Storia romana di Marcel Le Glay, Jean-Louis Voisin, Yann Le Bohec
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Introduzione
Il sito, lo sviluppo e tutta la storia di Roma sono stati condizionati, in larga parte, dalla posizione geografica.
Delle tre grandi penisole mediterranee, l’Italia è la più favorita grazie alla posizione centrale tra la penisola iberica e quella greca; è anche la meno grande e quella maggiormente protesa nel mare, pur risultando ben saldata al continente europeo attraverso la ricca pianura del Po.
Da ciò il suo ruolo di cerniera tra le correnti di scambio e le correnti culturali provenienti dai due bacini del Mediterraneo come anche tra i popoli provenienti dal nord e quelli del mare.
Il bacino orientale è da millenni il cuore di grandi civiltà e spesso di imperi che si sono contesi il controllo delle sue acque e dei suoi circuiti commerciali: a sud l’Imperi egiziano dei faraoni; a est le città fenicie che dominano la zona costiera; a nord i micenei i quali, eredi della civiltà cretese, a partire dalla seconda metà del secondo millennio a. C. si sono avventurati lungo le coste della Sicilia, dell’Italia meridionale, dell’Etruria e del mare Adriatico.
Da queste loro esplorazione derivano le descrizioni spesso precise delle coste italiche presenti nell’Odissea.
A loro volta, a partire dall11. secolo a. C., i fenici – abili commercianti – devono essere penetrati nel bacino occidentale del Mediterraneo.
In ogni caso, nell’8. secolo costoro hanno fondato basi commerciali in Sicilia, in Sardegna, nell’Africa settentrionale (Utica, Cartagine) e nella penisola iberica (Cadice).
Nella stessa Roma, una colonia di Tirii ha potuto stabilirsi nell’8.-7. secolo nel Foro Boario.
I greci li seguono facendo loro concorrenza non solo in Sicilia e nell’Italia meridionale: il loro movimento colonizzatore raggiunge anche la Gallia meridionale (Marsiglia è fondata dai focei dell’Asia Minore intorno al 600 a. C.) e quindi la penisola iberica.
Il bacino occidentale, invece, risulta circondato da genti molto diverse, che vivono per lo più raccolte in tribù o in popoli, legate ad un’economia sostanzialmente agricola, con una cultura ed una religione strettamente connesse alle loro preoccupazioni quotidiane e guerriere, ciò che non vuol dire “primitive” nel senso peggiorativo del termine.
Nelle regioni litoranee del Maghreb, i popoli berberi (libii, numidi, mauri), sedentari consumatori di cereali, non vivono, come si è creduto, completamente “ai margini della storia”; costoro hanno potuto avere, da un lato – a est – contatti con la Sicilia, dall’altro – a ovest – contatti con la penisola iberica e, in ogni caso, certamente hanno avuto contatti con i fenici: la civiltà punica (o dei fenici dell’ovest) s’impose nella Tunisia orientale con la ricca Cartagine, altrove sotto forma di basi commerciali disseminare lungo le coste da un lato fino ai confini della Cirenaica, dall’altro almeno fino all’attuale Marocco meridionale.
La penisola iberica, dove un contrasto impressionante oppone le fertili pianure costiere agli altipiani dell’entroterra, è occupata da popoli con culture assai diversificate.
Iberi e celtiberi, popolazioni del nord, raggruppate intorno ai loro castros, non hanno in comune quasi altro che l’attaccamento ai loro capi (militari) e il carattere religioso.
A partire dall’8. secolo i grandi centri minerari sono in attività, soprattutto nella valle del Guadalquivir (regno di Tartesso); sono proprio questi centri minerari che hanno attirato i fenici e poi i greci.
Nella Gallia meridionale, i popoli liguri e celto-liguri a est ed i popoli iberici e celtiberici dell’ovest, talora riuniti in confederazioni, spesso animati da un’aristocrazia di capi riconosciuti dalla collettività, a partire dal 7. Secolo sono stati messi in contatto con il mondo greco dai commercianti rodii e soprattutto dai coloni focei fondatori di Massilia, che si spingono in seguito ad ovest fino ad Ampurias (emporion = base commerciale), ad est fino a Nizza (Nikaia) e Antibes (Antipolis).
Come mostrano i rinvenimenti archeologici, relazioni commerciali furono strette da questi popoli anche con i greci della Magna Grecia e con gli etruschi.
Non va trascurato l’entroterra, per le grandi migrazioni che ne hanno spesso rivoluzionato la storia e trasformato il popolamento.
Per limitarsi agli ultimi millenni prima della nostra era e alle migrazioni di popoli che hanno interessato i territori toccati più tardi da Roma e dalla sua cultura, si ricorderanno:
- a sud l’azione die popoli del mare e del deserto
- a nord le invasioni indoeuropee e soprattutto celtiche
I “popoli del mare” sono già stati ricordati a proposito dei fenici e dei greci.
Senza dire delle tradizioni leggendarie, che spesso oscurano la storia, i testi letterari e l’archeologia evidenziano, durante l’età del bronzo, l’arrivo degli ibero-liguri e, per esempio, in Sicilia l’arrivo di sicani e siculi (forse un unico popoli di conquistatori).
Per alcuni, i siculi darebbero le popolazioni primitive dell’Italia.
Per quanto riguarda i popoli del deserto, a partire dalla seconda metà del secondo millennio si affermano gli “equidi”, allevatori di cavalli e conduttori di carri, che divenuti brillanti cavalieri (getuli e garamanti), sono gli avi dei tuareg.
La loro presenza nel Sahara e la loro attività militare e commerciale, con il controllo sovente delle relazioni tra popolazioni nomadi e popolazioni sedentarie, influiranno profondamente sulla storia del Maghreb.
A nord, sempre nel secondo millennio, le invasioni indoeuropee portano ugualmente verso i paesi mediterranei popoli incineranti che utilizzano cavalli e carri.
E’ difficile ricostruire e datare i loro movimenti.
Si constata l’esistenza di estesi campi d’urne i Slesia e in Pannonia (l’attuale Ungheria) intorno al 1300-1200 a. C.
Dopo il 1000, questa civiltà dei campi d’urne declina lentamente fino all’ottavo secolo.
Trionfa allora la civiltà di Halstatt (in Stiria) nella prima età del ferro.
In Italia, i latini sono probabilmente i più antichi popoli indoeuropei giunti nella penisola.
Solo una parte di costoro si installa nel Lazio, mentre un’altra parte si dirige in Sicilia.
Sedentarizzandosi, praticheranno d’ora in avanti l’inumazione.
All’inizio del quinto secolo a. C., quando la cultura di Halstatt è al suo epilogo, emerge una nuova cultura, detta di La Tène (dal nome di un sito archeologico svizzero), corrispondente alla seconda età del ferro.
E’ questo il momento della Dama di Vix e della formazione della “nazione” gallica, caratterizzata da una produzione artistica originale, da un artigianato evoluto e da una religione peculiare in cui si mescolano forze naturali e animali divinizzate con divinità antropomorfe, e dove i miti e i riti si conservano all’insegnamento orale dei druidi.
L’arrivo dei popoli indoeuropei, in ondate che non si arrestano nel 5.-4. secolo, è uno degli avvenimenti maggiori della storia dell’Occidente.
Esso avrà profonde ripercussioni sul popolamento dell’Italia.
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Parte prima. Dalle origini all’Impero
I conseguimenti di Roma, spesso definiti come “il miracolo romano”, consistono in questo: un semplice villaggio del Lazio inizia con il dominare gli altri villaggi latini, poi stabilisce la sua autorità sulla penisola italiana per poi imporsi all’universo conosciuto per almeno otto secoli.
Tra tutte le domande che pone il destino storico di Roma risalta immediatamente quella delle origini, problema interessante ma difficile.
Tanto più difficile in quanto contornato da numerose leggende (quella di Romè, figlia di Telefo, a sua volta figlio di Eracle, che avrebbe fatto di Roma una città etrusca; quella di Romos, figlio di Ulisse, secondo cui la città sarebbe stata greca!), l’origine del villaggio latino non è ricordata che da un numero assai ridotto di documenti certi.
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Cap. 1. L’Italia nell’8. secolo a. C., ovvero l’Italia prima di Roma
Alla metà dell’ottavo secolo, nel momento in cui la tradizione fissa la fondazione di Roma, l’Italia presenta un mosaico di popoli, di cui alcuni sono ormai da tempo stabilmente stanziati, mentre altri sono ancora in movimento.
Tra costoro si installano due popoli e due civiltà che vanno rapidamente a dominare il nord ed il sud della penisola: gli etruschi e i greci, che assai presto hanno iniziato ad esercitare una profonda influenza sul nascente villaggio che sta per diventare Roma.
Con i fenici che impiantano le loro basi commerciali e i greci che fondano le loro colonie, è l’Oriente che si assicura il predominio nel bacino mediterraneo occidentale.
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Le culture dell’Italia primitiva
Esse sono meno diversificate di quanto lo siano i popoli stessi.
Sarebbe tuttavia sbagliato opporre senza mezzi termini le culture dei popoli autoctoni o quanto meno appartenenti al sostrato mediterraneo a quelle dei popoli di origine indoeuropea.
Non si può più mantenere la divisione, ammessa ancora di recente, tra coloro che praticavano esclusivamente l’inumazione (i primi) e coloro che facevano ricorso solo alla cremazione (i secondi).
Al più, si può parlare di costume dominante; assai presto si sono avute delle fusioni.
Si trova una necropoli villanoviana a incinerazione – i villanoviani utilizzavano per le ceneri dei loro morti delle urne biconiche – a Fermo.
Ma se ne trovano anche nella Campania meridionale, nella provincia di Salerno.
Presso un popolo, la cremazione e l’inumazione talora si praticano contemporaneamente, talora si succedono nel tempo.
I riti funerari non costituiscono sempre, dunque, un criterio per definire l’appartenenza etnica.
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Regna, invece, una assai grande varietà di lingue anche se alcune mostrano affinità.
Appartengono, per la maggioranza, alla famiglia delle lingue indoeuropee.
E l’esistenza in Italia di una lingua indoeuropea molto arcaica è stata confermata dai linguisti.
Si tratta di un elemento culturale essenziale per il presente ed il futuro.
E’ in effetti significativo che il latino abbia conservato le parole indoeuropee che designano le forme più antiche della vita religiosa, della vita costituzionale e della vita familiare: è il caso di rex, flamen, credo, pater, mater, ecc.
Oltre al latino, era parlato il falisco, il veneto – noto anche per le iscrizioni delle stele votive di Este -, l’umbro delle tavole di Gubbio e, ad esso apparentato, l’osco utilizzato da tutti i popoli del sud-ovest.
Sabini, marsi, volsci e piceni avevano ugualmente loro specifici dialetti.
A queste lingue indoeuropee sono estranei il ligure (anche se permeato da elementi presi in prestito da esse) nonché il messapico e lo iapigio di cui si sono viste le affinità con l’illirico.
A parte è infine l’etrusco di cui si tornerà a parlare.
Tra queste culture diversificate ma vicine, una se ne distacca nettamente per il suo carattere avanzato e il suo splendore, ed è la cultura etrusca.
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La cultura etrusca
Questa civiltà originale nell’ambito della penisola è caratterizzata da tre elementi principali.
Innanzitutto è una civiltà urbana.
In un’Italia di villaggi, solo l’Etruria conosce la città, fondata ritualmente, dotata di uan cinta muraria, di porte, di templi in pietra (tutto questo sarà trasmesso all’urbanistica romana); essa è addirittura una federazione di dodici città-stato che hanno propri magistrati che, in caso di difficoltà, si sottomettono a un dittatore (macstrna = mastarna): è ciò che si è prodotto a Roma alla fine del regno dei primi tarquini con l’arrivo al potere di Mastarna = Servio Tullio (?).
Una struttura urbana implica naturalmente delle istituzioni politiche e sociali.
Governati all’inizio da re (lucumoni), circondati dai fasci, simboli del loro potere, e dotati di insegne ben note (la corona d’oro e lo scettro sormontato dall’aquila), i popoli etruschi sostituiscono loro, nel corso del quinto secolo, magistrati annuali o zilath (in latino praetores); ciò fa pensare naturalmente ad una successione politica monarchia-repubblica come quella che proprio agli inizi del quinto secolo ha luogo a Roma.
Quanto alla società etrusca, essa è patrizia e quasi feudale: da una parte vi è una classe id nobili che costituisce l’oligarchia dei principes, dei notabili, che detengono il potere nelle città fin quando la plebe rurale non vi si introduce con la forza, dall’altra un’immensa classe servile, con la possibilità per gli schiavi di diventare liberti e, una volta tali, di legarsi alla clientela dei grandi.
In secondo luogo, in una Italia rurale primitiva, costituisce uan civiltà materialmente e tecnicamente evoluta: gli etruschi praticano il drenaggio dei suoli e l’irrigazione grazie ad una avanzata scienza idraulica.
Inoltre, un artigianato di qualità, che non ignora le tecniche greche, permette loro di sfruttare – attraverso pozzi e gallerie – i giacimenti di stagno, di rame e di ferro dell’isola d’Elba e id utilizzarli poi a fini commerciali.
Tra i prodotti più notevoli vi sono le armi, gli utensili e gli oggetti domestici in bronzo e in ferro (soprattutto gli specchi e le ciste), ma anche la ceramica (in particolare l’impasto e il bucchero).
La loro cultura, infine, nel contempo nazionale ed eclettica, assicura loro un primato incontestabile in tre ambiti.
Innanzitutto quello religioso. Si tratta dell’ambito meglio conosciuto ma anche più enigmatico.
Per gli etruschi la religione è rivelata; e lo è stata tramite i profeti, il principale dei quali è Tagete.
Si tratta, dunque, di una religione dei libri (e non “del” libro come la Bibbia degli ebrei): dei libri sacri che trasmettono una volta per tutte la religione fissando le prescrizioni relative al rituale e fissando la vita delle città e degli uomini (libri rituales), l’arte e il modo di analizzare i visceri delle vittime sacrificali (libri haruspicinalis), le conoscenze necessarie per la discesa dell’uomo nell’aldilà (libri acheruntici), costituendo tutto ciò una scienza, la disciplina etrusca.
Si tratta, dunque, di una religione molto ritualista: il celebre fegato in bronzo di Piacenza, immagine del cielo suddiviso in caselle, ciascuna delle quali segnata con il nome di una divinità, serviva come riferimento nell’epatoscopia, nell’esame – cioè – del fegato degli animali offerti agli dèi.
Era, infine, una religione ben organizzata: al di sotto di una triade (Tinia = Giove; Uni = Giunone; Menrva = Minerva), venerata in templi della cella tripartita (come sarà il tempio di Giove Capitolino a Roma), vi era tutto un pantheon di divinità assimilate alle divinità greche: Voltumna / Vertumnus, “la prima divinità dell’Etruria” secondo Varrone, Turan = Afrodite, Fufluns = Dionisio, Turms = Ermes, Sethlaus = Efesto, Hercle = Eracle, Maris = Marte, Nethuns = Nettuno ecc.
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La lingua etrusca non è più considerata oggi una lingua indoeuropea; si cercano affinità con il basco, il caucasico e con i dialetti preellenici soprattutto.
Certo essa rivela tracce di imprestiti anche dai dialetti greci e italici.
Ci è nota da circa 10000 iscrizioni: purtroppo, si tratta soprattutto di brevi epitaffi, di età tarda, che non permettono grandi progressi nella conoscenza della lingua.
L’ultima scoperta (le iscrizioni bilingui – in etrusco e punico – rinvenute a Parigi) è stata per tale aspetto deludente.
Gli etruschi avevano tuttavia un alfabeto che hanno diffuso in Italia, regione che da loro ha imparato a leggere.
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L’Oriente conquista l’Occidente
Mentre gli etruschi si stabilivano a nord del Tevere e rapidamente estendevano il loro controllo fino alla pianura Padana verso nord e fino in Campania verso sud, due altri popoli prendevano piede in Italia: i fenici e i greci.
I loro insediamenti testimoniano la vitalità dell’Oriente e la sua forza di espansione nel bacino occidentale del Mediterraneo.
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L’insediamento e l’influenza fenicia
Si è più di una volta insistito su uno specifico apporti dei fenici alla civiltà occidentale: l’alfabeto che era in uso a Biblo alla fine del secondo millennio è all’origine sia dell’alfabeto greco che dell’alfabeto etrusco da cui deriva quello latino.
