialista, Mussolini ne doveva per il momento subire al volontà, ma non voleva però rinunciare a tenere aperto almeno il dialogo con la CGL, sia perché  un accordo con essa avrebbe inevitabilmente spianato la strada a quello con i socialisti, sia soprattutto perché il fascismo, continuando sulla strada delle violenze, ora che la paura del bolscevismo stava sparendo, si sarebbe venuto a trovare inevitabilmente isolato e tagliato fuori dalla lotta per il potere. Sul piano parlamentare l’isolamento del fascismo avrebbe portato necessariamente ad un accordo tra socialisti e popolari (e nei due partiti già non mancava chi propendeva per questa soluzione); quanto poi ad una eventuale azione insurrezionale fascista, più tempo passava più essa diventava improbabile, sia perché l’opinione pubblica aspirava solo alla pace e all’ordine, sia perché un governo con una sicura maggioranza parlamentare e con un vasto seguito nel paese sarebbe stato meno facilmente alla mercé di un colpo di mano fascista. E, al di fuori di queste due alternative, per il fascismo la prospettiva più probabile in quel momento appariva quella di un lento logoramento e, alla fine, di una ingloriosa scomparsa tra la generale soddisfazione. A conclusione dei lavori del consiglio nazionale il giuoco di Mussolini sembrò – con l’approvazione dell’o.d.g. Pasella – essere riuscito. In realtà, ammesso pure che la politica della pacificazione avesse avuto la possibilità di realizzarsi, esso naufragò proprio a Milano il 12-13 luglio.

Pp. 137-138

In questo clima si giunse rapidamente, il 21 luglio, ai tragici fatti di Sarzana, provocati da una massiccia “spedizione punitiva” fascista (in totale furono mobilitati cinque o seicento squadristi di varie località). Alla spedizione – come è noto – si opposero sia la forza pubblica, sia gli arditi del popolo locali, sia numerosi lavoratori, sicché essa sfociò in un vero e proprio conflitto, nel corso del quale non solo il fascisti furono respinti, ma la popolazione inferocita organizzò contro di essi un’autentica caccia all’uomo, che costò agli assalitori diciotto vittime (alcuni fascisti furono massacrati con i forconi e con le roncole ed impiccati), oltre ad una trentina di feriti.
……………
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, Mussolini non solo non si uniformò alle posizioni degli estremisti, ma  - contro di essi – decise improvvisamente di rompere gli indugi, di riprendere le trattative interrotte e di portarle rapidamente a termine non solo con la CGL ma anche con il Partito socialista e – fosse l’iniziativa sua o di De Nicola non è ben chiaro – con tutti i partiti che volessero parteciparvi.
P. 139

In realtà, mentre egli si abbandonava a queste ottimistiche affermazioni, gran parte del fascismo, lo squadrismo agrario e periferico, i sindacalisti, i rivoluzionari, più o meno dannunziani, già stava affilando le armi per una lotta agli effetti del risultato della quale nulla valevano le preoccupazioni politiche o patriottiche di Mussolini e il suo stesso prestigio; una lotta che andava già caratterizzandosi in un contrasto di personalità e a esasperare la quale contribuivano gli interessi più disparati. In primo luogo quelli degli agrari e delle loro organizzazioni, locali e provinciali, per i quali una effettiva cessazione dello squadrismo fascista avrebbe voluto dire perdere la propria forza d’urto contro le organizzazioni del lavoratori agricoli e al tempo stesso dover fronteggiare una ripresa di queste stesse organizzazioni e, per di più, in un momento in cui, da un lato, per il delinearsi di un nuovo periodo di crisi economica e quindi di disoccupazione agricola, erano prevedibili sia una spinta al ribasso dei salari sia un’azione delle organizzazioni contadine per contenerla e, da un altro lato, vi erano, per essi, preoccupanti sintomi di una tendenza del governo a favorire la stipulazione di concordati agricoli che, se attuati, avrebbero legato loro le mani. In secondo luogo vi erano gli interessi della destra politica, che una conversione a sinistra del fascismo avrebbe privato del suo strumento più potente di pressione sul governo e di ricatto psicologico sull’opinione pubblica e l’avrebbe messa politicamente in gravissime difficoltà
P. 142-43

Citazione da Mussolini:
Io sono “duce” per modo di dire…. Non ho imposto nulla a chicchesia…. I fascisti emiliani vogliono dare  un addio al fascismo italiano? Dal punto di vista personale, la cosa mi lascia indifferente o quasi. Per me il fascismo non è fine a se stesso. Era un mezzo per ristabilire un equilibrio nazionale….. Gran parte di ciò è stato raggiunto. Il fascismo può dividersi, scomporsi, frantumarsi, decadere, tramontare. Se sarà necessario vibrare martellate potenti per affrettare la sua rovina, mi adatterò alla ingrata bisogna. Il fascismo che non è più liberazione, ma tirannia: non più salvaguardia della nazione, ma difesa di interessi privati e delle caste più opache, sorde, miserabili che esistano in Italia; il fascismo che assume questa fisionomia, sarà ancora fascismo, ma non è quello per cui negli anni tristi affrontammo in pochi le collere e il piombo delle masse, non è più il fascismo quale fu concepito da me…. Siamo in troppi e quando la famiglia aumenta la secessione è quasi fatale. Venga, se deve venire, e i socialisti si rallegrino! La loro vittoria non è nel trattato di pace, ma è in questa indisciplina, è in questa cecità spaventevole che sta per perdere una parte del fascismo italiano…..Non s’erano dunque accorti che il fascismo era diventato sinonimo di terrore anche presso le popolazioni non socialiste? Io ho spezzato questo cerchio: ho aperto il varco tra i reticolati dell’odio, di questa ormai irrefrenabile esasperazione di vaste masse popolari che vi avrebbe travolti; ho ridato al fascismo tutte le possibilità….. Orbene: è tempo che il fascismo italiano sputi fuori ciò che pensa, ciò che vuole. Il trattato di pacificazione è il reagente che deve precipitare la selezione. La prossima settimana deve costituire la settimana dell’esame di coscienza del fascismo italiano. I risultati mi indicheranno la strada da seguire. Molti rospi ho inghiottito in questi ultimi tempi e molte solidarietà ho accettato per carità di fascismo. Ma a tutto c’è un limite ed io sono giunto a questo limite estremo. Il fascismo può fare a meno di me? Certo, anche io posso fare a meno del fascismo. C’è posto per tutti in Italia: anche per trenta fascismi, il che significa, poi, per nessun fascismo.
P. 150-151

L’atto decisivo di questa azione antimussoliniana ebbe luogo  il 16 agosto a Bologna. Quel giorno nel capoluogo emiliano si riunirono a convegno i rappresentanti dei principali fasci padani: secondo l’Assalto circa 600 sui 1700 che, secondo lo stesso giornale, costituivano il fascismo, secondo la polizia 65 del bolognese, 34 del modenese, 94 del ferrarese, 26 del parmense, 40 del piacentino, 1 del forlivese, 20 del ravennate, 64 del cremonese, 15 del mantovano e 68 del polesine. Protagonisti principali Frandi, Baroncini, Oviglio, Balbo, Farinacci, Marsich, Finzi, Barbiellini, il patto di pacificazione e Mussolini furono messi sotto accusa.
…………………
La risposta di Mussolini fu immediate. Il 18 agosto sul Popolo d’Italia annnciava di essersi dimesso dalla commissione esecutiva dei fasci e si insinuava l’idea di potersi dimettere addirittura dai fasci:
“La partita è ormai chiusa. Chi è sconfitto deve andarsene. E io me ne vaso dai primi posti. Resto, e spero di poter restare, semplice gregario del fascio milanese.
P. 152-153

Piuttosto che correre il rischio di doversene veramente andare o di una scissione più estesa di quella che aveva preventivato in un primo tempo, preferì cercare di salvare la faccia (con le dimissioni dalla commissione esecutiva) e mettersi subito all’opera – dato che era chiaro che neppure i suoi avversari volevano giungere agli estremi e non avevano la possibilità e la capacità di soppiantarlo veramente – per tessere la tela di un compromesso che, dando loro soddisfazione sul patto di pacificazione (e al tempo stesso a loro la responsabilità di liquidarlo di fronte all’opinione pubblica), evitasse lo sfaldamento del fascismo e permettesse a lui di risalire la china e di riprendere, con un’altra politica, il controllo del movimento. Tipico veramente a questo proposito fu il suo comportamento quando il 7 settembre si riunì il gruppo parlamentare fascista; sul problema del patto di pacificazione non diede battaglia, riservandosi di discutere la cosa al prossimo congresso nazionale; puntò però i piedi a proposito dei rapporti con il governo, mostrando così chiaramente di non volersi precludere la strada di un’azione politico-parlamentare. Contro coloro che avrebbero voluto una opposizione più netta a Bonomi e – come Misuri – che il fascismo capeggiasse la “reazione… contro la tracotanza dell’elemento clericale”, Mussolini sostenne che il governo Bonomi non andava svolgendo una azione nettamente antifascista e che, quindi, non era il caso di passare, per il momento, all’offensiva contro di esso, così come non era il caso di inscenare una politica anticlericale vecchio stile democratico-demagogico. Scelta la strada del compromesso, cioè, Mussolini si mise subito a percorrerla – abbandonando praticamente alla sua sorte il patto di pacificazione che, ufficialmente sempre in vigore, rimase affidato agli umori dei singoli fasci – e prese subito, mentre i suoi oppositori interni discutevano ed agivano in un presente che per lui era già passato, a gettare le basi di quella che sarebbe stata la sua nuova politica: una politica non più aperta a sinistra ma – al contrario – aperta a destra.
P. 160

Di fronte a dei giudizi, a delle valutazioni, a delle previsioni così disparate e, per quel che riguarda il fascismo, destinati ad essere clamorosamente smentiti dai fatti, chi oggi voglia capire la posizione di Mussolini nel 1921 non può certo limitarsi a registrarli, ma deve cercare di approfondirli. Non vi è dubbio che chi più si avvicinò alla comprensione dell’atteggiamento di Mussolini furono i vari Dalbi, Vinciguerra, Bergamini, coloro cioè che misero in primo piano il suo opportunismo e i limiti del suo carattere, impulsivo ed egocentrico. Un impulsivo che per altro, come C. Rossi ebbe a dire De Ambris e a Mecheri proprio in occasione della crisi del patto di pacificazione e con evidente riferimento a come Mussolini aveva reagito al pronunciamento dei suoi oppositori, era un calcolatore  astutissimo, un insincero, i cui scatti impulsivi erano studiati e privi di spontaneità; il che, appunto, spiega come – nonostante il suo egocentrismo – riuscisse a fermarsi al momento giusto e non si lasciasse trascinare in situazioni senza uscita. Accettando questa caratterizzazione dell’uomo, cade automaticamente l’interpretazione di coloro che videro nel patto di pacificazione un espediente tattico per valutare le possibilità di trasformazione del movimento fascista (e, di conseguenza, il patto non può essere visto che in una prospettiva strategica: impedire l’isolamento psicologico del fascismo e, se possibile, costituire il primo passo per un accordo a sinistra, con i popolari, i socialisti e i confederali) e tutta la vicenda dell’estate ’21 ci appare come articolata, per Mussolini, in tre momenti successivi ben definibili: quello della sicurezza in se stesso, nella propria autorità e nel proprio prestigio, quando si cullava nella certezza che il fascismo avrebbe accettato in gran maggioranza il patto poiché era lui a volerlo; quello dell’ira, delle accuse e delle minacce, quando incontrò le prime resistenze più forti del previsto, ma quando queste non si erano espresse ancora in tutta la loro imponenza e virulenza; quello, infine, dell’opportunismo e della decisione tranchante di non insistere in una prova di forza e di puntare subito su tutta un’altra carta, appena si rese conto dell’entità reale di queste resistenze e dalla posta in gioco. E a quest’ultimo proposito crediamo non debba essere sottovalutato un altro elemento, psicologico e razionale al tempo stesso: quello di sentirsi accusato apertamente di tradimento dalla propria parte politica e di capire che la sua fortuna politica non avrebbe potuto passare indenne per una seconda volta sotto le forche caudine di una simile accusa: meglio riconoscere, di fatto, il proprio errore e correre il rischio di essere accusato di incoerenza. Detto questo, due considerazioni ci pare si debbano però ancora fare, per evitare che un giudizio meramente psicologico e di carattere conduca ad una valutazione non storica ma moralistica della svolta mussoliniana dell’agosto-novembre 1921, facendo così perdere ad essa ogni significato politico. Che, così facendo, si farebbe di Mussolini l’uomo della provvidenza, destinato al successo, qualunque fossero le sue capacità politiche o – meglio – qualunque fosse la sua azione per pervenire al successo. Il che – sia ben chiaro – non vuol dire negare la componente opportunistica che in tale svolta indubbiamente vi fu, così come non si vuole respingere in toto l’accusa di un Vinciguerra o di un Bergamini che Mussolini mancasse di saldi principi politico-morali, ma solo cercare di capire quanto nella posizione di Mussolini vi fosse di opportunismo vero e proprio e quanto invece del suo opportunismo fosse parte integrante della sua concezione della politica e del suo modo di vedere il rapporto fascismo – situazione politica generale italiana. Per la componente dell’opportunismo vero e proprio ci pare non possano sussistere dubbi: ad essa si deve attribuire il fatto che Mussolini, dopo il pronunciamento bolognese del 16 agosto, non abbia sfruttata nessuna delle molte possibilità che – come si è visto – ancora aveva per cercare di mettere in difficoltà i suoi oppositori e, più in genere, non abbia pensato per un sol momento ad ingaggiare con essi una effettiva prova di forza. A questo proposito ci pare non vi possano essere dubbi: alla possibilità di un totale insuccesso o di un successo conseguito a prezzo di una riduzione della forza effettiva dello strumento politico (e per politico intendiamo anche militare) a sua disposizione Mussolini preferì la sicurezza di un compromesso con i suoi oppositori. Quanto, invece, all’opportunismo che avrebbe dimostrato non solo non lottando per difendere la propria posizione ma passando, con una conversione – come si suol dire – di centottanta gradi, da una tendenzialità di sinistra a una tendenzialità di destra, il discorso ci sembra più complesso, tale – almeno – da essere accompagnato dalle sue considerazioni alla quali abbiamo fatto cenno. La prima riguarda la concezione della politica di cui Mussolini era partecipe, al di là degli opportunismi e dei tatticismi tipici dell’uomo politico in genere e di lui in particolare. Una concezione della politica in cui è distinguibile il riflesso delle teorie di Pareto, di Mosca, di Sorel e in particolare di certe volgarizzazioni-schematizzazioni di esse fatte in quegli anni (per esempio di un Lanzillo), ma soprattutto il riflesso della critica scettico-relativistica di un Rensi e di un Tilgher, entrambi ricordati negli scritti mussoliniani di questo periodo (e il primo addirittura collaboratore del Popolo d’Italia) ed entrambi tipici rappresentanti della crisi morale e intellettuale provocata dalla guerra e, più ancora, dal cozzo delle contrapposte ideologie – teologie (che sul piano intellettuale vietavano ogni libertà e varietà di direzione del pensiero) e della contrapposte giustizie politico-sociali (che sul piano politico determinavano uno stato di lotta, così violento e sordo alle sofferenze e ai bisogni del paese, che non poteva essere risolto che con la soppressione delle ragioni dei dissidenti). Una concezione della politica  - dunque – che, muovendo dalla constatazione della contemporanea verità-falsità di tutte le posizioni e, quindi, della inesistenza di una verità universale ed assoluta alla quale tutti potessero credere, approdava al più totale relativismo e ad un’unica verità: quella che è fatta tale dall’autorità (Rensi). Da qui il riconoscimento del relativismo assoluto di Tilgher sul piano politico del fascismo.
P. 164-65

