Citazioni

Cap. 2. L’esperienza svizzera
Nelle ore libere riprese a studiare e cominciò a frequentare gli ambienti degli esuli russi e slavi in genere sia di Losanna sia di Ginevra.
P. 32
Commento: avvalora l’ipotesi che abbia conosciuto in quegli ambienti Lenin

Cap. 5. Capo del socialismo romagnolo: “La lotta di classe”.
… appare altrettanto chiaramente come, per raggiungere il suo scopo, egli non puntasse sugli strumenti tradizionali classici, della propaganda socialista del tempo, sulle varie “dottrinette razionaliste”, sui vari compendi del Capitale e sulle varie volgarizzazioni più o meno positvisteggianti del marxismo, ma – il suo distacco sotto questo profilo dalle posizioni di pochi anni prima era ormai nettissimo-sulla suggestione idealistica e volontaristica di autori e di pubblicazioni che trovavano la loro origine e la loro collocazione ai margini o addirittura fuori della sfera socialista ufficiale: tra i sindacalisti rivoluzionari, gli anarco-sindacalisti, i vociani.
P. 86
Essenziale fu però la componente politica, il conflitto cioè tra repubblicani e socialisti, che informò di sé tutta la vertenza, esasperandola e che ebbe la meglio anche sugli aspetti più tipicamente di classe di tutta la questione: alla prova dei fatti i braccianti repubblicani si staccarono da quelli socialisti, preferendo accordarsi con i mezzadri della loro stessa fede politica. Da qui la scissione sindacale e la nascita di nuove camere del lavoro repubblicane (dette gialle dai socialisti) in contrapposizione a quelle vecchie controllate dal Partito socialista.
P. 93

Cap. 7. Direttore dell’Avanti!
Non vi è dubbio però che il “socialismo” rivoluzionario di Mussolini, anche se ben poco aveva a spartire col vero marxismo, non solo diede corpo in breve alla più concreta e viva speranza della frazione rivoluzionaria e delle masse che la seguivano e contribuì non indifferentemente all’estendersi e all’approfondirsi delle tendenze più decisamente rivoluzionarie, ma, col supporto e la mediazione culturale dei sindacalisti rivoluzionari, dei meridionalisti, degli “unitari” e dei “vociani” da lui immessi nel “giro” socialista, favorì non poco quella elaborazione culturale ed ideologica dalla quale, soprattutto negli anni della prima guerra mondiale, avrebbe preso le mosse il rinnovamento del nostro socialismo.

Non è certo un caso che quasi tutti i quadri migliori della generazione socialista del primo dopoguerra, che più contribuì al rinnovamento ideologico e politico del socialismo italiano e cooperò in misura determinante prima alla elaborazione teorica dei due gruppi più significativi sul piano culturale, quello torinese dell’Ordine nuovo e quello napoletano del Soviet, e poi alla costituzione del Partito comunista, siano stati nel 1912-14 mussoliniani.
P. 142

Cap. 8. Il congresso di Ancona e la settimana rossa
Incapace di elaborare e di realizzare una nuova politica rivoluzionaria e sotto l’influenza di alcuni teorici del sindacalismo rivoluzionario, Mussolini, illudendosi che le masse rivoluzionarie lo avrebbero seguito, credette che la congiuntura rivoluzionaria tanto attesa e cercata potesse essere offerta dalla guerra: e non già dalla opposizione alla guerra, come pensavano i suoi compagni di frazione, ma dalla guerra rivoluzionaria. In questa prospettiva, a nostro avviso, va vista l’azione di Mussolini in preparazione del congresso di Ancona e nei mesi immediatamente successivi e soprattutto va visto il suo sempre maggior impegno in questo periodo sul piano ideologico, dalle colonne dell’Avanti, in una ricca serie di conferenze e soprattutto con la fondazione, nel novembre del 1913, dell’Utopia.
P. 182
Dopo anni di tensione e di compressione, mentre la situazione economica si faceva sempre più precaria, aggravata dalle conseguenze della guerra di Libia e sotto il pericolo sempre più reale di nuove avventure militari, e quando la “settimana rossa” aveva sancito, dopo il fallimento del riformismo, l’incapacità dell’intransigentismo rivoluzionario a dare una prospettiva politica concreta alla fame di riscatto delle masse più arretrate del proletariato agricolo e alle  nuove istanze rivoluzionarie delle avanguardia proletarie dei grandi centri industriali era proprio da escludere che quello che più tardi sarà chiamato il mussolinismo non potesse diventare – per opposti motivi – la bandiera di queste stesse masse?
P. 215
Da un punto di vista riformista la diagnosi di Zibordi era ineccepibile alcune affermazioni, alcune intuizioni tenute in essa – specie quelle relative all’uomo Mussolini e alla sua incapacità di parlare alle masse di certe parti del paese – possono essere accolte anche dallo storico che voglia dare una valutazione complessiva del posto di Mussolini nel socialismo italiano all’immediata vigilia della crisi della prima guerra mondale, che stravolse e mutò tutti i termini della questione. In una prospettiva più vasta e soprattutto sotto il profilo politico del momento la valutazione dello Zibordi e in genere dei riformisti perde però buona parte del suo valore e appare chiaro come avesse ragione il Croce quando scrisse che nella loro polemica contro Mussolini questi non riuscirono ad avere al meglio anche perché non capivano la sostanza della posizione del direttore dell’Avanti.
P. 217
Solo Mussolini si rendeva conto che una nuova era stava cominciando e che il socialismo non doveva continuare a perdere il passo con i tempi.
P. 218

Cap. 9 La crisi della guerra
Come ha giustamente osservato il Romeo (da Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale):
“Davanti all’azione socialista, con la sua radicale negazione di tutti i valori consacrati in quella tradizione [liberale], dalla monarchia alla nazionalità all’esercito alla proprietà e alla stessa legalità costituzionale, l’avversione delle forze liberali fu decisa e crescente: e anche più recisa nell’opinione media che negli uomini di governo. Erano negazioni di vecchia data, queste, da parte del socialismo italiano: ma, nell’atmosfera del dopoguerra, con la messa sotto accusa della borghesia, colpevole, a giudizio del socialismo, di aver portato il paese a quel conflitto che invece rappresentava, per molta parte della classe dirigente liberale, il coronamento dei supremi valori nazionali; e con la gravità che la minaccia della rivoluzione socialista sembrava assumere, la reazione di molti liberali assunse un nuovo carattere di asprezza: mentre, sa pure su un diverso piano, restava incolmabile la frattura verso il nuovo partito cattolico. Fu allora che cominciò ad operarsi, nello spirito di una larga sfera della classe dirigente, quella conversione nella quale il fascismo trovò un’atmosfera di sostanziale simpatia, non solo nei più alti esponenti del ceto politico liberale, ma anche in molta parte della borghesia, di per sé non incline né avvezza alla lotta violenta e alla dittatura, che era finora vissuta nel quadro politico tradizionale.”
Se si accetta questa visione della guerra e dei problemi da essa aperti, può sembrare una ironia, una tragica ironia della storia che colui che più nettamente cercò nel 1914 di fare uscire il Partito socialista dalla neutralità assoluta sia stato proprio Mussolini, colui che, in un certo senso, alla distanza raccolse i frutti del tragico errore commesso allora dai suoi compagni di partito e fu l’artefice della reazione fascista. Allo storico non resta per altro che registrare il fatto e andare oltre: capire cioè quali fossero i limiti del socialismo italiano nel 1914 e perché, nonostante la sua evoluzione-involuzione successiva, proprio Mussolini avesse la ventura il quel momento di impersonare l’ala marciante del socialismo italiano. L’ala che era riuscita, almeno psicologicamente, a spezzare i confini del sovversivismo tradizionale, del socialismo ottocentesco, che si era, sia pur confusamente, resa conto della necessità per il socialismo di “nazionalizzarsi” pur rimanendo se stesso, di dimostrare la sua maturità non solo come partito di opposizione ma come partito di responsabilità e di potere.
Pp. 261-262

Nel giro di pochi giorni Mussolini si trovò a pagare un duplice scotto: quello, appunto, del suo equivoco comportamento nei mesi immediatamente precedenti, per cui ai suoi avversari era facile farlo passare per un interventista tout-court e respingere la sua tesi della neutralità “attiva ed operante” come mirante a portare il partito e il paese alla guerra; e quello di essersi sempre disinteressato, forte del prestigio e della possibilità, che gli dava l’Avanti, di parlare ogni giorno a tutto il partito, all’aspetto organizzativo dell’attività di partito, sicché ora, privato dell’Avanti, era praticamente nelle impossibilità di battersi, la sua influenza non andava oltre la sezione di Milano e se voleva far giungere la sua voce più in là doveva chiedere l’ospitalità dei giornali borghesi, che avevano scarsa diffusione negli ambienti socialisti e che in ogni caso era assurdo pensare potessero offrirgli quella tribuna che gli sarebbe occorsa.
P. 269

Ripercorrendo oggi gli avvenimenti di quelle turbinose settimane ci pare si possa senz’altro affermare che, se Mussolini si propose ci conquistare alle sue tesi il partito con il Popolo d’Italia, egli commise uno dei più gravi errori di tutta la sua lunga carriera politica, un errore che dimostra chiaramente come dalla tribuna dell’Avanti egli non avesse, pur dominandolo, saputo stabilire un vero contatto con il partito, lo avesse guidato, cogliendo e interpretando, come nessun altro, alcune sue esigenze più vive (specie nelle élites) ma, in ultima analisi, non ne fosse riuscito a comprendere, dall’alto del suo idealismo, la psicologia più intima ed elementare, quella che, per altro, è la forza e la debolezza dei partiti di massa.
P. 270

Con la pubblicazione del suo giornale personale e con l’espulsione dal partito Mussolini aveva praticamente perduto la possibilità di svolgere una concreta azione in senso filo-interventista nel partito socialista.