I fenici hanno dunque insegnato a scrivere agli etruschi che, a loro volta, l’hanno insegnato ai romani.
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I greci in Italia e in Sicilia
L’arrivo dei greci in Occidente e, in particolare, nell’Italia meridionale e in Sicilia, assai meglio cnosciuto grazie alle testimonianze letterarie ed alle vestigia archeologiche, costituisce uno degli avvenimenti principali nella storia del Mediterraneo nel primo millennio a. C.
La colonizzazione greca ha avuto inizio nel corso dell’ottavo secolo nel mar Tirreno come nel mare Egeo e lungo le coste del mar Nero.
Cuma sembra essere stata, nel contempo, assieme a Ischia, la più settentrionale e la più antica delle fondazioni coloniali (intorno al 770).
Altre colonie, prima di origine calcidese, poi megarese, corinzia, achea, spartana, e quindi rodia, cretese e ionica (dell’Asia Minore), saranno fondate tra Cuma e Rhegion (Reggio Calabria) da un lato, fino oltre Taranto dall’altro così come lungo le coste della Sicilia, con una tale densità di insediamenti che Polibio, per definire questa parte dell’Italia meridionale ellenizzata, ha usato l’espressione di Magna Grecia, ripresa poi da Cicerone che ricorderà “questa antica Grecia d’Italia, che in passato fu chiamata la Grande”; ed infatti il nome deve risalire al sesto secolo.
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Il processo di ellenizzazione non ha interessato che le zone costiere e, ad un grado inferiore, il retroterra dove i calcidesi, ad esempio nell’Italia centrale, devono avere introdotto la coltura dell’olivo.
Questo processo ha riguardato anche Roma.
Si è osservato che la data tradizionale della fondazione di Roma (754/ 753 a. C.) corrisponde più o meno con la data della fondazione dell’achea Sibari (750 a, C.) e che la dine dell’età regia coincide, sempre secondo la tradizione, con la caduta di Sibari (510 a. C.).
E’ un caso?
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Cap. 2. La formazione di Roma: da Romolo ai tarquini
Sul piano storico è ancora molto difficile pronunciarsi sugli inizi, zeppi di leggende, di Roma.
Pure, su questo fondo di leggende, le scoperte archeologiche forniscono alcuni punti di riferimento cronologico.
Ed anche se non si possono considerare sicuri i nomi dei primi re, risulta molto chiaro che a dei re di origine latina e sabina, agli inizi del sesto secolo si sono sostituiti dei sovrani di origine etrusca ai quali si deve l’organizzazione urbana di ciò che fino ad allora non era che un insieme di villaggi.
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Alla svolta epocale del sesto secolo si collegano le straordinarie scoperte archeologiche effettuate di recente nel Lazio, a Pratica di Mare, sul sito di Lavinio: quattordici altari monumentali, di una sepoltura sacra (che si è chiamato l’heroon di Enea), iscrizioni votive tra cui la dedica arcaica in greco a Castore e Polluce ed un abbondante serie di statue e statuette di Minerva, il tutto databile al quarto-quinto secolo a. C.
A quest’epoca l’influenza greca ed il ricordo di Enea erano manifesti nel Lazio, dove Lavinio appare come un importante centro religioso che molto ha dato alla religione arcaica romana.
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Tra le ipotesi interpretative delle origini di Roma, ha rilievo quella elaborata da G. Dumézil, tanto brillante quanto criticata.
Per il Dumézil la storia dei re è pura mitologia.
E’ l’espressione storicizzata della tripartizione funzionale che si trova alla base di ogni sistema politico, sociale e religioso dei popoli indoeuropei.
Secondo lo studioso, questi popoli hanno in comune tre organismo gerarchizzati, imposti da una struttura ideologica comune: questi tre organismi rappresentano e assicurano le tre funzioni essenziali della sovranità religiosa, della potestà militare e della forza produttiva.
Da ciò deriverebbe una società costituita da coloro che detengono il potere politico-religioso (re, magistrati, sacerdoti) la cui divinità è Giove, dio della sovranità, da coloro che assicurano la difesa militare, con Marte, dio della guerra, e da coloro che assicurano la produzione (agricoltori, pastori, artigiani) che hanno in Quirino la divinità che presiede a tale funzione.
Da questo stato di cose risalente nel tempo deriva, a Roma, il collegio dei tre flamini maggiori: di Giove, di Marte e di Quirino.
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Il grande momento della storia delle origini di Roma corrisponde al momento dell’acquisizione del controllo da parte degli etruschi nel sesto secolo, momento in cui Roma nasce come città
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La Roma etrusca
La nascita di Roma come città e come centro urbano organizzato è legata all’insediamento etrusco nell’Italia centro-meridionale e all’avvento di una dinastia proveniente dall’Etruria.
Sallustio ne ha reso conto agli inizi della sua Congiura di Catilina (6), dove contrappone l’epoca regia all’”orgogliosa tirannia” straniera che le aveva fatto seguito.
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La nascita della città
Ma il principale apporto della dominazione etrusca è stato urbano; al sesto secolo risale la “fondazione” della città di Roma
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La formazione della città
La vera rivoluzione, avvenuta nel corso della dominazione etrusca, più che nella “fondazione” di una Urbs (la parola sembra essere di origine etrusca), risiede nell’organizzazione di una città con i suoi quadri amministrativi e le sue istituzioni politiche e sociali.
La parte essenziale di questa opera è attribuita alle riforme serviane, di cui Livio (1., 43) e Dionigi di Alicarnasso (4., 16 e ss.) hanno tramandato un quadro preciso.
Così preciso che dei tre sovrani etruschi Servio Tullio è quello che si conosce meglio.
Per alcuni, Servio è uno straniero, un ex schiavo (servus) divenuto genero di Tarquinio grazie alla moglie di costui, Tanaquilla, una donna energica, che in seguito aiuterà la sua scalata al potere.
Per altri, in particolare per l’imperatore etruscologo Claudio, specialista di storia etrusca, costui era un condottiero, forse etrusco, chiamato Mastarna (= il dittatore), amico dei principi di Vulci, il quale sarebbe reso signore di Roma dopo aver eliminato il partito dei Tarquini.
In ogni caso, è a Servio Tullio che viene attribuita l’organizzazione di Roma in città, avvenimento che costituisce il fenomeno più importante della storia del sesto secolo.
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In questo modo trionfa un sistema censitario, che richiama la riforma di Clistene ad Atene.
Questo sistema si esprime politicamente nell’istituzione dei comizi centuriati (sui quali torneremo dopo) e, anche, in una nuova organizzazione militare.
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Già la salita al potere facendo uso della forza, contro la volontà dei patres e facendo leva sul popolo aveva avvicinato Tarquinio alla figura del “tiranno” greco.
Impedendo la sepoltura di Servio Tullio, Tarquinio aveva commesso, come nota Tito Livio, una grave offesa ed un sacrilegio.
In seguito il suo comportamento aveva ulteriormente accentuato l’accostamento al tyrannos, che gli autori antichi non hanno mancato di forzare (i Pisistratidi di Atene sono suoi contemporanei!).
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Malgrado Tacito, si deve ammettere che L. Bruto è un personaggio costruito che non ha nulla a che vedere con l’espulsione dei Tarquini.
Questa è il risultato di un declino della potenza etrusca, di un risveglio dei popoli italici e di movimenti interni nelle colonie della Magna Grecia (la distruzione di Sibari è contemporanea).
La partenza di Tarquinio è infatti dovuta all’intervento del re di Chiusi Porsenna, probabilmente nel 509-508.
Rifugiatosi in un primo momento a Tusculum, l’ultimo re etrusco dovette morire a Cuma nel 495.
Quanto alla nascita della Repubblica, essa è la conseguenza di un sussulto dell’aristocrazia (diciamo anzi del patriziato) di Roma contro uan dominazione straniera e tirannica e non ebbe luogo, forse, prima del 504 secondo alcuni, prima del 480-475 secondo altri.
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La religione di Roma arcaica
Da tutto ciò si ricaverà che già in epoca così risalente era organizzato un culto pubblico, quasi ufficiale, operante in diversi punti della città e che il re era, come si è detto, “molto presente nel campo del sacro” (J. Scheid).
Su questo punto l’archeologia conferma le fonti letterarie.
Detto questo, è possibile riconoscere le diverse componenti di una religione già organizzata nel settimo-sesto secolo, periodo prima del quale dobbiamo riconoscere che si ignora tutto o quasi.
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A partire dal 509 (tempio di Giove capitolino), Roma si riempie di templi: di Saturno nel 496, di Mercurio nel 495, di Cerere, Libero e Libera nel 493, dei Dioscuri nel 484.
Si è così formata una religione “nazionale” che fa di Roma una città sacra, ben cosciente della sua superiorità religiosa che utilizzerà come lievito della propria potenza.
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Cap. 3. Due secoli oscuri (e reinventati?): il quinto e il quarto secolo a. C., ovvero la giovinezza di Roma
La fortuna di Roma è stata di raggiungere la condizione urbana e lo stato di città che la misero in grado di beneficiare delle influenze della civiltà greca, poi di conoscere un primo sviluppo, nel momento in cui iniziava a declinare la potenza etrusca e scoppiavano rivalità tra le colonie greche.
Roma è stata senz’altro aiutata dalle circostanze.
Nondimeno, i due secoli che fanno seguito alla cacciata dei tarquini sono nella sua storia “secoli oscuri”.
Essi ci sono noti solo per grandi linee.
Ciò dipende non solo dalla povertà delle fonti letterarie e archeologiche ma anche dall’”orgoglio nobiliare” (J. Heurgon) delle gentes che hanno voluto riscrivere la storia per darsi antenati famosi.
Per questo motivo esse hanno interpolato dei nomi, inserendo nei Fasti, tra i generali trionfatori e i consoli, antenati fittizi.
Nonostante queste difficoltà, si può seguire la nascita, talora tumultuosa, della Repubblica segnata soprattutto dall’istituzione del consolato e dalle prime lotte contro i popoli del Lazio.
Ciò non accade senza difficoltà interne e nelle relazioni con i suoi vicini.
Anzi, tra il 450 e il 390, Roma è su entrambi i piani alla ricerca di un equilibrio.
Equilibrio che ha trovato non senza affanni nell’organizzazione delel sue istituzioni politiche e nell’organizzazione sociale attraverso la formazione di una nuova “nobiltà”.
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La nascita della Repubblica
Scoperte archeologiche recenti avvenute nel Lazio, a Lanuvio, a Satrico (40 km a sud di Roma), a Faleri (Civita Castellana) mostrano che fino agli anni 480-475 lì come nell’area etrusca (Veio, Tarquinia) operano delle officine etrusco-greche che producono statue cultuali e terrecotte architettoniche di qualità.
Si è potuto parlare di una “febbre architettonica e religiosa” di ispirazione etrusca e greca, che prova come – nonostante i conflitti – l’influenza di questi due mondi rimanesse predominante.
Questi conflitti sono legati a questioni di frontiera.
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Difendendosi contro i suoi potenti vicini Roma ha iniziato a stabilire la sua autorità sul Lazio.
E ciò nonostante i conflitti interni talora acuti.
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Sembra che effettivamente il periodo dal 509 al 486 sia stato segnato da una forte agitazione politica: soprattutto la secessione della plebe sul monte Sacri, al di là dell’Aniene, secondo altri sull’Aventino, datata generalmente al 494.
Secessione pericolosa per il patriziato privato delle braccia dei lavoratori manuali, come per lo Stato, minacciato dalla creazione di uno Stato rivale, in grado di allearsi con i nemici di Roma visto che molti plebei erano di origine straniera.
La secessione sarebbe stata seguita dalla nomina dei primi tribuni della plebe, inizialmente due, poi quattro nel 471 secondo Diodoro che sembra considerare questi ultimi come i più antichi.
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I Decemviri e la loro opera: la legge delle 12 tavole
La metà del quinto secolo, con la creazione del Decemvirato, segna un momento decisivo nella storia delle istituzioni e della civiltà romana.
Per ottenere una legislazione scritta ed uno statuto che mettessero fine all’arbitrio dei consoli e ai privilegi del patriziato, i plebei iniziarono una lunga lotta.
Secondo la tradizione, a partire dal 471, la plebe si sarebbe organizzata con una assemblea popolare strutturata sulle tribù territoriali (all’epoca 4 urbane e 21 rustiche); queste assemblee della plebe (concilia plebis), convocate dai tribuni, avrebbero iniziato a prendere decisioni.
Sempre secondo la tradizione, a partire dal 462, il tribuno Terentilio Arsa avrebbe agito per ottenere “leggi scritte che fissino l’imperium”, vale a dire i limiti del potere consolare.
Il patriziato finì con il cedere.
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Lo scopo dei legislatori era stato quello di far trionfare l’uguaglianza dei diritti tra tutti i cittadini.
Come si ricava dal loro titolo (decemviri legibus scribundis) si trattava anche di sostituire il diritto consuetudinario con un diritto scritto.
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La restaurazione della Repubblica nel 449 portò al potere due consoli, L. Valerio e M. Orazio che, secondo la tradizione, fecero votare tre leggi mediante le quali la costituzione romana diventò patrizio-plebea.
………………
A partire da questo momento, in pratica, si assiste a due importantissime innovazioni:
- l’introduzione della collegialità consolare
- il riconoscimento ufficiale dell’intercessione tribunizia:
i tribuni, se sono unanimi, possono ormai bloccare una decisione dei consoli se la giudicano contraria agli interessi della plebe.
Solo il dittatore, durante il suo breve imperium, sfugge all’intercessio dei tribuni.
Le tre leggi Valeriae Horatiae riconoscono ufficialmente le conquiste della plebe.
La Roma patrizia rinunciava alla sovranità dell’imperium consolare.
Si comprende che Polibio abbia datato a questo momenti la seconda fondazione della costituzione romana.
Ma un punto essenziale continuava a non essere regolato: l’accesso della plebe al consolato, la magistratura suprema.
Nulla l’impedisce, nulla lo autorizza.
Fondandosi sulla tradizione (il mos maiorum o diritto atavico), il patriziato vuole mantenere il suo monopolio.
Da parte sua, la plebe si mobilita per spezzare tale monopolio.
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Alla ricerca di un equilibrio, 449-312
L’esame dei Fasti è rivelatore dei conflitti che sul problema dell’accesso della plebe al consolato hanno opposto i plebei al patriziato fino al 367, data del compromesso licinio-sesto.
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Questa nuova nobiltà riesce a dare alla Repubblica l’equilibrio tanto ammirato da Polibio e che le doveva permettere di lanciarsi alla conquista del mondo.
Ricerche relativamente recenti hanno in effetti messo l’accento su un certo declino dell’antico patriziato e sull’apparizione di famiglie patrizie più aperte, coem quella dei Fabii, che non disdegnavano più di allearsi con le famiglie plebee (C. Licinio sarebbe diventato lui stesso genero di un Fabio!).
Contemporaneamente emergevano alcune famiglie plebee per ricchezze e considerazione.
Si costituirono in questo modo un “partito di centro” e, nella società, una nuova nobilitas composta da coloro che – patrizi e plebei – avevano un avo che avesse rivestito una magistratura curule (edilità, pretura e, soprattutto, consolato).
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Dopo le riforme decemvirali e le conquiste democratiche che le hanno seguite, le istituzioni della Repubblica romana restano quelle di una repubblica aristocratica, governata da un Senato, affiancato da magistrati che dirigono lo Stato, mentre le assemblee del popolo intervengono nell’elezione dei magistrati e nella votazione delle leggi.
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I due consoli sono per certi versi i presidenti della Repubblica.
Hanno l’imperium domi militiaeque, e cioè un potere sovrano, politico, giudiziario e coercitivo all’interno del pomerium (il confine sacro di Roma) – l’imperium domi – al quale si aggiunge un potere sovrano, militare e giurisdizionale nell’ambito extra-urbano – l’imperium militiae.
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Cap. 4. La crescita di Roma repubblicana
Agli inizi del terzo secolo a. C., dopo la terza guerra sannitica, non c’è che uno Stato che si estende dal Tevere fino a Cuma e dal mar Tirreno fino al lago Fucino.
Roma appare adesso come una città che è riuscita a dominare i conflitti politici interni e che possiede istituzioni equilibrate.