A questo punto un problema ci par debba essere ancora affrontato per giungere ad una valutazione complessiva del significato più propriamente storico che la vicenda del “patto di pacificazione” ha sia agli effetti della vita politica di Mussolini sia, più in genere, agli effetti della storia del fascismo, cercando infine di spiegare perché alla fine del 1921 tanti ed autorevoli osservatori ritenessero che il fascismo fosse irrimediabilmente sulla via di tramontare.
Perché Mussolini compì l’errore politico di avventurarsi sul terreno minato del “patto di pacificazione”? Le risposte a questo interrogativo sono, a nostro avviso, più di una. Una, diciamo così, di carattere psicologico: la convinzione che il fascismo avrebbe seguito il “capo che precede”. Su essa non è però il caso di insistere, perché già se ne è parlato. Un’altra è quella “delle cose”. In base al suo relativismo assoluto – in termini politici, disponibilità – Mussolini avrebbe ovviamente potuto rompere l’isolamento in cui il fascismo rischiava di venirsi a trovare sia verso sinistra sia verso destra: la scelta tendenzialmente a sinistra si spiega – a nostro avviso – con un’altra peculiarità della sua azione politica, quella di essere in pratica condizionato molto spesso nelle sue già difficili scelte dei fatti esterni, in questo caso dal risultato delle elezioni politiche che avevano rafforzato i popolari e sostanzialmente non indebolito massicciamente i socialisti. Corollario non trascurabile di questa seconda spiegazione è la grande influenza che su Mussolini aveva Cesare Rossi, l’ideatore, forse, del patto, certo il suo più tenace assertore (non è da escludere, in funzione della trasformazione del fascismo in “partito del lavoro”, contando così di agganciare sia i sindacalisti deambrisiani sia almeno una parte dei confederali). Altro corollario è la crisi dei rapporti di Mussolini con certi ambienti del mondo industriale ed economico provocata dal suo voltafaccia in occasione delle elezioni del maggio. Una terza spiegazione è, infine, quella della particolare concezione del partito che Mussolini sempre ebbe e che già aveva avuto per lui così gravi conseguenze nel 1914. Una concezione che non era il frutto di una conoscenza reale del partito stesso, dei suoi umori, delle sue estrinsecazioni concrete, dei suoi legami e rapporti con le alte forze, ma tutta “idealistica” (“il nuovo concetto di partito – avrebbe scritto nel novembre – risponde al diffuso e profondo bisogno che hanno gli uomini di una disciplina, di un ordine, di una gerarchia”); una concezione che sovrapponeva molto spesso l’intuizione di un certo stato d’animo, di una certa crisi alla realtà che condizionava questo stato d’animo e questa situazione di crisi, impedendo loro di prendere corpo; che – ancora – non comprendeva che se le élite erano per la “competenza” e la “gerarchia” verso le masse, erano però individualiste al massimo verso se stesse; che, soprattutto, pretendeva razionalizzare ciò che assolutamente non poteva esserlo; l’attivismo e lo spirito di rivolta. Con una simile concezione del partito Mussolini era inevitabilmente portato a sottovalutare il margine di autonomia tipico dei partiti e movimenti rivoluzionari che non agiscano in un clima di clandestinità o non siano al potere (nel qual caso di verifica la sovrapposizione dello Stato al partito) e la loro – per usare una espressione di Duvarger – relativa insensibilità alle variazioni della congiuntura (sia economica sia politica) e ad agire non come un leader di un moderno partito di massa – che deve tenere sempre il polso dei suoi seguaci, curarne l’organizzazione e preparare concretamente ogni propria mossa attraverso le strutture intermedie del partito stesso – ma un po’ come un direttore di giornale, che parla alle masse ma non dialoga con esse, e un po’ come un uomo politico di tipo tradizionale, che esplica la sua azione a livello parlamentare e governativo senza troppe preoccupazioni per la propria base, che è tale i per una consapevole scelta  per motivi clientelistici.
Se queste furono le cause, almeno le più importanti, dell’errore di Mussolini, resta però da spiegare come egli riuscisse a riprendere così rapidamente in mano il fascismo e soprattutto smentisse l’opinione così diffusa che questo fosse ormai in crisi e destinato a dissolversi in breve giro di tempo. Alla prima parte del quesito ci pare si possa rispondere con relativa facilitò, tanto più che essa sarà l’oggetto centrale delle prossime pagine. Al vertice ci riuscì perché seppe abilmente dividere e quindi neutralizzare i suoi principali oppositori. Alla base perché seppe incanalare, dare una prospettiva alle istanze rivoluzionarie dei fascisti, senza peraltro che questo influisse negativamente sul suo giuoco politico e, anzi, facendo si che lo favorisse; parlando cioè sempre più insistentemente di azione rivoluzionaria, di “marcia su Roma” e preparandola – prima con le azioni di massa, le spedizioni in grande stile su singole località chiave (con le quali otteneva contemporaneamente il risultato di indebolire progressivamente l’autorità dello Stato, di isolare le roccaforti avversarie e di valorizzare davanti all’opinione pubblica la forza del fascismo) e poi con la creazione della Milizia – senza per altro che questa azione “rivoluzonaria” potesse mai diventare autonoma, varcare certi limiti e condizionare quella a livello politico-parlamentare. Alla fine azione rivoluzionaria e azione politica concorsero entrambe alla realizzazione del colpo di stato; ma non è certo più un mistero oggi che, pur sostenendosi e integrandosi vicendevolmente,  delle due azioni quella che fu veramente determinante del successo fu quella politica e  - al limite – si potrebbe addirittura dire che quella rivoluzionaria più che contro lo stato agì contri il fascismo più intransigente e rivoluzionario, soddisfacendolo con l’apparenza di una rivoluzione che non vi fu.
Quanto alla seconda parte del quesito – perché le ottimistiche previsioni di tanti osservatori e leader politici furono così clamorosamente smentite – la risposta non va ricercata a nostro avviso tanto nell’azione fascista e di Mussolini in particolare, quanto negli errori degli avversari del fascismo. Che molti abbiano nel ’21-22 sopravvalutato la crisi fascista, sino a cadere nell’assurdo di credere che una massa attivistica di alcune centinaia di migliaia di aderenti, forte di simpatie, connivenze, aiuti, si sarebbe dissolta da sé, è un dato di fatto; il che se per altro spiega forse l’errore, lo spiega in maniera superficiale. Il punto ci pare un altro. Per far veramente esplodere la crisi fascista sarebbe occorso o imboccare la strada della collaborazione governativa con i fascisti, sperando che Mussolini si inserisse nel sistema accontentandosi del classico piatto di lenticchie e che questo scatenasse le forze centrifughe del fascismo, oppure – unico vero modo – essere in grado di affrontare il fascismo sul suo stesso terreno, quello della forza. Ma questo non era – come troppi credevano – un mero problema di autorità dello Stato, di polizia. Al contrario, era un problema anzitutto politico, di fondo, che andava impostato e risolto politicamente, dando cioè allo Stato ancor prima della forza materiale quella morale, facendolo sentire alla maggioranza degli italiani come il proprio Stato. E qui vennero meno i partiti, venne meno la classe politica. Vennero meno i liberali e i democratici che erano legati a una problematica politica che era ancora quella dell’anteguerra, del periodo giolittiano e non si rendevano conto che lo Stato non poteva ormai più prescindere dall’apporto positivo delle grandi masse. Vennero meno i popolari, divisi da troppe contraddizioni interne e ancora legati a troppe pregiudiziali che impedivano loro di essere l’anello, la cerniera tra il vecchio e il nuovo. Vennero meno soprattutto i socialisti, la cui evoluzione – per dirla con C. Rosselli – precedette con “una lentezza, una ottusità tragica, mentre gli eventi incalzavano” e per i quali il fallimento del “patto di pacificazione” e la crisi del fascismo invece di essere motivo di un rinnovato dinamismo furono causa di immobilismo e addirittura di un nuovo sussulto massimalistico (il che, indirettamente, ci pare confermi che al “patto di pacificazione” erano giunti non tanto per fini tattici quanto per cercare di uscire dal vicolo cieco in cui si erano cacciati senza dover essere costretti a prendere posizione sul dilemma di fondo della loro politica). Da qui il vuoto di autorità morale, di consenso e quindi di autorità materiale dei governi Bonomi e Facta, da qui il successo fascista dell’ottobre 1922, chiaramente intuito – nonostante il suo ottimismo – in un lucidissimo articolo del dicembre ’21 d G. De Ruggiero, in cui è impostato il problema di fondo della crisi italiana del 1021-22:
“Sarà bene tradurre in termini più spiccioli: qual è la ragione dell’odierna crisi dell’autorità? Non tanto la mancanza di uomini forti, non tanto la debolezza degli organi preposti ai compiti di polizia; o almeno, anche questo, ma come espressione superficiale di un disagio molto più profondo: il disagio di una società che sente di non governarsi da se stessa, ma di essere governata da minoranze necessariamente esautorate; di una società in cui le forze maggiori son fuori dello Stato, ed esprimono, ciascuna individualmente, una propria autorità particolare, che si elide in contrasto con l’avversaria e con quella marginale dello Stato. Da questa situazione, tutti i pannicelli caldi, di cambiare un ministero, trasferire dieci prefetti, reclutare mille nuove guardie regie, sono risibili.
La crisi dell’autorità investe tutta la sostanza della nostra vita politica. Essa non potrà quindi risolversi che col graduale assorbimento, nello Stato, di queste forze che ora si esplicano lateralmente. Solo allora potremo avere uno Stato forte, anche riducendo gli sterminati eserciti polizieschi odierni. Ed è appunto verso questa meta che dovrebbero convergere gli sforzi di tutti coloro che si preoccupano seriamente di reintegrare l’autorità dello Stato.
Si convincano in ben pensanti: il cosiddetto e così maltrattato e mal definito filosocialismo non è un vano lusso da plutocrati o da demagoghi: è questione di economia o, se piace meglio, di meccanica. La forza dello Stato non è che la risultante delle forze che convergono su di esso. Date alle masse la sensazione chiara, concreta, che lo Stato non è fuori o contro di loro, ed esse obbediranno allo Stato, perché sentiranno di obbedire alla propria legge, sentiranno, nell’essere governate, non una schiavitù, ma un atto di autonomia, un modo di governarsi da sé.
E per grandi masse non dobbiamo intendere oggi – data la situazione comparativa delle forze – in gran parte le masse socialiste, le sole che abbiamo finora una chiara fisionomia e una salda organizzazione, e che, come tali, possano costituire un sostegno permanente dello Stato. Ogni tentativo di rinsanguinamento verso destra ci tratterrebbe in alto mare, ponendoci in presenza o di vecchi rottami del passato, o di elementi torbidi e caotici, ancor più di ogni stabile assisa, e che per giunta mutuano dal socialismo quel tanto di vitalità che posseggono.”
Pp. 168-72

Da un punto di vista immediato, il partito serviva a Mussolini soprattutto in altre due direzioni. La trasformazione organizzativa dei fasci avrebbe portato con sé quella del programma, permettendone una rielaborazione che, smussando certe punte di quelli del ’19 e del ’20, avrebbe permesso a sua volta a Mussolini di qualificare il fascismo come un partito chiaramente di centro-destra, programmaticamente vicino ai liberali, a una parte almeno dei popolari e alla destra in genere, a quelle forze cioè alle quali Mussolini voleva ora avvicinarsi, e tale da accattivargli di nuovo le simpatie del mondo economico e procurargliene di nuove. Oltre a ciò la trasformazione doveva riqualificare il fascismo agli occhi dell’opinione pubblica borghese, dimostrandole che esso era un partito vero e proprio e non un’accolta faziosa e indisciplinata, impossibile a controllare da parte dei suoi capi e dalla quale ci si poteva attendesse qualsiasi colpo di testa.
P. 175

Il successo dei massimalisti – che non avevano capito niente della crisi fascista e, anzi, aveva provocato in essi un rigurgito di intransigentismo – salvava il fascismo e gli apriva le porte del potere. Tanto più – e con questo arriviamo all’ultimo intervento mussoliniano di rilievo prima del congresso di Roma – che il successo dei massimalisti avrebbe influito negativamente sul Partito popolare, rafforzando la destra a scapito della sinistra. Di questo, dopo il congresso socialista di Milano, Mussolini era così sicuro che non attese per dirlo che il congresso popolare concludesse i suoi lavori. Già il 20 ottobre, il giorno della sua inaugurazione, lo scrisse a tutte lettere:
“Non c’è, attorno al congresso del Partito popolare, quel fervore di aspettative che precedé e accompagnò i lavori del recente congresso del Pus. A Venezia non ci saranno sorprese. L’unità del Partito popolare sarà conservata. Il collaborazionismo approvato. A destra, poiché dalla sinistra socialista si risponde picche. L’intransigenza socialista indebolisce in seno al Partito popolare la posizione dei collaborazionisti col Pus. Il Partito popolare andrà quindi piuttosto verso destra, visto che a sinistra le porte sono chiuse”.
P. 181

Il 4 novembre – tre giorni prima dell’apertura del congresso – ribadì i suoi punti fermi: il partito e il programma; sul patto di pacificazione nemmeno una parola; sulla prossima dirigenza fascista un’offerta esplicita: spersonalizzare, non più una testa, ma dieci e magari venti; non più una responsabilità individuale – con relativi osanna e raca, gloria e tradimento – ma una responsabilità collettiva. Insomma un ramo d’ulivo offerto da una mano guantata di ferro: certo a Mussolini mancavano le forze per stroncare i suoi avversari, ma avevano questi la personalità per riproporre una crisi che ormai era in via di superamento?
P. 182

Per Il Secolo come per gli altri osservatori l’antagonista di Mussolini sarebbe dovuto essere Grandi, l’uomo nuovo, l’intellettuale del fascismo, , il leader del pronunciamento del 16 agosto, l’unico capo fascista che avesse avuto l’ardire di personalizzare la polemica col duce e che i dissidenti avessero sin nei loro canti contrapposto a Mussolini, l’unico che non si opponesse a Mussolini solo con la negativa ma prospettasse un proprio programma, anche se questo programma – come notava sempre Il Secolo – non sembrava molto adatto a far sì che il fascismo ottenesse l’adesione delle masse, che non potevano dimenticare che il fascismo emiliano era sorto sotto gli auspici e con l’aiuto degli agrari, e sotto questi auspici e con questo aiuto si è sviluppato e ha trovato la possibilità di azione.
P. 183

Il sindacalismo fascista era troppo strettamente connesso alla reazione agraria scatenata in Emilia e in Romagna contro il movimento contadino perché queste masse potessero distinguere l’uno dall’altra, aderire all’uno e dimenticare l’altra.
P. 187

Al passivo Mussolini doveva mettere il definitivo seppellimento del patto di pacificazione, che fu ufficialmente denunciato il 15 novembre, meno di una settimana dopo la conclusione del congresso, prendendo a pretesto la turpe commedia giocata dal Pus in occasione dello sciopero generale antifascista proclamato in occasione del congresso stesso dal Comitato di difesa proletaria.
P. 190

Cap. 3. Lo sciopero legalitario e la vittoria dello squadrismo

Citazione da una lettera della Kuliscioff a Turati:
Tutto sommato, è una situazione terribile, il paese di giorno in giorno si avvicina al precipizio. Ormai non so che cosa possa salvarlo. Una rivoluzione, una guerra civile, nuove elezioni? Mezzi di troppa dubbia probabilità di riuscita, e quindi la reazione, già esistente, sarebbe spinta ai suoi estremi termini…..
E’ ridicolo piagnucolare sul passato, ma è certo che se il partito [socialista] fosse stato più conscio del suo compito e voi Gruppo [parlamentare] aveste avuto una libertà di azione parlamentare, ancora in luglio scorso la caduta di Giolitti, si sarebbe potuto scongiurare il disastro attuale senza uscita e senza prospettiva. Del resto chi lo sa? Forse quando si è arrivati sull’orlo dell’abisso si ritrovano ancora risorse impreviste per non precipitarvi.
P. 210

L’equidistanza dalle estreme di Facta non era in grado di assicurare l’ordine pubblico e porre fine ai conflitti; un eventuale governo a sinistra avrebbe avuto un carattere antifascista che i fascisti non avrebbero tollerato e avrebbe voluto dire la guerra civile.
….
Verso la metà del ’21, passata la paura più grossa, alcuni settori di questa stessa opinione pubblica avevano cominciato a preoccuparsi delle violenze fasciste, ma l’apparizione degli arditi del popolo aveva costituito per i fascisti un buon alibi.
P. 211

Sotto i colpi fascisti Giolitti (in cui doveva covare anche il rancore per l’opposizione che in febbraio il suo nome aveva incontrato tra i popolari) e Orlando non se la sentivano più di fare un governo nettamente antifascista. La direzione popolare a sua volta – pur non essendo pregiudizialmente contraria alla collaborazione con i socialisti – preoccupata dai nuovi orientamenti che pio 11 aveva portato in nascere, voleva essere lei a guidare la crisi. In questa situazione Turati e i suoi amici del gruppo parlamentare compirono due errori, diversi nelle conseguenze, ma non per questo meno gravi. Prima, invece di impegnarsi a fondo per favorire una soluzione, si arroccarono su una posizione intermedia che none ra certo fatta per incoraggiare le altre parti, di per sé già sufficientemente incerte e restie: offrirono i loro voti per un governo Bonomi composto di popolari e democratici, ma rifiutarono di farne parte. Poi, naufragata questa possibilità in seguito alla nota presa di posizione di Giolitti (“che cosa può venire di buono per il paese da un connubio Don Sturzo-Treves-Turati?”) e tornate le trattative in alto mare con la minaccia di un governo aperto a destra, ebbero l’infelicissima idea di forzare la situazione minacciando il ricorso alla piazza per indurre i popolari e i democratici a rifiutare il loro appoggio ad un governo non nettamente antifascista.
P. 221

Eppure in questa situazione i deputati riformisti approvarono il 28 luglio un ordine del giorno con cui facevano noto che “di fronte al possibile tradimento del voto ultimo della Camera, il Gruppo parlamentare socialista riconosce il proprio dovere di non arretrare davanti ad alcuna azione capace di far rispettare da parte di chiunque ne abbia il dovere, la volontà concordemente espressa dall’assemblea nazionale a difesa della libertà e del diritto d’organizzazione.
P. 222

Sul piano psicologico e politico generale la proclamazione dello sciopero generale bloccò completamente il processo di allontanamento della borghesia: davanti alla prospettiva di un ritorno al ’19 il fascismo tornò ad essere per essa l’unico valido strumento per tenere a freno i “rossi” e farla finita definitivamente con loro.