Si può dire che con il “caso Mussolini” iniziò un lento processo di allontanamento dal partito socialista di quadri intermedi e di militanti di base che, alla spicciolata e in piccoli gruppi, si staccarono tra il novembre 1914 e il maggio 1915 dal partito e defluirono verso i fasci interventisti.

A questo punto prima di concludere la narrazione delle vicende di Mussolini nel Partito socialista, ci pare necessario porci una domanda: che peso, che valore nella vita di Mussolini, meglio nella sua evoluzione politica, ebbe la sua decisione di fondare Il popolo d’Italia e – una volta delineatasi l’alternativa: sospendere Il popolo d’Italia e rientrare nei ranghi o affrontare le conseguenze dell’espulsione – di rompere con il partito?
P. 283

Cap. 11. Caporetto

La guerra italiana si decise militarmente sul Piave, ma dopo Caporetto si decise il dopoguerra. La crisi di Caporetto sembrò per un momento far prevalere l’impostazione bissolatiano-salveminiana della guerra democratica e della liberazione delle nazionalità: in realtà essa segnò la vittoria del nazionalismo, per cui l’”onta” di Caporetto doveva essere lavata con l’affermazione della “potenza” italiana sui nemici esterni ed interni. “Resistere”, “vincere ad ogni costo”. Su queste due parole d’ordine il nazionalismo (non i nazionalisti si badi bene) riuscì a far breccia anche laddove non era stato sino allora di casa. Il Partito socialista, a sua volta, non fu – ancora – all’altezza della situazione e si lasciò sfuggire per la seconda volta (e ultima volta) l’occasione storica: nel 1914-15 si era lasciata sfuggire l’occasione di “nazionalizzarsi”, nel 1917 questa possibilità gli si presentò per la seconda volta, insieme all’altra di fare la rivoluzione, ed esso se le lasciò sfuggire entrambe. Come scriverà acutamente nel 1926 “Il quarto stato”, la bella rivista di P. Nenni e di C. Rosselli dalla quale prese le mosse il primo tentativo di rinnovamento del nostro socialismo:
“Dopo Caporetto un neutralismo marca Lazzari non aveva significato ed era profondamente impolitico; dopo Caporetto bisognava tentare la lotta aperta contro la guerra, cioè l’insurrezione, o bisognava aderire, come fecero Turati e Treves in un memorabile scritto, alla dolorosa realtà nazionale. Vi edi mezzo in quell’ora non erano concepibili”.
P. 365
Lasciatisi sfuggire l’occasione per tentare una nuova prova di forza rivoluzionaria, i socialisti da un lato ridussero il loro partito a due tronconi che stavano insieme solo in virtù del “patriottismo di partito” e della particolare situazione, ma che erano destinati inevitabilmente a separarsi, da un altro lato finirono per isolarsi completamente nel paese, ignorandone i più gravi problemi del momento e attirandosi gli odi di una parte notevole di esso e soprattutto della parte più impegnata materialmente e psicologicamente nella guerra. Certo, nell’immediato dopoguerra questa opposizione intransigente avrebbe convogliato verso di loro – come verso i cattolici che, seppur in diverso modo, non avevano voluto la guerra – vasti consensi popolari, che tuttavia, a causa di una serie di gravissimi errori tattici (connessi in gran parte proprio al modo con cui i socialisti avevano vissuto la guerra) e di una concezione elementarmente mitica della rivoluzione, non avrebbero saputo guidare, sicché l’errore commesso nel 1914-15 e ribadito nel 1917 di ridurre tutto i problemi a “rosso” contro “tricolore” si sarebbe dimostrato fatale e sarebbe stato il primo fattore della loro sconfitta.
P. 369
Avevano un bell’affermare i protagonisti del fascio parlamentare che questo non voleva essere un partito e che era composto di elementi eterogenei (vi erano, specificava, Pantaleoni, democratici e imperialisti), uniti solo dalla volontà di raggiungere la “vittoria integrale” e che non aspiravano a nessun incarico governativo. In realtà il timone del fascio parlamentare (presidente fu nominato il senatore Scialoja) rimase quasi completamente nelle mani della destra nazionalista che ne fece per alcuni mesi un potente strumento per orientare tutte le forze “nazionali” nel senso da essa voluto, sicché anche buona parte degli interventisti democratici e rivoluzionari che vi aderì o ne fiancheggiò l’opera finì per esserne influenzata o, almeno, per esserne indotta a modificare alcune sue precedenti posizioni o a sostenerle, per amor di concordia, con minor chiarezza ed asprezza; soprattutto, nell’opinione pubblica meno qualificata si diffuse l’impressione che la posizione del fascio parlamentare contribuì notevolmente ad accelerare e a rendere più netto il processo di differenziazione interna dell’interventismo, già in atto – come si è visto – prima di Caporetto e che dalla sconfitta militare aveva ricevuto una nuova spinta centrifuga.
Accennando alle grandi linee di questo processo, il Bonomi ha scritto:
“Mentre le ali estreme dell’interventismo chiedevano qualche cosa come la Convenzione e il Terrore, che salvarono la Francia del 1792 dalla rivolta interna e dalla invasione straniera, gli elementi più misurati delle stesse correnti interventiste riconoscevano che interesse dell’Italia era di ricostituire, in quell’ora, l’unità degli italiani”.
Che questo fosse il desiderio della parte migliore dell’interventismo è incontestabile. E’ però un fatto che su questo punto l’interventismo fallì completamente. L’irrigidimento patriottico del paese fu sostanzialmente un fenomeno spontaneo, su cui l’interventismo di sinistra influì in misura molto scarsa e non seppe impedire che i frutti politici di esso fossero raccolti soprattutto dalla destra, sicché in pratica Caporetto significò un ulteriore spostamento a destra dell’asse politico italiano, un prevalere dei liberali nazionali e nazionalisti: nonostante alcuni apparenti successi, l’interventismo di sinistra giunse al novembre 1918, alla vittoria, notevolmente indebolito, più isolato, sfaldato e pericolosamente inquinato da tutta una serie di germi involutivi che nella crisi dell’immediato dopoguerra ne avrebbero rapidissimamente determinato la trasformazione e, di fatto, la morte.