Se nell’ambito sociale non tutto è stato risolto, al sua espansione territoriale le permette già uno sviluppo economico che crescerà ancora ed un rafforzamento in termini militari via via che nuove conquiste le si aprono davanti.
Il fatto è che Roma si trova sempre più coinvolta nella politica italica, soprattutto nell’Italia meridionale.
Ciò comporta che si moltiplichino i contratti con il mondo greco, determinando sia una ellenizzazione nell’ambito artistico e religioso, in piena trasformazione, sia un coinvolgimento sempre più attivo nella politica mediterranea.
Qui gli interessi romani vanno ad incontrarsi e a scontrarsi con gli interessi cartaginesi che predominano largamente nel bacino mediterraneo occidentale.
Da ciò nasce un conflitto tra Roma e Cartagine che per la sua durata, la sua violenza, i mezzi messi in campo e il successivo coinvolgimento di quasi tutte le genti che si affacciavano sul Mediterraneo, ha assunto le dimensioni di una crisi di cambiamento decisiva per l’Occidente.
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Gli anni 348-338 hanno segnato un momento cruciale nella marcia di Roma verso il controllo della penisola e l’impegno sui mari.
Sono probabilmente le sue buone relazioni con Cere, allora la più grande città d’Italia, che l’hanno spinta ad allargare il suo orizzonte.
Dopo il 291 (fine della terza guerra sannita) i nuovi mezzi di cui dispone Roma la incitano ad estendere la sua potenza.
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Nonostante fosse impegnata nell’Italia centrale e centro-settentrionale, nel primo quarto del terzo secolo Roma si è trovata impegnata nelle complesse questioni dell’Italia meridionale.
Ciò avvenne a seguito delle rivalità tra le colonie greche e delle loro difficoltà con le popolazioni indigene.
E’ questo, in particolare, il caso di Turi, rivale di Taranto, che per resistere ai lucani, fece appello, nel 284, a Roma.
Un console, inviato sul posto, stabilì una guarnigione nella città; ciò spinse anche Crotone, Locri e Reggio ad unirsi ai romani, ma non impedì alle fazioni locali di continuare a sbranarsi tra loro, con gli aristocratici filoromani che si opponevano ai democratici antiromani.
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La presa di Taranto costituisce una conquista che ha permesso a Roma di completare la conquista dell’Italia del sud.
La Lucania si era già sottomessa e una colonia era stata dedotta a Paestum nel 273 ca.
Ma è Taranto che eccitò maggiormente la bramosia dei romani, che vi inviarono una flotta.
Le ricchezze della città e la sua posizione strategica giustificavano tali ambizioni.
Nel 272 il comandante della guarnigione epirota, Milone, consegnò la cittadella ai romani a patto di aver via libera assieme ai suoi.
Taranto ricevette la “libertà”, vale a dire lo statuto di città libera, anche se una guarnigione romana rimase acquartierata nella cittadella (!).
Dovette pagare una pesante indennità di guerra e durante il trionfo dei due consoli sfilarono le statue, i quadri e tutti i tesori strappati alla città.
Roma aveva così sottomesso l’unica città in grado di contrastarla in Italia meridionale.
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Contrariamente a quanto si è talvolta affermato, nel settimo secolo a. C. non vi fu un’ellenizzazione ma solo rapporti di scambio che hanno portato alla presenza, nelle tombe arcaiche, di ceramica protocorinzia prima, corinzia poi.
Essa fu il risultato dei contatti stretti con il greci della Magna Grecia e con gli etruschi, anch’essi influenzati dalla cultura greca.
Tutta l’Italia centrale e Roma in particolare ne hanno beneficiato, mentre “nel corso del quarto secolo l’orizzonte di Roma era rimasto limitato all’Italia centrale “ (R. Bianchi Bandinelli).
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Coem nacque il conflitto?
Essenzialmente per gli interessi economico opposti, legati da un lato, per Cartagine, al carattere marittimo e commerciale della sua potenza, dall’altro, per Roma, all’adozione di una nuova politica aperta verso l’esterno.
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Innanzitutto il possesso romano della Sicilia.
I cartaginesi dovettero abbandonare l’isola, le Lipari e le isole comprese tra la Sicilia e l’Italia.
La Sicilia divenne provincia romana.
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Dopo ventitré anni di pace armata da ambo i lati, la guerra riprende per iniziativa di Annibale, erede della grande famiglia aristocratica di Barcidi, che, divenuto stratego di Cartagine, ha ereditato le ambizioni della sua famiglia.
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La pace non fu conseguita che nella primavera del 201.
Cartagine consegnò tutte le sue navi da guerra, tranne dieci, e tutti i suoi elefanti; si impegnò a pagare in cinquant’anni un’indennità di 10000 talenti e a non intraprendere guerre senza l’autorizzazione preventiva di Roma.
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La prima guerra di Macedonia (215-205) fu ugualmente un contraccolpo della prima guerra punica.
Il giovane sovrano Filippo 5. volle approfittare delle difficoltà di Roma per prendersi l’Illiria dove Roma aveva stabilito un protettorato.
Nel 215 Filippo si accordò con Annibale per ottenere che Roma rinunciasse al suo protettorato illirico.
Roma, impegnata in Italia, rispose con un’alleanza con gli etoli, nemici in Grecia della Macedonia.
Alla fine nel 205 fu negoziata la pace di Fenice che permetteva a Roma di mantenere le sue teste di ponte in Illiria e che consisteva, in fin dei conti, in un patto generale di non aggressione.
Roma, tuttavia, si veniva a trovare coinvolta negli affari balcanici mentre aveva ora interessi importanti in Spagna e nel Mediterraneo occidentale.
Si apre così una nuova fase della sua storia all’interno della quale troverà posto la terza guerra punica.
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Cap. 5. Le conquiste e le loro conseguenze
Per il futuro dell’Occidente, il fenomeno storico più importante dopo la morte di Alessandro magno (323 a. C.) è stato, in Italia, il passaggio progressivo di Roma-città a Roma-capitale di un impero territoriale mediterraneo.
Da un punto di vista evemenziale, è dunque la conquista da parte delle legioni romane (e talvolta mediante la diplomazia) dei paesi dell’Occidente considerato barbaro e dell’Oriente ellenistico.
Conquiste che portarono tra la fine della seconda guerra punica (201) e l’annessione dell’Egitto (31-30) alla formazione sotto l’egida dell’Urbs, dell’impero territoriale più potente e durevole della storia.
Tuttavia, e questo è un altro fenomeno storico essenziale, mentre l’Occidente metteva le mani per la prima volta sull’Oriente, era la civiltà greco-occidentale (ellenistica) a penetrare profondamente nell’Occidente per dar vita ad una koiné culturale, ad una comunità di cultura greco-romana, chiamata a diventare il marchio distintivo delle nazioni europee occidentali.
Il problema dell’imperialismo romano è dunque fondamentale.
E non meno l’esame di tutte le sue conseguenze.
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Una prima osservazione si impone: la parola imperium è latina, così come è realmente e originariamente romano il concetto che essa ricopre.
E questo concetto conduce al primo tentativo vero e durevole di dominio universale.
Solo che per alcuni (T. Momsen, M. Holleaux, E. Badian) questo imperialismo non è stato offensivo: Roma ha risposto a guerre che gli erano state imposte, si è difesa.
Il Senato romano, in particolare, non ha avuto uan politica espansionista.
Per altri (da ultimo W. V. Harris) le conquiste sono state volute da tutti: dai senatori avidi di “gloria” e dei mezzi finanziari necessari alla loro carriera politica, dai cavalieri attenti allo sfruttamento finanziario dei paesi conquistatori, dai semplici cittadini attirati dalla possibilità di partecipare ai saccheggi e alla divisione dei bottini.
La guerra appare allora come una “operazione di conquista che spoglia il vinto e arricchisce il vincitore”.
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Infatti, vista la composizione del Senato romano e lo stato d’animo delle classi dirigenti, sembra che nessuno o quasi progettasse a Roma, alla fine del terzo secolo, di intraprendere uan politica decisamente imperialista.
Durante la prima guerra di Macedonia (217-205) la sola preoccupazione era di impedire il congiungimento di Filippo 5. con Annibale.
E’ solo dopo Zama, tra il 200 ed il 198, che Roma inizia ad interessarsi sul serio agli affari del mondo greco.
E, di fatto, è la seconda guerra di Macedonia (200-196) che costituisce l’atto di nascita dell’imperialismo romano.
Tuttavia, è giusto dire che l’idea era germogliata durante la seconda guerra punica nell’animo di alcuni influenti senatori, come gli Scipioni.
In fondo, è Annibale il principale responsabile del sorgere di quest’idea: lo scandalo della presenza punica sul suolo italico, la minaccia che era pesata sull’Urbs, il pericolo mortale dell’alleanza di Cartagine con la Macedonia costituivano realtà capaci di incitare alcuni patres a spingere i loro sguardi al di là del mare.
L’attacco condotto da Roma contro la Macedonia nel 200 avvia una nuova politica.
Si tratta, però, ancora di un imperialismo essenzialmente difensivo: fino al 168 le sole annessioni nel Mediterraneo orientale sono quelle di Zakynthos (Zante) e Cefalonia.
E’ un “imperialismo che ancora ignora se stesso”.
Tuttavia, si deve notare che in questo periodo, nel 188, si trova per la prima volta espressa esplicitamente la teoria imperialistica romana, ad opera del console Gn. Manlio Vulsone: secondo costui, è di urgente e di assoluta necessità per Roma assicurare la pace per terra e per mare da un lato, sorvegliare tutto l’Oriente dall’altro (Livio 39).
Politica da gendarme che doveva portare all’istituzione di protettorati su città e Stati-clienti e da lì all’annessione.
L’epoca delle annessioni si apre nel 148-146 a. C.: la riduzione a provincia romana della Macedonia, la successiva presa di Corinto e l’annessione dell’Acaia, infine la presa e la distruzione di Cartagine seguita dall’annessione dell’Africa marcano questa grande svolta.
Ormai trionfa l’imperialismo conquistatore che in poco più di un secolo condurrà alla formazione dell’Impero romano.
Non manca che la Mauretania, conquistata sotto Claudio (che aggiungerà la Britannia).
Più tardi Traiano annetterà la Dacia e l’Arabia.
E per un periodo la Mesopotamia estenderà la frontiera orientale fino al Tigri.
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Dal punto di vista economico hanno giocato diversi fattori che hanno contribuito a profonde trasformazioni.
Innanzitutto il saccheggio dei paesi attraversati e di quelli vinti.
Coem nota lo storico Flora (Epit. 1. 18) “così numerose furono le spoglie provenienti da nazioni opulente che Roma non era capace di contenere il frutto della sua vittoria”.
Taranto, Volsinii e Siracusa hanno pagato un tributo pesante di opere d’arte e denaro.
Per fare un solo esempio, Pompeo prelevò in Oriente, nel corso delle sue campagne asiatiche, somme corrispondenti all’incirca a 70 milioni di euro.
Questo flusso di oro determinò un enorme movimento di capitali in una città che fino a quel momento era stata legata soprattutto all’attività agricola.
Ai bottini si aggiungevano le indennità di guerra imposte agli sconfitti e i tributi gravanti sui provinciali.
Questo enorme afflusso di masse monetarie ha determinato movimenti di capitali ai quali Roma non era abituata, con riflessi sui salari e il costo della vita (che tesero ad aumentare a danno degli strati sociali più poveri) ma soprattutto sulla vita finanziaria (svalutazione del denaro) e sull’orientamento economico generale.
Quindi l’afflusso di schiavi (per citare solo due esempi, furono 50000 i prigionieri di guerra resi schiavi dopo la presa di Cartagine, e 140000 i cimbri e i teutoni che ebbero analoga sorte nel 104) e soprattutto i cambiamenti nella condotta bellica, con l’allontanarsi dei teatri di guerra che impediva per lunghi anni ai soldati di coltivare le loro terre e la necessità di rifornire gli eserciti con grandi quantità di cereali, olio e vino, hanno comportato profonde trasformazioni nell’agricoltura italica, tenuto anche conto, peraltro, che l’afflusso di grano straniero rendeva la cerealicoltura in Italia un’attività di scarso interesse commerciale.
Per i piccoli contadini (che costituivano la maggioranza) non vi erano che due soluzioni: vendere i loro terreni (con conseguente esodo rurale e proletarizzazione della popolazione urbana e soprattutto di quella di Roma) o cambiare – con pesanti costi – le pratiche colturali, diversificando le produzioni e piantando viti e olivi.
Il risultato è una prima concentrazione di proprietà di cui profittano quanto traevano beneficio dalla guerra 8generali e negotiatores) ed una diversificazione delle colture in Italia che comporta a sua volta lo sviluppo di una attività commerciale rurale (con l’organizzazione dei mercati) laddove fino ad allora ci si era sforzati di vivere il più possibile autarchicamente.
L’evoluzione verso un’economia di scambio è peraltro uno dei tratti nuovi del secondo secolo.
L’aprirsi si Roma al mondo esterno, l’attività degli uomini d’affari, l’afflusso monetario, la crescita dei bisogni legata a nuove condizioni di vita, hanno spinto romani e italici a lanciarsi in grandi imprese commerciali.
Nel 218 uan lex Claudia ha cercato di impedire ai senatori ogni attività lucrativa basata sul commercio; la legge è stata aggirata facendo ricorso a prestanomi.
Depositi di capitali, prestiti finanziari (a tassi spesso usurarii) diventano le principali preoccupazioni dei ricchi.
L’isola di Delo diventa un grande centro commerciale e un importante mercato di schiavi.
I Romaioi sono presenti e attivi in tutti i porti del Mediterraneo.
Essi cominciano ad organizzarsi in società per azioni nelle mani dei repubblicani che spremono i provinciali.
Gli odi si accumulano!
Pag. 111-112
Nello stesso tempo si assiste all’ascesa dell’ordine equestre, che si è costituito nel corso del terzo secolo.
Tra la nobilitas senatoria tradizionale e i “proletari” è venuta ad inserirsi non una “classe media” (che a Roma non esisteva) bensì una categoria di cittadini privilegiati - figli di senatori, funzionari, ricchi proprietari fondiari, pubblicani – ai quali lo Stato conferisce il cavallo pubblico (sono definiti equites equo publico).
Tra la classe senatoria, che ha per base una fortuna fondiaria, e la plebe si trova posto un “ordine” equestre la cui base economica può essere non necessariamente fondata sul possesso fondiario.
Nel secondo secolo questi cavalieri, che hanno sempre un ruolo fondamentale nell’assemblea centuriata per le elezioni dei magistrati, aspirano a svolgere un ruolo più attivo nella vita sociale e soprattutto in quella giudiziaria, ove i tribunali sono controllati dai senatori.
Ciò è in contrasto con i loro interessi, soprattutto dopo che nel 149 uan legge Calpurnia ha creato dei tribunali permanenti (quaestiones perpetuae) incaricati di giudicare i promagistrati (i governatori di provincia) con i quali hanno a che fare i cavalieri impegnati negli affari commerciali e finanziari delle province.
La potenza politica dei cavalieri si affermerà sempre di più a partire dai Gracchi.
Il rischio di conflitti aumenta maggiormente in quanto anche la stessa classe dirigente politica subisce delle trasformazioni.
Se la classe senatoria detiene sempre il monopolio delle funzioni maggiori (Senato e magistrature) nonché ricchezze e fortuna fondiaria (il censo minimo richiesto è di 400000 sesterzi come per l’ordine equestre), ha ormai smesso di essere un gruppo sociale omogeneo.
Vi sono sempre da una parte i patrizi e dall’altra i plebei, ma ormai adesso vi è soprattutto un gruppo di nobiles, vale a dire i magistrati superiori e i loro discendenti.
Alla fine del secondo secolo questo gruppo si riduce ai discendenti dei soli consoli.
Sono dunque le stesse famiglie (gentes) che si accaparrano le magistrature superiori.
Di fronte ai nuovi senatori e alle ambizioni dei cavalieri, questo gruppo dirigente appare come bloccato e allorché si formano fortune, queste non sono sempre nelle sue mani.
Questa disparità sempre crescente di rendite e di peso politico si accentua tanto più che la plebe libera, se beneficia di alcuni effetti sociali delle conquiste (sviluppo di un artigianato urbano e rurale; sviluppo di un piccolo commercio grazie all’estendersi degli scambi all’interno dell’Italia e con l’esterno).