Citazione di A. Malatesta:
Lo sciopero servì di pretesto ai fascisti per compiere l’occupazione  di un gran numero di istituzioni operaie e di municipi, e per sviluppare la loro azione anche in centri dove non l’avevano ancora compiuta o iniziata. Il giorno 2 occupavano il municipio di Milano e il 4 devastavano nuovamente la sede dell’avanti
P. 223

Sicché non aveva certo torto La giustizia quando il 12 agosto riconosceva: “Bisogna avere il coraggio di confessarlo: lo sciopero generale proclamato ed ordinato dall’Alleanza del lavoro è stata la nostra Caporetto: Usciamo da questa prova clamorosamente battuti”. Solo che battuti non erano solo i socialisti e il movimento dei lavoratori ad essi collegato: battuta era ormai la stessa democrazia italiana. A chi ripercorra oggi gli avvenimenti del 192 una cosa non può certo sfuggire: lo sciopero legalitario fu la premessa necessaria per la marcia di Roma. Dopo di esso Mussolini non aveva più ostacoli sulla sua strada. Si trattava solo, per lui, di non lasciarsi sfuggire l’occasione, di non permettere che l’opinione pubblica borghese e i suoi partiti si riprendessero dallo choc.
P. 224

Più che di forzare una situazione politicamente non ancora matura (che nel migliore  dei casi avrebbe portato al governo uno o due fascisti in posti poco importanti, con la conseguenza di confondere il fascismo con le altre formazioni di centro-destra e di legargli le mani nel paese) Mussolini si preoccupò di rendere stabili i suoi rapporti con la destra (senza però che questa stabilità so trasformasse in alcuna forma di vassallaggio rispetto ad essa: tipico fu a questo proposito l’andamento – già ricordato – dei rapporti con i nazionalisti) e di avviare un fattivo colloquio col centro democratico, in modo da poterlo riprendere e portare a conclusione appena la situazione lo avesse reso possibile. Due punti intanto mise bene in chiaro. Primo, che si poteva governare senza i fascisti, ma non contro il fascismo. Secondo, che il succedersi di governi deboli e inadatti a fronteggiare la situazione interna, economica e internazionale minacciava di far progredire nell’opinione pubblica la sfiducia nel sistema parlamentare e nella sua classe politica e – per reazione – la simpatia per una eventuale soluzione extraparlamentare.
P. 245

In questa situazione – anche se avesse voluto e non lo voleva – Mussolini non si sarebbe potuto opporre allo squadrismo; se non voleva perderne il controllo o, nel migliore dei casi, scatenare le forze centrifughe e, quindi, metterlo in crisi, doveva secondarlo; cercando al tempo stesso di dargli, con i suoi articoli, i suoi discorsi, i suoi contatti, un carattere, un significato, una prospettiva politica che in realtà esso non aveva, ma che doveva avere se non voleva perdere il consenso dell’opinione pubblica borghese e se voleva caratterizzarsi come una forza non solo negativa e per di più, a suo modo, liberale.
P. 249

Solo partendo da questa situazione di fatto – più esasperata nella pianura padana ma in atto in tutte le zone agricole nelle quali il fascismo era presente – solo rendendosi conto del nesso strettissimo che esisteva alla base del fascismo tra squadrismo e sindacalismo – in pratica due facce della stessa realtà – e del significato politico dell’azione contro le organizzazioni dei lavoratori condotta dallo squadrismo è possibile capire veramente il cosiddetto problema dell’ordine pubblico durante il governo Facta, il suo nesso con l’atteggiamento dei partiti (specialmente i popolari, ormai direttamente investiti dall’offensiva fascista) e dell’opinione pubblica borghese cittadina (che di questa situazione subiva i contraccolpi – anche economici – senza trarne più quasi nessun giovamento e ne vedeva sempre di più gli aspetti negativi) e – quindi – il suo riflesso al livello dell’azione politica e propagandistica di Mussolini e del gruppo dirigente fascista.
P. 253

Conoscendo questo stato d’animo del duca, Corradini non si limitò a chiedergli di intervenire presso il re, i due – per quel che ne sappiamo – discussero anche l’eventualità di un rifiuto del sovrano e la possibilità, in questo caso, che “se Vittorio Emanuele… fosse stato vinto o avesse abdicato, il principe Umberto sarebbe stato proclamato re e il duca d’Aosta avrebbe assunto la reggenza”. Sapendo come nell’ottobre successivo andarono le cose, questo secondo momento dell’incontro tra il leader nazionalista e il duca d’Aosta potrebbe a prima vista sembrare privo d’importanza; al contrario esso è per noi del più vivo interesse perché – come si vedrà più avanti – apre uno spiraglio per comprendere l’aspetto più oscuro di tutta la vicenda della marcia su Roma, l’improvviso capovolgimento cioè della posizione del re. Se si entra infatti nell’ordine di idee che questo capovolgimento fu prodotto anche dal timore che Mussolino potesse contrapporre il duca d’Aosta a Vittorio Emanuele, è chiaro che i contatti Mussolini-Corradini-duca d’Aosta della primavera acquistano automaticamente un significato grandissimo, poiché se non dettero frutti immediati ne dettero – sia pure in forma indiretta – di importantissimi di lì a quattro-cinque mesi.
P. 259

Se la crisi dell’estate del 1922 non si risolse in un grave scacco per il fascismo,  con uno scacco che forse avrebbe potuto segnare l’inizio di una vera e propria svolta nella situazione politica italiana, e invece sancì praticamente la vittoria del fascismo rendendo possibile la successiva marcia su Roma, ciò fu dovuto in realtà non all’abilità di Mussolini o alla capacità del fascismo di fronteggiare la crisi che aveva scatenata, ma alle divisioni e alle incertezze degli altri partiti – in primo luogo socialisti e popolari – e soprattutto allo sciopero legalitario che capovolse completamente la situazione, ridiede fiato al fascismo e, quel che più importa, interruppe bruscamente e invertì il processo di allontanamento dal fascismo dell’opinione pubblica borghese. Il resto non fu che una conseguenza, frutto della stanchezza per una situazione politica tanto precaria e della paura di una reviviscenza del sovvertivismo rosso del 1919-20.
P. 267

Ma appena Turati accettò di essere consultato dal re e l’incarico tornò ad Orlando, si fece di nuovo possibilista, pronto a discutere (sia pure con qualche obbiezione…) una eventuale nomina sua e di Turati a ministri senza portafoglio e – pare – addirittura la possibilità di un governo di larga concentrazione che lasciasse fuori sia i socialisti sia i fascisti. Il che, per chi, come lui, aveva di fatto provocato la crisi e – in un primo tempo – aveva pensato di poter indure con la forza i gruppi di centro a dividere il potere con il fascismo, equivaleva a una capitolazione; non certo resa meno grave dal fatto che i fascisti dichiarassero ad ogni occasione di non ritenere più la Camera specchio effettivo del Paese e chiedessero nuove elezioni; sia perché  una simile richiesta non era solo fascista, ma anche giolittiana, sia perché – sino allo sciopero legalitario – era del tutto improbabile che nuove elezioni avrebbero sostanzialmente mutato il rapporto di forze tra il centro e i fascisti; sia – infine – perché in una simile eventualità era difficile capire coem Mussolini potesse sperare di mettere le cose con gli squadristi.
P. 270

Con esso venne il secondo governo Facta, da cui i fascisti venero esclusi e votarono quindi contro e che, per taluni aspetti almeno, ebbe verso il fascismo un atteggiamento più energico del primo. Dopo la conclusione dello sciopero e il grane riflusso di simpatie che esso portò al fascismo tutto ciò divenne però secondario e sostanzialmente privo di effettivo valore. Messo su in fretta e furia, col diretto intervento del re, per dare una guida al paese sull’orlo della guerra civile, il secondo governo Facta fu anche più provvisorio del primo e molto più screditato agli occhi dell’opinione pubblica. Un governo di transizione in attesa della ripresa parlamentare autunnale. E in autunno il fascismo si sarebbe presentato alla crisi ministeriale n ben altra posizione di forza e di prestigio che a luglio. Sicché Mussolini poté far accettare ai suoi il reincarico di Facta come un fatto del tutto normale e come una sostanziale vittoria fascista.
P. 272

Superata la crisi era ormai l’ora di un primo effettivo bilancio consuntivo e di un serio discorso per il futuro. Come Mussolini avrebbe scritto nel 1927 su Gerarchia, col fallimento dello sciopero legalitario il fascismo che sino allora aveva dovuto muoversi su due fronti, da un lato quello dei rapporti con il governo e con i governi borghesi che lo sostenevano e da un altro lato quello dei partiti e delle organizzazioni dei lavoratori, si trovava adesso con un solo avversario da battere. Il movimento dei lavoratori era momentaneamente fuori causa, battuto, lacerato dai contrasti e dalle recriminazioni interne, scoraggiato e in crisi. Per un po’ almeno non avrebeb più risollevato il capo. Da questa tregua su un fronte il fascismo doveva approfittare per vincere sull’altro:
“Dall’agosto 1922, sconfitta definitivamente l’Alleanza del lavoro, cioè tutti i partiti antifascisti, sulla scena politica italiana non restano che due forse: il governo demo-liberale, l’organizzazione armata del fascismo.
P. 281

Cap. 4. Ora o mai più: Mussolini alla conquista del potere

Sicché, in definitiva, più che i vari Giolitti, Salandra, Facta, Nitto e Orlando – divisi per di più come erano da vecchi rancori e da innumerevoli gelosie – chi doveva decidere era Mussolini; al tavolo, per riprendere una immagine di A. Repaci, al quale si cominciava a giocare la partita del destino dell’Italia la mano era ormai di Mussolini, stava a lui scegliere con chi andare al governo e in ultima analisi come andarci: come il grande secondo o come l’effettivo capo della nuova combinazione? Quello che ci pare certo – e con questo siamo all’altra conclusione che si può trarre dall’episodio del mancato incontro D’Annunzio-Mussolini-Nitti – è che Mussolini, se non aveva ancora scelto come e con chi andare al governo, una cosa aveva però già deciso: al governo sarebbe andato per via parlamentare, una via parlamentare un po’ sui generis, che eventualmente non escludeva l’ausilio minaccioso della maniera forte, ma che in ogni caso escludeva il ricorso ad un colpo di stato, ad una insurrezione nel senso classico di questi termini.
P. 287

Segno evidente che il contraccolpo positivo dello sciopero egualitario era stato subito soprattutto dai lavoratori: stanchi, demoralizzati e ormai in balia degli squadristi, molti di essi cercavano rifugio nei sindacati fascisti che, bene o male, in quelle condizioni, assicuravano loro l’incolumità fisica e la possibilità di lavorare e quindi di vivere.
P. 288

Citazione dal Domenico Bartoli (La fine della monarchia, Milano, 1947):
Da molto tempo Vittorio Emanuele li osserva, dapprima compiaciuto perché vede umiliati e contenuti gli uomini dell’estrema sinistra; poi preoccupato e ansioso. Non può avere vera simpatia per Mussolini, un avventuriero di genio che tradisce le origini plebee. I gusti personali del re lo portano a preferire uomini semplici e preparati, Bonomi e Soleri per esempio. E’ un militare ma non gli piacciono le ostentate uniformi, i gradi, le gerarchie irregolari, i borghesi vestiti da soldati. Il movimento fascista non ha una particolare forza d’attrazione sul sovrano. Egli sa benissimo che il pericolo di una repubblica di sinistra è stato eliminato da tempo: è caduto, svanito al primo eccitamento. E invece le tendenze repubblicane di Mussolini e di gran parte dei fascisti, quantunque vaghe, mantengono sino all’ultimo una certa freddezza fra la corona e il fascismo.
P. 313-314

Riferendosi a quest’ultimo documento, il Repaci h osservato che esso “dovrebbe di per se solo fugare ogni dubbio su asserite intelligenze di Vittorio Emanuele coi fascisti”. Sgombrato il campo da tali presunte intelligenze, è evidente che l’estrema importanza per una giusta comprensione della crisi dell’ottobre 1922 di cercare di approfondire il più possibile le ragioni che indussero il re a mutare all’ultimo momento il suo atteggiamento verso il fascismo, passando dalla richiesta dello stato d’assedio al rifiuto di sottoscriverlo e all’incarico a Mussolini di formare il nuovo governo. Nella impossibilità di accedere ancora ai documenti dei Savoia, il Repaci ha avanzato una serie di ipotesi corrette e convincenti. Altri elementi crediamo di poter offrire nella seconda parte di questo capitolo. Tracciando un rapido abbozzo della situazione generale nella quale Mussolini dovette agire per trarre i frutti della crisi dell’estate ’22 e pervenire al potere, abbiamo però voluto sin d’ora richiamare l’attenzione del lettore su questo aspetto chiave della situazione stessa. Si potrà discutere delle maggiori o minori responsabilità di Vittorio Emanuele 3 nella crisi dell’ottobre ’22, non si può però negare che di tale crisi il re fu un protagonista non meno importante di Mussolini e certo più importante di tutte le altre dramatis personae.
Nota: Un’ampia e approfondita disamina dell’atteggiamento e delle responsabilità di Vittorio Emanuele 3 nella crisi dell’ottobre ’22, fondata su una ricca serie di importanti testimonianze che anticipano molto spesso quelle successivamente sfruttate dal Repaci, è stata pubblicata dalla “Politica parlamentare”, soprattutto nel 1949-50 (marzo 1949-febbraio 1950), nel 1951 (ottobre-novembre) e nel 1962 (giugno-settembre)
Biblioteca Universitaria Alessandrina pl. Aldo Moro,5 Roma   , tel. (06) 4456820/4441565  Posseduto: 1948-1966;1969; Lacune: 1948;1952;1957-1958; Ultima revisione catalogo 1994
P. 314-315

Quasi certamente a decidere la crisi sarebbe stata la monarchia, cioè l’esercito, che l’avrebbe – sia pure senza entusiasmo – decisa contro il fascismo. E con questo – tra parentesi – appare chiaro come, contro certe interpretazioni fatalistiche o deterministicheggianti del fascismo di autori sia fascisti sia antifascisti abbiano avuto ragione Tasca e Chabod quando, sia pure muovendo da diverse premesse e con diverso intento polemico, hanno sostenuto che sino alla fine nelle vicende italiane dell’ottobre ’22 rimase un margine di disponibilità e di iniziativa che ne avrebbe potuto mutare il corso. E di questo pericolo Mussolini ne era consapevole; da qui il suo tatticismo, il suo possibilismo, il suo volersi tenere da parte tutte le strade, il suo preparare la marcia su Roma in tutti i suoi particolari, in quelli militari e soprattutto in quelli politici, senza lasciar cadere sino all’ultimo momento neppure le iniziative centrifughe e personali di questi o quegli esponenti (salvo rinfacciarle loro in un secondo tempo): l’importante era non farsi sfuggire la situazione dalle mani e per dirla mussolinianamente, non perdere l’ultimo autobus.
P. 321

Di fronte ad un simile stato d’animo del sovrano solo la ferma e concorde volontà del governo e delle supreme gerarchie militari avrebbero potuto indurre Vittorio Emanuele ad un atteggiamento altrettanto fermo. In realtà, come vedremo, al momento decisivo la fermezza del governo si trovò ad essere handicappata, oltre che dalle diverse posizioni all’interno del gabinetto, dall’aver lasciato precipitare la situazione al punto di trovarsi nella curiosa situazione psicologica di dover prendere un provvedimento eccezionalissimo come lo stato d’assedio subito dopo aver presentato le proprie dimissioni (non accettate dal re). Quanto alle supreme gerarchie militari le larghe simpatie che tra esse godevano i fascisti, la sfiducia nel governo e soprattutto la volontà di avere un proprio ruolo che rassodasse definitivamente la loro posizione fecero – come vedremo – il resto.
P. 325

Citazione da Piero Melograni:
Dire che i dirigenti industriali, nel loro atteggiamento, non si differenziarono sostanzialmente dalla classe politica borghese considerata nel suo insieme, significa appunto riconoscere che nel corso del 1922 essi acquistarono tanta fiducia in Mussolini e nel suo partito da divenire fautori di un governo con la partecipazione dei fascisti, ma che una tale fiducia non si spinse tanto oltre da far loro auspicare un governo presieduto e dominato dai fascisti e per di più  costituito grazie ad una illegale marcia su Roma. La partecipazione legale dei fascisti al governo della cosa pubblica era infatti mezzo con il quale una larghissima parte degli ambienti politici borghesi (conservatori ma anche democratici) si illudevano nell’estate-autunno 1922 di incanalare e normalizzare il fascismo.
P. 327

Citazione da Mussolini:
Turro l’armamentario dello stato crolla come un vecchio scenario di operette, quando non ci sia la più intima coscienza di adempiere ad un dovere, anzi ad una missione. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato italiano. Resta la polizia, che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti, resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l’esercito, che deve garantire l’inviolabilità della patria e resta la politica estera.
Non si dica che così svuotato lo Stato rimane piccolo. No! Rimane grandissima cosa, perché gli resta tutto il dominio degli spiriti, mentre abdica a tutto il dominio della materia.
P. 332

Militarmente il fascismo non aveva alcuna possibilità di affermarsi
P. 348

Citazione da C. Rossi:
Risalito in treno da Milano…Mussolini…mi disse: “Quello era Raoul Palermi. Mi ha assicurato che ufficiali del comando della Regia Guardia alcuni comandanti di reparto della guarnigione di Roma ed il generale Cittadini, primo aiutante di campo del re, ci aiuteranno nel nostro moto. E’ tutta gente della sua massoneria”. Divenuto anch’io amico di Palermi, questi mi garantì che anche il duca del Mare, il grande ammiraglio Thaon de Revel, era iscritto alla massoneria di Piazza del Gesù Può darsi che nelle assicurazioni di Palermi ci sia stato un po’ di bluff o per lo meno una certa esagerazione am sta di fatto che nei giorni 27-28-29 ottobre 1922 il sovrano gran maestro del rito scozzese “riconosciuto ed accettato – come vuole la formula – fece la spoletta fra la sede del Partito fascista, Montecitorio, il Viminale ed il Quirinale, dove fu ricevuto in varie ore senza preavviso ed anche di notte.
P. 352-353

E con questo siamo giunti al punto cruciale e decisivo di tutta la vicenda della marcia su Roma: l’atteggiamento del re e le ragioni del suo mutamento.