Dal tronco del Partito socialista nacque il Partito comunista, da quello dell’interventismo di sinistra i Fasci di combattimento, due movimenti profondamente diversi e che si svilupparono in ambienti sociali opposti, ma che trovarono origine nella stessa congiuntura storica e in una situazione psicologica molto simile.
P. 372-371
Abbiamo parlato del fascio parlamentare. Attorno ad esso e alle preesistenti organizzazioni per la resistenza e la difesa del fronte interno, tra la fine del 1917 e i primi mesi del 1918 si venne costituendo (probabilmente anche con il concorso dei vari uffici di controspionaggio, contropropaganda, ecc.) un gran numero di altre organizzazioni maggiori e minori, pubbliche e segrete, sulle quali oggi – sia pure col sussidio degli archivi di polizia – è difficile fare luce, definendone chiaramente, una per una, la fisionomia particolare e, più difficile che mai, stabilendo con precisione i confini tra l’una e l’altra. Molto spesso i quadri di queste organizzazioni erano composti dia medesimi elementi e la loro attività si intersecava e si esplicava, a seconda delle località, dei momenti e dei punti d’applicazione, in una infinità di rivoletti dei quali quasi mai è possibile individuare con certezza la sorgente e lo sbocco. Nate con lo scopo di sostenere la resistenza e di vigilare sul fronte interno, la grande maggioranza di queste organizzazioni – attorno alle quali finivano per gravitare altre dal passato serio e talvolta glorioso, come la Trento e Trieste e la Dante Alighieri – giovò ben poco a rianimare la gente: invece di aiutare la distensione degli animi e l’unione delle energie in funzione della vittoria, esasperò i contrasti esistenti e ne produsse di nuovi, ammorbando l’atmosfera nazionale di odio, d’isterismo, di violenza repressa, sicché non crediamo di esagerare affermando che proprio a questo submondo politico – nonostante alcune (molto rare) eccezioni – si deve fare in gran parte risalire la responsabilità del clima di tensione e di insanabile frattura psicologica, ancor più che politica, in cui si venne a trovare l’Italia nel dopoguerra e della involuzione nazionalista di gran parte dell’interventismo e della stessa opinione pubblica “nazionale”.
Pp. 386-387
L’ultimo anno della guerra europea, apertosi con Caporetto, fu l’anni decisivo della guerra italiana, poiché ne portò a compimento il ciclo, non solo militarmente ma anche, per quello che qui più ci interessa, politicamente, e segnò in effetti la subordinazione dell’interventismo democratico e rivoluzionario ai nazionalisti e alla destra “interventista”, sia sul piano dell’effettiva direzione politica del paese sia su quello della concreta adesione della maggioranza borghese alle tesi nazionaliste. Esso fu anche un anno decisivo della vita di Mussolini, paragonabile forse solo al 1914, col quale – del resto – ha più di un punto in comune. Tra la fine del ’17 e la fine del ’18, tra Caporetto e la vittoria, nella posizione politica di Mussolini ebbe infatti inizio un’evoluzione, a nostro avviso, di estrema importanza, la più determinante di tutta la sua vita.
Un’evoluzione che nel giro di tre anni lo avrebbe portato dal socialismo al fascismo (nel senso completo che questo termine ha storicamente per noi) e nel giro di altri quattro allo stabilimento della dittatura in Italia. Ci pare si possa infatti correttamente parlare di un unico ciclo evolutivo che va da Caporetto al 3 gennaio 1925 attraverso due fasi o semicicli che trovano il loro punto di congiunzione e di divisione al tempo stesso negli ultimi mesi del 1920, allorché, con l’affermarsi del fascismo agrario e con l’accordo Mussolni-Giolitti nacque – come ha scritto molti anni orsono un acuto osservatore portoghese della realtà italiana [Homem Christo] – il fascismo vero e proprio. In questa prospettiva, siamo convinti che la crisi del 1914 fu per Mussolini sostanzialmente meno determinante della crisi di Caporetto.
Pp. 391-392
Due anni e mezzo di partecipazione italiana alla guerra e soprattutto la crisi di Caporetto…lo avevano portato a rendersi progressivamente conto, forse come nessun altro, della necessità di cercare nuove formule politiche (e quindi nuove alleanze) più aderenti alla nuova realtà che capiva si andava delineando, anche se, per il momento, egli non era ancora in grado di stabilire bene quali caratteristiche essa avrebbe avuto.

Da qui il suo progressivo allontanarsi dal socialismo, il suo “superarlo” – sia pure confusamente – nel trincerismo e nella formula di una nuova società dei combattenti e dei produttori

Persa irrimediabilmente così la possibilità di agire sulle masse proletarie, l’unica forza per realizzare una politica nuova erano i trinceristi, i combattenti.

A farli pervenire al successo nel ’21 e nel ’22 saranno tre fattori. La miopia e il settarismo dei socialisti; la volontà di rivincita e di reazione della nostra borghesia industriale e soprattutto agraria che seppe trasformare e canalizzare il fascismo delle origini sino a farne un’altra cosa: lo strumento del suo potere di classe, aiutata in ciò dall’inadeguatezza di una classe politica incapace di rendersi veramente conto delle profonde trasformazioni economiche, sociali e morali prodotte dalla guerra; e l’estrema duttilità politica – da grande politico, sua pure nel senso deteriore della parola – di un uomo, Mussolini, che a sua volta seppe accantonare e in pratica a rinunciare progressivamente a tutta una serie di principi e di idee sull’altare della manovra e del successo politico, ma che, al tempo stesso, aveva saputo al momento giusto capire, al contrario degli altri uomini politici del momento, che perciò si bruciarono o furono sconfitti, che la guerra aveva creato una nuova massa, con proprie aspirazioni sociali e morali, i trinceristi, che, finita la guerra, non si sarebbe dissolta per il solo fatto di essere smobilitata e che per un certo periodo almeno, avrebbe costituito – se compresa – una forza di manovra formidabile.
Pp. 594-595
Scritto di Mussolini sull’abbandono del socialismo:
“Oggi, dopo quattro anni, dalla testata di questo giornale scompare il sottotitolo di socialista. Un altro lo sostituisce che mi piace di più e che i lettori – io credo – apprezzeranno di più. D’ora innanzi questo giornale sarà il giornale dei combattenti e dei produttori…. Quel “socialista” che figurava in testa del giornale aveva senso nel 1914 e voleva dire che nel 1914 si poteva essere socialisti – nel vecchio senso della parola – e nello stesso tempo favorevoli alla guerra. Ma in seguito la parola “socialista” era diventata anacronistica. Non mi diceva più niente. Offriva, anzi, tutti gli inconvenienti della possibile confusione cogli “altri”…. Quell’affermare che il vero, autentico, il genuino socialismo – in base ai testi, alla tradizione, agli apostoli – era il nostro, soltanto il nostro, in antitesi cogli altri che rivendicavano altrettanta verità e autenticità per il loro socialismo, era, alla fine, grottesco e burlesco come la concorrenza di due botteghe. Questa che non è una bottega, non è mai stata, non sarà mai una bottega, cambia insegna e lascia all’altra il monopolio del mercato. In realtà deve essere difficile per quei signori collocare la loro merce. La merce è di qualità scadente. E’ ancora rigatteria dell’anteguerra… Combattenti e produttori. Mi propongo di sostenere i diritti e gli interessi degli uni e degli altri. Combattenti e produttori, il che è profondamente diverso dal dire operai e soldati. Non tutti i soldati sono combattenti e non tutti i combattenti sono soldati. I combattenti vanno da Diaz all’ultimo fantaccino. Produttori, cioè quelli che producono, che lavorano, ma non soltanto colle braccia... Difendere i produttori vuol dire combattere i parassiti. I parassiti del sangue, fra i quali tengono il posto in prima fila i socialisti, e i parassiti del lavoro che possono essere borghesi e socialisti… Difendere i produttori significa permettere alla borghesia di  compiere la sua funzione storica – ci sono ancora due continenti quasi intatti che attendono di essere travolti nel turbine della civiltà moderna capitalistica – e significa anche agevolare agli operai il conseguimento del maggior benessere per il maggior numero e lo sviluppo di quelle capacità che possono a un dato momento sprigionare dalla massa lavoratrice le nuove aristocrazie dirigenti delle nazioni. Nel sindacalismo operaio, quando sia rimasto immune dall’infezione del socialismo politico, nel sindacalismo che combatte e lavora, c’è un elemento e una ragione profonda di vita”.
P. 406
Alla base di queste affermazioni di Mussolini sono, a nostro avviso, almeno tre ordini di problemi e di suggestioni, di diversa portata ed importanza, ma da cui non ci pare si possa prescindere. Primo elemento base è un certa atmosfera, un certo fermento generale che, con l’avvicinarsi della fine della guerra, era diffuso in vari ambienti socialisti europei, francesi soprattutto, che non si erano lasciati suggestionare dall’entusiasmo indiscriminato per la rivoluzione bolscevica e che, anzi, lo avevano molto spesso respinto. La guerra aveva prodotto in molti paesi belligeranti un enorme sviluppo della produzione, sia nei settori più propriamente connessi all’industria bellica sia in quelli ad essa collaterali, nonché un notevole progresso tecnico e un forte incremento della occupazione operaia (maschile e soprattutto femminile) dal quale, infine, non era andato disgiunto – almeno in alcuni paesi – anche un certo aumento (anche proporzionalmente molto inferiore) de salari e delle mercedi.
Il dopoguerra si presentava profondamente ipotecato dal problema della riconversione e spesso della conversione tout court dell’apparato industriale bellico alla produzione di pace. Solo così si sarebbe potuto mantenere alto il livello produttivo, si sarebbero evitati la disoccupazione e il crollo dei salari e si sarebbero potute assorbire le masse di mano d’opera rese disponibili dalla smobilitazione. In questa prospettiva, una ripresa pure e semplice dei vecchi indirizzi e dei vecchi metodi della lotta operaia sembrava ad alcuni impossibile, perché avrebbe aggravato, in ultima analisi, la crisi generale e il primo a farne le spese sarebbe stato proprio il proletariato. Il trinomio lavoro-produzione-scambio appariva il punto fermo di una politica operaia nuova: il progresso sociale poteva essere realizzato solo attraverso il massimo aumento del reddito assicurato da un potente sviluppo dell’economia capitalistica, opportunamente corretta in alcuni suoi aspetti. Dunque, gli interessi del proletariato e, più in genere, dei produttori si identificavano con l’interesse nazionale.
P. 408
In conclusione, sula base di questo complesso di documenti ci pare si posa ritenere che il “superamento” del socialismo fu per Mussolini la conseguenza di un suo autonomo processo di evoluzione-involuzione, ad esso concorsero anche motivi di altro genere, come il desiderio di assicurare una nuova e più sicura fonte di finanziamento al suo giornale. Si può dire – certo – che, ancora una volta, gli interessi e i fini di Mussolini e dell’Ansaldo erano convergenti e che, pertanto, nell’accordo Mussolini non veniva meno ai suoi principi. Tuttavia, l’episodio dei veri motivi della soppressione dell’edizione romana del Popolo d’Italia – se vero, ma non si vede come potrebbe non esserlo, data anche la ricchezza dei particolari – dimostra fino a che punto fosse già arrivato a quest’epoca la spregiudicatezza di Mussolini e quanta strada egli avesse fatto sulla via del compromesso e del cedimento su un piano che se non era di principi politici era certo di principi morali ben precisi.
P. 417-418