In effetti, a Roma si forma una infima plebs (un proletariato libero) costituito da esclusi dal mondo rurale, da piccoli bottegai (i tabernarii), da senza lavoro – disoccupati cronici o vittime della concorrenza della manodopera servile.
Costoro formano una “classe pericolosa” di individui pronti a costituire un esercito delle sommosse.
Si vede però apparire anche un gruppo sociale che si rivelerà sempre più attivo sia prima nella vita economica che in seguito nella vita politica: sono liberti, schiavi (spesso di grandi doti o astuti) che hanno ottenuto l’affrancamento.
Divenuti liberti (cittadini liberi ma con diritti politici ridotti), restano al servizio dei loro ex padroni in qualità di clienti.
Si forma così nel secondo secolo una clientela che serve soprattutto gli interessi politici dei “padroni”: in occasione delle elezioni magistratuali sono i loro attivi sostenitori.
Quando G. Gracco scende nel Foro, è accompagnato da 3000 amici, vale a dire clienti, che gli fanno corteo.
E’ facile immaginare quali pressioni possano avere esercitato.
Da queste nuove condizioni economiche, sociali e politiche hanno avuto origine tre grandi conflitti che hanno profondamente marcato la storia di Roma e, in una certa misura, preparato il declino della Repubblica.
Pag. 113-114
La legislazione agraria graccana fu modificata piuttosto che abolita.
Il problema agrario sarebbe ritornato più di una volta nel dibattito politico.
Si deve sottolineare che essa è stata motivo dei primi scontri violenti tra cittadini.
Essa segna dunque il primo episodio delle tragiche guerre civili che avrebbero determinato rapidamente la fine della Repubblica.
Primo episodio tanto più pericoloso in quanto in quello stesso frangente cominciavano anche le guerre servili.
Pag. 118
Alimentate da un clima ideologico e da un supporto religioso, queste rivolte collettive furono difficili da domare.
Solo nel 134 il console Calpurnio Pisone riuscì a riprendere Messina e poté cominciare l’assedio di Enna nel 133.
La città non cadde che nel 132: Cleone fu ucciso e subito dopo analoga sorte toccò a Euno, sorpreso in una caverna.
……..
E’ in Italia nel 73 che scoppia l’ultima e la più celebre delle ricolte servili, quella di Spartaco.
Diversa dalle altre per la sua vicinanza a Roma (che ne avvertì più forte la minaccia), per la sua origine (l’azione di un gladiatore trace che operò sulle scuole gladiatorie di Capua), per la personalità del suo animatore, Spartaco, più greco che barbaro, per l’impreparazione del movimento, la rivolta ebbe inizio con l’occupazione del cratere del Vesuvio e una vittoria sul pretore incaricato di sloggiare gli insorti.
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La rivolta di Spartaco non ebbe le stesse conseguenze dei moti servii siciliani.
Non comportò una nuova legislazione ma ci si contentò di assicurare la repressione.
Ma la paura che essa aveva prodotto era stata nem più grande in quanto ancora alimentata dal ricordo e dagli strascichi della guerra sociale.
Per tre anni, la “grande guerra” (coem la definisce Diodoro Siculo) ha visto “tutta l’Italia levarsi contro Roma” (Vell. Pat., 2, 15).
Per un motivo apparentemente sorprendente: il rifiuto di Roma d’accordare agli italici la cittadinanza romana che costoro desideravano.
La questione si poneva dalle guerre del terzo secolo.
Da allora, l’Italia si presentava come un groviglio di territori e uomini con statuti giuridici diversi.
Pag. 120
Nel 123 Gaio Gracco aveva avanzato la proposta di dare la piena cittadinanza ai latini e il diritto latino agli “alleati”.
Non solo il Senato respinse questa proposta ma decise anche di espellere da Roma il latini e i socii che non avevano il diritto di voto.
La questione si ripropose negli anni 95-91 quando furono prese nuove misure per combattere l’infiltrazione dei latini e degli alleati italici a Roma.
Pag. 121
Si è talvolta paragonata la guerra sociale alla guerra di secessione americana.
Vi furono manifestazioni feroci di odio: ad Ausculum (Ascoli), nel Piceno, le donne romane furono scalpate prima di essere uccise; a Grumento, in Lucania, la piccola guarnigione romana fu passata a fil di spada e la popolazione civile massacrata.
Molto presto, i marsi ei sanniti, i più accesi tra i rivoltosi, diedero vita a due Stati coniando moneta (segno di sovranità): presso i marsi, questa moneta recava la legenda Italia, presso sanniti, in osco, Vitalia.
Si diedero proprie istituzioni ed uan capitale, Corfinio, ribattezzata Italia.
Dinanzi a questa secessione e ad un contingente federale forte di 100000 uomini, Roma ebbe paura e adottò uan misura fortemente repressiva (lex Varia) prima di inviare contro gli insorti i suoi migliori generali, G. Mario e L. Silla, che ottennero alcuni successi.
Pag. 122
Le conseguenze furono considerevoli:
- la concessione agli italici della cittadinanza romana determinò una larga diffusione del diritto romano e accelerò il processo di romanizzazione della penisola.
Sola restava ancora un poco in una condizione diversa la Cisalpina, sempre provincia amministrata coem tale fino all’età di Cesare;
- a causa della guerra si formarono in Italia delle clientele talora enormi, come ad esempio quella di Gneo Pompeo Strabone nel Piceno, dove aveva proprietà assai estese. Costui era il padre di Pompeo Magno.
- si ebbe l’ingresso nella classe dirigente di cittadini provenienti dalle colonie e municipi italici che a poco a poco avrebbero sostituito nelle magistrature e nel Senato le antiche famiglie romane. Si prepara l’avvento di una nuova società.
Le conquiste hanno avuto come si vede effetti decisivi sull’evoluzione politica, economica e sociale di Roma.
Non meno importanti sono state le loro conseguenze nella vita culturale e spirituale dei romani.
I contatti diretti con ma Magna Grecia e con il mondo ellenistico, l’afflusso a Roma e in Italia di stranieri e soprattutto di schiavi, lo sviluppo dei viaggi e degli scambi nel Mediterraneo hanno avuto l’effetto di trasformare gli stili di vita soprattutto a Roma, dove si osserva nel secondo e nel primo secolo a. C. un’evoluzione nella cultura materiale come nella morale, nella vita intellettuale e spirituale.
Pag. 123-124
Già Catone, durante la sua censura, aveva preso delle misure contro il lusso delle donne, contro il lusso della tavola, ecc.
Nel 161 una legge ha vietato di ingrassare le pernici; ma di essa ci si fece beffa.
E’ senz’altro Sallustio che ha denunciato con maggior forza le ragioni morali del declino della Repubblica nella congiura di Catilina, opera in cui tira in ballo non solo l’aumento del lusso e del desiderio di piacere, ma anche il “disprezzo degli dèi” e la corruzione degli uomini di potere.
Contemporaneo di Cesare, Sallustio ha vissuto egli stesso le esperienze politiche di Silla e di Pompeo con le orribili guerre civili che avrebbero insanguinato Roma e l’Italia.
Osservatore della crisi politica nell’ultimo secolo della Repubblica, ha saputo descriverla.
A fianco di un vero “Rinascimento” delle lettere e delle arti, le conquiste hanno portato a Roma i fermenti di gravi disordini nella vita politica e sociale tradizionale e creato le condizioni di uno stravolgimento dei valori tradizionali.
Tutto ciò esploderà nell’ultimo secolo prima della nostra era.
Pag. 127
Cap. 6. Crisi e fine della Repubblica
Già la crisi graccana, a causa dei rivolgimenti istituzionali che aveva innescato, per il ricorso alla violenza che aveva provocato, aveva dato inizio alle gravi difficoltà che hanno investito la Repubblica romana, vittima dei suoi successi in Italia e nel Mediterraneo.
Successivamente, le guerre servili e soprattutto la guerra sociale hanno rivelato tutta la debolezza di un regime e id una società costruiti per una città-stato ma che nel frattempo era divenuta un impero territoriale dalla dimensioni inusitate.
Per Sallustio e Varrone, Gaio Gracco è all’origine delle guerre civili che insanguineranno l’ultimo secolo della Repubblica.
Diciamo almeno che i tribunati dei Gracchi costituiscono il primo episodio della grande crisi politica che scuoterà Roma, dominata da tentativi di instaurazione di poteri personali e dai conflitti tra le ambizioni di Mario Silla, di Pompeo e Cesare, e infine di Marco Antonio e Ottavio.
L’ultimo secolo della Repubblica romana è per molti aspetti un momento decisivo per la storia di Roma: non solo perché è un’epoca in cui, come scrive Appiano “la violenza regola tutto”, la sorte degli uomini e quella della res publica, ma anche perché si assiste al crollo dei valori tradizionali, sostituiti da nuove mentalità e dall’aspirazione a nuove condizioni di vita.
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Parte seconda. Roma padrona del mondo, 31 a. C.-235 d. C.
Cap. 7. Il mondo romano nel 31-28 a. C.
Questo impressionante insieme che si articola attorno ad Azio lascia apparire le linee di forza di un’ideologia “ottaviana”.
Nel cuore di quest’ultima, l’idea di vittoria.
Essa sarà al centro della mistica imperiale.
Ottavio deve direttamente questa vittoria agli dèi olimpici e agli auspici che egli detiene.
Infine, insistendo sulla difesa dell’ellenismo di fronte alla barbarie egiziana, tirando un parallelo tra Salamina e Azio, essa dà ad Ottavio la possibilità di riconciliare abilmente l’Oriente greco e l’Occidente: è sulla riva di Azio che Virgilio farà celebrare ad Enea giochi troiani.
Pag. 169
Nell’agosto del 29, allorquando celebra a Roma i suoi tre trionfi, il mondo che egli domina non è più quello che esisteva due anni prima.
C’è il mondo romano prima di Azio e quello dopo Azio.
Fine dalla Repubblica romana, fine dell’epoca ellenistica; inizio del regime imperiale e dell’organizzazioni unitaria del mondo: frattura formale? Forse.
Ma già alcuni storici antichi (Cassio Dione) la consideravano fondamentale, opinione che condivide una buona parte dei moderni.
A partire dagli anni 76-75 a. C. l’apparizione sempre più frequente del globo sulle monete romane non lascia alcun dubbio: Roma aspira ad essere la garante dell’ordine del mondo.
E la pace di Ottavio, lungi dall’essere uan apce di fatalità, vuole essere conquistatrice.
Più tardi, egli si vanterà di aver raggiunto i limiti del mondo.
“Roma, alla lettera, non ha conquistato il vecchio mondo, ma tutto il vecchio mondo ha potuto venire ad essa” (C. Nicolet).
Perché tra il mondo romano e il resto del mondo, i collegamenti sono numerosi: commerciali, culturali o militari
Pag. 178-179
Cap. 8. Il Principato augusteo: nascita di un regime
31 a. C.? 29 a. C.? 27 a. C.? 23 a. C.?
Quattro date che sono state considerate da vari storici ognuna come l’inizio del nuovo regime.
Esitazione significativa: essa traduce l’imbarazzo davanti ad un modo di governare di cui ci si trova ora d’accordo nel riconoscere la natura monarchica dietro una facciata istituzionale ambigua e complessa.
E piuttosto che di un nascere, conviene parlare di un lento affiorare, tanto i tratti della monarchia augustea, quelli che riprenderanno i suoi successori, si sono disegnati poco a poco, pennellata dopo pennellata sullo sfondo repubblicano.
Perché attuato lentamente, arricchito e modificato secondo le circostanze, adattato alla volontà di Ottavio Augusto di conservare il potere, il Principato non è stato creato ex nihilo, né secondo un piano precostituito.
Pag. 184
Il compromesso istituzionale, 29-23
Ostacoli ed elementi a favore
Il trionfo del 29 significava la fine della guerra contro Cleopatra e il ritorno ad uno stato di diritto.
Ma quale?
Per instaurare apertamente un regime monarchico, Ottavio superare numerosi e potenti ostacoli.
- In primo luogo, il titolo di re, o tutto ciò che poteva evocarlo (il nome di Romolo, il portare il diadema) conservava a Roma uan sufficiente carica emotiva per condurre all’assassinio: era la lezione delle Idi di Marzo.
- In secondo luogo, il senato depositario del mos maiorum, aveva conservato il suo prestigio, anche se il suo potere si era indebolito.
Ignorarlo, sottovalutarlo, opporsi ad esso, significava esporsi ad un’ostilità delle grandi famiglie, ostilità tanto più vivace in quanto esse consideravano la Res Publica come una proprietà personale e in quanto la loro clientela era estesa.
- In terzo luogo, la personalità di Ottavio era contestata.
Gli si rimproverava, sulla scia di Antonio nel 43, di dovere il suo successo ad un nome, quello di Cesare.
Di fatto, il suo prestigio militare era appannato e criticato, e le sue origini familiari ispiravano chiacchiere e pettegolezzi.
In realtà, suo padre, G. Ottavio, inizialmente cavaliere, fu il primo della sua famiglia a compiere il cursus honorum.
Quanto alla sua azione, ognuno ricordava che egli era stato un capo di fazione spietato, crudele dicevano i suoi avversari, durante le guerre civili.
- In quarto luogo, la posizione istituzionale di Ottavio era vaga per il presente e incerta per il futuro.
Dal 32 i suoi poteri triumvirali erano teoricamente cessati.
Gli restavano dunque tre elementi del potere: il consolato che egli riveste ogni anno a partire dal 31, ma che non gli conferisce alcuna responsabilità militare; la sacrosanctitas dei tribuni della plebe e la potestà tribunizia (cioè il potere dei tribuni senza essere uno di loro), entrambe a cita, ricevute rispettivamente nel 36 e nel 30; il giuramento di fedeltà che gli avevano prestato l’Italia e le province d’Occidente nell’autunno del 32.
Ora, nel 28, la crisi provocata da M. Licinio Crasso rivelò la precarietà di questa situazione.
Domandando di celebrare un trionfo e di deporre delle spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio, il nipote del triumviro rivaleggiava con la preminenza militare di Ottavio.
Per converso, Ottavio disponeva di appoggi di prim’ordine.
- E’ il figlio del Divus.
Questa filiazione prestigiosa lo collega non solo a Cesare, l’unico divus di Roma, ma anche a Venere.
Due fatti rendono nuovamente attuale questa ascendenza.
Nell’agosto del 29, nel Foro, si dedica il tempio del Divo Giulio e si inaugura la nuova curia, iniziata da Cesare, la Curia Iulia.
Davanti alla facciata del tempio, una tribuna ornata dai rostri dei vascelli catturati ad Azio; in fondo alla Curia, una statua della Vittoria che Ottavio aveva portato da Taranto e davanti ad essa un altare, dunque un culto.
Due modi di celebrare il padre, richiamando i meriti del figlio.
- E’ alla testa di un esercito formidabile e unico, poiché le truppe di Antonio erano passate dalla sua parte: più di sessanta legioni, senza contare le truppe ausiliarie.
Naturalmente, egli ne smobilita rapidamente più della metà, e sistema dei veterani; ciò non impedisce che il suo peso militare reale sia schiacciante.
- E’ immensamente ricco.
Si stimano in un miliardo di sesterzi le spese fatte tra il 30 e il 29 a. C.
Questa fortuna proviene dalle eredità del padre naturale e del padre adottivo, ma soprattutto dal bottino egizio, al quale bisogna aggiungere le confische di terre e le vendite dei beni dei nemici.
E’ l’uomo più ricco della sua epoca e può criticare una politica di evergetismo su scala imperiale.
- Nel 43 a. C. Ottavio era stato acclamato imperator.
Dal 40 egli aveva trasformato questo titolo onorifico in un elemento del suo nome, collegandolo definitivamente alla sua persona, come un vero prenome, senza dubbio per manifestare “il possesso di un primato d’onore e di uan superiorità di potenza”.
- Egli appariva contemporaneamente come l’uomo della vittoria e come l’uomo della pace.
Oltre al suo trionfo del 29, una serie di iniziative prese dal Senato mentre Ottavio si trovava in Oriente, gli assegna questo doppio merito: il 1. gennaio del 20, il Senato concede la sua auctoritas a tutti i suoi atti precedenti; l’11 il tempio di Giano è chiuso per la terza volta nella storia di Roma.
Inoltre Ottavio è salutato col titolo di “salvatore dello Stato”.
Un arco è innalzato nel Foro, in suo onore, tra il tempio del Divo Giulio e quello di Castore.