Esclusa una preventiva intesa segreta tra il re e Mussolini ed escluso anche che nella notte tra il 27 e 28 ottobre i fascisti possano avere agito direttamente sul sovrano, le ragioni del cambiamento di atteggiamento di Vittorio Emanuele vanno ricercate altrove, in ambienti più vicini e congeniali a lui, nei quali egli riponeva fiducia e che sapevano su quali stati d’animo e su quali convinzioni fare leva per agire su di lui. In essi va ricercata la vera e decisiva molla; una molla – si badi bene ché anche a questo proposito bisogna distinguere due tempi – che in un primo momento non agì che solo parzialmente a favore di Mussolini (mancata firma dello stato d’assedio, ma incarico a Salandra), sicché è da chiedersi ancora se era la molla che era stata caricata in questo senso o se fu il re che, in un primo momento, accettò solo la metà della operazione suggeritagli.
P. 354

Il re – come abbiamo detto – arrivò a Roma pochi minuti dopo le 20. Alla stazione scambiò con Facta poche parole: Roma doveva essere difesa, i fascisti non dovevano penetrarvi, “la Corona doveva potere deliberare in piena libertà, e non sotto la pressione dei moschetti fascisti”. Secondo Soleri, che la riferisce, questa affermazione comportava manifestamente l’adozione dello stato d’assedio. Dopo di che il re si recò a Villa Savoia. Facta lo raggiunse poco dopo, non appena ebbe parlato per telefono con Lusignoli (a Milano) ed ebbe capito “che gli eventi avevano sorpassato qualunque combinazione parlamentare sulle basi sperate2. E – primo fatto sbalorditivo – gli presentò le dimissioni del governo.
P. 357

Citazione da E. Ferraris:
Al Viminale i telefoni che collegavano le prefetture al Ministero non avevano tregua e dopo la mezanote le notizie divennero allarmanti. Assistevo nella notte, nel silenzio delle grandi sale del Viminale, allo sfaldarsi dell’autorità e dei poteri dello Stato. Si infittivano sui grandi fogli che tenevo dinanzi a me, i nomi che andavo notando delle prefetture occupate, le indicazioni degli uffici telegrafici invasi, di presidi militari che avevano fraternizzato coi fascisti fornendoli di armi, dei treni che le milizie requisivano e che si avviavano carichi di armati verso la capitale.
P. 358

Alle 6 ebbero inizio i lavori del consiglio dei ministri, , assenti Alessio, che non si poté avvertire, e Bertini e Dello Sbarba, che arrivarono in ritardo. La discussione si protrasse per circa un’ora; qualche ministro era riluttante ad adottare lo stato d’assedio. Alla fine, la decisione fu presa però all’unanimità, dopo che – secondo Paratore – il gen. Cittadini, primo aiutante in campo del re, avrebbe detto “che non deliberando lo stato d’assedio, il capo dello stato avrebbe abbandonato l’Italia”. Venne allora redatto e passato alla tipografia del Viminale un nuovo testo del proclama e alle 7.50 fu diramato ai prefetti l’annunzio dell’imminente pubblicazione dello stato d’assedio. Alle 8.30 incominciava l’affissione del proclama sui muri di Roma. Poco prima delle 9, infine, Facta si recò dal re al Quirinale. E qui si ebbe il colpo di scena: Vittorio emanuele si rifiutò di sottoscrivere il decreto. A questo punto il quadro delle successive vicende si fa di nuovo confuso. Secondo alcuni Facta, tornato al Viminale, di fronte allo stupore e alle proteste dei colleghi (che oltretutto pare non sapessero nulla dell’invio già avvenuto ai prefetti della notizia dello stato d’assedio), si sarebbe indotto a tornare dal re, ottenendone un nuovo rifiuto; secondo altri, invece, questo secondo incontro non sarebbe avvenuto e Facta sarebbe tornato al Quirinale solo alle 11.30, accompagnato dai presidenti della Camera e del Senato, De Nicola e Tittoni, per rassegnare le dimissioni sue e del governo. In sostanza si tratta però solo di particolari di non grande interesse, ciò che storicamente conta è ovviamente solo il rifiuto del re, che portò cons e la revoca dello stato d’assedio.
..
Vittorio Emanuele ha sostenuto di aver preso la sua decisione da solo e in assoluta libertà (“nei momenti difficili tutti sono capaci di criticare e di soffiare sul fuoco: pochi o nessuno sono quelli che sanno prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità. Nel 1922 ho dovuto chiamare al governo “questa gente”, perché tutti gli altri, chi in un modo, chi nell’altro, mi hanno abbandonato. Per 48 ore, io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata, perché gli italiani non si scannassero fra di loro), col solo proposito di evitare spargimenti di sangue e nella convinzione che esistesse una netta sproporzione di forza tra i fascisti attorno a Roma e i reparti che avrebbero dovuto difenderla. Da altre parti si è cercato di spiegare la decisione del re con un suo accordo segreto con Mussolini, con la paura che i fascisti gli catturassero i figli, con le pressioni della regina madre, con i maneggi del duca d’Aosta, con le pressioni di autorevoli personaggi nazionalisti, fascisti e militari. Alcune di queste spiegazioni sono da scartare a priori. Le uniche che meritano di essere discusse sono quelle relative al duca d’Aosta e ai militari.
P. 359-60

La destra fascista si componeva di due tendenze. Una monarchica e conservatrice, che puntava alla costituzione di un grande gabinetto “nazionale” che rinverdisse all’ombra della monarchia e dell’esercito, le glorie della Destra storica e che, in ultima analisi non si fidava di Mussolini, tanto da preferirgli come presidente del consiglio Salandra.

La seconda tendenza della fascista era molto meno caratterizzata; stava appena prendendo corpo e si sarebbe definita più che altro nei mesi successivi, assumendo allora la denominazione di revisionista e di normalizzatrice.
P. 365-66

Con questi precedenti non può meravigliare che, appena le notizie della mancata firma dello stato d’assedio e poi delle dimissioni di Facta furono ufficiali, i maneggi dei sostenitori di Salandra si facessero addirittura frenetici. Salandra, consultato dal re nel primo pomeriggio, prospettò per la successione di Facta il nome di Orlando, evidentemente preferendo che qualcun altro aprisse la strada e si bruciasse. Dopo di lui il re ricevette De Vecchi, giunto a gran velocità da Perugia, che gli disse di credere Mussolini d’accordo per una soluzione Salandra e si impegnò ad interpellarlo al più presto. Fatto importante, durante questo primo incontro tra il sovrano e il quadrumviro, Vittorio Emanuele escluse la possibilità di affidare l’incarico a Mussolini. Il giuoco sembrava fatto: poco dopo le 18, senza attendere la risposta di Mussolini, il re, al termine di rapidissime consultazioni, richiamava Salandra e gli affidava l’incarico di costituire il nuovo governo. Tra el 19 e le 20 il Giornale d’Italia annunciava a sua volta imminente un governo Salandra-Mussolini, nel quale i fascisti avrebbero avuto quattro portafogli.
Ma l’illusione doveva durare che una dozzina di ore. Nella mattinata e nel primo pomeriggio da più parti Mussolini era stato sollecitato telefonicamente a partire subito per Roma. Ogni sforzo era stato però vano. Appena ricevuto l’incarico ufficioso Salandra convocò De Vecchi, C. Ciano e Grandi e chiese loro di adoperarsi per convincere Mussolini ad entrare come ministro dell’interno nel suo governo. Stando a quanto scritto nelle sue memorie il presidente designato non avrebbe escluso neppure la possibilità che Mussolini autorizzasse almeno la partecipazione di alcuni fascisti; la richiesta ci sembra però poco probabile, a meno che non celasse una manovra volta a staccare i fascisti moderati dal loro capo. Non contento di ciò Salandra fece un nuovo tentativo per smuovere Mussolini da MIlano, facendogli telefonare dal Gen. Gittadini a nome del re.
P. 372

Per De Gasperi la collaborazione era uno stato di fatto, dettata dalla necessità di evitare altri mali al paese e di inserire il fascismo nella sua vita.
P. 378

Citazione da De Gasperi:
Una seconda sciagura risulterebbe se le forze idealistiche e le energie di rinnovamento che accompagnarono tali movimenti specie se, come in parte è nel caso nostro,  avessero conseguito sotto altra veste e in altre occasioni benemerenze per la difesa della patria,  non venissero messe al servizio del pubblico bene… il collasso delle forze idealistiche – ed è bene inteso che parliamo solo di questo – che venisse dopo uno sforzo attuato anche calpestando vittime innocenti, significherebbe un’ondata irresistibile nel senso opposto. Il pendolo verrebbe lanciato al lato estremo. Ecco perché siamo collaborazionisti rispetto al governo di Mussolini, affinché esso arrivi a spostare il pendolo verso il centro equilibratore temperando e regolando il moto iniziale… ma nessuna confusione di dottrina, nessuna possibilità di svuotamento o di sostituzione.
P. 379

La direzione del partito si limitò pertanto a prendere atto della decisione del gruppo parlamentare, il cui presidente De Gaspari, si incontrò alcuni giorni dopo con Mussolini e, avutone assicurazione che non sarebbe stato abolito il sistema proporzionale, gli espresse che in tal caso l’accordo non sarebeb stato difficile.
P. 379

Cap. 5. Prime esperienze di governo: i rapporti col fascismo e con le altre forze politiche

SI doveva appoggiare il nuovo ministero: “certo  le cose politiche e specialmente parlamentari non potevano continuare senza portare il paese alla rovina”; “la maledetta legge elettorale [proporzionale] aveva frazionato la Camera in modo da rendere impossibile un governo omogeneo, forte, capace di avere e di attuare un programma”. Sarebbe riuscito il nuovo ordine di cose? Giolitti lo sperava: il nuovo governo aveva “la forza di volontà, così rara in Italia” e “intanto è certo che ha tratto il paese dal fosso in cui finiva di imputridire”. Né le cose stavano in maniera molto diversa per Amendola o per Nitti. Per Amendola “la legaità ha subito un oltraggio irreparabile, che nessuna finalità, nessuna considerazione di circostanze può giustificare, e di cui sentiranno il danno coloro stessi che, giunti al potere, hanno il debito di  restaurare lo stato e trovano  lo stato indebolito dal colpo di ieri.
P. 393

Citazione da Turati:
Ciò che deve premerci come partito e come cittadini italiani è precisamente il ritorno graduale alla vita normale, cioè l’assorbimento del fascismo nella normalità della convivenza sociale. Ora, nessuno può negare che, se vi sia, fosse pure non istantanea, possibilità di poter ottenere la pacificazione, nessuno avrebbe potuto raggiungerla se non Mussolini. Solo per questo fatto bisogna  lasciar del tempo al tempo, senza molestarlo con punzecchiature inutili. Bisogna che egli possa percorrere tutta la sua parabola, dovesse rimanere anche un paio di anni al potere, perché, se dovesse cadere per una congiura di qualsiasi genere, e riprendere di nuovo i metodi della guerriglia civile, gli si darebbe buon gioco di riversarne la responsabilità sui suoi faziosi avversari. In tali condizioni non c’è che da opporre idee a idee, programmi a programmi, non rafforzare il fascismo con blocchi sinistri di qualsiasi genere, perché la vittoria di un blocco sovversivo fomenterebbe la violenza fascista e li stimolerebbe alla conservazione delle loro milizie armate. Insomma, la linea media è di tenere alta la bandiera del socialismo, ma evitare in tutto i modi, pe rora, la caduta prematura di Mussolini, come pure le vittorie artificiose nelle elezioni amministrative.
P. 394

Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi / S. B. Clough. – Bologna, 1965

Eppure nonostante questi successi, nel corso del 1923 e dei primi mesi del 1924, le la posizione personale di Mussolini si andò rafforzando nel paese, il prestigio del suo governo decadde progressivamente e – fatto anche più importante e macroscopico – si venne producendo una situazione che a prima vista potrebbe sembrare paradossalmente contraddittoria: le incertezze, le diffidenze, i timori verso il fascismo si trasformarono in sempre più netta avversione verso il fascismo stesso e il PNF invece di rafforzarsi si indebolì sino ad entrare in aperta crisi, diventando la palla al piede di Mussolini e del governo; una palla al piede che minacciava di far colare a picco entrambi e che essi non riuscivano né a controllare efficacemente né – se ne vedranno le ragioni – a liberarsene. Sicché, già a meno di un anno dall’assunzione al potere, persino tra i fascisti non sarebbero mancati coloro che, preoccupati da questo stato di cose, l’avrebbero denunciato come la pià pericolosa minaccia per l’avvenire della stessa “rivoluzione fascista”.
P. 401

E questo che abbiamo sin qui delineato non era che un particolare aspetto della realtà fascista post “marcia su Roma”, quello più propriamente inerente al “vecchio” fascismo, il fascismo delle squadre d’azione del 21-22 e della marcia. Ma con la vittoria dell’ottobre, con l’andata di Mussolini al potere un “nuovo” fascismo si venne affiancando al vecchio, mutando rapidamente il volto del PNF e gettando le basi di quella sua radicale trasformazione che, nel giro di pochi anni, ne avrebbe fatto tutto un altro partito, sia come militanti di base, sia come quadri intermedi e, talvolta, anche superiori.
P. 407

Citazione da Lumbroso
Dopo la marcia su Roma sembrava logico che si dovessero chiudere le iscrizioni o per lo meno che la tessera venisse concessa solo a qualche cittadino benemerito del paese… viceversa, si spalancarono le porte alla folla degli arrivisti e degli affaristi. Secondo la situazione locale, secondo il tatto e l’intuito dei segretari politici, la marea dei nuovi iscritti fu più o meno invadente, ma in complesso, la piaga fu comune a tutti i fasci d’Italia. Ormai ogni traccia di rischio era scomparsa: la tessere assicurava ai fascisti una situazione di privilegio rispetto agli altri cittadini e il regime di soprusi eretto a sistema da molti individui che consideravano la violenza come fine a se stessa, invitava anche i meno entusiasti a entrare nel partito dominante per garantirsi la sicurezza personale e il quieto vivere.
Nel gennaio del 1923, un ordine della direzione del partito imponeva di sospendere le nuove iscrizioni; ma per la maggior parte dei fasci questa disposizione rimase lettera morta. E le cosiddette tessere ad honorem invece di venir concesse con cautela e parsimonia, furono distribuite a dritta e a manca secondo il capriccio dei dirigenti locali e così avvenne che talvolta si dichiararono benemeriti del fascismo dei vecchi arnesi della politica che avevano mutato di bandiera come di camicia, dei pescecani che durante la guerra si erano arricchiti colle speculazioni più losche, dei prefetti che sotto il governo di Nitti avevano spinto lo zelo sino a prostituire l’autorità dello stato di fronte ai demagoghi rossi… Quegli arrivisti della seconda ora che sin dall’autunno del 1921 si erano annidati nelle file  del fascismo, si moltiplicarono come per incanto; e insieme agli arrivisti, ai girella e ai rabagas, una caterva di individui screditati notoriamente per la loro immoralità, falliti, biscazzieri, mezzani, disertori, insomma autentiche canaglie di cui qualche esemplare si era già insinuato nelle file della vigilia, ma che allora per lo meno rischiava la pelle er era sempre il primo in ogni cimento – mentre la marmaglia piovuta nel partito dopo la marcia su Roma, ostentava la tessera unicamente per rifarsi una verginità politica e privata.
P. 408

Citazione dal Di Tarsia:
In sostanza in Basilicata non ha mai esistito e non esiste, né fascismo, né nazionalismo. Là dove un sindaco, un amministratore comunale è appoggiato da persone appartenenti alle antiche clientele camuffate da nazionalisti, là sorge il fascismo o meglio le altre clientele di opposizione si vestono da fascisti e sorge la sezione fascista. Non si tratta che di nuove vesti apparenti, delle quali si coprono i nuovi partiti, nei quali entrano anche le antiche leghe rosse, cui i tempi non permettono di vivere, se non così coperte delle divise dei nuovi ideali.
P. 411

Le conseguenze di questa situazione, che raggiunse il suo acme verso la fine del ’23 e che più di un aspetto avrebbe influito sulla successiva crisi del ’24, debbono essere viste e valutate a diversi livelli e sotto diversi profili: sotto quello politico interno del fascismo, sotto quello dei rapporti tra governo e partito, sotto quello politico generale (dell’opinione pubblica cioè) e sotto quello delle ripercussioni all’interno della compagine governativa (dei rapporti cioè tra Mussolini e i partiti che concorrevano a formare la maggioranza parlamentare e avevano propri uomini nel governo). Solo tenendo sempre presenti questi quattro livelli è possibile capire il significato determinante che ebbero le vicende del 23-24 agli effetti sia della successiva fisionomia del fascismo, sia della posizione di Mussolini, sia, più in genere, della realtà politica e sociale italiana.
P. 412

La dissidenza fascista dalla fine del ’22 e dai primi mesi del 23 assunse soprattutto due forme: una dissidenza elementare ed endemica, e una dissidenza più propriamente politica tra vecchi e nuovi fascisti, tra “rinnovatori” e “rivoluzionari” da una parte e “opportunisti dell’ultima ora” dall’altra parte.
P. 413

Come si vedrà a suo luogo, chi in occasione della crisi Matteotti avrebbe deciso le sorti del fascismo sarebbero stati in gran parte proprio questi fascisti; nei primi mesi dopo la marcia su Roma essi non furono però l’elemento caratterizzante del fascismo. Questo elemento fu costituito piuttosto  dal più plateale ed istintivo dissidentismo della gran maggioranza degli altri fasci.
P. 415

In questo senso l’istituzione del gran Consiglio conseguì l’obbiettivo propostosi da Mussolini. Sul piano dell’effettiva direzione del partito aggravò però la situazione: il Gran Consiglio poteva decidere la linea politica, non disponeva però di strumenti propri per attuarla: la segreteria politica del partito aveva in teoria il compito di attuare la linea politica stabilita dal Gran Consiglio, ma in pratica mancava e dell’autorità e degli strumenti per farlo.
P. 418