Cap. 12. La crisi dell’immediato dopoguerra: i fasci di combattimento
La conclusione della guerra, più o meno prossima che fosse, riportava infatti in primo piano per gli interventisti il problema di questi partiti. Salvo rare eccezioni e ripensamenti, il solco che la guerra aveva scavato tra interventisti e neutralisti non era destinato a colmarsi con la fine della guerra. In molti casi esso sarebbe sopravvissuto ancora per molti anni, anche dopo che l’affermarsi del fascismo, prima come partito e poi come regime, avrebbe provocato un riavvicinamento e un accordo in funzione antifascista tra alcuni settori del “neutralismo” e alcuni gruppi dell’”interventismo”. Tanto più insanabile doveva apparire il contrasto alla fine del ’18. La pace sotto questo profilo non poteva non essere che un prolungamento della guerra: nel nuovo clima di progressiva liberalizzazione della vita politica e di fronte allo scatenarsi senza più alcun freno dei reciproci odi e dei reciproci settarismi, il solco tra i due blocchi era inevitabilmente destinato ad approfondirsi e non a colmarsi.
P. 421
Discorso di Buozzi:
“Noi – aveva detto – siamo risolutamente contrari alla teoria che l’organizzazione e l’organizzatore debbono sempre seguire la massa, anche se disorganizzata e volubile. Tale teoria rende inutile l’organizzazione. Serve a formare dei ribelli di un’ora, ma non mai delle coscienze rivoluzionarie, serve a radunare improvvisamente delle migliaia di operai, facili da condurre al macello, ma che se ne andranno immediatamente appena finita l’agitazione per la quale si sono associati. La coscienza delle masse si sviluppa e si dimostra con l’opera perfezionata, illuminata e disciplinata, la quale – anche attraverso qualche rinuncia che spesso è segno di forza- sa conquistare e, poi, difendere e conservare per prepararsi a nuove conquiste”
P. 423
Il Partito socialista – nonostante annoverasse uomini come Turati, come Buozzi, come lo stesso Serrati e, su un’altra sponda, come Gramsci – non seppe cogliere il valore di questa nuova situazione e persistette nel suo rivoluzionarismo prebellico, reso ancora più sterile dal sistematico affrontare tutti i problemi sull’esempio russo, sull’esempio cioè  di una realtà completamente diversa da quella italiana. Sopraggiunta la pace il Partito socialista non seppe lanciare che due parole d’ordine, quella dell’istituzione di una repubblica socialista e quella della dittatura del proletariato, con il solo risultato di isolarsi dalle forze che avevano il potere e di dare inizio a una sempre più grave crisi dei suoi rapporti con la CGL.
Questa, rendendosi interprete di un sentimento largamente diffuso nel paese, si pronunciò, tra l0altro, per la convocazione di una Costituente; la direzione socialista la respinse come “una rivendicazione borghese e propria di coloro che avevano voluto la guerra”. In questa motivazione negativa è tutto il dramma del socialismo italiano nell’immediato dopoguerra.
P. 425
Si racconta spesso che Lenin abbia detto ad alcuni delegati socialisti a Mosca che i socialisti italiani si erano lasciati sfuggire l’unico uomo che sarebbe stato capace di fare la rivoluzione in Italia: Mussolini.
P. 427
Scritto di Nenni:
“Un’ortodossia puramente formale, un rivoluzionarismo puramente verbale, l’assenza di senso politico e cioè di piani concreti e precisi, il distacco fra Partito e Paese, l’aver sacrificato il valore universalmente umano del socialismo facendone un affare interessante esclusivamente talune categorie operaie, ecco ciò che ha portato al disastro del 1922 il movimento socialista, proprio nell’ora in cui la via gli si presentava libera per definitive realizzazioni. Ma i progressi che si potevano compiere furono giudicati disprezzabili, quelli che si diceva di voler conseguire erano così sproporzionati al rapporto delle forze che rimasero come una aspirazione del tutto utopistica”.
P. 428
Tale massiccio aumento del costo della vita (al quale le classi più umili non potevano sottrarsi neppure col tradizionale sistema dell’emigrazione – che negli anni prebellici aveva avuto un ritmo medio di 650 mila unità annue – dato che una serie di norme restrittive imposte dai paesi classici d’immigrazione aveva ridotto molto il flusso migratorio) ebbe, ovviamente, immediate ripercussioni sociali e politiche, i cui frutti furono raccolti, altrettanto ovviamente, non dai partiti della sinistra interventista, ma da quelli socialista e popolare e di destra.
P. 434-435
Scritto di Alfredo Rocco:
“Oggi, se si vuol salvare l’economia italiana dal disastro, e renderle possibile la ripresa del lavoro, con l’energia e la preparazione raddoppiate dalla guerra, occorre che si concluda rapidamente la pace, e che nel trattato di pace siano assicurate all’Italia le condizioni indispensabili della sua restaurazione economica. E’ necessario pertanto: 1) che l’Italia si totalmente sgravata dal suo debito estero, sia mediante remissione, sia mediante trapasso id accollo agli stati nemici, a scomputo della indennità di guerra dovutaci…; 2) che sia assegnata all’Italia una congrua indennità di guerra…. ; 3) che siano date all’Italia colonie non solo capaci di assorbire parte importante della sua emigrazione, ma anche che possano rifornirla di materie prime, carbone, petrolio, cotone.”
P.441
Gli Stati Uniti non avevano sottoscritto il patto di Londra, non lo avevano mai riconosciuto o accettato e lo spirito del patto era nettamente in contrasto con l’impostazione che Wilson aveva ritenuto di dover dare alla guerra e ai suoi famosi quattordici punti. Francesi ed inglesi avrebbero rispettato il patto di Londra e in ultima analisi si sarebbe potuto trovare il modo per ottenere che Wilson non sollevasse obiezioni. Bisognava però – come era nella linea di Sonnino – pretendere il rispetto del patto di Londra in nome di una concezione meramente politica e di potenza dei rapporti internazionali e della santità degli impegni sottoscritti e poi pretendere, come volevano i nazionalisti, parte della destra e persino parte dell’interventismo di sinistra, Fiume in nome del principio di nazionalità e di autodecisione dei popoli era evidentemente un assurdo. La politica delle nazionalità doveva essere accettata o respinta, con tutte le responsabilità e le implicazioni che questi due atteggiamenti comportavano. Due concezioni antitetiche erano a confronto.
P. 445