Su questo primo arco di trionfo, si poteva leggere Republica conservata.
Meglio, al momento del trionfo, mentre secondo la tradizione, magistrati e Senato aprivano il corteo, per la prima volta è l’imperator, Ottavio, che lo guida.
Così gli elementi di cui dispone Ottavio sono numerosi.
Egli ha saputo utilizzarli con abilità, prendendo decisioni, o facendole prendere, con il solo scopo apparente di restaurare il passato , mentre egli sperimentava delle innovazioni che sembrano minori, ma che sono di importanza decisiva.
Il suo genio politico fu proprio quello di capire che, per meglio instaurare un potere personale, doveva ocnservare la Repubblica, consolidare anche le apparenze delle sue istituzioni al fine di meglio vuotarle del loro contenuto.
Dal 28 al 23 a. C. s’organizza, con pragmatismo e lentezza, un evidente compromesso istituzionale.
Pag. 187-189
Capitale della Proconsolare, terza città dell’Impero, Cartagine è una città importante del mondo romano.
Popolata da parecchie centinaia di migliaia di abitanti, è stata sistemata con grandiosità dagli Antonini (acquedotto, terme, teatro, foro).
Tuttavia, questa città non è isolata: almeno 200 città per la sola Proconsolare, di cui 161 come minimo nel nord-est della Tunisia attuale!
Tra essi grandi nomi: Leptis Magna, Sabratha in Tripolitania; Hadrumetum, Thysdrus (la capitale dell’olivo), Utica, Ippona, Cirta, ecc.
In totale, si stima che il quarto o il terzo della popolazione abitava in città, città agricole o città portuarie, e spesso el due cose insieme.
Si comprende allora che, attraverso il successo municipale, in Africa più che altrove, i notabili abbiano adottato uno stile di vita romano e abbiano tenuto un ruolo considerevole non solo nel quadro della loro città o della loro regione, ma sempre più in quello dell’Impero.
Due esempi molto differenti: a Ostia, intorno al piazzale delle corporazioni, le compagnie africane sono le più numerose, tra gli ufficiali e i magistrati dell’epoca di Commodo, gli africani occupano un numero elevato di posti e costituiscono un gruppo di pressione informale e potente.
Tuttavia sussistono nelle campagne numerose zone in cui il punico è ancora parlato.
Ma il suo uso scritto scompare nel corso del secondo secolo.
Pag. 325
Le Tre Gallie (la Lugdunense, l’Aquitania, la Belgica) raggruppano uan sessantina di città che si riuniscono uan volta all’anno per celebrare il culto di Roma e di Augusto, certamente, ma anche per deliberare in un Consiglio dei Galli, in una sorta di distretto federale, a Condate, sulle pendici della Croix-Rousse, tra Rodano e Saona, di fronte alla colonia di Lione.
In questo senso, formano incontestabilmente un’entità politica e territoriale su cui pesa, sempre meno via via che ci si allontana dal Reno, il peso dell’esercito in particolare nell’orientamento della produzione economica; così i cereali e la lana che producono le città del Nord (le attuali Artois e Piccardia) sono rivolti verso le legioni del Reno.
Vari prodotti agricoli (grano, legname, ricco bestiame, vini, piante tessili), tecniche moderne (falce, “mietitrice”, marnatura), un solido artigianato (ceramica, tessitura, metallurgia), uan rete stradale migliorata da Antonino, fiumi navigabili, commercianti attivi (come i mercanti di Lione o quelli di Treviri), fanno sì che le Tre Gallie conoscano nel secondo secolo una brillante prosperità materiale che ravviva lo splendore delle città.
Al primo posto Lione, che gli Antonini arricchirono; poi Treviri, Bordeaux, che divenne nel corso del secondo secolo la capitale dell’Aquitania, Autun, Reims, e dietro, tra le grandi città, Metz, Poitiers, Limoges, Lutezia.
Dei vuoti immensi: il Sud- Ovest, il Centro, l’Ovest, il Nord dove l’urbanizzazione è molto debole.
Malgrado questi limiti, questa rete urbana modella in gran parte la rete attuale.
Pag. 326-27
In confronto all’Occidente, l’Oriente dà l’illusione di un’entità politica più monolitica.
Non è affatto vero: la varietà etnica e culturale qui può persino essere più importante.
Come le province d’Occidente, quelle d’Oriente conoscono nel secondo secolo una brillante prosperità.
Ma l’equilibrio che si percepisce alla metà del secolo tra le due parti dell’Impero nasconde in realtà un dinamismo ineguale: le province d’Occidente hanno raggiunto il loro apogeo, che esse non conserveranno molto, salvo l’Africa, al di là del secolo; quelle d’Oriente, malgrado alcuen ombre, mantengono più a lungo i loro successi economici, amplificano la loro preminenza intellettuale e diventeranno nel secolo successivo il centro vitale dell’Impero.
Così lo studio provincia per provincia si inserirà nel quadro dell’Impero nel 325.
Questo progresso globale dell’Oriente a scapito di un Occidente che si immobilizza nella sua “età dell’oro” si segnala dalla seconda metà del secolo degli Antonini.
Ma le ragioni sono più antiche.
Innanzi tutto queste terre d’Oriente sono tutti territori di antiche e grandi civiltà che non avevano mai cessato di essere virtualmente ricche, tanto la memoria, la cultura e l’esperienza degli uomini qui erano state importanti in tutti i campi (tecniche, commerci, vita sociale, politica, economica, spirituale).
Ma la pirateria e il brigantaggio, le conquiste e i loro saccheggi, le guerre civili e le loro distruzioni avevano indebolito e diviso queste regioni, conducendole ad un certo ripiegamento.
Pag. 330
Così preparata da un secolo, la prosperità della parte orientale dell’Impero poggia forse su fondamenta più solide di quelle della parte occidentale, o almeno, più estranee alla tradizione romana.
In ogni caso, le sue manifestazioni, spesso brillanti, toccarono tutti i settori dell’attività umana.
Pag. 333
Uan reale ricchezza economica.
Malgrado alcune regioni che vivacchiano (Beozia, est dell’Anatolia), l’impressione che domina è quella di un’incontestabile prosperità, perfino di un’opulenza agricola, artigianale, industriale e commerciale.
In questo settore economico, i siriani in particolare si distinguono.
Essi dominano il piccolo e grande commercio; li si trova in tutto l’Impero, da Gades a Colonia, da Ostia a Lione, dove l’iscrizione funeraria di un mercante di Laodicea precisa che egli è venuto a portare “ai celti e alla terra d’Occidente tutto ciò che Dio ha stabilito di portare alla terra d’Occidente tutto ciò che Dio ha stabilito di portare alla terra d’Oriente, feconda di ogni prodotto”.
Quanto al commercio a lunga distanza, cioè con la Cina e con le Indie, è un’esclusiva orientale e passa per Petra, Palmira o per Alessandria, secondo gli itinerari e secondo i prodotti.
Pag. 334
Si sa che esiste un pensiero economico presso i romani ma la sua razionalità non è la stessa della nostra.
Altrimenti detto: la realizzazione dell’Impero romano, in quanto spazio politico e geografico, è accompagnata da un’organizzazione economica che da liberale ai suoi inizi sarebbe diventata statalista nella tarda antichità?
Sembra di no.
Il pensiero economico, a Roma, “non è che l’elemento di una riflessione globale che mette in realtà al centro di tutto la città, nella sua totalità, concepita come il luogo ineguagliato delle relazioni umane, e di cui bisogna dunque preservare ad ogni costo la coesione e i valori.” (C. Nicolet).
E’ l’equilibrio morale della città che importa.
Ci sarà sempre confusione tra morale ed economia: così le ricchezze che apporta il commercio possono essere considerate nello stesso tempo come una risorsa economica, come il segno di un dominio politico e come un rischio di corruzione morale.
Ciò detto, la storia economica ha fatto enormi progressi in pochi anni.
Se non è possibile avere visioni generali su tutto l’Impero (gli studi economici sono per lo più generali), si arriva malgrado tutto a raccogliere sufficienti informazioni per studiare i grandi settori economici.
Non è questione di presentare qui l’insieme di questi risultati, ma di dare alcune indicazioni sulla vita economica nel secondo secolo dell’Impero.
Un richiamo, le condizioni della vita economica sono estremamente favorevoli alla sua fioritura.
C’è la pace e anche una rete di strade costantemente sottoposte a manutenzione e perfezionate, un insieme di fiumi che permettono di raggiungere l’interno dei territori a partire dal Mediterraneo, il mare stesso, divenuto sicuro, ma che non è molto frequentato da novembre a marzo (il mare è chiuso, dicono i romani), dei porti sistemati continuamente (Ostia, Cartagine, Alessandria, Leptis Magna, Seleucia di Pieria, ecc.), l’estensione stessa dell’Impero che permette di avere risorse diverse e complementari, l’esistenza di enormi centri di consumo (Roma, le grandi città, le zone frontaliere), i progressi del lusso e lo sviluppo di una società in cui si consuma sempre di più, una moneta quasi stabile (nonostante un indebolimento sotto Marco Aurelio) e un aumento della popolazione che incita a sfruttare terre nuove,
In complesso, un’era di prosperità economica così evidente che i suoi risultati impressionano uno scrittore di temperamento polemico, Tertulliano: “Constatiamo con certezza – scrive verso il 210 – che il mondo è di giorno in giorno meglio coltivato e meglio provvisto di tutto che nel passato.
Tutto è accessibile, tutto è conosciuto, tutto è lavorato, dei fondi rurali molto gradevoli hanno fatto arretrare deserti celebri, i solchi hanno domato le foreste, le greggi hanno messo in fuga le bestie feroci, le distese di sabbia sono seminate, si aprono vie nelle rocce, si prosciugano le paludi, esistono tante città quante case un tempo […].
Ovunque abitazioni, ovunque popoli, ovunque città, ovunque vita!”
Pag. 335-36
Questi traffici con l’esterno non avevano quasi contropartita.
Roma pagava in oro.
Per molto tempo si è parlato a questo proposito di emorragia d’oro.
Si sa ora che queste considerazioni si iscrivono nella tradizione romana del discorso contro il lusso e che questi cento milioni di sesterzi non mettevano in pericolo l’economia dell’Impero.
Nelle città mercantili, soprattutto d’Occidente, gli artigiani, i mercanti, i battellieri si raggruppano in corporazioni costituite sul modello delle curie municipali.
Essa hanno anche uno scopo religioso, poiché garantiscono ai loro componenti di ricevere funerali adeguati e giocano nella città un ruolo non trascurabile, come , a Lione, la corporazione dei mercanti di vino.
Pag. 342
Con Augusto era nato un nuovo esercito, l’esercito imperiale.
Questo “esercito sperimentale”, i suoi successori lo trasformano in “esercito permanente” (P. Le Roux), con una missione principale – difendere l’Impero contro ogni aggressione esterna -, una funzione secondaria –assicurare l’ordine all’interno delle frontiere (sorvegliare le strade, controllare i nomadi, prevenire la pirateria, ecc.) – e delle funzioni accessorie (compiti amministrativi, corrispondenza ufficiale, lavori pubblici).
Pag. 343
Quando, sotto i Flavii, furono nuovamente installate le legioni sul Reno, si rimpiazzarono gli accampamenti invernali rudimentali (in legno e in terra) con dei campi costruiti in pietra.
Questo cambiamento di modo di costruzione è forse il primo segno di una nuova strategia.
All’Impero “egemonico” dei Giulio-Claudii succede l’Impero “territoriale”, che inaugura uan strategia di difesa del perimetro: “avendo raggiunto le frontiere “scientifiche”, non si decide più alcuna operazione ulteriore, in ogni caso non al di là della portata delle basi fisse” (E. Luttwak).
Dopo le spedizioni di Traiano, questa concezione di difesa preventiva si impone su tutte le frontiere, cioè 10200 km contando la Dacia (9600 senza), più 4500 di coste.
Questo dispositivo si chiama limes.
Pag. 346-47
Questi elementi naturali del limes non sono che lo scheletro del sistema.
Bisogna immaginare delle pattuglie, delle azioni diplomatiche, degli scambi, dei trasferimenti incessanti di soldati, ecc., e molteplici adattamenti secondo i luoghi.
Qui si utilizzerà un fiume, là una montagna o un deserto.
Pag. 347-48
In definitiva, la potenza militare dell’Impero è in primo luogo uno strumento diplomatico; la minaccia del suo impiego dissuade il nemico che mai nel secondo secolo offre una forza in grado di inquietare le legioni.
Ma sarebbe bastato che fuori dalle frontiere apparisse uan federazione di tribù o un altro impero perché il sistema di difesa, concepito in funzione di minacce di piccola ampiezza, non potesse farvi fronte; l’estremo dilatarsi delle unità non permette in effetti di prelevarne uan parte importante da un fronte per inviarla altrove.
Il sistema manca di flessibilità.
Che cosa accadrebbe allora se in due punti lontani l’uno dall’altro, dei popoli di frontiera organizzati attaccassero l’uno dall’altro, dei popoli di frontiera organizzati attaccassero contemporaneamente?
In fin dei conti, l’esercito sotto gli Antonini ha raggiunto il suo obiettivo: garantire una sicurezza permanente alle popolazioni che vivono all’interno delle frontiere dell’Impero.
In ciò, partecipa ai disegni supremi di questo stesso Impero: creare una nuova società in cui i barbari al di qua, sempre più integrati nel mondo romano, sempre più separati dai barbari che vivono al di là, sono sul punto di divenire i provinciali del vasto impero.
“Era un vero melting-pot”, osserva uno storico anglosassone parlando dell’Impero o ad esaminarlo molto sommariamente nella sua varietà religiosa, non si può evitare di essere colpiti dall’abbondanza di credi religiosi”.
Un’abbondanza che bisogna preservare nella sua nella sua interezza, se non si voglia correre il rischio di non comprenderne la vitalità.
E Ramsey MacMullen rifiuta nel suo studio (Paganism in the Roman Empire, New Haven, 1981) di analizzarne “(le) parti costituenti, (i) culti particolari, le loro derivazioni e la loro natura” per guardare al sistema complessivo e ai suoi cambiamenti.
Ha senza dubbio ragione.
Almeno conviene riconoscerne gli elementi essenziali: la religione romana tradizionale, i culti indigeni di sui certi superano la loro regione di origine, il culto imperiale.
Pag. 350
Sotto il termine generale per “religioni indigene” intendiamo tutte le religioni dell’Impero ad eccezione delle religioni “italiche”, pur se indigene.
Questo semplice enunciato permette di comprendere l’ampiezza di tale questione che non si può, neanche superficialmente, affrontare qui.
Entrare nel dettaglio rende necessario fare un tour dell’Impero provincia per provincia, perfino regione per regione.
E nessuna visione d’insieme è veramente pertinente: queste religioni esistono, proprio, solo per il fatto che non hanno vocazione all’universalismo e sono radicate in un territorio, in una storia e in una società precisa.
Tutt’al più si possono presentare alcuni elementi evolutivi comuni a queste religioni, religioni di popoli vinti, che persistono nel secondo secolo e anche dopo.
Pag. 355
Cap. 12. Il regno degli africani e dei siriani.
Le caratteristiche di questi anni di guerra
- Il Senato con i suoi voltafaccia, le sue indecisioni, i suoi rinnegamenti scompare completamente dal novero delle forze politiche
- L’esercito provinciale, e non più i pretoriani, è la forza determinante nella scelta dell’imperatore.
Il soldato delle frontiere danubiane è divenuto il padrone dell’Impero
- Il conflitto ha preso l’aspetto di guerre interprovinciali, in cui, su scala regionale, le rivalità tra città hanno avuto un ruolo di primo piano
- Tra queste province, tre aree acquistano importanza: la Britannia, le province danubiane, l’Oriente.
Esse segnalano in definitiva il nuovo asse di scambi (Reno-Danubio-Siria) che controbilancia l’asse mediterraneo (Oriente-Roma-Occidente).
A breve termine, si profila un problema cruciale, che pressioni esterne potevano aggravare, quello dell’unità dell’Impero.
Pag. 369-70
Vitalità, energia, attivismo, le parole ritornano senza posa per qualificare l’opera di Severo che, per la sua azione personale o perché era in accordo con la sua epoca, apportò grandi cambiamenti nella pratica del potere e accentuò certi aspetti del regime: monarchia dinastica, monarchia anti senatoria, monarchia assoluta.