Questi strumenti furono la creazione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN) e la valorizzazione, in funzione di controllo sul partito, dell’autorità dello Stato. Due scelte politiche entrambe gravide di conseguenze: la prima per lo scontento e l’antagonismo suscitò nelle forze armate; la seconda perché alla lunga avrebbe svirilizzato politicamente il partito, privandolo delle sue funzioni sostanziali e trasformandolo in un pletorico organismo, privo di effettiva capacità politica, grandiosa facciata di un edificio senza fondamenta e le cui porte erano controllate da un apparato statale che di fascista – lo si sarebbe visto il 25 luglio 1943 – aveva poco più che una patina superficiale e di comodo. Due scelte, peraltro, che sul momenti permisero a Mussolini di controllare la situazione e che – non va sottovalutato – corrispondevano bene alla sua psicologia politica e al suo sempre più netto desiderio, dopo lo scacco del patto di pacificazione e dopo la rischiosa ma necessaria avventura della marcia su Roma, di evitare gli scontri frontali e le decisioni irreversibili e di dare la preferenza invece alle soluzioni graduali, tattiche e di compromesso.
P. 431

Da un lato di trattava di non privarsi della propria forza armata, di legalizzarla e di renderla stabile mentre venivano resi illegali tutti gli altri corpi armati di parte. Da un altro lato si trattava di imbrigliare lo squadrismo: la costituzione della milizia avrebbe dovuto portare allo scioglimento delle squadre e permettere una prima selezione che eliminasse i delinquenti abituali e gli elementi più irrequieti, nonché un maggior controllo sulle armi in possesso degli squadristi.
P. 432

Se la si vede in entrambe queste prospettive, si comprende perché la costituzione della MSVN fu accettata dal re – che pure non gradiva certo la costituzione di un corpo armato completamente al di fuori, anche formalmente, della sua autorità e che in quegli stessi giorni, come si vedrà, respingeva altre richieste di Mussolini non certo più impegnative per la monarchia – e non trovò l’opposizione che qualcuno si sarebbe potuto attendere né in sede governativa né a livello politico, sia tra i collaboratori di Mussolini sia tra gli oppositori. Come giustamente ha rilevato l’Aquarone infatti:
“la decisione del Gran Consiglio, subito sanzionata dal governo, di creare la milizia suscitò naturalmente diffidenze a apprensioni, sia tra le forze di opposizione che tra i fiancheggiatori del fascismo; nel complesso, tuttavia, le reazioni furono moderate e caute, si potrebbe dire addirittura blande, quasi che all’inizio pochi si rendessero conto della gravità della misura e delle sue conseguenze per l’avvenire”.
P. 433

Come Mussolini scrisse su Gerarchia del gennaio 1923 il fascismo non poteva che “armonizzare il vecchio col nuovo”, lo Stato col fascismo. Il potere fascista doveva dunque articolarsi su due piani, quello del partito e quello dello Stato e tra i due quello che, in ultima analisi, doveva di fatto prevalere  era questo e non quello, dato che solo l’apparato burocratico dello Stato, accettato dal fascismo e da lui valorizzato in maniera che esso potesse a sua volta accettare la guida politica del fascismo vedendo in esso lo strumento che gli dava la possibilità di realizzare la propria funzione (da qui nasceranno le figure dei grands commis dello stato fascista, i D’Amelio, i Beneduce), poteva valorizzare la figura di Mussolini sino a farne il simbolo dello Stato stesso, simbolo da cui questo emanava e trovava giustificazione politica (è sintomatico che proprio in questo periodo Mussolini e i mussoliniani cominciassero a parlare e ad abbozzare la figura del “capo del governo” e cercassero di sostituirla a quella classica del “presidente del consiglio); e ciò mentre non mancavano i sintomi di un progressivo sbiadimento della figura di Mussolini come capo del partito fascista (alla quale – anche questo è un indizio significativo – Mussolini cercava a sua volta di sostituire quella meno determinata ma più onnicomprensiva del “duce del fascismo”, nella quale il termine fascismo assumeva un significato più ampio, patriottico-nazionale e non meramente partitico). In questa prospettiva la valorizzazione dell’autorità statale in funzione dell’imbrigliamento del dissidentismo e dell’indisciplina fascisti ebbe nel 1923 per Mussolini un significato politico che andava oltre le necessità pratiche del momento e che anticipava scelte politiche che – in genere – vengono poste da vari studiosi tre-quattro anni dopo.
P. 439

Con la fine del luglio 1923, approvata dalla camera la nuova legge elettorale, la questione più importante per mussolini era ormai quella delle elezioni politiche. Nonostante la nuova legge, questa scadenza non era però senza rischi. Non che Mussolini fosse deciso ad uniformarsi, qualunque esso fosse, al responso delle urne; se questo fosse stato negativo avrebbe sempre potuto non tenerne conto. Una simile eventualità era però satura di pericoli, non essendo affatto pacifico che, in caso di una sconfitta elettorale, le forze che nell’ottobre precedente erano venute con lui ad un compromesso si prestassero a dargli la loro fiducia una seconda volta, in un clima politico del tutto diverso. Tanto più  che sull’onda della crescente insofferenza popolare per il fascismo, specialmente nel sud d’Italia, si andava delineando  un risveglio monarchico che, per ora, non andava oltre a manifestazioni confuse e spontanee (il movimento del soldino), ma che, se avesse preso piede, avrebbe potuto dare nuova energia e autonomia alla monarchia, ai partiti di destra e, forse, agli stessi nazionalisti (che nel PNF continuavano ad agire come una forza con proprie caratterizzazioni). In una simile situazione era necessario stroncare le speranze di coloro che cominciavano a pensare che le vicende interne del fascismo dimostrassero la non irreversibilità della svolta dell’ottobre precedente e la possibilità di una dissoluzione del fascismo in quanto partito e assicurare invece alla politica di Mussolini nuovi consensi. Da qui un atteggiamento più aperto verso le forze costituzionali, liberali soprattutto, verso i combattenti e verso la Santa Sede (in modo da dividere i cattolici, se possibile persino verso certi settori del movimento operaio e contadino riformista.
P. 457-58

Entrambi questi giudizi rimangono però, in quanto a validità, ancora molto al di sotto di quello, famosissimo, dato da Gobetti nelle ultime pagine della sua Rivoluzione liberale. Gli elementi essenziali sono qui in gran parte gli stessi; essi sono più approfonditi e articolati e la prospettiva nella quale sono collocati è molto più ampia e concretamente politica; rispetto a Salandra e a Bonomi, Gobetti non solo coglie meglio alcuni aspetti della psicologia di Mussolini (coerenza e contraddizioni sono in Mussolini due diversi aspetti di una mentalità politica che non può liberarsi dai vecchi schemi di un moralismo troppo disprezzato per poter essere veramente sostituito. Egli rimane perciò diviso e indeciso tra momenti di una coerenza troppo dogmatica per non riuscire goffa e sfoghi di esuberanza anarchicamente ingiustificati), ma coglie per primo alcune caratteristiche di fondo della politica mussoliniana, in primo luogo il suo tatticismo e il suo trasformismo (la sua vittoria, tra il disorientamento degli altri, si spiega esaurientemente pensando alle sue qualità risolutive di tattico… Il trasformismo giolittiano è stato ripreso con più decisi espedienti teatrali e le doti del politico si riducono tutte ad astuzie di manovra e calcoli tattici, indici di un’arte affatto umanistica e militare… La lotta politica in regime mussoliniano non è facile: non è facile resistergli perché egli non resta fermo a nessuna coerenza, a nessuna posizione, a nessuna distinzione precisa ma è pronto sempre a tutti i trasformismi) e in secondo luogo la sostanziale mancanza di sicurezza dell’uomo politico Mussolini (Non comprende la storia se non per miti, gli sfugge la finezza critica dell’attività creativa che è dote centrale del gran politico. La sua professione di relativismo non riuscì neppure a sembrare un’agile mistificazione: troppo dominante vi avvertì ognuno la sconcertata ricerca ingenua di un riparo che eludesse l’infantile incertezza e coprisse le malefatte).
P. 463

Affermava Gramsci in un noto articolo…Mussolini non era un capo. Pensare altrimenti vorrebbe dire cha con la marcia su Roma Mussolini avesse fatto una rivoluzione e nulla sarebbe storicamente meno vero.
P. 464

Dal punto di vista individuale, della sua personalità, Mussolini non fu un capo per almeno tre ordini di motivi dai quali discendevano tutti i suoi limiti, umani e politici. Il primo di questo motivi è che non aveva un’idea precisa, che gli fosse moralmente di sostegno e di guida nell’azione, degli obbiettivi finali alla realizzazione dei quali doveva tendere questa sua azione; mancandogli questa idea precisa, questa intima moralità, la grandezza e il bene dell’Italia finivano per ridursi all’esercizio del potere, inevitabilmente inteso come potere personale; sicché il proprio successo personale finiva necessariamente per diventare per lui il successo della nazione, senza per altro tener conto – se non in forme paternalistiche e contingenti – della impossibilità di far coincidere l’esistenza e l’avvenire di un intero popolo con quelli di un uomo solo, di un uomo che, per di più, operava sostanzialmente solo sull’oggi, senza preoccupazioni per il domani. E a ciò si aggiungeva (secondo motivo) una sempre più netta fiducia (alla cui origine erano certo le delusioni che il suo prestigio di leader aveva subito nel ’14, nel ’21 e stava subendo nel ’23-’24 per l’incomprensione, il tradimento e l’indisciplina dei suoi seguaci) nell’incapacità degli uomini – singolarmente e come collettività – a sacrificarsi per la grande causa di uno stato forte e rispettato nel mondo. In un secondo tempo questa sfiducia avrebbe finito per toccare più di una volta le punte del disprezzo. Nel 1923-24 essa era già divenuta però una componente importante della psicologia mussoliniana. Ce lo dimostra il Preludio al Machiavelli dell’aprile 1924 nel quale è possibile trovare affermazioni come questa:
Di tempo ne è passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non poteri in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe… Mentre gli individui rendono, sospinti dai loro egoismi, all’egoismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende ad evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi e a non pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro - eroi o santi – che sacrificano il proprio io sull’altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo stato.
P. 465-466

Citazione dal Giuriati:
Un posto di comando non può essere tenuto senza valersi dell’opera altrui, cioè di quegli agenti in sottordine a cui sia affidata l’attuazione dei disegni e delle decisioni alle quali non possa attendere il capo. Il numero di cotesti tramiti essenziali è naturalmente proporzionato alla importanza ed alla complessità del compito da assolvere… un capo di governo, specialmente di un governo rivoluzionario, dovrà ricorrere all’opera di moltissimi: ministri, governatori, ambasciatori, generali, giudici, prefetti.
Appena occorre accennare che, se il primo ministro di  un qualsiasi governo liberale-democratico è tenuto a rispondere dei suoi collaboratori, sebbene la scelta gli sia talora imposta da necessità politiche, o parlamentari, tanto più ne dovrà rispondere il dittatore, la cui libertà di scelta non soffre limitazioni di sorta. Possiamo quindi concludere che n uomo di governo in genere e un dittatore in modo particolarissimo, tanto valgono quanto più sappiano scegliersi i collaboratori.
P. 467

Dominato dalla sfiducia e dalla diffidenza verso gli altri e alla ricerca di collaboratori che fossero soprattutto degli esecutori, Mussolini – personalmente uomo estremamente disinteressato – finì così non solo per circondarsi di mediocri ma anche per convincersi che gli onesti fossero incapaci e i capaci disonesti e, quindi, per non utilizzare gli onesti e chiudere un occhio sulla disonestà di coloro che si mostravano collaboratori “efficienti”, cioè meri esecutori.
P. 469

Riconoscere queste cause, esterne in gran parte alla volontà di Mussolini e del governo, non vale però a diminuire la responsabilità politica di Mussolini per non essere intervenuto -  come alcuni membri del governo avrebbero voluto – per impedire il cristalizzarsi di una simile situazione. E se più di una furono, a loro volta, le cause di questo mancato intervento di Mussolini (non ultimo il desiderio di fare breccia nel mondo economico italiano ancora cauto nell’impegnarsi a fondo per lui), crediamo però che una di queste cause – e delle più forti – fu proprio il suo scetticismo sulla natura umana e la convinzione che la capacità, l’efficienza non andassero in una moderna società quasi mai disgiunte dall’interessa personale e che quindi, per ottenere certi risultati politici, fosse giuocoforza chiudere un occhio su certe umane debolezze.
P. 469

Citazione da Colonna di Cesarò:
Per quanto siano deplorevoli i suoi metodi e miserevole la concezione che egli ha del mondo e dei suoi abitanti e della loro dignità, pure v’ha in lui un sogno di grandezza che, se anche è di ordine veramente personale e si confonde con l’ambizione, non può tuttavia realizzarsi che attraverso un’opera che renda grande la nazione stessa, l’Italia. Ma si va realizzando quest’opera? Ed è Mussolini uomo, che può chiamarsi veramente grande? Capace di mantenere la visione del proprio avvenire perennemente subordinata a quella dell’avvenire del suo paese?
Purtroppo alle tante doti di cui natura egli fu larga, manca la virtù principale, essenziale: la fiducia nella verità, nella giustizia, nella forza che è in ogni cosa buona per il solo fatto che è buona. E di questa virtù Mussolini manca, perché non è forte egli stesso: non può infatti chiamarsi forte il capo di un governo, che non affronta gli uomini, ma li distrugge con l’insidia, con la compromissione, con l’inganno alla loro buona fede, e non affronta nemmeno le situazioni, perché si sforza di superarle con manovre avvolgenti. Non ha fede negli uomini; non ha fede nella nazione; non ha fede nella via del bene; tutto per lui si riduce dunque a macchinazione politica, a gioco di abilità, a ginnastica d’astuzia, a maneggio di minacce e di esecuzioni. La meta può essere anche bella, ma manca ad essa ogni contenuto etico.
P. 475

Il fascismo per altro non aveva una propria chiave alternativa a questo Stato e i suoi capi più responsabili, in primo luogo Mussolini, davano alla loro avversione solo il valore di una richiesta di maggior autorità dell’esecutivo e, se mai ( e meno esplicitamente), di una riforma tecnica del legislativo pe renderlo più consono alle esigenze di una moderna società pluralistica quale si avviava a diventare quella italiana (esigenza questa che non pochi liberali accettavano anch’essi), senza mettere in discussione le fondamenta dell’assetto costituzionale e in particolare il sistema parlamentare. Oltre a ciò, se il fascismo non era andato al potere per la via parlamentare, vi era pur tuttavia andato per quella costituzionale; il governo Mussolini era un governo di coalizione, i cui atti non potevano certo definirsi liberticidi; e, soprattutto, al disopra del governo vi era il re, il re liberale e anzi democratico – per dirla col Croce – che non avrebbe mai permesso che fossero distrutte o sminuite le istituzioni liberali, e che… a ogni modo aveva nelle mani la chiave della situazione, ed era il capo delle forze armate, dell’esercito e della marina, a lui fedeli.
P. 477-78

La sua diffidenza e il suo gusto per l’intrigo politico gli facevano anzi temere che qualche brutta sorpresa si potesse verificare addirittura sin dai primissimi giorni, in occasione del voto di fiducia. Al punto che il 15 novembre pomeriggio, alla vigilia del presentarsi alla Camera, pur avendo il giorno prima ottenuto dal consiglio dei ministri l’approvazione del discorso con il quale avrebbe esposto il programma del governo, cercò di ottenere dal re un decreto di scioglimento in bianco dalla camera stessa, in modo da presentarvisi in una posizione di maggior forza. Ma invano. Vittorio Emanuele glielo negò, affermando “che tale procedura era stata raramente usata e nei soli casi in cui il governo avesse in corso l’esecuzione di un programma importante che non si poteva interrompere senza grave pregiudizio. Per un governo nuovo, un decreto di scioglimento in bianco avrebbe esposto la corona in una misura eccessiva, in quanto avrebbe fatto pensare che il sovrano volesse in ogni caso imporre il governo fascista al parlamento, il che non rispondeva alla realtà”. E si oppose anche, pochi giorni dopo, alla inclusione della legge elettorale nella materia delegata al governo dalla legge sui pieni poteri.
P. 480-81

Citazione da Mussolini:
Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il fascismo.
Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli; potevo sprangare il parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto
P. 482

Quanto alla seconda affermazione, essa fu tanto fine e discreta quanto la prima era stata pesante e grossolana. “Tutte le fedi religiose – disse quasi en passant – saranno rispettate, con particolare riguardo a quella dominante che è il cattolicesimo” e, concludendo, il discorso, se ne uscì con una invocazione, con un augurio che sulle sue labbra non poteva certo essere spuntata per caso e che fu intesa da chi Mussolini voleva fosse intesa in tutto il suo significato: “Così – concluse il discorso – Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica”. Se svilaneggiando il parlamento aveva voluto intimorire eventuali recalcitranti all’interno della maggioranza con questa seconda affermazione Mussolini si spinse politicamente anche oltre. L’elemento meno sicuro della maggioranza erano certo per Mussolini i popolari; col suo accenno al cattolicesimo come religione “dominante” e con la sua invocazione finale, che lasciavano intendere la buona disposizione a stabilire nuovi e diversi rapporti con la Santa Sede, egli iniziò in pratica lo scalzamento del Partito popolare.
P. 483

Da un altro lato ancora la convinzione dei liberali che all’origine della crisi dello stato liberale fosse stata l’introduzione del sistema proporzionale e che, quindi, fosse necessario riformare il sistema elettorale. Questa convinzione era a Mussolini utilissima; far si che essa fosse tradotta in pratica (specie dopo che fu chiaro che Vittorio Emanuele non era disposto ad assumersi la responsabilità di una modifica extraparlamentare della legge elettorale) voleva dire per lui aver gettato le basi della stabilizzazione del suo potere: da un ritorno al collegio uninominale o, peggio, da una correzione in senso maggioritario del sistema proporzionale chi infatti avrebbe tratto il maggior utile sarebbe stato il fascismo; in entrambi i casi avrebbe voluto dire stabilire delle alleanze o dei blocchi dei quali si sarebbero avvantaggiati soprattutto i candidati fascisti, mentre i deputati uscenti, pur di essere rieletti, avrebbero in gran parte sentito inevitabilmente la suggestione di tornare alla camera come “squadristi dei blocchi nazionali”.
P. 484