Qualcuno potrebbe dire che l’interventismo democratico aveva già perduto la sua battaglia almeno nel momento in cui – nell’estate del 1918 – Bissolati non era riuscito, neppure con la minaccia di dimettersi, a far mutare rotta al governo e si era dovuto accontentare della vaga e per nulla impegnativa deliberazione del Consiglio dei ministri dell’8 settembre circa l’indipendenza jugoslava. In realtà le critiche che qualcuno muove alla “debolezza” mostrata in quell’occasione dal leader riformista non ci sembrano giustificate. Nel momento in cui si tornava, e con più concretezza, a parlare di trattative di pace negoziata tra gli alleati e gli imperi centrali, il posto di Bissolati non poteva essere che al governo per cercare di sventare il pericolo di una simile soluzione: una pace negoziata, di compromesso, avrebbe infatti significato l’affossamento della politica delle nazionalità che si fondava innanzi tutto sul principio della distruzione dell’Impero austro-ungarico, distruzione che una pace negoziata escludeva a priori. L’interventismo democratico – a nostro avviso – perse la sua battaglia invece tra la fine del dicembre 1918 e la metà del gennaio 1919, con le dimissioni di Bissolati dal governo e con il suo famoso discorso alla Scala. La perse quando non riuscì a far accettare in sede governativa la formula ”Wilson o Lenin” prima e poi quando in pratica non tentò neppure di rilanciarla chiaramente nel paese, lasciando che ad essa ne fosse preferita invece un’altra che si potrebbe così sintetizzare: “nazionalismo o Lenin”.
P. 449
Citazione da Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, 1919-1920
“Alla stregua dei documenti risulta infondata la versione della intransigenza italiana e particolarmente sonniniana, pur essendo pienamente confermato il difetto di preveggenza e di preparazione da parte nostra. Fin dai primi scontri “ad altissimo livello” Orlando e Sonnino accettarono di fatto la transazione o scambio Fiume-Dalmazia; in secondo tempo ammisero, al posto dell’annessione italiana, l’ipotesi dello stato libero di Fiume, pur rimanendo fermi nel non sacrificare a questo l’Istria orientale”.
P. 452
Contro il pericolo bolscevico il Presidente del consiglio ritenne opportuno – come Sonnino – non scoraggiare il nazionalismo, anche se in pratica si accingeva a trattare a Parigi su basi che non possono essere considerate nazionaliste. Così facendo Orlando si assunse certo delle gravi responsabilità, annaffiò – se così si può dire – una pianticella che, grazie anche a lui, sarebbe diventata sempre più grande e robusta e avrebbe invaso tutto il campo italiano soffocando o quasi tutte le altre e ammorbandone l’atmosfera. Bissolati dal canto suo aggravò ulteriormente i termini della situazione.
P. 453
Una errata politica di governo – ha scritto lo Chabod – che aveva voluto applicare a un periodo di crisi profonda della storia europea criteri politici e diplomatici ormai sorpassati, portò così a quella che si può chiamare “la crisi della vittoria”. Certo, alla conferenza della pace furono commessi errori anche da parte delle potenze alleate, e soprattutto da Wilson, che a un certo punto parve voler applicare solo nei confronti dell’Italia i suoi famosi “principi”. Tirate le somme, molti italiani ebbero l’impressione che tutti gli sforzi compiuti durante la guerra fossero misconosciuti. Cominciò a circolare una espressione molto significativa: “la vittoria mutilata”. La ritroviamo sulla bocca degli studenti e degli ufficiali appena tornati dal fronte. Il sentimento nazionale s'esaspera sempre più. La propaganda nazionalista dei Federzoni, dei Corradini, ecc., ha quindi buon gioco ad eccitare il sentimento nazionale.
P. 457
Di qui il risultato delle elezioni di novembre, le prime del dopoguerra e dal 1913, le prime con la proporzionale nella storia d’Italia, che fecero il bilancio della crisi dell’immediato dopoguerra: spazzati via i partiti dell’interventismo di sinistra, i grandi trionfatori furono i socialisti e i popolari, mentre la destra – ancora priva di un punto di forza – andava organizzandosi; i partiti del vecchio stato liberale perdevano la maggioranza in parlamento e, quel che è peggio, perdevano la loro omogeneità interna, parecchi degli eletti nelle liste di centro, specialmente in quella liberale, erano in realtà conservatori, nazionalisti. Giustamente l’Unità, commentando i risultati delle elezioni e il peso che in essi avevano avuto le inquietudini nazionalistiche e antisocialiste, osservava che “dei 250 deputati che formano la massa intermedia, moltissimi sono stati letti solo in quanto riconosciuto la legittimità di quelle inquietudini e si sono impegnati a combatterne le cause.
458-459
Chi ripercorra oggi gli avvenimenti che portarono Mussolini alla fondazione dei fasci di combattimento e, più in qua ancora, al suo accordo con Giolitti dell’autunno 1920 non può non rilevare due fatti fondamentali. Primo, nei due anni che intercorsero tra la fine della guerra e l’accordo con Giolitti Mussolini si mosse in una direzione sostanzialmente univoca, ma altrettanto sostanzialmente tracciata giorno per giorno, frutto non già da un piano e di una consapevolezza precisi, ma – al contrario – determinati da un successivo adeguamento e inserimento nella situazione in atto. Secondo, quando diede vita ai fasci di combattimento Mussolini non aveva la più pallida idea di dove essi lo avrebbero portato.
P. 460
Da qui la vera grande, definitiva svolta mussoliniana della fine del 1920, quella svolta che, dopo un nuovo tentativo di “farsi una cuccia”, comoda sin che si vuole ma sempre “cuccia”, nel sistema, lo avrebbe portato al 3 gennaio 1925.

I fasci di combattimento nacquero in un clima confuso e contraddittorio, nacquero essi  pieni di confusioni e contraddizioni, nacquero contro il partito socialista e inquinati di nazionalismo. Nacquero però indubbiamente su un terreno e con una prospettiva di sinistra.

Ciò che importa è non spostarne l’origine su un terreno diverso, frutto del senno del poi, che ne sviserebbe il significato storico, ne renderebbe incomprensibili le vicende e soprattutto renderebbe impossibile una giusta ricostruzione dell’azione politica di Mussolini in questo periodo.
P. 461
Al primo fascismo i futuristi avrebbero però anche portato un fervore a suo modo morale, che mancherà completamente al successivo fascismo, che in quel momento varrà a conciliargli le simpatie di alcuni intellettuali, e un tipo particolare di “nazionalismo cosmopoliteggiante” e democratico, che nulla aveva a che vedere con quello bolso, retorico, “romano”, clericaleggiante e grettamente imperialista dei vari Corradini, Coppola e Federsoni.
P. 475
Alla luce di queste due nuove prese di posizione, ci pare evidente che fra la fine del ’18 e i primi mesi del ’19 il produttivismo mussoliniano venisse prefigurandosi sostanzialmente come un nuovo riformismo, che trovava il suo fondamento e la sua ragion d’essere nel parallelo interesse del capitalismo (un capitalismo per altro sempre più anonimo e collettivo) e del proletariato al mantenimento e all’incremento incessante della produzione, unica vera fonte per tutti di benessere e di sviluppo sociale e per un’elevazione dei lavoratori a produttori anch’essi e quindi a cittadini nel senso più pieno del termine; questo produttivismo si distingueva dal vecchio riformismo, dato che a realizzarlo dovevano essere i sindacati.
P.494
Ugualmente, alla luce di queste due prese di posizione più generali, “teoriche”, non solo appare chiaro il significato e il valore di tutta un’altra serie di prese di posizione mussoliniane dello stesso periodo, favorevoli alla CGL e in particolare ai suoi esponenti riformisti più insofferenti alle inframmettenze del Partito socialista nella politica confederale, ma è possibile capire le motivazioni, non solo tattiche, che a lungo - si–o alla marcia su Roma e ancora dopo sino alla crisi Matteotti – indurranno Mussolini a distinguere tra CGL e Partito socialista, a ricercare un accordo con la prima e a combattere violentemente il secondo.
P. 495
L’affermazione finale di Mussolini è per noi del più vivo interesse. Non solo, infatti, dimostra, come Mussolini contasse su una crisi del Partito socialista, con relativa scissione tra massimalisti e riformisti; ma – quel che più qui importa – partendo da questa premessa d’ordine politico generale ci permette di gettare un po’ di luce su un episodio tra i meno chiari e più scarsi di elementi precisi di documentazione della vita di Mussolini, che deve essersi verificato appunto nella prima metà di aprile. Ci riferiamo ai sondaggi che in questo periodo Mussolini fece per un eventuale suo rientro nel Partito socialista. La cosa può sembrare a prima vista strana, incredibile addirittura; a ben vedere essa risponde però ad una logica tutt’altro che assurda. Sino ad ora sull’episodio si aveva solo un vaghissimo accenno nei ricordi di Mario Montagnana. Parlando delle origini del movimento fascista e della posizione di Mussolini, il Montagnana ha scritto:
“Finita la guerra erano pure finiti, per Mussolini, i sussidi straordinari e l’appoggio delle forze che, in Italia, avevano voluto l’intervento… Su chi puntare? Ritornare nelle file socialiste non era possibile. Qualche approccio in questo senso era stato fatto; ma il socialismo italiano, che aveva vomitato dal suo seno il fondatore del Popolo d’Italia, non aveva nessuna intenzione di accoglierlo un’altra volta.”
Pp. 497-498

La riunione di Piazza San Sepolcro fu insomma, più che un vero e proprio convegno costitutivo di un movimento politico muovo, una adunata di persone politicamente affini che stabilirono in quell’occasione di rendere più stabili i loro reciproci rapporti e, all’atto pratico, si trovarono d’accordo su un programma negativo, genericamente orientato a sinistra e ancor più genericamente orientato nel senso di un “nuovo ordine” che neppure essi sapevano bene prefigurarsi. Sul piano positivo dalla riunione del 23 marzo non uscì praticamente nulla, nulla, almeno che non fosse comune alla gran maggioranza del rivoluzionarismo non inquadrato nel Partito socialista. E – ciò che è più significativo – non emerse neppure una chiara volontà, uno sforzo sia pure velleitario, della maggioranza a darsi un programma positivo. Se qualcosa in questo senso fu fatto, nei mesi immediatamente successivi, lo fu ad opera esclusivamente del gruppo milanese, che, di fatto, non solo costituì il vertice del movimento ma – almeno per un certo periodo – costituì in realtà tutto il movimento o quasi.
P. 509