Pag. 372-73
A partire da Settimio Severo si svela completamente l’assolutismo intrinseco al regime imperiale ma che, fino ad allora, si nascondeva dietro un paravento di istituzioni e di abitudini, sebbene questo tendesse sempre più a sgretolarsi.
Così l’orazione del Principe al Senato diventa fonte ufficiale del diritto.
E i giuristi che circondano l’imperatore mettono la loro scienza al servizio del potere: “ciò che piace al principe ha valore di legge”, “il principe è al di sopra delle leggi”, dicono.
Migliaia di istanze (circa 1500 per anno) affluiscono da tutto l’Impero al Consiglio del Principe.
Se si aggiunge a ciò l’aumento dei posti di procuratori, si comprende che il numero degli uffici e degli impiegati aumenta.
L’Impero comincia a burocratizzarsi.
Così la res privata (l’amministrazione dei beni personali dell’imperatore), gonfiata dalla confisca dei beni degli oppositori, ha raggiunto un’estensione tale da divenire un ufficio a tutti gli effetti, distinto dai beni della corona (il patrimonium).
Altri esempi: lo sviluppo dei servizi all’annona, l’intrusione dello Stato nell’organizzazione delle società commerciali e artigianali, l’ampliamento del fenomeno associativo nel mondo contadino favoriscono lo sviluppo degli uffici centrali.
Pag. 378-79
Nondimeno non bisogna immaginarsi questa burocrazia come quella di uno Stato moderno.
La nascita di una vita di corte con uno stile inusitato testimonia ancora l’assolutismo del potere severiano.
Itinerante o fissa, essa si caratterizza per un’etichetta sempre più minuziosa, ricalcata sul modello orientale: seggio, corone, vesti, atteggiamenti sono codificati e l’adventus Augusti (l’arrivo dell’imperatore) o l’apoteosi di Settimio Severo si svolgono secondo un cerimoniale dal formalismo mai raggiunto prima.
Quest’ultima cerimonia tuttavia non è nuova.
Il suo scopo ultimo non è fondamentalmente cambiato, si tratta sempre di divinizzare l’imperatore defunto.
Tuttavia, se la tradizione persiste, si sono notati degli elementi che prefigurano il terzo secolo.
In un certo senso, un riassunto dell’opera di Settimio Severo.
Pag. 380
Per accattivarsi la fedeltà dei partigiani sei Severi (in particolare dei soldati), prende come, cognomen Severus, fa proclamare Caracalla divus dal Senato e dà al suo giovane figlio, Diadumeniano, contemporaneamente il cognomen di Antoninus (come Caracalla) e il titolo di Cesare.
Ma nello stesso tempo, per legare a sé gli oppositori dei Severi, ritorna sulle misure di Caracalla (riporta l’imposta sulle successioni al 5%), versa al re parto un’indennità di 200 milioni di sesterzi per lasciare immutate la frontiera romano-partica e le zone di influenza (Armenia) e riduce delle metà il soldo delle nuove reclute.
Per di più, la sua origine oscura, le sue azioni maldestre (rifiuto del resto giustificato di recarsi a Roma, nomina alla prefettura della città del suo collega al pretorio, ecc.) gli alienano le poche simpatie che aveva saputo suscitare.
E vi trovava del tutto incapace di opporsi alle macchinazioni delle principesse siriache.
Pag. 284-85
Africano, siriaci, un trace alla guida dell’Impero: è evidente che le province, e in particolare quelle della parte orientale dell’Impero, forniscono il personale politico e militare, desideroso di assumere i più alti incarichi.
Questa preminenza si ritrova in campo intellettuale: così si vede un Latino di Preneste che non lascerà mai Roma, Eliano (?170-235?), scrivere in greco le sue Storie degli animali.
Due aspetti meritano attenzione – il movimento religioso, il movimento intellettuale – perché essi annunciano un altro universo mentale, un altro modo di vedere le cose.
Si è spesso attribuita ai Severi un’orientalizzazione della religione romana.
Forse si è andati troppo lontano su questa strada coem hanno fatto osservare numerosi ricercatori anglosassoni?
Ma ciò non toglie che sotto l’influenza della corte, delle imperatrici, dei mercanti, dei giuristi, un’estensione delle “religioni orientali” è percepibile in quest’epoca: nei paesi in cui erano già introdotte esse prendono più piede, mentre si diffondono là dove non erano ancora penetrate.
Tuttavia, al di fuori del caso di Elagabalo, non si colgono sempre i rapporti tra queste religioni e l’azione imperiale.
Qualche esempio.
- Si nota ovunque un ritorno di favore per Cibele.
Tauroboli e crioboli si moltiplicano alla fine dell’età degli Antonini e all’epoca dei Severi, spesso associati al culto imperiale.
- Il culto di Iside e quello di Serapide beneficiano dei favori imperiali.
Sui denarii di Giulia Domna, Iside allatta Horus, con la leggenda “Felicità del secolo”, allusione alla maternità dell’imperatrice.
Quanto a Caracalla, egli consacra un culto particolare a Serapide che figura dal 212 sul rovescio delle sue monete.
D’altronde l’imperatore è definito “beneamato da Serapide” e a questa divinità fa costruire un tempio grandioso sul Quirinale
- Giove Dolicheno conosce il suo apogeo sotto i Severi, prima di crollare brutalmente (se si presta fede alle iscrizioni) dopo il 220 circa.
Strettamente legato ai soldati, recluta i propri fedeli nell’ambiente militare da dove non esce quasi.
Lo si trova dunque sui differenti limes.
- E’ ancora sotto i Severi che le dediche mitriache “per la salvezza dell’imperatore…” sono più numerose.
Ma questa constatazione richiede due correzioni.
Da una parte tutte le iscrizioni, quali che siano, seguono la stessa curva.
D’altra parte tra le divinità invocate per la salvezza degli Augusti, Iuppiter Optimus Maximus è di gran lunga in testa.
Si potrebbero fornire altri esempi.
Non si arriverebbe a meglio delineare l’articolazione tra l’attività dei Severi e l’orientalizzazione della religione, salvo per alcune divinità locali, legate all’origine stessa della famiglia imperiale: Aziz di Emesa, onorato a Intercisa per la salvezza di Severo Alessandro; Liber pater e Ercole di Leptis Magna, i cui nomi latinizzati nascondono divinità di origine semitica, Shadrafa e Melqart.
Più chiare sono le tendenze che questa oscura orientalizzazione rivela.
Ce ne sono due.
Semplificando, potrebbero ricondursi alle due politiche religiose di Elagabalo e di Severo Alessandro.
Con il primo è affermata a vantaggio del Sole (Helios) l’idea abbastanza comune di un dio unico la cui forza è molteplice e di cui le altre figure divine sono le espressioni.
Il Sole sarà il grande dio beneficiario del vasto movimento sincretista del terzo secolo.
Con il secondo si evidenzia un altri tipo di sincretismo, che mette le divinità sullo stesso piano, senza privilegiarne una o escluderne un’altra, perché sono tutte riflesso di una divinità superiore che i filosofi del terzo secolo cercheranno di definire.
In seno a queste due tendenze, il posto che occupano i filosofi va crescendo: le filosofie si impegnano sempre più di spirito religioso.
Infine, l’ultimo aspetto dell’”orientalizzazione” della vita religiosa, l’espansione del cristianesimo.
Dall’epoca di Marco Aurelio la situazione giuridica dei cristiani non si era modificata.
Nel 202 Settimio Severo vieta il proselitismo giudaico e cristiano.
E’ il primo atto giuridico direttamente portato contro i cristiani.
Ci fu un editto di persecuzione?
Malgrado un passo dell’Historia Augusta, non sembra.
Si conoscono allora dei martiri a Cartagine e ad Alessandria in particolare, ma nono il risultato di pogrom locali (movimenti di folla, eccessi dei governatori) e non dell’applicazione di un editto generale che nessuna utore cristiano ricorda.
Salvo questa misura, i Severi mostrarono una neutralità, talvolta benevola, verso il cristianesimo.
E le testimonianze contemporanee segnalano il numero crescente dei cristiani in tutte le regioni ei n tutte le classi della società.
Un testo della fine del secondo secolo precisa: “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini, né per il paese, né per la lingua, né per le vesti. […].
Il loro genere di vita non ha niente di singolare […].
Essi si conformano agli usi locali per l’abbigliamento, l’alimentazione e il modo di vita”.
Partecipano dunque alla vita economica, anche politica, ma vogliono viverle da cristiani.
Cosa che non avviene senza porre qualche problema, come l’uso delle terme, certi spettacoli o anche l’istruzione dei fanciulli.
Ma, nel complesso, tranne dei cristiani intransigenti (come i montanisti o come lo scrittore Tertulliano, che creò la sua setta) che chiamano alla diserzione e invitano a rifiutare tutti i mestieri, i cristiano condividono la vita quotidiana dei loro compatrioti.
Con in più la coscienza di appartenere ad un’altra comunità, una comunità di fede, che senza sosta si ingrandisce e si organizza sempre meglio (primi cimiteri cristiani a Roma, diaconesse, prima arte cristiana, parrocchie, chierici inferiori, ecc.).
Da tre centri importanti (Roma, già alla testa di tutte le chiese, Cartagine, Alessandria) partono delle missioni.
Tuttavia è l’Oriente che resta la prima terra cristiana per importanza: l’ultimo re di Ostoene si è fatto battezzare: a Daura Europos appare il più antico edificio del culto cristiano e ad Alessandria prospera il Didaskaleion, cioè una scuola di filosofia cristiana.
Pag. 390-393
Nella sua interezza, è portato dal fermento intellettuale dell’Oriente e della corte delle principesse siriache, un vero laboratorio di idee.
Nessun campo sfugge agli autori di lingua greca.
Nella storiografia, Cassio Dione ed Erodiano dominano la loro epoca.
Il primo è di Nicea, il secondo forse dell’Asia Minore.
Tutti e due (soprattutto Cassio Dione, console due volte) hanno avuto importanti responsabilità, sono stati i testimoni privilegiati dell’epoca dei Severi, imperatori che hanno servito prima di ritornare, alla fine della loro vita, nella loro patria d’origine per mettere qui per iscritto le loro esperienze del mondo.
Nel campo del diritto, la scuola di Berito (Beirut) domina completamente con Papiniano e i suoi allievi che impongono, si è notato, le loro opinioni presso gli imperatori.
In filosofia l’apporto dell’Oriente è, ancora uan volta, fondamentale.
Poiché le filosofie danno meno certezze, ci si volge verso il passato cui si domandano precetti e modelli, che appassionano tanto più quanto più sono nascosti e rivelati ai soli iniziati.
Così Filostrato l’Ateniese scrive una Vita dei Sofisti e, su richiesta di Giulia Domna, una Vita di Apollonio di Tiana, un taumaturgo neopitagorico che era vissuto nella seconda metà del primo secolo d. C.: egli compiva miracoli, onorava la divinità suprema con la purezza del suo cuore e sapeva tutto ciò che si poteva sapere.
Il romanzo, pieno di anacronismi, conobbe un vero successo: il meraviglioso e l’irrazionale, che questa biografia svelava, si accordavano allo spirito del tempo.
Più piatte, ma derivate dallo stesso processo, sono le compilazioni di Diogene Laerzio di Cilicia (Vita, dottrine e sentenze dei filosofi illustri di ogni setta) e di Ateneo di Naucrati (Il banchetto dei Sofisti).
L’epoca conosce anche filosofi di grande personalità: Alessandro di Afrodisia, detto l’Esegeta, che cura i testi della tradizione aristotelica, con le varianti e un ampio commentario; Sesto Empirico, medico greco, che, da perfetto scettico, critica tutte le sette filosofiche per arrivare ad una filosofia dell’esperienza; Ammonio Sacca, il primo grande neoplatonico, che fonda verso il 200 uan scuola filosofica ad Alessandria e che ebbe per discepoli Plotino (204-270) e Origene (circa 185-dopo il 251), i due più grandi pensatori del terzo secolo e tr ai più grandi del mondo antico.
Con questo neoplatonico e questo cristiano intransigente, si entra in un altro universo intellettuale.
L’ultimo apporto dell’Oriente al movimento intellettuale è l’apparizione di un’importantissima letteratura cristiana in lingua greca.
Questa letteratura esisteva dagli ultimi anni del primo secolo, ma essa fiorisce alla fine del regno degli Antonini e sotto i Severi, con quattro autori: Ireneo, originario dell’Asia, secondo vescovo di Lione e fondatore della teologia cattolica (morto – martire? – sotto Settimio Severo); Ippolito (circa 170-235), un prete di Roma che compone in greco il più antico trattato esegetico che si sia giunto; Clemente di Alessandria (scrive sotto i Severi), un convertito fornito di un’erudizione strabiliante e che non esita, dice, “a utilizzare i migliori elementi della filosofia e della cultura” (Stromati, 1., 1, 15) per elaborare la prima grande sintesi del cristianesimo e della filosofia; Origene (circa 185-dopo il 251), autore di un’opera gigantesca (forse 2000 libri, di cui 800 titoli ci sono giunti), al contempo esegeta, filosofo, filologo, biblista, asceta, mistico, predicatore, insegnante, e “uno dei più potenti geni del cristianesimo antico” (C. Mondésert).
Accanto a questi giganti della letteratura cristiana greca, un autore di lingua latina si impone, Tertulliano (circa 160-circa 220).
Africano, esaltato, intransigente, polemista adombrato con il mondo intero, è anche uno scrittore e un teologo notevole.
Il cristianesimo si è dato una dimensione intellettuale.
E’ una novità fondamentale, risultato di questo crogiolo di culture che era l’Oriente.
Duecentoventi anni e sette mesi dopo la morte di Augusto si estingueva tragicamente la dinastia dei Severi.
Apparentemente l’Impero era cambiato poco.
Vi si potevano sempre ritrovare gli elementi costitutivi del governo imperiale e le sopravvivenze dei secoli passati.
In realtà, l’Impero si era evoluto con una elasticità straordinaria.
Evitando tanto di fossilizzarsi quanto di sfasciarsi in mutamenti brutali, si era adattato alle situazioni nuove molto felicemente.
Aveva saputo aggregare l’élite delle province ai suoi senatori e ai suoi cavalieri, mantenere il prestigio di un corpo politico senza potere – il Senato -, assorbire degli omicidi di governanti e due guerre civili, estendere la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi senza sopprimere il loro legame con la “piccola patria”, dare quasi a tutti la sicurezza e una certa prosperità.
Naturalmente il sistema aveva mostrato delle debolezze.
Funzionava forse male, ma funzionava.
Una tomba modesta di un africano ucciso nel 238, durante la rivolta contro Massimino, giudicato barbaro e tirannico, dice di più sul successo di Roma che un lungo discorso.
Vi si può leggere difatti: “Morì per amore di Roma”.
Pag. 363-95
Parte terza. Un altro mondo romano, 3. -5. secolo
Il periodo inaugurato dall’anno 235 non può più essere studiato oggi come lo è stato fino a qualche decennio fa: i progressi della ricerca hanno radicalmente modificato l’idea che se ne facevano gli storici.
Certo, esso corrisponde essenzialmente alle tre tappe ben distinte dalla tradizione storiografica.
L’innovazione va dunque cercata non nelle cesure cronologiche, ma nelle caratteristiche di ciascuna di queste fasi.
Così, gli anni dal 235 al 284, che attualmente sono in genere considerati come l’ultima parte dell’Alto Impero, furono segnati da molteplici e gravi crisi, che colpirono tutti i campi della vita pubblica (politica, difesa, economia, società, mentalità collettive, ecc.).
Ma ai nostri giorni si insiste di più sui limiti di queste crisi, che furono più o meno profonde secondo le regioni e le epoche: l’Africa e la penisola iberica, per esempio, ebbero a soffrire meno della Gallia.
Inoltre, sono bene attestate reazioni che la maggior parte degli storici attribuisce agli “imperatori illirici”.
A partire dal 284 iniziò quello che prima veniva chiamato “Basso Impero”, definizione talvolta ancora adoperata.
Questa espressione aveva finito per prendere un senso deteriore, ed era diventata sinonimo di decadenza profonda e generale, o di declino.
Di fatto oggi gli studiosi insistono, al contrario, sulla rinascita che ha riguardato un gran numero di settori: si instaura un altro ordine.
Così, alcuni studiosi preferiscono ora parlare di “tarda antichità” piuttosto che di “Basso Impero”.