Più rigido Sturzo, più duttilmente politico De Gasperi, il congresso finì per fare propria la loro posizione unitaria e si concluse con l’approvazione di due loro o.d.g. che così possono essere sintetizzati:
a) riaffermazione del programma popolare, dell’autonomia del partito e delle ragioni della sua esistenza unitaria
b) approvazione della partecipazione al governo Mussolini “come apprezzabile concorso perché la rivoluzione fascista si inserisca nella costituzione” e per rendere più efficace la restaurazione politica, finanziaria e morale dell’Italia e a pacificazione sociale e la disciplina nazionale
c) impegno a difendere la proporzionale e a vigilare “affinché il partito… mantenga integra la sua autonomia e nettamente distinta da ogni confusione e compromissione con altri partiti la sua figura elettorale politica”.
P. 487

Citazione da Santucci:
Sui primi di gennaio un segretario particolare dell’on. Mussolini pel tramite di un comune o fidato amico mi fece sapere che egli avrebbe desiderato un privatissimo colloquio con S. E. Gasparri, possibilmente in casa mia per la comodità dei due ingressi che aveva il mio appartamento al palazzo Guglielmi uno da via del Gesù 56 e l’altro da Piazza della Pigna 6. Il colloquio ebbe luogo nell’ultima metà del gennaio, naturalmente a quattr’occhi fra i due personaggi. Durò a lungo: all’uscita l’on. Mussolini molto silenzioso e frettoloso traversò l’anticamera infilando lo scalone da parte di via del Gesù, il Card. Uscì uscì da piazza della Pigna e mi disse uscendo: sono molto soddisfatto del colloquio; è un uomo di prim’ordine:: siamo intesi che per ora non convenga affrontare in pieno la questione romana, e basterà per un tempo più o meno lungo rendere più riguardosi e benevoli i rapporti tra il Vaticano e il governo italiano.
P. 495

Tutti questi fatti – come si è visto – erano venuti maturando contemporaneamente all’evolversi dei rapporti tra Mussolini e il partito popolare; per i partiti che partecipavano al governo la rottura della collaborazione governativa con i popolari era stata seguita anzi a distanza di pochi giorni da due prese di posizione di Mussolini che, per il momento in cui avvennero e per il loro tono, solo apparentemente conciliante ed in effetti tendente ad imporre una collaborazione ancora più organica, denotavano come Mussolini ritenesse ormai giunto il momento di raccogliere i frutti di sei mesi di governo. Checché gli avesse suggerito Pareto nei già ricordati Pochi “punti” di un futuro ordinamento costituzionale (“La presente camera è ottima per il fascismo, sarà rimpianta quando ne verrà un’altra: Non può mal fare: ed è già molto. E’ impotente, perché scissa in gruppi e gruppetti? Di che vi lagnate?...All’impotenza della camera, sostituite la potenza di una elite”), per Mussolini continuare a governare con la camera del ’21 era impossibile. Avrebbe voluto dire accettare una situazione di inferiorità morale e politica contraria al suo carattere e ai suoi progetti ed esporsi a tutta una serie di rischi, in primo luogo quello di un ulteriore peggioramento dei suoi rapporti don l’intransigentismo fascista. Un rischio che era in pratica una certezza e che, alla lunga, non poteva non avere come conseguenza un mutamento d’atteggiamento dell’opinione pubblica verso di lui. Da qui la necessità di cogliere subito il primo frutto del logoramento delle altre forze politiche verificatosi in quei sei mesi: modificare la legge elettorale e fare nuove elezioni che gli assicurassero una propria maggioranza e lo mettessero al riparo (anche rispetto alla corona) da possibili mutamenti dell’opinione pubblica (dei quali, per quanto indeboliti, gli altri partiti politici avrebbero potuto non tener conto).
P. 517

Cap. 6. La legge maggioritaria e le elezioni politiche del 1924
Citazione da Bianchi:
Per quanto riguarda la lege elettorale i termini sarebbero questi: sistema maggioritario con due terzi dei posti alla lista che avrà la maggioranza e rappresentanza proporzionale alle altre liste per il restante terzo dei posti. La lista dunque che in confronto delle altre otterrà la maggioranza anche relativa, varerà tutti i suoi candidati. Il resto degli altri mandati sarà proporzionalmente suddiviso fra le altre liste… Le circoscrizioni saranno allargate alle regioni e ciò per dare modo alle varie liste di minoranza di avere ciascuna la propria rappresentanza. Se invece la circoscrizione fosse ristretta alle provincie, potrebbe verificarsi il caso che solo una lista di minoranza avesse la sua rappresentanza e le altre venissero escluse.
…..
Michele Bianchi aveva preso ad allargare i termini del discorso, accennando alla necessità di abbinare la riforma del sistema elettorale alla riforma costituzionale.
…..
Altra citazione da Bianchi:
Anzi tutto – con ritorno al precedente sistema elettorale – la selezione dei candidati oltre che essere opera del partito, lo sarebbe altresì del corpo elettorale, la cui fiducia nell’eletto verrebbe alimentata dalla conoscenza personale, che esso ne avrebbe, oltre che da quella del partito, e della valutazione diretta delle sue qualità: duplice garanzia questa per possedere la certezza obbiettiva che realmente egli è l’espressione della volontà popolare e della nostra fede politica.
Avremmo perciò il deputato che rappresenterebbe bell’assemblea nazionale la coscienza fascista del corpo elettorale e nel proprio collegio il pensiero del governo e del partito fascista e in tal guisa che il deputato sarebbe il trait d’union tra popolazione, partito, parlamento.
Inoltre il deputato, il quale sa di avere la sua base politica nel collegio che lo ha eletto, non solo spiegherà la sua più intensa attività a favore di esso ma, date le esigenze politiche di una massa educata dal fascismo, si sentirà in dovere di essere pari all’altezza del mandato, dei tempi e del partito stesso.
Infine ho la piena certezza che solo con questo ritorno al collegio uninominale sarà possibile formare quella maggioranza di governo che è necessaria, perché il fascismo al potere possa degnamente, completamente assolvere la sua alta missione, nel supremo interesse, non di un partito, ma della nazione.
Il progetto Bianchi – circa l’allargamento della circoscrizione elettorale – credilo non è consigliabile, perché non è adatto alle condizioni politiche nostre.
Troppe sono ancora le differenze tra regione e regione, provincia e provincia, perché esse siano ridotte al comune denominatore di una unità di coscienza politica mediante una riforma politica elettorale.
Come si fa, ad esempio, amalgamare Mantova, Cremona, Pavia con Bergamo, Brescia, Sondrio, date le differenze economiche e spirituali di queste provincie tanto e sì profondamente diverse l’una dall’altra?
Non si eviterebbero gli svantaggi più ipotetici che reali delle circoscrizioni ristrette e non si conseguirebbe alcun rilevante beneficio, data ripeto, la immaturità politica di molte delle nostre popolazioni.
P. 520-22

Il giorno dopo Mussolini si incontrava anche con De Gasperi; la notizia di questo colloquio era la prova migliore che la riforma si avviava armai decisamente sulla via della realizzazione. Il 4 giugno, infatti, lo schema di disegno di legge era pronto e Mussolini lo approvava a Venezia, durante un giro di propaganda nel Veneto.
P. 524

In questa situazione De Gasperi aveva accettato di discutere un “temperamento” della proporzionale sulla base della concessione alla lista di maggioranza dei tre quinti dei seggi, mentre se avesse raggiunto meno del quaranta o più del sessanta per cento si sarebbe dovuta applicare la proporzionale pure.
P. 526

Ma questa volta – come ha scritto il De rosa in Storia del movimento cattolico – transfughi del Partito popolare, stampa fascista e nazionalista, che vantavasi di aver lavorato a “risolvere ogni superstite contrasto fra i doveri del cittadino e del cattolico”, e conservatori nazionali condussero una campagna concentrica di pressioni sul Partito popolare e di ricatti sulle autorità ecclesiastiche per ottenere l’allontanamento di Luigi Sturzo. E alla fine ci riuscirono.
P. 527

Le tappe fondamentali del sacrificio di Sturzo sono note. Il 25 giugno apparve sul Corriere d’Italia, uno dei più autorevoli organi di stampa cattolici, un articolo di mons. Pucci in cui Sturzo era invitato s “non creare impicci” all’autorità ecclesiastica e a non imporle responsabilità. L’articolo suscitò – come è facilmente immaginabile – la più viva impressione: era chiaro che Mussolini voleva la fine politica di Sturzo e che in campo cattolico si era ormai disposti a cedere. De Gasperi, in una intervista al Corriere della Sera, cercò abilmente di parare il colpo, provocando però una precisazione di mons. Pucci che non lasciava adito a molti dubbi e che non venne smentita dal Vaticano: egli – scrisse – non aveva parlato a nome della Santa Sede, era però ingenuo credere che egli avesse potuto trattare un argomento così delicato senza ritenere di rispecchiare l’opinione della Santa sede stessa. Due giorni dopo questa seconda presa di posizione di mons. Pucci un nutrito gruppo di cattolici nazionali, fra i quali figuravano (come l’Agenzia Volta si affrettò a rilevare) numerosi dignitari della corte pontificia, pubblicava un manifesto di completo consenso al governo Mussolini e di approvazione della legge elettorale. A questo punto la posizione di Sturzo divenne insostenibile: o entrava in aperto contrasto con la Santa Sede o accettava di non crearle “impicci”. E il prete siciliano scelse la seconda alternativa: il 10 luglio, lo stesso giorno in cui la legge Acerbo, approvata dalla commissione dei diciotto, cominciava a essere discussa dalla Camera, presentò le sue dimissioni da segretario politico del Partito popolare.
P. 530

Citazione da Turati:
La sentenza vostra siete chiamati a segnarla colle vostre mani. Oggi deciderete – oggi o non più – se voi sarete quella forza [nuova], o se vi contentate di rimanere una pedina abilmente giuocante e giuocata su questa miserabile scacchiera parlamentare. Sarete voi i nostri alleati di domani non lontano, o dovremo noi raccogliere, sulle nostre modeste spalle, anche codesta eredità? Questo è oggi il dilemma della politica italiana. Oggi, domani, posdomani. Meditate su queste mie parole.
….
Per i popolari parlarono Gronchi e Cappa. Il primo (uno dei tre uomini politici ai quale era stata affidata collegialmente la direzione del partito dopo le dimissioni di Sturzo), intervenendo già il giorno 10, rilanciò il compromesso prospettato da De Gasperi a Mussolini sin dal 19 maggio; se Mussolini non lo avesse accettato il gruppo parlamentare popolare non avrebbe potuto accettare la riforma. Sulla base di questa dichiarazione, non avendo i fascisti accettato di modificare il disegno di legge e avendo il governo deciso l’11.12 luglio di approntare una serie di misure per la limitazione e il controllo della libertà di stampa, il gruppo parlamentare popolare, poche ore prima della replica di Mussolini agli interventi nel dibattito, decise di votare la fiducia al governo, ma di negare i propri voti al disegno di legge sulla riforma elettorale. Quando Mussolini prese la parola alla Camera sembrava dunque che la sorte della legge Acerbo fosse segnata: con l’opposizione dei popolari essa sarebbe stata certo respinta.
P. 531-32

La giornata del 15 luglio era destinata infatti ad avere per il PPI conseguenze ben più gravi, tali da giustificare il giudizio che di essa avrebbe dato una decina di giorni dopo al Civiltà cattolica: “una specie di Caporetto” dietro la quale non era chiaro se i popolari avrebbero trovato il loro “Piave”. Ripresa la seduta, De Gasperi dichiarò che i popolari avrebbero votato la fiducia al governo, ma si sarebbero astenuti dal voto di approvazione dei principi generali della riforma elettorale e per il passaggio alla discussione degli articoli. Ma a questo punto si ebbe un altro colpo di scena: l’on. Vassallo dichiarò che non si poteva dare al governo una fiducia a metà e annunciò che avrebbe votato a favore anche della legge Acerbo; l’on. Merizzi dichiarò a sua volta che invece avrebbe votato contro; infine l’on. Cavazzoni, a nome anche di “alcuni amici”, si levò anche lui per annunciare che avrebbe votato a favore, pur non rinunciando a volere “in sede di discussione degli articoli” portare il contributo della sua “fede alla proporzionale, anche se in questo momento possa sembrare fuori della realtà politica”. Colto di sorpresa da queste inattese dichiarazioni il gruppo popolare si frazionò: solo una parte si attenne alla deliberazione di poco prima, parecchi deputati si allontanarono dall’aula, otto, della sinistra, votarono contro la fiducia, nove, della destra, votarono, invece, la fiducia e il passaggio alla discussione degli articoli. Complessivamente la fiducia ebbe 303 voti, contro 140 e 7 astensioni, quanto al passaggio alla discussione degli articoli della legge Acerbo, esso fu votato da 235 deputati, contro 139 e 77 astensioni.
P. 534

Per vincere la battaglia per la nuova legge elettorale Mussolini si era servito di tutti i mezzi offertigli dalla sua consumata abilità di tattico e dai punti deboli dell’opposizione e non aveva avuto scrupoli e remore a usare, direttamente e soprattutto indirettamente, le minacce e la violenza vera e propria. L’estremismo degli intransigenti gli era stato molto utile, creandogli un alibi prezioso dietro il quale si era potuto arroccare senza esporsi troppo in prima persona; anzi, gli aveva dato la possibilità di realizzare una riuscitissima divisione delle parti nella quale gli estremisti si erano assunti il ruolo di coloro che, minacciando violenze, intimorivano gli avversari e a lui era stato possibile rivestire invece i panni del primo ministri costituzionale, desideroso di condurre in porto la normalizzazione e di assicurare al proprio governo tutte le sincere collaborazioni. Ora però, a legge elettorale approvata (il voto del Senato era scontato) e in vista delle prossime elezioni, la tattica della divisione delle parti non poteva più costituire la molla del giuoco politico mussoliniano. Con ciò non vogliamo dire che Mussolini pensasse di rinunciare a servirsi della forza. Al contrario questa era e rimaneva una componente essenziale del suo potere e della sua politica. Solo che essa doveva passare ora in secondo piano, costituire l’estrema riserva nel caso che ogni altro mezzo per assicurarsi il consenso si dimostrasse inefficace. Tranne che per difficoltà insormontabili, le elezioni dovevano essere fatte all’insegna della ricerca del più vasto consenso. Solo così il loro esito poteva essere sicuro, per un successo non solo quantitativo, ma politico, in riferimento cioè alle forze (la monarchia, l’esercito, il mondo economico e finanziario, la Chiesa) con le quali doveva fare i conti il potere di Mussolini: solo a queste condizioni l’appoggio di queste forze – ancora caute nell’esporsi in prima persona – sarebbe diventato effettivo, e Mussolini, forte anche del consenso popolare, avrebbe disposto di una sufficiente autonomia per trattare con esse da una posizione più sicura e vantaggiosa di quella sinora posseduta. Né si deve credere che mettendo l’accento sul consenso e puntando, per raggiungerlo, sulla costituzione di un largo sistema di collaborazioni con uomini e forze estranei al fascismo, Mussolini tendesse solo a conseguire il più grande successo elettorale possibile. Che questo fosse il suo obbiettivo primario in ordine di tempo è fuori discussione. Vincere le elezioni e vincerle con una maggioranza non solo di seggi (pressoché certa data la nuova legge elettorale) ma di voti era per Mussolini essenziale. Ottenere per la sua politica un vasto consenso popolare e realizzarlo attorno ad una lista il più possibile ampia e aperta al maggior numero di forze e di esponenti politici “nazionali” doveva però servire a Mussolini anche in funzione di altre due operazioni a più vasto raggio. Da un lato doveva servirgli a “tagliare l’erba sotto i piedi” al fascismo intransigente, , dimostrando ai vari Farinacci che il successo del fascismo non dipendeva da loro e che essi non gli erano necessari e anzi se mai era vero il contrario: se non si volevano isolare, erano dunque loro che dovevano appoggiarsi a Mussolini. Da n altro lato, poi, e questo era anche più importante, ottenere per la sua politica un vasto consenso e realizzarlo attorno ad una lista di larga concentrazione “nazionale” doveva servire a Mussolini per portare avanti lo svuotamento dei partiti tradizionali e gettare le basi di quella nazionalizzazione-estinzione del Partito fascista ventilata da Grandi e da Lupi e che in definitiva era – anche se confusamente – lo sbocco vagheggiato anche da lui.
P. 536-37