Se all’atto pratico l’accantonamento non si verificò e Mussolini finì anzi per puntare tutte le sue carte sui fasci, non fu perché si fosse reso conto in un successivo momento che i fasci potevano diventare un potente strumento politico – ché di questo crediamo non se ne rese conto se non verso la  fine del 1920 e i primi del 1921 quando essi in pratica stavano diventando tutt’altra cosa di ciò che erano stati nel 1919 ed egli non fece che adeguarsi a questa trasformazione in atto – ma piuttosto perché, prima il fallimento dei sui progetti di dar vita ad un blocco delle sinistre interventiste, e poi quello delle sue ambizioni elettorali, lo costrinsero ad aggrapparsi all’unica sia pur modestissima base politica sulla quale potesse contare e colla quale potesse giustificare la sua permanenza sulla scena politica.
P. 513

Citazione di D’Annunzio
“Io personalmente non sono iscritto nei fasci di combattimento ma ci tengo a far sapere che ciò è dovuto soltanto alla mia particolare posizione di segretario dell’Unione Italiana del lavoro, che m’impone il dovere di non vincolarmi ad alcun altro movimento. Se non fosse per questo farei parte dei fasci, non già perché trovi in tutto e per tutto accettabile l’azione di essi; ma perché – con tutte le loro manchevolezze – rappresentano oggi l’unico movimento politico italiano che contrasti con efficacia e con energia la gretta incapacità delle classi dirigenti e il demagogismo socialneutralista”
P. 516

Sicché il risultato politico [dello sciopero] fu sostanzialmente controproducente: invece di dimostrare la forza del movimento operaio socialista esso ne mise in luce l’intima debolezza e invece di mettere paura al governo e alla borghesia li rianimò, tanto che quest’ultima, finalmente liberata dall’incubo, cominciò ad accarezzare propositi, sin lì covati in segreto e frenati dalla paura, di rivalsa. Sotto questo profilo si può anzi dire che con lo “scioperissimo” dal luglio 1919 incominciò in Italia il declino dell’”ondata rossa”, quel declino che, attraverso il fallimento dello sciopero torinese dell’aprile ’20, sarà irrimediabilmente consacrato di lì a poco più di un anno dal fallimento dell’occupazione delle fabbriche.
P. 537

 

Due giorni dopo il congresso fascista di Firenze (di cui avremo l’occasione di parlare nel prossimo capitolo) si dimostrò però più duttile: l’o.d.g. da esso approvato in vista delle ormai prossime elezioni ribadì infatti il concetto che “il blocco preferibile per i fascisti è quello che comprende i volontari di guerra, gli arditi, gli smobilitati, i combattenti, i repubblicani, i socialisti interventisti, i futuristi”.
P. 542

Con il definitivo fallimento delle trattative per la costituzione, almeno a Milano, di un blocco dei partiti e delle organizzazioni dell’interventismo di sinistra si può considerare concluso il primo periodo della storia dei fasci di combattimento e, più in genere, un’epoca ben precisa della vita di Mussolini. La parola fine, in verità, l’avrebbero messa le elezioni politiche del novembre successivo, sancendo la clamorosa sconfitta dei fasci di combattimento e di Mussolini, rimasti praticamente isolati nel fronte interventista e avversati da tutto gli altri gruppi politici, di estrema sinistra come di centro e di destra; la forzata decisione di affrontare le elezioni col solo appoggio degli arditi, dei futuristi e dei volontari di guerra aveva in realtà però già sancito questa sconfitta che il verdetto delle urne non fece che confermare. Per anni, prima nel Partito socialista e poi nell’interventismo, Mussolini aveva cercato di portare avanti una politica “unitaria”. Ora, questa politica, dopo una serie di insuccessi parziali, toccava il suo fondo. Mussolini ed i fasci non costituivano ormai che una infima minoranza, isolata politicamente e sostanzialmente combattuta da tutte le forze politiche. Neppure la loro partecipazione attiva e decisa all’impresa fiumana di D’Annunzio sarebbe riuscita – come pure era sembrato e Mussolini aveva sperato – a controbilanciare lo scacco subito col fallimento dei tentativi bloccardi. Scattata l’operazione di Fiume e dimostratosi il governo Nitti impotente a soffocarla, anche il ruolo dei fascisti all’interno del movimento fiumano avrebbe rapidamente perduto l’importanza, sia per la dimostrazione della sua debolezza sancita dalle elezioni, sia per lo svuotamento dei fasci in seguito all’andata a Fiume di buona parte dei loro iscritti, sia infine per l’affermarsi a Fiume, attorno a D’Annunzio, dei nazionalisti decisamente contrari a Mussolini. Nel corso del ’20 ai nazionalisti si avvicenderanno – come è noto – attorno a D’Annunzio alcuni elementi della sinistra interventista, in primo luogo De Ambris che del “comandante” sarebbe divenuto il più stretto ed influente collaboratore. Ma quando questa svolta si verificò, i rapporti D’Annunzio-Mussolini e De Ambris-Mussolini si erano nel frattempo così deteriorati che Mussolini e i fasci di combattimento non se ne poterono giovare per nulla e, anzi, ne risultarono vieppiù isolati. Ciononostante, il ’20 fu l’anno dell’inizio della progressiva affermazione fascista. Come vedremo nei prossimi capitoli, nel 1920 Mussolini, resosi conto infatti della gravità del suo sempre più completo isolamento, compì – da politico – la sua scelta: la sinistra lo respingeva; dunque, il suo spazio non poteva che essere a destra. A destra, i fasci di combattimento potevano realizzare quell’”unità” che Mussolini invano aveva inseguito per sette anni a sinistra. Ciò che importava era non farsi fagocitare dalla destra, non esserne uno degli strumenti – come la varie associazioni antibolsceviche – destinati, dopo l’uso, a essere lasciati cadere come qualcosa di ormai inutile e compromettente, ma – al contrario – diventarne il fulcro, facendo degli altri il proprio strumento; cavalcare insomma, come si suol dire, la tigre e non esserne solo uno dei tanti denti di cui si può benissimo fare anche a meno al momento opportuno. E in questa lotta per la sopravvivenza Mussolni fu veramente maestro; nessuno riuscì a stargli alla pari, né i nazionalisti e la destra che credettero di aver trovato in lui l’esecutore dei loro piani, né l’abilissimo Giolitti che gli diede cittadinanza nella politica italiana sicuro anch’egli di poterlo trasformare cammin facendo e di travasarlo s svuotandolo nel sistema, né gli industriali che credettero di potersene servire come una “guardia bianca” da licenziare a lavoro finito.
P. 543-544

 

 

 

 

Cap. 13. Tra d’Annunzio e Nitti

Citazione da Vivarelli:
La ostilità degli ambienti militare verso Nitti, la irritazione di molti ufficiali, superiori e inferiori, per la minaccia di disoccupazione conseguente una politica di smobilitazione, come pure i propositi di vera e propria sedizione dei nazionalisti e di alcuni generali e ufficiali superiori, tutte queste cose sono note e fuori discussione. Ma l’impresa di Fiume fu qualcosa di più che il prodotto di queste sole circostanze. Se la spedizione poté attuarsi con tanta facilità, incontrando in tutta la zona di armistizio tolleranza e favore, ciò si dovette al fatto che essa rispondeva ai sentimenti della stragrande maggioranza degli uomini che si trovavano allora sotto le armi; e anche in coloro che personalmente non sarebbero mai venuti meno agli obblighi della disciplina e che nulla avevano a che vedere con le mene del nazionalismo era profonda la convinzione che la causa di Fiume fosse una causa giusta. Fu questa convergenza di elementi disinteressati e di nazionalisti privi di ogni scrupolo che fu alla base del successo dell’impresa.
P. 546-547

Da questo breve panorama degli aspetti più propriamente politici dell’impresa fiumana un fatto ci pare emerga con chiarezza. L’impresa dannunziana ebbe un significato politico preciso solo nel suo momento iniziale. Passato questo momento e fallito praticamente l’obbiettivo di provocare la caduta del governo Nitti e una sollevazione dell’opinione pubblica in senso filodannunziano, l’impresa di Fiume perse rapidamente ogni vero valore politico. Senza effetto rimasero i tentativi, di Giuriati prima e di De Ambris poi, di ridarle un respiro politico. D’Annunzio a sua volta, con i suoi tentennamenti, le sue impennate, i suoi ripensamenti e il suo abbandonarsi a questa o a quella influenza, si dimostrò quello che era: un letterato della politica, incapace non solo di dominare la situazione, ma persino di orientarsi politicamente in essa con un minimo di coerenza. Pago del suo successo, del suo eroismo, del suo nuovo ruolo di “duce”, egli si abbandonò agli eventi, interessato forse solo di tener fede al personaggio che interpretava e che tutti, amici e nemici, se proprio non ammiravano certo guardavano con meraviglia per la sua bravura.
P. 557