Lo Stato fu riorganizzato; il potere politico, l’esercito, le istituzioni presentarono un volto differente, quello di una monarchia rafforzata, ancora più sacrale e personale che nei secoli precedenti.
Molti settori dell’economia ritrovarono il loro dinamismo, mentre i contrasti sociali si accentuarono senza per questo provocare gravi agitazioni.
Allo stesso modo, la cultura e la vita religiosa conobbero un nuovo slancio, e il conflitto tra cristianesimo e paganesimo diede uan grande vitalità all’uno e all’altro.
Con gli anni 370-400 si assiste all’apparizione di una divergenza di destini che separò l’Oriente dall’Occidente.
Ad Ovest cominciò uan nuova crisi, grave e profonda, simboleggiata da due date: nel 406 vandali, alani e svevi attraversarono il Reno senza che nessuno li potesse arrestare; nel 410 Alarico si impadronì di Roma.
Ciononostante, in alcune zone esisteva ancora una certa vitalità, e organi come la Chiesa, per esempio, riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni create dalla storia, prolungando così la “tarda antichità”.
L’est, al contrario, vide levarsi l’alba di una nuova civiltà; è certamente a prezzo di qualche dolore che nasce il mondo bizantino.
Pag. 399-400
Ma la grande innovazione di quest’epoca è lo straordinario sviluppo della letteratura cristiana.
La crisi ariana ha permesso ad Eusebio di Cesarea e a sant’Atanasio di manifestare il loro talento.
Ma in questo campo si possono distinguere vere e proprie “scuole” regionali o locali, fiorite in Cappadocia (san Basilio, san Gregorio di Nazianzio, san Gregorio di Nissa), ad Antiochia (san Giovanni Crisostomo), ad Alessandria (Origene, Claudiano), in Africa (san Cipriano, Arnobio, Lattanzio, sant’Agostino) e in Spagna (Orosio e Prudenzio).
Un po’ in disparte da questo movimento, per l’importanza del loro messaggio teologico, sant’Ambrogio, vescovo di Milano, e il dalmata san Girolamo, sono un esempio dei cosiddetti “Padri della Chiesa”.
Utili sono anche le letterature periferiche, giudaica (Talmud di Babilonia e soprattutto di Gerusalemme), siriaca ed armena, e la letteratura tarda (bizantina).
Pag. 401
Presentare l’archeologia è ancora più difficile, nella misura in cui la massa dei documenti si presenta schiacciante.
Un’unica parola designa, in effetti, discipline molto differenti, dai mille progetti, che vanno dal fermaglio e dalla fibbia di cinturone, alla villa e alla città, passando per la ceramica e ogni tipo di monumento; si parlerà in seguito di statue (gruppo dei tetrarchi a Venezia), di monumenti (arco di Tessalonica), di abitazioni (Piazza Armerina, Montmaurin), di palazzi (Spalato), di chiese (san Clemente, san Martino ai Monti), di campi militari (Luxor, forti della Siria), ecc.
Questo quadro permette di comprendere quello che è, dal punto di vista delle fonti, il compito appassionante dello storico, in particolare quando studia il terzo e quarto secolo; per ricreare in realtà, egli deve utilizzare tutti i tipi di documenti che si trovano a sua disposizione, non senza averli preliminarmente passati al setaccio della sua critica: egli deve sapere quello che può attendersi e quello che non deve attendersi.
La principale difficoltà risiede proprio qui, e presenta due aspetti: molti documenti sono poco conosciuti, e molti altri ancora non sono mai stati studiati scientificamente.
Ci sono ancora molte ricerche da fare.
Pag. 403
Cap. 13. Un certo equilibrio: l’anno 235
Nel 235, quando muore l’ultimo dei Severi, l’Impero ha raggiunto un certo equilibrio (oggi non si crede più che l’avvento di Settimio Severo, nel 193, abbia segnato l’inizio di una grande crisi).
Si è persa la memoria dell’allarme e degli anni terribili di Marco Aurelio, e le difficoltà che si presentano qua e là sono generalmente percepite come seccature tutto sommato normali e provvisorie.
Quando al pessimismo visibile negli scrittori, esso deriva da un luogo comune letterario, il rimpianto die tempi passati.
Certo, questo equilibrio è minacciato; ma in quel momento non se ne accorge nessuno, tranne alcuni spiriti elevati che sentono di vivere in un periodo di crisi che è, ai loro occhi, biologica e morale.
Pag. 405
Rimasta relativamente stabile nelle sue linee essenziali a partire da Augusto, la società aveva la tendenza a cristallizzarsi.
I senatori avevano perduto il loro ruolo politico, ma conservavano il loro posto nell’amministrazione provinciale e nell’esercito.
Nel consiglio dell’imperatore e nei grandi servizi statali, il loro ruolo diminuiva a vantaggio dei cavalieri in piena ascesa.
Inoltre, si distinguevano sempre più le élite provinciali i cui membri entravano in Senato e nell’ordine equestre.
Dal secondo secolo si era manifestata una reazione contro questa mobilità.
Ulteriore fermento di disunione: l’espansione del cristianesimo.
Pag. 406
L’Oriente di lingua greca era stato organizzato, come l’Occidente, in diversi, vasti comprensori, quattro dei quali sono chiaramente distinguibili: la penisola balcanica, l’Anatolia, la Siria e l’Egitto.
Sottomesse al potere di Marco Antonio durante la guerra civile conclusa nel 31 a. C., durante il regno di Augusto queste regioni non sempre furono privilegiate dal potere centrale.
Ma Atene, la Macedonia, Pergamo, il paese dei Galati, la Siria, l’Egitto beneficiavano di un retaggio culturale ed economico e nel 235 si trovavano in una situazione generale molto buona.
Pag. 413
Dunque, il peso del clima e della storia, il ruolo del potere politico e le relazioni interprovinciali si adoperavano a cancellare le differenze tra le parti dell’Impero.
E’ però difficile parlare dell’Impero nel terzo secolo senza parlare dei suoi vicini.
Conviene distinguere, a questo proposito, tre grandi settori, e l’evoluzione degli effettivi militari romani mostra quali nemici temeva lo stato maggiore (il che non vuol dire che quest’ultimo qualche volta non si sbagliasse).
I nemici forse più pericolosi, in proporzione al loro numero, erano senza dubbio i Britanni, che vivevano a nord dei valli di Adriano e Antonino Pio; Pitti e Scoti potevano facilmente attaccare sia da terra che dal mare.
Contro di loro era stato necessario mobilitare (e tenere bloccate) tre legioni, più di un decimo dell’esercito imperiale.
Sul continente, oltre il Reno e il Danubio, vivevano i Germani.
La loro demografia e la loro efficacia in combattimento ne facevano dei nemici terribili.
Fino ad allora essi erano vissuti in piccole comunità, molto aggressive e, per fortuna, per lo più prive di coordinamento.
Ma ecco che all’inizio del terzo secolo si costituirono delle leghe; gli Alamanni affacciavano sull’angolo formato dai corsi superiori del Reno e del Danubio; i franchi erano stanziati al di là del corso medio ed inferiore del Reno.
E non è tutto: il goti, ai quali soprattutto il re Kniva diede un’organizzazione unitaria, scendevano verso sud e sud-est.
Non è sicuro che i movimenti di popolazioni attestati per quest’epoca in Estremo Oriente, possano aver avuto ripercussioni profonde e rapide sul settore renano-danubiano del limes.
Ma è certo che la situazione di degradava.
Pag. 418-19
La seconda maggiore fonte di pericolo si trovava in Asia.
Forse meno terribile sui campi di battaglia, l’Iran era però il solo grande Stato organizzato capace di controbilanciare la potenza di Roma, e il numero di legioni incaricate di sorvegliarlo (nel terzo secolo era arrivato a dieci) non aveva cessato di crescere dall’epoca di Augusto.
Il problema era tanto più importante, in quanto il grande commercio di prodotti pregiati dall’Estremo Oriente passava in parte per il territorio iraniano.
Tra Iran e Roma c’era un eterno pomo della discordia: l’Armenia.
Pag. 419
Quando si occupava della sua “frontiera” meridionale, l’imperatore era meno preoccupato.
Gli eventuali nemici non avevano nessuna unità politica, né potenziale demografico, e non rappresentavano un pericolo militare, se non per la mobilità legata al nomadismo.
Pag. 420
Nel 235 l’Impero sembrava aver raggiunto un certo equilibrio; malgrado alcune difficoltà, l’ordine e la prosperità regnavano in maniera molto generalizzata.
Si potrebbero tuttavia rilevare due possibili fonti di inquietudine.
Da una parte, l’Oriente e l’Occidente, che costituivano due entità differenti, non erano progrediti con la stessa velocità; l’Occidente latino era forse partito prima dell’Oriente greco, dall’età augustea.
Ma ad essere precisi, la fase di sviluppo durava da molto più tempo, e si affievolì, mentre l’Oriente conobbe un grande dinamismo nel secondo secolo e all’inizio del terzo secolo.
D’altra parte il limes che separava Roma e i barbari funzionava ancora in modo soddisfacente.
Ma germani e iranici modificarono le proprie strutture politiche, sociali, militari.
Da questi due lati difficoltà si erano manifestate a partire da Marco Aurelio; l’ultimo dei Severi dovette combattere contro persiani e alamanni.
Gli assassini di Severo Alessandro – i suoi stessi soldati – ignoravano che essi aprivano una nuova era.
Pag. 421
Cap. 14. Un ordine che si sfalda: le crisi, 235-284
A partire dal 235 l’Impero precipitò in una crisi che gli autori contemporanei hanno descritto con accenti tragici.
Di fatto, è impossibile negarne la gravità e la portata generale.
La ricerca recente, tuttavia, tende a mettere in rilievo alcuni limiti di questo crollo, e constata l’esistenza di reazioni.
Forse conviene non cedere al pessimismo assoluto degli scrittori di quest’epoca.
Pag. 423
Ma l’Impero non era ancora arrivato al fondo della rovina: è con il regno di Valeriano (253-259/260) che conobbe i momenti più difficili.
Il nuovo sovrano apparteneva alla crema dell’aristocrazia; di origine illustre, aveva percorso la carriera senatoria, il che non gli aveva risparmiato le critiche dei suoi pari.
Senza dubbio, Valeriano fu più sfortunato che male intenzionato.
Pag. 426
E’ certamente attorno al 260 che si situò la fase più tragica della crisi; invasioni e usurpazioni si sommavano in uan sinistra contabilità.
I Rossoliani e i Sarmati avevano investito la Pannonia; gli Alamanni avevano invaso la Gallia, minacciando l’Italia dove Gallieno riuscì a fermarli solo dopo che avevano invaso il nord della penisola.
Sotto la monarchia di Odenato, Palmira si era staccata dall’Impero; sempre in Oriente, conosciamo almeno due usurpatori, Macriano e Quieto.
Sul Danubio, Regaliano, dopo aver sconfitto i Rossolani, si proclamò imperatore.
A Colonia, Postumo aveva voluto anche lui vestire la porpora, ma limitava il suo impero alla Gallia.
Valeriano il giovane, figlio e nipote dei sovrani, era assassinato.
Ma non finisce qui.
Doveva consumarsi l’umiliazione suprema: l’imperatore Valeriano, che era stato catturato dai persiani forse nel 529, fu messo a morte al più tardi nel 260, e le sue spoglie (o le vesti da schiavo che era stato costretto ad indossare) furono esposte nelle principali città dell’Iran (il bassorilievo di Bishapur permette di comprendere meglio questa storia).
Sapor si poté vantare di questa vittoria totale nella celebre iscrizione di Naqs-i-Rustem, chiamata Res Gestae Divi Saporis (“Le imprese del divin Sapor”), per analogia con le Res Gestae Divi Augustii (“Le imprese del divino Augusto”).
Pag. 427
Caratteri e limiti della crisi
Si conoscono da molto tempo i principali caratteri della grande crisi del terzo secolo.
Si tratta in gran parte di una crisi di origine militare.
Per la prima volta il nemico attaccò simultaneamente o quasi su due fronti, e con attacchi incessanti.
Bisognava respingere i germani a nord, sia sul Reno che sul Danubio, e i persiani a est.
Gli imperatori dovevano correre senza sosta da un capo all’altro dell’Impero e sguarnire una provincia per difenderne un’altra.
Questa situazione incoraggiò alla rivolta altri popoli, che, senza questo contesto, sarebbero rimasti tranquilli.
La sconfitta rivelò inoltre altre due debolezze della strategia augustea.
Da una parte, uan volta sfondato il limes, i barbari non incontravano più alcun ostacolo: l’insieme dell’esercito era stato disposto lungo una stretta linea di demarcazione che separava il mondo romano dal mondo barbaro.
D’altra parte il comando non disponeva di nessuna riserva di effettivi, per cause sia economiche che demografiche: la politica di qualità praticata al momento del reclutamento o restringeva le scelte e costringeva a pagare salari congrui.
Le sconfitte trascinarono con sé uan crisi politica: alla guerra esterna, contro i barbari, si aggiunse la guerra civile, tra romani.
I soldati intervenivano spesso, poiché ritenevano il loro capo supremo responsabile delle loro disgrazie; essi eliminavano il sovrano in carica e gli davano un successore secondo un processo ben noto: il prefetto del pretorio faceva assassinare l’imperatore, prendeva il suo posto e nominava un prefetto del pretorio che, a sua volta, lo faceva mettere a morte.
L’Impero, privo di una dinastia, era diventato “una monarchia assoluta regolata dall’assassinio”, di qui la brevità dei regni.
Questa situazione, per giunta, eccitava gli appetiti, e gli ambiziosi che avevano truppe a disposizione rivestivano la porpora, a volte non senza successo: un imperatore legittimo spesso non era che un usurpatore vittorioso.
In queste condizioni nessuno poteva godere della continuità necessaria a una politica di ripresa.
Le sconfitte militari trascinarono con sé anche una crisi economica.
Per tradizione nell’antichità gli invasori si abbandonavano al saccheggio: il bottino costituiva il loro obiettivo dichiarato e distruggevano quello che non potevano portare con sé.
Dopo essersi serviti, i barbari devastavano le città, sterminavano le greggi, incendiavano i raccolti.
La mancanza di sicurezza tagliava le vie commerciali.
I disordini facevano rinascere brigantaggio e pirateria.
L’evoluzione della moneta permette di seguire l’evoluzione della crisi: in effetti le invasioni, per il blocco degli scambi che causavano, costituivano un primo fattore di inflazione, al quale si aggiungevano le promesse sconsiderate fatte ai soldati dagli usurpatori, le spese inerenti a guerre lunghe e dure, e i tributi versati ai barbari.
La situazione finanziaria dell’Impero si trovava in un equilibrio instabile da molto tempo: il commercio con i paesi al di là del limes era deficitario ei salari versati ai militari divoravano già in tempi normali il grosso del bilancio statale.
Pag. 427-28
Queste difficoltà economiche trascinarono con sé, come ci si doveva aspettare, una crisi sociale.
I poveri furono resi ancora più poveri dalle invasioni e dalla crescente pressione fiscale.
L’iscrizione di Scaptopara, in Tracia, dell’età di Gordiano 3., trova un’eco nei lamenti dei coloni imperiali di Aragoé di Frigia, durante il regno di Filippo l’Arabo; tutti protestavano contro requisizioni giudicate abusive.
I notabili municipali, resi responsabili del prelievo dell’imposta, prima rallentarono, quindi interruppero completamente i loro atti di evergetismo.
Anche i ricchi patirono per le circostanze, ma non tutti.
Infine, indici di un’epoca di crisi, brigantaggio, pirateria e peste fecero la loro riapparizione.
Queste sciagure, ancora più gravi nella percezione dei contemporanei, provocarono una crisi morale.
Non sapendo come scongiurare la rovina, gli uomini vivevano nello smarrimento.
Le loro incertezze furono trasportate sul piano religioso, , come è normale trattandosi di romani.
Ma ben pochi misero in dubbio la volontà degli dèi e, a più forte ragione, la loro esistenza.
La domanda che ci si poneva era semplice: “Perché gli dèi (che senza dubbio esistono) non ci proteggono più?”.
La risposta veniva da sé: “La pace degli dèi è stata infranta perché esiste nel seno dell’Impero uan setta ampia, che non li onora”.
Il lettore avrà indovinato che si tratta dei cristiani.