Il supremo organo del PNF si riunì il 12 e 13 ottobre. Il problema politico fu affrontato il primo giorno. Dopo un’ampia relazione di Mussolini, l’espulsione di Rocca fu revocata e sostituita da una sospensione da ogni attività politica per tre mesi. La decisione fu presa con soli due voti contrari. Approvato all’unanimità, dopo avervi apportato qualche lieve modifica, fu pure uno schema “delle linee programmatiche di azione del fascismo” redatto personalmente da Mussolini. I suoi punti essenziali si possono così riassumere: a) il PNF aveva “appena iniziato la sua missione storica” di creare una nuova classe dirigente al paese; esso doveva condurre un’opera “cauta e qualitativa” di proselitismo verso quanti volevano collaborare alla ricostruzione della vita nazionale; b) per la milizia erano confermate le deliberazioni prese nel costo della precedente sessione; c) il PNF doveva collaborare col governo “senza clamori e polemiche pubbliche”, con un trattamento di favore rispetto alle altre forze politiche collaborazioniste; d)ogni tentativo di separare Mussolini da fascismo era “inane e assurdo”; e) campo d’attività del PNF doveva essere l’amministrazione degli enti locali; f) le funzioni dei prefetti e dei rappresentanti del partito erano “nettamente distinte e differenziate”; il solo responsabile verso il governo era il prefetto. Nella seconda giornata si procedette invece ad una radicale riorganizzazione del partito. Per tre mesi questo sarebbe stato retto da un direttorio nazionale provvisorio di cinque membri (Giunta, segretario politico, Bolzon, Rossi, e Teruzzi, Marinelli, segretario amministrativo). In questi tre mesi le federazioni provinciali dovevano provvedere alla nomina dei loro segretari che, dopo essere stati ratificati da Mussolini, avrebbero costituito il consiglio nazionale del partito. La gerarchia era così stabilita: Gran Consiglio, consiglio nazionale, , direttorio nazionale; questo ultimo non avrebbe potuto prendere alcuna decisione di natura politica che interessasse il partito e la nazione “senza previa autorizzazione del duce”. Veniva infatti approvata una mozione presentata da Giunta nella quale, tra l’altro, era ribadito  che “è tempo che il partito si persuada che il suo unico compito è quello di secondare l’opera del governo fascista; è tempo cioè che il fascismo sappia che, con l’avvento del governo fascista, esso ha raggiunto i suoi fini di partito  ora deve conseguire i suoi fini di governo e che quindi, ora più che mai, i suoi fini si confondono con quelli della nazione. A meno di tre mesi dal successo riportato a Montecitorio sui partiti d’opposizione, la brevissima sessione di ottobre del Gran Consiglio aveva dunque permesso a Mussolini di avere la meglio anche sull’opposizione interna al suo partito. Il riordinamento del partito era un riordinamento burocratico, che certo non ne avrebbe risolto i problemi di fondo e che avrebbe provocato alla periferia nuovi contrasti per assicurarsi il controllo delle federazioni e nuovi casi di dissidentismo. Ugualmente, l problema politico di fondo che i revisionisti più sinceri e lungimiranti avevano voluto sollevare non era stato e non sarebbe stato risolto neppure in futuro. E, anzi, in un certo senso quello che uscì dal Gran Consiglio più malconcio fu proprio il revisionismo, messo da parte da Mussolini – dopo aver servito a costringere Farinacci e gli intransigenti ad uscire allo scoperto e a compromettersi di fronte al partito e al paese – e addirittura, di lì a poco, condannato e ridotto al silenzio o quasi.
P. 552-3

In questa situazione – della quale è facile trovare echi anche nella stampa fascista, sotto forma di attacchi ai vari capi dissidenti e di appelli all’unità del partito – Mussolini era disposto ad operare ed adoperò ogni mezzo contro i dissidenti, pur di fiaccarne le forze ed impedire loro di affermarsi. Tra la fine di dicembre e il 6 aprile essi furono presi di mira in tutti i modi. Particolarmente violenta fu la persecuzione messa in atto contro Sala e Forni, a proposito  dei quali sia Giunta, come segretario del partito, sia Mussolini impartirono precise disposizioni ai prefetti e ai fascisti perché fosse impedita loro ogni forma di propaganda e fosse “resa impossibile la vita nelle provincie”; il che a Forni valse, il 12 marzo a Milano, una feroce aggressione che lo ridusse quasi in fin di vita.
P. 583

UN discorso – come si vede – del tutto interlocutorio, interessante però soprattutto per il suo tono verso i riformisti. Essi non solo non furono attaccati, ma ricevettero anche da Mussolini un inatteso elogio: ricordando l’occupazione delle fabbriche del 1920 egli disse: “L’occupazione delle fabbriche in tanto avveniva in quanto si fosse in un dato momento usciti dalle fabbriche per impadronirsi dello Stato. I socialisti non osarono, i socialisti ebbero paura. E non dico paura nel senso fisico, banale, offensivo della parola. I socialisti responsabili, di fronte alla realtà dei fatti, dissero: “E poi?”. Inoltre vi era stata una sorta di apertura verso i confederali e, forse, anche più in là:
“Da venti mesi a questa parte non c’è nulla di nuovo nella politica italiana da parte dell’opposizione. Se ritorno col mio pensiero a tutto quello che è avvenuto, vedo che tutte le opposizioni si sono fissate nei loro soliti atteggiamenti.
Non ho visto che un atteggiamento più riservato da parte della Confederazione generale del lavoro, e mi è parso un certo momento che l’on. Modigliani, con l’acutezza che è un suo requisito direi quasi congenito, in una serie di polemiche, che potrebbero chiamarsi crepuscolari, perché non sono venute a risultati concreti, ha cercato d disimbottigliare, di disincagliare quella parte ancora possibile d socialismo da posizioni aprioristiche e quindi negative. “:
P. 599

E con questo siamo al secondo dei due elementi: alle affermazioni cioè di Carlo Silvestri (nel 1924-25 strenuo avversario di Mussolini e uno degli animatori dell’Aventino, ai tempi della Repubblica sociale amico e confidente di Mussolini) di questo secondo dopoguerra, secondo le quali nel 1944-45 Mussolini gli avrebbe ripetutamente affermato e dimostrato con documenti – andati poi perduti o, almeno, non consultabili -  che nel giugno 1924 era veramente sua intenzione trovare un accordo con i riformisti.
Che peso possono avere questi due elementi? Lasciando cadere le “testimonianze” meno autorevoli, indirette e interessate, ne restano pur sempre due che non ci pare si possano sottovalutare. La prima è quella di Umberto 2.  Parlando del delitto Matteotti e, più in genere, dei rapporti tra suo padre e Mussolini, egli ha affermato che Mussolini nel 1924 aveva cominciato a lavorare segretamente per attirare verso il governo alcuni capi socialisti (D’Aragona e forse Turati) e che il discorso del 7 giugno era stato un appello ai socialisti alla collaborazione. La seconda testimonianza è forse anche più importante, data la fonte e il momento a cui risale. Essa è dovuta infatti a R. Sala ed è contenuta in una lettera del 25 febbraio 1925 a un non meglio identificato Resis: risale dunque ad un momento in cui Sala era stato espulso dal PNF per aver dato vita ad un movimenti fascista secessionista ed era in collegamento con Patria e Libertà e con l’opposizione aventiniana e non aveva pertanto alcun interesse ad affermare cose non vere che andavano a vantaggio di Mussolini. Nella lettera in questione si legge:
“Le rimetto una memoria relativa al colloquio avuto il 21 maggio u.s. [quindi 1924] con S. E. De Bono, onde possa farsi un esatto concetto sulle ragioni che mi indussero, quantunque non più fascista, a tentare un accordo tra i vari capi della opposizione ed il governo fascista, allo scopo di evitare al paese dolorose lotte civili ed un inutile spargimento di sangue.
Chiesi il colloquio per il 20 maggio e mi fu accordato. Mi recai il 21 alle 18 del pomeriggio e fui accolto cordialmente; al generale de Bono dissi precisamente quanto in appresso: “Eccellenza, vengo nella qualità di sincero oppositore, di ex fascista, a parlarvi della dolorosa situazione del nostro paese. Io che sono in continui contatti con antifascisti, che vivo nella provincia, ritengo che l’attuale compressione ed oppressione debba portare ad una esplosione delle masse, che un bel giorno taglieranno le teste a voi, al presidente ed a tutti i capi del fascismo. Perché oggi ovunque si congiura, si complotta ed è inutile il tentare di reprimere o scoprire, perché non uno ma cento sono i complotti. Io non intendo fare il delatore, ma vi consiglio di mutare tattica, vi consiglio di ragionare.”
Il De Bono si mostri preoccupato e si interessò delle mie dichiarazioni. Io gli suggerii di parlare al presidente e di tentare di persuaderlo a mutare politica interna e modificare il suo atteggiamento nei confronti della classe lavoratrice, perché in tal caso gli oppositori, i capi, sarebbero stati in benevola attesa, modificando il loro atteggiamento ostile. Il generale De Bono mi assicurò che era intenzione di S. E. Mussolini mutare politica orientandosi a sinistra, e che lui pure ne sarebbe stato lietissimo. Mi disse però che un irriducibile avversario era l’on. Matteotti. Io lo assicurai che pure Matteotti avrebbe seguito la condotta degli altri ed avrebbe visto con piacere il nuovo orientamento”.
P. 600-602

Ora si trattava di mettere in pratica questo atteggiamento. In primo luogo battere le tendenze collaborazioniste, scavando un solco incolmabile tra maggioranza e minoranza, tra fascisti e socialisti, che nessuno avrebbe osato scavalcare e, facendolo, si sarebbe irrimediabilmente squalificato rispetto ai propri compagni e alla propria base. In questo senso l’ultimo discorso di Matteotti fu di duplice opposizione, contro il governo fascista, contro il fascismo tout court, ma anche, e forse soprattutto, contro i collaborazionisti del proprio partito e della CGL.
Chi avrebbe vinto? Il trasformismo di Mussolini, tempista e nutrito di uno scetticismo profondo sulla natura degli uomini e delle masse, o l’intransigentismo di Matteotti, un po’ moralistico e anch’esso, in definitiva, scettico, ma sostenuto da una fede oscura nella bontà della propria causa? L’interrogativo è – ovviamente – puramente retorico. Il 10 giugno 1924 Matteotti veniva rapito e ucciso da una banda di sicari fascisti. In pochissimi giorni tutta la situazione politica italiana mutò radicalmente. Parlare di collaborazione divenne – per il momento almeno – un assurdo.
P. 618

Cap. 7. Dal delitto Matteotti al discorso del 3 gennaio

La tesi di C. Silvestri è che il delitto fosse nato in ambiente fascista con un duplice scopo: impedire l’accordo tra Mussolini e i confederali e, al tempo stesso, impedire a Matteotti di fare una serie di rivelazioni sul mondo affaristico che prosperava all’ombra del Viminale e che sarebbe stato ferito a morte e da una pubblica denuncia e da una “sterzata a sinistra” di Mussolini.
P. 621

La verità è quasi certamente un’altra. Il discorso di Matteotti a Montecitorio irritò profondamente i fascisti. Su questo non vi sono dubbi di sorta. Inferocito era Rossi, che non lo nascose certo; parlando subito dopo con alcuni giornalisti e uomini politici d’opposizione, lo biasimò a tutte lettere e non si trattenne neppure dal formulare, più o meno esplicitamente, delle minacce. Altrettanto inferocito era Mussolini, che si sfogò con C. Rossi: “Cosa fa questa ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare…”. Un’affermazione evidentemente grave, specie se si pensa che Marinelli, parlando la sera del 1 giugno con Rossi, De Bono e Finzi, avrebbe lasciato intendere che l’ordine era venuto da Mussolini. Ma che – in sostanza – non  era sufficientemente probante. Il clima del tempo era quello che era; le violenze del genere delle “lezioni” a Misuri, Amendola, Forni, ecc. erano tutt’altro che rare; pensare quindi al ricorso ad una “lezione” era per un fascista, specie in un momento d’ira, cosa quasi normale. Tra il pensarlo e l’ordinarlo c’era di mezzo però la sensibilità politica. Che poi Marinelli – il responsabile numero uno dell’azione contro Matteotti – a cose fatte cercasse di scaricare – in un privato colloquio con alcuni membri dell’entourage e per di più anch’essi compromissibili: Rossi per le sue minacce alla camera e per i suoi rapporti con Dumini, Finzi per i suoi rapporti con il Corriere italiano e probabilmente con quel mondo affaristico che si diceva Matteotti avrebbe voluto, se non fosse stato eliminato, denunciare pubblicamente, De Bono come responsabile primo dell’ordine pubblico – la responsabilità pima su Mussolini non può meravigliare: così facendo non solo diminuiva la propria responsabilità , ma cercava di creare un fronte unico  dell’entourage di fronte a Mussolini, per impedirgli di dissociarsi da esso, fargli coprire il delitto o, almeno, assumerlo sulle spalle del regime. Una sorta di ricatto – insomma – come, appunto, subito l’intese Mussolini, appena informato da De Bono: “Stanno gettandoti addosso la responsabilità”. “Questi vigliacchi mi vogliono ricattare!”. Senza dire che, a ben vedere, dalle dichiarazioni di Finzi (che, oltretutto, secondo Salvemini “vanno prese tutte con cautela, dato che egli viene colto ripetutamente in flagrante menzogna”) non risulta che Mussolini abbia ordinato a Marinelli o ad altri di sopprimere Matteotti o di dargli una “lezione”. Marinelli – disse Finzi, riferendo della riunione del 12 giugno sera – aggiunse che egli e Rossi nelle ultime recriminazioni del Presidente avevano ravvisato la decisa volontà che al deputato unitario e a qualche altro dovesse essere resa difficile l’esistenza”
P. 622-23

Citazione da C. Silvestri:
Il discorso di Matteotti sarebbe stato il discorso di un uomo che leggeva il bilancio dello Stato così come io leggo un romanzo. Dalla lettura, Matteotti aveva tirato fuori delle constatazioni orripilanti dal punto di vista delle spese, del disordine e così via. Egli aveva una sua linea, un suo programma finanziario, considerava la finanza di Mussolini rovinosa e trovava in essa una gran quantità di elementi di accusa. Si trattava di accuse relative alle tariffe doganali protezionistiche e sfacciate protezioni accordate a determinati gruppi industriali e ad altri elementi del genere. Questo sarebbe stato il discorso di Matteotti.
P. 625

Citazione da P. Nenni:
Il giorno successivo a quello in cui fu assassinato, Matteotti avrebbe dovuto parlare alla Camera sull’esercizio provvisorio e senza fare dello scandalismo personalistico si riprometteva si attaccare la politica di De Stefani e di richiamare l’attenzione del paese sulle troppe rapide fortune maturate all’ombra di palazzo Chigi e del Viminale, con fenomeni di corruzione identici a quelli che caratterizzavano il secondo impero francese.
P. 625

Citazione di Turati in una lettera alla Kuliscioff:
Non ti dico come sono pentito del nostro gesto…; e in verità a noi parve necessario; ma il ministero, più furbo di noi, ne profittò subito per liberarsi della Camera per sette mesi. E la Camera voleva dire la sola tribuna possibile, la sola trincea, il solo controllo. Certo, essendo presenti non avremmo potuto impedire che la sospensione avvenisse fra qualche giorno; ma erano sempre giorni guadagnati. Se poi i leaders delle opposizioni avessero avuto il fegato che non hanno, la situazione poteva essere profondamente influenzata. Perché, senza dubbio, v’è nell’aria un rovesciamento di impressioni… Fiati di vento, lo so, che mutano direzione da un giorno all’altro. Ma la politica sta nel giovarsene
P. 629

Insomma, nelle grandissime linee, la situazione nella quale si venne a trovare il paese all’indomani del delitto Matteotti si può così sintetizzare. A parte i vecchi fascisti dei quali parleremo più avanti ampiamente ma che – anticipando – si può dire che traessero dal delitto e dalla reazione antifascista la convinzione che ciò che avveniva fosse la conseguenza di quello che essi avevano sempre sostenuto, che cioè lo sviluppo rivoluzionario del fascismo era stato tarpato e sviato dal compromesso normalizzatore (a cui facevano risalire la responsabilità sia della politica moderata del governo,  sia della sopravvivenza e quindi della ripresa delle opposizioni, sia della corruzione del gruppo dirigente fascista insediatosi al governo, attorno a Mussolini e sostanzialmente anche alla testa del partito); a parte questi fascisti, dunque, la stragrande maggioranza del paese fu spinta su posizioni di netto antifascismo e anche, sia pure in misura un po’ minore, di antimussolianismo. In questo senso non vi è dubbio che – specie nelle priem settimane – la sollevazione antifascista degli animi fu quasi plebescitaria e che essa erose profondamente non solo gli ambienti fiancheggiatori, ma anche quelli filofascisti e fascisti tour court: il fascismo della dodicesima e della tredicesima ora non resse alla prova che in misura minima.  Questa sollevazione non ebbe però mai – neppure nei primissimi momenti -  delle possibilità di sviluppo rivoluzionario. Al massimo, sarebbe forse stato possibile solo un colpo di mano da parte di un gruppo di coraggiosi, decisi a forzare la situazione uccidendo Mussolini. Ma con questo – certo – non si sarebbe risolta la situazione, perché il vecchio fascismo squadrista avrebbe reagito in forza (almeno nelle sue roccheforti emiliane e toscane); si sarebbe determinata una trasformazione della situazione che avrebbe necessariamente provocato un intervento della Corona e dell’esercito: sarebbe stata la guerra civile, ma anche quasi certamente al fine del fascismo. Esclusa la via rivoluzionaria, l’unico terreno sul quale si poteva cercare di battere il fascismo era quello parlamentare. La maggioranza eletta nel “listone” era eterogenea e sbandata. Un terzo buono di essa none ra fascista; degli altri due terzi molti erano dei moderati, dei fascisti d’accatto, degli ex liberali e nazionalisti facilmente influenzabili, specialmente se la Corona si fosse sentita libera di intervenire senza mettere a repentaglio l’”ordine costituzionale” e la propria posizione. Ma proprio qui vennero alla luce i limiti, le contraddizioni, l’impreparazione delle opposizioni, intuiti da Turati nella citata lettera alla Kuliscioff. Il valore morale della decisione delle opposizioni del 12-13 giugno di astenersi dai lavori parlamentari fu enorme; essa diede – come nessun’altra iniziativa che l’opposizione avrebbe potuto mettere in atto – la misura della gravità della situazione e dell’unanimità dello sdegno antifascista.
P. 635-36

Nella situazione italiana della seconda metà del ’24 per abbattere il governo Mussolini e avviare la eliminazione del fascismo occorreva un accordo politico il più vasto possibile, di vera unità e di pacificazione nazionale, che desse sicurezza a tutti, eventualmente anche impunità ai minori compromessi col fascismo. Ci voleva, insomma, un’azione la più politica e parlamentare possibile. Al contrario le opposizioni, decidendo di continuare nella loro secessione-protesta e “istituzionalizzandola”, se così si può dire, nell’Aventino, non solo si preclusero la possibilità di abbattere il governo Mussolini nell’unico modo possibile ma – in pratica – impedirono a Giolitti, a Salandra, a Orlando, a Tittoni, agli stessi nazionalisti e quindi alla Corona, di sbloccare la situazione.
P. 637