Le cause di questa conversione a destra furono molteplici: esse possono però essere così riassunte. Primo: il clamoroso insuccesso elettorale dei faci e in definitiva di tutta la sinistra interventista, se, sul primo momento, provocò in alcuni fasci una reazione a sinistra, alla lunga – di fronte all’estendersi delle agitazioni socialiste e operaie in genere – orientò la maggioranza fascista verso l’unica parte politica che, in qualche modo, sembrava più in grado di resistere al fermento popolare e di essere in grado di tentare una riscossa; la destra, appunto. Secondo: i contrasti e le divergenze, in politica interna come in politica estera, con la sinistra interventista provocarono a loro volta un fenomeno eguale e contrario. Come ha scritto il Mecheri “l’incomprensione e l’ostilità più o meno larvata verso la personalità di Mussolini, non potevano non provocare fermenti di viva reazione negli ultimi dei primi fascisti sospingendo i più proclivi al risentimento verso forze che fino ad allora erano state apertamente ripudiate”. A mano a mano che questa incomprensione e questa ostilità si facevano meno larvate, la reazione dei fascisti si faceva a sua volta sempre più viva, sino a creare una divisione che non sarebbe più stata colmata. Terzo: dopo le defezioni e gli allontanamenti seguiti all’insuccesso elettorale di metà novembre molti fasci persero gran parte dei loro primitivi membri che, come si è detto, erano quasi tutti di origine socialista, sindacalista, anarchica, repubblicana e che, quindi, bene o male, conservavano una certa posizione ideale e un certo orientamento politico-sociale; nel 1920, al posto di questi elementi di sinistra (tipico il caso di Bologna dal cui fascio si dimisero quasi tutti gli elementi di origine repubblicana, alcuni dei quali – Nenni, Bergamo etc. – sarebbero presto divenuti strenui avversari del fascismo), incominciarono ad affluire elementi nuovi, di diversa origine sociale e di diverso orientamento politico, che vedevano nel movimento fascista soprattutto uno strumento di azione antisocialista e antipopolare; studenti, piccolo borghesi, ex combattenti delle classi più giovani ce erano andati in guerra senza alcuna preparazione morale e politica vivendola in maniera meramente attivistica, e che l’impresa fiumana aveva ulteriormente eccitati in senso nazionalistico, anti governativo, anti socialista, anti popolare, completando così la loro formazione di spostati, desiderosi di comandare e di rifarsi delle umiliazioni, vere od immaginarie subite ad opera del governo e dei partiti tradizionali e pronti – per realizzare le loro aspirazioni, , quelle più nobili come quelle più basse – ad ogni avventura, ad ogni violenza, ad ogni compromesso.
P. 590-91

Fallita la primissima fase dei fasci di combattimento, quando cioè Mussolini di fronte al misero esordio dei fasci aveva par alcuni mesi considerato il suo movimento come qualcosa di meramente strumentale e provvisorio e aveva puntato alla realizzazione di un più vasto schieramento interventista di sinistra, fallita questa primissima fase, Mussolini si era visto costretto ad impegnarsi a fondo nei fasci, che, per deboli che fossero, erano l’unica vera freccia al suo arco e gli davano una sorta di cittadinanza, presuntiva almeno, nella “grande politica”. In questa seconda fase egli era stato padrone assoluto dei fasci, ai quali aveva imposto senza eccessivo sforzo le sue particolari vedute e la sua politica personale. La ripresa fascista della primavera-estate 1920 (dopo il disfacimento seguito alle elezioni), della quale il congresso di Milano permise un primo parziale bilancio, aveva però, se non mutato, certo scosso questa sua posizione personale. Questa ripresa si era verificata in buona parte al di fuori del controllo e della direzione del gruppo fascista milanese, ad opera di elementi che spesso non avevano nessun precedente legame con Mussolini. Ugualmente la ripresa periferica del fascismo da un lato e la crisi del nucleo dirigente milanese originario dall’altro avevano messo in moto un processo di differenziazione e di liberalizzazione in seno allo stesso vertice fascista.
P. 593

Cap. 14. Mussolini e Giolitti: tra rivoluzione e reazione nasce il fascismo

I popolari accettarono di far parte del governo; quanto ai socialisti, l’ala riformista non sarebbe stata contraria ad una sua collaborazione, ma Turati fu costretto a declinare le offerte di Giolitti, dato che sapeva bene che la maggioranza massimalista non l’avrebbe seguito; ciononostante sino al congresso di Livorno Giolitti sperò di poter allargare la maggioranza almeno ad una parte dei socialisti
P. 599

Giolitti e i suoi più stretti collaboratori (Bonomi, Corradini) si sarebbero nel 1920 rivolti decisamente a destra e avrebbero sostenuto politicamente e addirittura armato materialmente in funzione antisocialista, la reazione in genere e il fascismo in particolare, dando così a quest’ultimo cittadinanza politica e aiutandolo ad affermarsi. Prove ne sarebbero i casi di collusione fra le forze di polizia e fascisti, tra esercito e fascisti, la costituzione, nell’autunno del 1920, di numerosi blocchi locali per le elezioni amministrative ai quali partecipavano anche i fascisti e, l’anno dopo, quella dei blocchi nazionali in occasione delle elezioni politiche, grazia ai quali entrarono a Montecitorio 35 deputati fascisti,  l’accordo Giolitti-Mussolini in occasione della liquidazione dell’avventura fiumana e, in genere, il grande sviluppo che il fascismo ebbe proprio durante l’ultimo governo Giolitti.
P. 602

Questo processo di ripresa borghese aveva avuto – come si è detto – le sue prime manifestazioni dopo il pratico fallimento dello scioperissimo del luglio 1919. I risultati delle elezioni del novembre successivo lo avevano per un momento costretto ad una battuta d’arresto, ma ben presto era ripreso vieppiù vigoroso. Sintomi eloquenti ne erano stati sin dal gennaio 1920, in occasione dello sciopero dei postelegrafonici e dei ferrovieri, la costituzione di squadre di privati cittadini che avevano volontariamente sostituito i lavoratori in sciopero. Nel febbraio successivo a Milano si era costituito, d’accordo con la prefettura, una specie di corpo volontario ausiliario per coadiuvare la forza pubblica nel mantenimento dell’ordine. E nei mesi successivi analoghi erano stati sempre più numerosi, mentre le organizzazioni padronali (come la Confederazione generale dell’industria in un convegno tenuto a Milano l’8 marzo 1920) reclamavano ormai esplicitamente un governo forte che assicurasse l’ordine e la libertà di lavoro e singoli industriali cominciavano a finanziare nei rispettivi centri organizzazioni di difesa civile. Il fallimento dello sciopero torinese dell’aprile 1920 contro l’introduzione dell’ora legale nel settembre successivo, quello dell’occupazione delle fabbriche portarono – se così si può dire – a compimento questo duplice processo.
Particolarmente grave fu lo scacco subito dal movimento operaio con l’occupazione delle fabbriche. In primo luogo, come ha notato Spriano, in questa occasione risultò evidente l’isolamento del proletariato urbano dagli strati intermedi della popolazione e dal movimento contadino, In secondo luogo l’occupazione delle fabbriche rese altrettanto evidente il contrasto di fondo esistente fra il gruppo torinese dell’Ordine nuovo, che controllava gran parte del proletariato industriale torinese, e il resto del movimento. In terzo luogo, l’abilità dispiegata da Giolitti in questa occasione, rifiutando di compiere ogni repressione, lasciando che il movimento si spegnesse da sé e, alla fine, intervenendo per convincere gli industriali ad accettare il concordato, trasformò in pratica il mezzo successo del movimento in una vera e completa sconfitta politica per i socialisti, che si troveranno a dovere ciò che avevano ottenuto dal governo.
P. 609-10

Citazione da L. Preti:
Giudicati a posteriori, gli eccessi delle leghe contadine della bassa pianura padana possono parere quasi incredibili e generare il rischio di un giudizio sproporzionalmente severo. Tutti i fatti vanno però collocati nel loro tempo, e non si può quindi giudicare l’azione delle leghe, ignorando quale crisi morale ha significato la guerra mondiale per la pacifica Italietta. La psicologa bellica tarda a spegnersi: il senso della legalità si è indebolito, gli uomini che tornano dal fronte si sono abituati a dare all’incolumità e alla stessa vita del prossimo un valore relativo, e troppa gente è convinta in conclusione che la forza sia il metodo migliore per risolvere i problemi. Questa crisi morale, che investe tanta parte della borghesia, cui l’educazione e la consuetudine dovrebbero avere assicurato sufficienti poteri inibitori, tanto meno può risparmiare dei poveri braccianti privi di cultura, che hanno dietro di se una vita di sofferenze e di rinunzie.
P. 612

Citazione da A. Tasca:
chi non passa attraverso la lega contadina e, accettando un salario più basso, lavora tutto l’anno, riduce la porzione vitale degli altri, che lo vessano senza pietà. Il giallo è boicottato; il fornaio gli deve rifiutare il pane; egli è trattato come un lebbroso, come pure sua moglie e i suoi bambini: intorno a lui si fa il vuoto, sicché egli deve piegarsi o abbandonare il paese. Multe e taglie sono imposte ai proprietari che l’hanno impiegato e che hanno violato il contratto di lavoro. Il sistema, per funzionare, deve essere totalitario, perché ogni breccia che si apre può ridurre gli altri lavoratori alla fame. Si diffida allo stesso tempo della piccola proprietà, e ci si sforza di impedirne lo sviluppo…. Certe Camere del lavoro, come quelle di Bologna, di Reggio Emilia, di Ravenna, controllano quasi tutta la vita economica della loro provincia. Hanno organizzato i salariati, i piccoli coltivatori, i coloni; decidono il prezzo delle derrate che distribuiscono in un gran numero di comuni attraverso la rete delle cooperative. Proprietari, commercianti, intermediari di ogni specie vedono, giorno per giorno, ridotto il loro spazio vitale dallo sviluppo delle cooperative e del socialismo municipale… Queste istituzioni, sviluppandosi e collegandosi fra loro, assorbono a poco a poco nel loro ambito tutta la vita politica ed economica della regione.

Citazione da L. Preti:
In periodo di sciopero gli incendi dei fienili, la distruzione dei raccolti, l’uccisione dei capi di bestiame, le violenze ai proprietari e ai contadini coltivatori, i blocchi stradali, i saccheggi diventano frequentissimi. Squadre di leghisti si spostano da un paese all’altro e impongono ovunque con metodi violenti e perentori, la cessazione del lavoro. I dirigenti più responsabili non riescono a controllare le masse suggestionate dai numerosi capilega estremisti. Sovente nelle campagne i padroni e in genere gli avversari delle leghe, sono letteralmente terrorizzati par la situazione. I ferimenti e le uccisioni – rarissime peraltro queste ultime – non possono certo imputarsi alle leghe e ai loro dirigenti, tranne casi eccezionalissimi; ma sono possibili appunto in quanto le leghe rosse in molti luoghi hanno creato un’atmosfera confusa di prerivoluzione, nella quale la legge dello Stato è ignorata e molta gente perde il senso del limite e la nozione del lecito
P. 613

Con la fine dell’anno e soprattutto con il 1921 la reazione degli agrari scoppiò in tutta la sua violenza e il movimento contadino socialista si trovò a doverla affrontare da solo, poiché apparve subito chiaro che gli errori politici e tattici commessi nei due anni antecedenti lo avevano completamente isolato. Anziché cercare nei piccoli proprietari e negli altri ceri rurali vicini degli alleati, il proletariato agricolo aveva combattuto anche costoro; ora essi assieme ai vessatissimi gialli e almeno in un primo periodo, a parte dei cattolici, furono i primi a passare dall’altra parte.
P. 615

Dalle zone agricole e da un elementare quanto molto spesso sincero patriottismo, tra la fine del ’20 e i primi del ’21 nacque il vero fascismo, lo squadrismo. Un fascismo che si ricollegava idealmente e, sia pure con molta autonomia, organizzativamente al fascismo di Mussolini e dei fasci di combattimento e alle prime imprese degli arditi fascisti milanesi, ma che in realtà poco aveva a che vedere con esso.
P. 617

Un fenomeno che nato dalla particolare situazione dell’Italia del ’20 acquistò rilevanza e significato politico dalla capacità politica di Mussolini di farne, sia pure al prezzo del progressivo abbandono di tutti i suoi principali ideali, un fatto politico nazionale che il fascismo agrario non sarebbe mai stato capace da dolo di diventare e quasi tutta la classe politica italiana era convinta non sarebbe dovuto diventare, cosicché o non lo contrastò abbastanza o addirittura lo favorì, sicura di potersene servire nel momento del bisogno e poi di potersene liberare come di un sicario ai cui servigi si è costretti a ricorrere ma poi ci si affretta a fare sparire dalla circolazione e si nega di aver mai conosciuto.
P. 618

Un momentaneo e parziale attenuamento di questo processo di involuzione a destra si ebbe solo in occasione dell’occupazione delle fabbriche. Secondo Salvemini Mussolini in questa occasione volle probabilmente tenere i piedi in due staffe. Il giudizio è indubbiamente molto vicino alla realtà. Di fronte all’impotenza del movimento per l’occupazione delle fabbriche Mussolini dovette almeno in un primo momento domandarsi dove esso potesse sboccare.
P. 627

Sul governo di Roma ricade il sangue versato scrisse a tutta pagina il 28, dopo il Natale di sangue, Il popolo d’Italia; Il delitto! Intitolò a sua volta Mussolini il suo articolo di fondo di quel giorno; questa fu tutta la risposta di Mussolini all’occupazione di Fiume e all’abbattimento, manu militari, della Reggenza del Quarnaro. Il politico aveva deciso la morte del rivoluzionario; non sarebbero trascorsi cinque mesi che Mussolini avrebbe salito le scale di Montecitorio eletto in due circoscrizioni e forte di 35 deputati.
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Qui a impegnarsi col fascismo furono i singoli industriali, a titolo personale, per assicurarsene i servizi caso per caso, in occasione di agitazioni, scioperi, consultazioni amministrative ecc. Molti industriali – come ha ricordato Cesare Rossi – erano condizionati nel loro atteggiamento verso il fascismo da due considerazioni di tipi aziendale che non vanno trascurate: la preoccupazione che lo squadrismo provocasse reazioni nelle officine che potessero costituire un nuovo intralcio alla produzione e il fatto che il fascismo non disponesse nei luoghi di lavoro di propri nuclei operai sui quali essi potessero contare. Alcuni industriali, in base a queste due considerazioni, preferirono non avere rapporti con i fascisti, altri diedero ai loro rapporti un carattere particolare: cercarono e pagarono talvolta l’amicizia dei fascisti per assicurarsi la loro non ingerenza nei propri stabilimenti e nelle proprie officine. Lungi dalle intenzioni della maggioranza degli industriali fu – infine – fare del fascismo un effettivo strumento di governo: per essa i fasci furono a lungo solo una guardia bianca da manovrare contro le organizzazioni operaie e i partiti di sinistra in genere o una forza con la quale era opportuno avere buoni rapporti per non subirne la violenza. Significativo è – come ha notato il Guarneri – che, al contrario di quella agricola, la borghesia industriale non diede al fascismo quasi nessuno dei suoi uomini.
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L’evoluzione, alla fine del 1920, dell’atteggiamento del Corriere della Sera – ma gli esempi si potrebbero moltiplicare – verso il fascismo è a questo proposito veramente tipico e illuminante. Del fascismo, ai suoi inizi, il grande quotidiano milanese era stato un avversario. Con la spedizione fiumana di D’Annunzio questa avversione si era vieppiù accentuata. In vista delle elezioni politiche del 1919 il giornale degli Albertini aveva avuto una parte notevole nel far naufragare il blocco delle sinistre interventiste su cui Mussolini aveva tanto puntato. Anche in occasione delle elezioni amministrative del 1920 il Corriere della sera era stato ostile ad ogni accordo con Mussolini, In ottobre Albertini si era detto pronto a una campagna a fondo contro il fascismo e ancora il 7 novembre Albertini ed Amendola si erano trovati d’accordo nel ritenere necessario adoperarsi per persuadere il ceto industriale a non amalgamarsi col fascismo. Poi, improvvisamente, nelle ultime settimane di novembre, anche il Corriere della sera mutò rotta: il 19 novembre (Un servizio al governo) Albertini definì “santa” la violenta reazione antibolscevica della borghesia e il 23 novembre il Corriere della sera commentando l’eccidio di palazzo D’Accursio, rese anche più esplicito il significato di questa “santa reazione”.
“Di chi è la colpa? Chi se non il Partito socialista aspira in Italia alla guerra civile? Chi se non il Partito socialista crea e vuole questo ambiente di battaglia selvaggia? La battaglia trova necessariamente i suoi combattimenti anche dall’altra parte e nessuno meno dei socialisti ha il diritto di lagnarsi se nella lotta scatenata non c’è soltanto un attivo di colpi dati, ma anche un passivo di colpi ricevuti”.
Nel suo già citato esame della situazione politica milanese in data 18 giugno 1920 il prefetto Flores aveva osservato:
“Il Corriere della Sera cerca di trasformarsi secondo i tempi nuovi, ma non dimentica il suo carattere primitivo, che deriva dal quel liberalismo che si spiegava nei primi anni del Risorgimento, ma che ha ormai perduto forza ed efficacia nei tempi che corrono. Il giornale si atteggia a democratico, per convenienza industriale più che per convinzione, e conserva nell’animo quello spirito di reazione che vorrebbe lo stato d’assedio e la repressione delle pubbliche libertà”.
Non si può certo dire che così scrivendo il Flores non avesse colto nel segno: al momento in cui la reazione fu attuabile, anche il Corriere della sera fu subito per essa e quindi per il fascismo che ne era l’esecutore.
Mentre Mussolini realizzava attorno all’epilogo dell’avventura dannunziana il suo inserimento nel gioco politico—parlamentare a livello nazionale, i primi colpi del fascismo agrario provocavano così la costituzione di un fronte unico conservatore-reazionario della borghesia agricola,  di quella commerciale e di quella industriale. Trionfava così, dopo il biennio rosso, la reazione e nasceva il vero fascismo.
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