Così divisa, l’opposizione aventiniana finì, per salvare la propria unità, per arroccarsi sulla posizione politica più sterile, quella dell’attesa e della non compromissione, una posizione che alla lunga l’avrebbe politicamente esaurita e che, intanto, rendeva impossibile ogni soluzione alternativa a quella mussoliniana e scoraggiava l’opinione pubblica.
P. 641

Per cercare di frenare questo ripiegamento dell’opinione pubblica su se stessa avrebbe occorso che da parte delle opposizioni, che dal giugno avevano dato vita all’Aventino, venissero avanzate delle soluzioni concrete, prospettata una politica alternativa, stabilite delle alleanze. Tanto più che tutto il mondo politico della maggioranza e dei  fiancheggiatori era in movimento e in crisi e andava anch’esso cercando delle soluzioni politiche che sbloccassero in qualche modo la situazione di stallo precario nella quale Mussolini era riuscito sul primo momento a congelarla per fronteggiarla alla meglio e fronteggiarla alla meglio e guadagnare tempo. Di tutto l’Aventino gli unici che si mossero furono però i comunisti che – come Togliatti scrisse alla fine di ottobre a Mosca -  si erano resi conto che le masse stavano perdendo fiducia nelle opposizioni e si andavano convincendo che da un lato che il fascismo diventasse sempre più forte e risalisse la china lungo la quale era precipitato in giugno e da un altro lato che le opposizioni  desiderassero in pratica un compromesso. Per combattere questa tendenza alla “passività” e all’”inerzia” in novembre-dicembre i comunisti fecero un estremo tentativo per indure l’Aventino a un atto “rivoluzionario”: convocarsi in un vero e proprio anti-parlamento in modo da mettere tutti e in primo luogo la Corona con le spalle al muro e costringerli a una scelta, e proclamare lo sciopero fiscale per minare le basi economiche del governo. Poi, avendo l’Aventino respinto le loro proposte, decisero di rientrare in aula, per mettervi sotto accusa il fascismo e per non essere più confusi dall’opinione pubblica con il resto dell’opposizione aventiniana. Quasi contemporaneamente, nell’imminenza della riapertura del Parlamento, sia Sturzo (in procinto di lasciare l’Italia) sia Giolitti (ormai deciso a passare all’opposizione) cercavano di convincere gli aventiniani a ritornare anch’essi a Montecitorio. Tutto fu però inutile. L’Aventino non ritenne di poter modificare il proprio atteggiamento e, alla possibilità di un compromesso con una parte della maggioranza, preferì continuare nella propria protesta morale – tanto nobile quanto sterile politicamente – e nella ingenua convinzione che la “chiave” di tutto fossero la denuncia dei crimini fascisti e il processo ai responsabili immediati e ai mandanti del delitto Matteotti.
P. 642

Citazione da Croce:
Non si poteva aspettare, e neppure desiderare – disse – che il fascismo cadesse a un tratto. Esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono, come ogni animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione. Sicché, per una parte, c’è, ora, nello spirito pubblico, il desiderio di non lasciar disperdere i benefici del fascismo, e di non tornate alla fiacchezza e all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra, c’è il sentimento che gli interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi del processo di trasformazione. E’ questo il significato del prudente e patriottico voto del Senato.
P. 653

Citazione da n discorso di Mussolini:
Voi vedete – disse – che la battaglia è difficile e delicata e ci vuole una strategia assai fine: Bisogna cloroformizzare, permettetemi questo termine medico, le opposizioni e anche il popolo italiano: Lo stato d’animo del popolo italiano è questo: fate tutto ma fatelo sapere dopo. Non pensateci tutti i giorni dicendo che volete fare i plotoni di esecuzione. Questo ci scoccia. Una mattina, quando ci svegliamo diteci di aver fatto questo  e saremo contenti ma non uno stillicidio continuo: Questo ci allontana le simpatie. In fondo, dovete rendervi conto di questo profondo bisogno di pace che non è affatto vigliaccheria ma che è una cosa naturale. Si tratta di gente che ha avuto prima il neutralismo, poi la guerra, poi il ’19-20-21, anni di bolscevismo, poi la rivoluzione, poi la seconda ondata. Ma la gente dice: basta. Non bisogna ferire questa sensibilità psicologica delle popolazioni, perché diverso è muoversi in un ambiente simpatico, dove le popolazioni vi accolgono, vi sorridono e altro è muoversi in un ambiente ostile: allora la battaglia sarebbe più difficile.
Che cosa avviene: prima di tutto un esercito ha la sua strategia, ma a un dato momento questa strategia viene condizionata dalla strategia dell’esercito avversario. Una battaglia è fra due eserciti. In un momento prendete voi l’iniziativa delle operazioni, poi subite l’iniziativa dell’avversario, poi vi fermate, poi la riprendete. Bisogna stabilire questo: che nel ’22 si è compiuto un fato rivoluzionario e un’insurrezione vittoriosa, non una rivoluzione. La rivoluzione viene dopo. Che cosa abbiamo fatto noi? Abbiamo sbarazzato il terreno: noi abbiamo fatto quello che avrebbero fatto altri ministri, ma l’abbiamo fatto noi. Gli altri non l’osavano: l’abbiamo fatto noi perché abbiamo più coraggio. Questo non basta per giustificare una rivoluzione. Noi siamo stati intelligenti. Naturalmente può essere necessario cambiare qualche cosa. Ecco allora dove entriamo nel campo della rivoluzione. In fondo io vorrei spiegare storicamente l’illegalismo che io ho represso e reprimo.
Che cosa abbiamo fatto? Discutendo con l’amico Grandi e con altri ho detto loro: abbiamo preso un giovane robusto e gagliardo, pieno di vita e di vigore: aveva vent’anni e lo abbiamo messo su un lettino piccolo, su un letto di Procuste, e gli abbiamo detto: stai lì.
Da una parte c’era la corona e questo ci dava un certo imbarazzo, dall’altra parte stavano le opposizioni e ci si diceva: non toccate le opposizioni, perché andate fuori legge, E allora questo gigante giovinetto soffriva molto e siccome non poteva andare a destra dava qualche calcio, qualche spinta verso le opposizioni, le quali, invece di rispettarlo, invece di compiangerlo e di pensare alla sua sorte ingrata, lo aduggiavano, lo vessavano, lo insultavano, e allora era naturale che questo giovane non potesse sempre rimanere là immobile come un paralitico di settant’anni. Quindi la necessità di allargare il letto, quindi la necessità di dare istituti al nostro ordinamento in modo che la rivoluzione proceda verso la sistemazione della propria creatura.
Combattere l’opposizione energicamente, strenuamente, non vuol dire disconoscere tutte le energie che sono nel popolo italiano….. Noi dobbiamo prevedere che un giorno vi sarà un nuovo tentativo di insurrezione contro il fascismo e, siccome lo vediamo, lo possiamo fronteggiare. Se il fattaccio del giugno ci ha sorpreso, quello che potrebbe avvenire in agosto o settembre non ci sorprenderebbe più…. Del resto la migliore strategia è quella di rimanere al proprio posto. Io ho avuto in quei giorni il senso dell’isolamento, perché i saloni di Palazzo Chigi, così frequentati negli altri giorni, erano deserti come una raffica, una bufera vi fosse passata. C’era qualcuno che pretendeva che io facessi un gesto di forza in quei giorni. No signori, allora bisognava tacere. Si può picchiare su un popolo, lo si può spremere con le tassazioni, gli si può imporre una data disciplina, ma non si può andare incontro a certi sentimenti profondamente radicati. Ebbene, che cosa bisogna ora dire?
Bisogna dire che il regime non si processa. Quindi, se le opposizioni pensano di fare il processo al regime e mettendo in catena, come si dice nei loro giornali, tutti quelli accusati di illegalismo per farli sboccare in un epicedio d’illegalismo, questo non è possibile. Questo sarebbe il suicidio, la castrazione sarebbe, la nostra auto eliminazione dal terreno politico e dalla storia. Se vi sono dei colpevoli saranno puniti. Ogni regime ha di questi episodi. Questi signori democratici e liberali dovrebbero essere puniti in questo modo: dovrebbero rileggere molte volte, come un pensum, le pagine del terrore della rivoluzione francese….. E non parliamo poi della rivoluzione russa….. Tutte le rivoluzioni hanno di questi episodi, perché le rivoluzioni non sono fatte su misura.
Il nostro compito è oggi quello di sceverare in questa fiumana, quello di incanalare questo fiume e di renderlo produttivo e di far si che non perda le sue acque nei fiumi sottostanti. Ma se domani si volesse fare il processo al regime, dire: voi non avete fatto niente sinora, ebbene quel giorno si dovrebbe vedere in tutte le piazze d’Italia lo stato d’insurrezione di tutto il fascismo italiano….. Non rifiutiamoci a nessuna delle possibilità future, prepariamoci, cerchiamo di evitare l’allarmismo nelle popolazioni, cerchiamo di presentarci sotto il nostro aspetto guerriero, ma non feroce, ma soltanto capace di quella necessaria crudeltà, la crudeltà del chirurgo. Non vessiamo i nervi già alterati della popolazione, in fondo il popolo farà quello che noi vorremmo che faccia. Domani mille individui ben decisi tengono Roma, domani, se si agisce sul serio, con la decisione di coloro che hanno i ponti bruciati dietro di sé e devono per forza andare avanti, le popolazioni si ritirerebbero perché, in fondo, l’umanità è ancora quella dell’oste di Alessandro Manzoni, che dice: “non me ne occupo, ognuno ha i propri affari personali”. Vi sono uomini valentissimi che lavorano, che sono utili al consorzio umano, ma che cercano di rendere sempre meno possibile il rischio della loro pelle. Cosicché se domani il fascismo sarà armato di tutto il suo ingegno, di tutta la sua forza morale e spirituale, se potrà dire: noi teniamo alla nazione non per nostro profitto, ma perché pensiamo che nessun altro potrebbe fare quello che noi facciamo, allora il fascismo sarà veramente invincibile.
P. 671-72

Nonostante tutti gli sforzi di Mussolini il voto del Senato diede questo risultato: a favore 206, contrari 54, astenuti 35. Se si raffronta questo voto a quello del 26 giugno (225 favorevoli, 21 contrari e 6 astenuti), se si tiene presente l’atteggiamento assunto dal sen. Conti e da alcuni capi militari più autorevoli e si considera altresì un altro avvenimento di pochi giorni prima, minore ma pur esso significativo, e che cioè il Senato rifiutò la convalida di ben otto neosenatori proposti dal governo, risulta evidente che il voto del 5 dicembre non può interpretarsi che in un sol modo: nonostante il suo conservatorismo e la sua estrema cautela, persino il Senato sentiva la necessità di intimare un altolà a Mussolini e di fargli chiaramente capire che così none era più possibile andare avanti.
P. 691

In questa cornice gli avvenimenti narrati da R. Paolucci vanno integrati con almeno due notizie più importanti e significative che rendono bene la situazione del momento in cui Mussolini ricorse all’espediente di presentare il progetto di riforma elettorale. La prima notizia, data da Turati alla Kuliscioff la sera del 16 dicembre – dunque dopo che il sen. Campello aveva iniziato  il suo giro “sollecitatorio” – è che a questa data si riteneva probabile uno “sbocco” Salandra “con la promessa di amnistia”: Notizia confermata anche da alcune indiscrezioni giornalistiche e soprattutto dall’insistenza con la quale proprio in quei giorni la stampa ventilò appunto l’eventualità di una amnistia, il significato della quale era chiaro: Assicurare ai minori compromessi nelle violenze e nelle illegalità fasciste l’impunità e determinarli così a bruciare i ponti e ad abbandonare Mussolini. Se ciò si fosse realizzato la situazione alla Camera – sempre che gli aventiniani vi facessero ritorno – sarebbe profondamente mutata. La nuova maggioranza, infatti, avrebbe potuto contare su un numero di voti pressoché pari a quello dei fascisti intransigenti e mussoliniani ad oltranza. L’eventualità di un’amnistia era tanto presa sul serio e doveva incontrare in certi ambienti fascisti  tanti segreti consensi che il 18 dicembre Campane a stormo”, il settimanale di Patria e Libertà, arrivò addirittura a sintetizzare questo stato d’animo col sarcastico titolo sull’intera pagina Amnistia… Amnistia… bono oppositore! La seconda notizia – che si rileva dal diario, ancora in gran parte inedito di Salandra – riguarda invece i contatti, tra il 1 e il 29 dicembre, avvenuti tra l’emissario popolare, il prof. Gilardoni, Giolitti e Salandra e le trattative per un governo Giolitti-Salandra-Orlando, nelle quali il più restio a prendere posizione sembra fosse Salandra, preoccupato per l’”enorme diffamazione dell’Italia in tutto il mondo” che l’Aventino stava facendo con le sue denunce e ancor più avrebbe fatto con la pubblicazione di documenti di ogni genere contro il fascismo, tanto più che – così facendo – Mussolini, sempre secondo Salandra, sarebbe stato indotto alle più esagerate reazioni.
P. 696

Citazione da Salandra:
Cessata la prima impressione di sbalordimento per la sorpresa, fu chiaro lo scopo della mossa di Mussolini: atterrire le opposizioni, ma soprattutto sgominare i nuclei della maggioranza che dimostravano velleità di indipendenza. Si deve riconoscere che Mussolini vi riuscì mirabilmente. I nuovi deputati, eletti per sua designazione,  nella massima parte scarsi  di aderenze locali, rimanevano, in una elezione a collegio uninominale, in completa balia del governo. Il quale, se non abbia scrupolo di ingerenza e prepotenza, non trova nel collegio uninominale, salvo forse nelle maggiori città, masse politiche organizzate a resistergli. E in vero al solo pensiero di possibili prossime elezioni, i miei amici della destra liberale… si sbandarono salvo qualche onorata eccezione; dei fascisti moderati, che si affrettarono a ritornare tacitamente in riga, non si ebbe altra notizia.
P. 700

Il colpo di Stato non era nei programmi di Mussolini. Sino al pronunciamento dei consoli la via che egli intendeva percorrere era un’altra: quella di ottenere un po’ di respiro dal parlamento (a questo fine tendeva la richiesta di approvazione dell’esercizio provvisorio anche per il 1925-26), offrendogli in cambio il collegio uninominale e una maggiore “pacificazione” del paese da raggiungere – ormai non vi erano alternative – a danno non solo dell’Aventino (con un inasprimento del controllo sulla stampa e con lo scioglimento di alcune organizzazioni più attive sul piano della resistenza armata al fascismo), ma anche del fascismo intransigente che ormai aveva troppo rialzato la testa (è sintomatico che proprio in questi stessi giorni Mussolini sentisse la necessità di favorire la nascita di un altro quotidiano fascista nella capitale, Il Tevere, più ligio alle proprie direttive).
P. 705-706

Estratti da un discorso di Mussolini alla Camera:
L’articolo 47 dello Statuto dice:
La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia. Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47.

Il mio discorso sarà quindi chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere percorsa nell’avvenire.

Sono io, o signori, che levo in quest’aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo!

A tutto questo come si risponde? Si risponde con una accentuazione della campagna. Si dice: il fascismo è un’orda di barbari accampati nella nazione: è un movimento di banditi e di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia.
Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.
Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo d questa associazione a delinquere!
….
Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c’è mai stata altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai… Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo, perché il governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino.
 L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con amore, se è possibile e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantotto ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area.
Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la patria.
P. 721-722

In realtà, anche se esso sopravvisse per altri due anni, l’Aventino, politicamente parlando, fu irrimediabilmente battuto il 3 gennaio 1925. Come formula politica da quel giorno non ebbe più senso. Rinascita liberale, la bella rivista di Adolfo Tino e di Armando Zanetti, insieme al Quarto stato di C. Rosselli e P. Nenni, l’unica voce originale e veramente proiettata verso il futuro che ebbe l’antifascismo italiano in quest’ultimo scorcio di vita semi legale, fu forse la prima che se ne rese conto, certo quella che lo disse con più chiarezza. “La netta vittoria parlamentare del governo mussoliniano” del 3 gennaio aveva dissipato l’equivoco e il compromesso che avevano inquinato “ogni forma di lotta e di accordo politico” dal novembre 1922 in poi. Il 3 gennaio “resterà nella storia politica interna d’Italia come la Caporetto del vecchio liberalismo parlamentare e l’esplicito inizio di una fase di reazione.
P. 727

Da un punto di vista costituzionale, il 3 gennaio non costituì per il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il “regime fascista” sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il dicembre 1925 e il gennaio 1926 e si sarebbe perfezionato alla fine del 1926. Da un punto di vista politico il 3 gennaio fu però il momento di vera rottura: completò la prima fase del fascismo al governo, aperta dalla marcia su Roma, ed iniziò la seconda, che si sarebbe appunto conclusa costituzionalmente con il 1926 e politicamente con il 1929. Ciò che avvenne nel 1925 e nel 1926 e ancora sino al Concordato fu però sostanzialmente determinato dal 3 gennaio. L’andata al potere di Mussolini nel 1922 non era stata sino all’ultimo – come bene ha messo in lice F. Chabod  - il frutto di una fatalità; gli avvenimenti del 1923 e del 1924, ancora, non avevano risposto ad una fatalità, ma erano stati il prodotto congiunto degli errori dell’opposizione, della volontà del fascismo e della tattica politica di Mussolini; per quelli del 1925-26 si può ormai cominciare  parlare di fatalità, poiché tutto, anche gli errori, le debolezze, le illusioni e le velleità hanno alla lunga una loro logica interna che si impone anche alla volontà degli uomini.
P. 729-30