Di qui le persecuzioni.
Pag. 429
La guerra su due fronti ebbe dunque l’effetto di disarticolare la vita politica, economica, sociale dell’Impero, e di provocare le persecuzioni.
A questa origine, largamente accettata tra gli studiosi, bisogna forse aggiungere altre cause di crisi.
In primo luogo, ci si deve domandare se non bisogna chiamare in causa quella che gli economisti chiamano la congiuntura, soprattutto riguardo alle province di Occidente.
L’economia, a partire dall’età di Augusto, non aveva smesso di crescere, ad un ritmo sempre più rapido: al lento sviluppo dell’età giulio-claudia era seguita l’accelerazione dovuta all’opera dei Flavi e un apogeo che si situò sotto gli Antonini e i Severi.
E’ risaputo che normalmente uan lunga fase ascendente (di sviluppo) è seguita da una fase discendente (di crisi).
Ma, da una parte, non disponiamo ancora di una documentazione dettagliata che ci consenta di circoscrivere bene questo fenomeno; d’altra parte, non è per niente sicuro che le economie antiche abbiano strettamente seguito quello schema.
La congiuntura non è, dunque, che un’ipotesi.
In secondo luogo, e questo punto sembra più sicuro, la crisi del terzo secolo appare anche come una crisi di adattamento.
Le istituzioni politiche, l’amministrazione territoriale e locale, così come l’esercito, risalivano, nelle linee generali, all’epoca di Augusto che a sua volta aveva raccolto l’eredità della Repubblica.
Ora si ponevano problemi completamente nuovi: al principato era seguito il dominato, la guerra era stata aperta su due fronti, e non si sapeva come comportarsi con i cristiani, che bisognava integrare poiché non era possibile sterminarli, ecc.
L’anima romana era tutta impregnata di diritto: per apportare nuove soluzioni a questi nuovi problemi, essa sentiva il bisogno di nuove istituzioni.
Le ricerche recenti impongono comunque di marcare bene i limiti di questa crisi del terzo secolo.
La messa a punto riguarda tre aspetti principali.
SI tratta in primo luogo della cronologia.
Oggi non si ritiene più che il regno dei Severi vada compreso nell’età della crisi, salvo per qualche caso eccezionale: è anzi vero il contrario, l’epoca severiana corrisponde per molte province ad un apogeo, per esempio in campo economico.
Le difficoltà cominciarono solo nel 235 e l’Impero sprofondò sempre più nella crisi fino al 260.
Tuttavia, anche alle prese con le peggiori difficoltà, il potere non rimase mai inattivo; alle reazioni militari, bisogna aggiungere altre misure come, per esempio, la creazione di zecche periferiche a partire dal 250.
Il secondo aspetto di cui bisogna tener conto è la geografia.
Non c’è alcun dubbio che i nemici più pericolosi siano stati da una parte i persiani, dall’altra i germani, in particolare i franchi, gli alamanni e i goti.
Le province più esposte ai loro attacchi soffrirono di più e più precocemente delle altre.
L’Egitto, per esempio, fu seriamente coinvolto solo a partire dal 260; le campagne si spopolarono, le terre ai margini del deserto furono abbandonate: anche il Fayoum fu interessato.
Tuttavia, anche di fronte al nemico, alcuni settori seppero resistere meglio di altri: la città di Olbia nel Ponto non fu abbandonata che alla fine del terzo secolo.
Tra le regioni meno toccate dalla crisi bisogna segnalare l’Africa e la penisola iberica, in particolare, rispettivamente, l’Africa Proconsolare centrale e meridionale, e la Lusitania, allora in pieno sviluppo.
Tuttavia, in Africa, un’onda di ribellione partì dalla Mauretania Cesariense e debordò in Numidia; disordini sono ancora attestati nel 260.
Usurpazioni e secessioni, quella di Postumo in Gallia e di Odenato a Palmira, in particolare, mostrano sia la debolezza del potere centrale che la volontà di resistenza dei provinciali.
Non è infatti un caso che le due secessioni più importanti siano scattate là dove la pressione era più forte: in Gallia e a Palmira, esposte agli attacchi, rispettivamente, di germani e persiani.
Pag. 430-32
Interzo luogo, bisogna osservare che non tutti i settori di attività furono investiti con la stessa durezza.
La ricchezza fu in parte redistribuita.
La vita è cambiata.
Certo, alcune città si cinsero di mura che comprendevano uan superficie inferiore a quella dei secoli precedenti.
Ma, è questo il punto, esse sono state in grado di costruire queste informazioni.
Si assiste inoltre all’inizio di un ritorno alla terra, che si manifesterà chiaramente solo nel secolo seguente; i potenti si stabilirono in maniera più duratura nelle loro proprietà fondiarie.
Infine, malgrado le persecuzioni, o forse a causa di queste persecuzioni, il cristianesimo continuò a svilupparsi.
Nella seconda metà del terzo secolo Dionigi di Alessandria (apologeta e vescovo) e la “scuola” di Antiochia contribuirono all’approfondimento della dottrina.
La stessa gnosi può essere interpretata come un segnale di vitalità: divisa in più sette, questa teologia eterodossa proponeva la conoscenza (in greco: gnosis) perfetta di un dio puro spirito, essa affermava che la ricerca del bene conduce la rifiuto della materia, fonte del male.
Ma la migliore prova di vitalità del mondo romano è fornita dal comportamento del potere centrale.
Pag. 432
La reazione del potere centrale, 260-284
In effetti, il periodo che va dal 260 al 284 è segnato da una reazione continua contro questa crisi.
Lo stesso Giuliani, che visse in un momento così fosco, non restò inattivo, contrariamente a quando pretendeva la tradizione storiografica senatoria.
E i suoi successori, designati con la definizione generale di “imperatori illirici” per l’origine geografica della maggior parte di loro, ristabilirono gradatamente la situazione.
Pag. 433
Eredità di una crisi
Germani e persiani avevano fortemente intaccato l’organizzazione del 235.
Il potere imperiale aveva dovuto rafforzarsi, l’esercito acquisire maggiore mobilità.
L’organizzazione economica era stata sconvolta, allo stesso modo delle strutture sociali e delle mentalità collettive.
Ma restavano ancora molti problemi da risolvere e bisognava tener conto di tutta un’evoluzione.
Spettava al vincitore di Carino assumersi il compito di stabilire un nuovo ordine.
Pag. 436
Cap. 15. L’instaurazione di un altro ordine, 284-361
I disordini e le distruzioni del terzo secolo ebbero come conseguenza l’instaurazione di un altro ordine e permisero di costruire o ricostruire un mondo differente.
Utilizzando e sistematizzando l’opera dei loro predecessori, Diocleziano e poi Costantino riorganizzarono lo Stato, l’economia, la società.
Un nuovo equilibrio fu raggiunto a metà del quarto secolo, sotto Costanzo 2.
Nello stesso tempo si sviluppò una cultura materiale e spirituale riconosciuta oggi come a un tempo originale e brillante.
Diocleziano e la Tetrarchia, 284-305
Nato verso il 245 in Illiria, in una famiglia umile, Diocleziano percorse una carriera militare che lo portò al comando dei protectores di Caro; dopo l’assassinio di questo imperatore, nel 284, egli non era che l’ultimo di una lunga serie di usurpatori.
Ma Diocleziano seppe approfittare del vuoto creato dalle distruzioni del terzo secolo, come anche delle prime misure di salute pubblica applicate dai suoi predecessori, gli “imperatori illirici”, di cui lui stesso none ra che l’ultimo rappresentante.
Agendo con ingegno e spirito empirico, godette di un lungo regno (venti anni di potere).
La sua politica, in apparenza contraddittoria, fa di lui da una parte un riformatore e persino un creatore (istituzioni, esercito), d’altra parte un reazionario nel senso preciso del termine (nel campo religioso egli volle tornare ad una fase precedente).
Fu tuttavia il salvatore dell’unità dell’Impero.
Pag. 439
Costantino, 306-337
Anche Costantino poté contare su un lungo periodo di regno; all’inizio proseguì l’opera riformatrice di Diocleziano e la completò prima di ristabilire l’unità del potere, ma se ne scostò, e in maniera radicale, nel campo religioso.
Figlio di Costanzo Cloro e di Elena, che forse era stata cameriera in una taverna, Costantino nacque a Nis verso il 280.
Come Diocleziano, era un soldato (guerra in Egitto nel 295-296, quindi contro i sarmati) e un pragmatico.
Non possedeva l’attitudine del teorico e le sue capacità di concettualizzazione sembrano essere state molto limitate; malgrado lunghe sedute di spiegazione, vescovi che lo consigliavano non sembrano essere riusciti a fargli ben comprendere la differenza che separava l’ortodossia dall’arianesimo.
In breve, un uomo “di fronte stretta, ma forte mascella” (J.-P- Callu).
Pag. 443
Ad ogni modo, questa conversione fu preceduta da un atteggiamento di reale simpatia per il cristianesimo: le persecuzioni furono abbandonate.
Galerio aveva promulgato un editto di tolleranza nel 311 e Massimino Daia un editto di persecuzione nel 312.
Con l’editto di Milano Licinio e Costantino stabilirono nel 313 la “pace della Chiesa”: la libertà di culto era assicurata e i beni confiscati furono restituiti.
In più, il potere intervenne in due conflitti: il donatismo fu condannato come scisma dal sinodo di Arles del 314 e l’arianesimo come eresia dal concilio di Nicea del 325.
Pag. 443
I figli di Costantino
La storia, alla metà del quarto secolo, fu dominata da tre problemi: il potere, la cristianizzazione, i barbari.
Dal punto di vista politico la grande impresa dell’epoca consistette nel ristabilimento dell’unità, in un primo momento con l’eliminazione di tutti gli imperatori legittimi, finché non ne restò che uno.
Nel 337, e dopo tre mesi di intrighi, Dalmazio du assassinato.
Ci si divise allora l’Impero in tre: : Costantino 2., che esercitava la sua autorità sul collegio imperiale, si occupava della Gallia, della Britannia e della Spagna, Costante dell’Africa, dell’Italia e dell’Illirico e Costanzo 2. dell'Oriente.
Nel 340 Costante riunificò l’Occidente a suo vantaggio dopo aver sconfitto e ucciso Costantino 2., che aveva cercato di allargare il suo potere a spese del primo.
Costante fu a sua volta sconfitto ed ucciso da un usurpatore, Magnenzio, lui stesso sconfitto a Mursa nel 351 ed eliminato solo nel 353.
Pag. 447
Cronologia dei figli di Costantino
337 salgono al trono Costantino 2., Costanzo 2. E Costante
338 assedio di Nisibi
340 Morte di Costantino 2.
343 Costanzo 2. in Adiabene
350 usurpazione di Magnenzio
354 esecuzione di Gallo Cesare
355 Giuliano nominato Cesare
357 battaglia di Strasburgo; viaggio di Costanzo 2. a Roma
360 Giuliano proclamato Augusto
361 morte di Costanzo 2.
Tre imperatori e la loro opera
Il periodo che va dal 284 al 361 è stato dominato da tre personalità, quelle di Diocleziano, di Costantino e di Costanzo 2.
Le misure prese da ciascuno di loro hanno contribuito a far nascere un altro modo romano, con nuove istituzioni, con un’economia, strutture sociali e una civiltà originali.
Il pericolo, in particolare quello rappresentato dai barbari, si era fatto, malgrado tutto, meno pressante.
Pag. 448
Cap. 16. Altre istituzioni: la riorganizzazione
L’Impero romano nel quarto secolo più che mai, restò uan monarchia assoluta.
Ma la finzione del principato era stata abbandonata e non si esitava a parlare apertamente di “dominato”.
Il sovrano diventò onnipresente attraverso uan burocrazia capillare; nelle sue mani l’esercito restava uno strumento di potere fondamentale.
Tuttavia, davanti alle difficoltà che si accumulavano, egli era sempre più costretto alla divisione del potere, divisione dell’impero.
Pag. 449
La crisi del terzo secolo, che aveva provocato uan profonda modificazione dello Stato, aveva avuto conseguenze anche sull’esercito, tanto più che essa era stata in primo luogo una crisi militare.
Dal punto di vista dell’organizzazione non si può dimenticare l’eredità di Gallieno: egli aveva sviluppato la cavalleria e creato una riserva mobile alle spalle della frontiera.
Non bisogna neanche dimenticare il ruolo dell’esercito, che interveniva in numerosi settori della vita pubblica, e soprattutto nella politica.
Era l’esercito che aveva fatto e disfatto gli imperatori, ma il rafforzamento dell’autorità del sovrano e il parallelo degrado di questo stesso esercito, gli avevano a poco a poco fatto perdere questo potere.
Comunque, la sola presenza di una guarnigione modificava le strutture economiche, culturali, religiose del territorio di pertinenza.
Pag. 455
I figli dei soldati, “nati nel campo” (castris) , formavano una buona parte degli effettivi e, quando mancavano le reclute tradizionali, si accettavano volontari barbari.
Pag. 457
Con il tempo il reclutamento fece sempre più spesso appello ai barbari, in particolare a gruppi di franchi; costoro scalarono lentamente la gerarchia, fino a raggiungere i gradi più alti.
Pag. 461
L’esercito romano del quarto secolo sembra comunque aver perso parte dell’efficacia che aveva posseduto il suo antenato alto imperiale.
Questa evoluzione è certamente la conseguenza di un certo indebolimento del reclutamento, a sua volta conseguenza delle difficoltà finanziarie in cui versava lo Stato.
L’autore del De rebus bellicis ha senza dubbio visto giusto su questi argomenti.
Lo Stato doveva assicurare l’ordine alle frontiere e anche all’interno dell’Impero.
A questo fine, e conformemente al gusto dei romani per il diritto, esso ricorse ad un sistema complesso di istituzioni, in parte ereditate dall’Alto Impero; ma il contenuto di ciascun organo poteva variare, e i nomi corrispondevano spesso a realtà differenti.
Così, esisteva ancora un’organizzazione dello spazio in province.
Per di più, l’Italia stessa aveva perso tutti i suoi privilegi ed era stata equiparata al modello amministrativo delle altre parti del mondo romano.
Diocleziano aveva spezzettato le province, portandone il totale da 47 a 85.
Si sa che Byzacena e Tripolitania, sottratte all’Africa, furono create tra il 294 e il 305.
Il primo praeses di Byzacena porta il titolo supplementare di perfecissimus, i suoi successori, tra il 312 e 322, diventarono clarissimi, e sono chiamati talvolta “consolari”.
Invece, tutti i loro omologhi attestati in Tripolitania restarono perfectissimi.
I governatori ebbero il titolo di praeses; quelli di Asia e Africa restarono proconsoli, gli altri furono chiamati consulares o correctores.
Essi persero definitivamente e completamente i loro poteri militari con Costantino.
Non restava loro che un’importante funzione giudiziaria, che essi rivestivano d’altronde da molto tempo: la loro presenza è attestata ancora all’inizio del quinto secolo (in particolare in Africa, contrariamente a quanto si riteneva fino ad ora).
Si deve ancora a Diocleziano il raggruppamento delle province in diocesi.
A capo di ciascuna si trovava un personaggio importante, in un primo momento semplice collaboratore del prefetto del pretorio, che ebbe in seguito il titolo di vicario.
Il numero e la composizione di questi raggruppamenti hanno variato nel corso del tempo, per restare all’incirca tredici.
Pag. 463
Il quarto secolo, come l’Alto Impero, ha conosciuto il regime della monarchia assoluta.
Ma ora il potere diventa più presente, pressante o oppressivo.
Il personale al servizio dello Stato, senza raggiungere le cifre del 21. secolo, diventa certamente più numeroso e la burocrazia più pignola.
Soldati e funzionari occupavano uno spazio crescente nella società del tempo.
Pag. 469
Cap. 17. Un altro contesto socioeconomico: la ripresa e la statalizzazione
Percepibile negli anni fra il 275 e il 300, la ripresa economica si affermò nettamente con l’epoca di Diocleziano.
I segni di una nuova crisi fecero tuttavia la loro apparizione dopo il regno di Giuliano (361-363): bisogna quindi stabilire i limiti, nel tempo e nello spazio, di questo sviluppo.
La situazione particolare così creatasi, ma anche l’eredità dei disordini del terzo secolo e le esigenze, tanto civili che militari, dello Stato, spiegano i caratteri specifici della società del quarto secolo.
Pag. 471
Così, dal punto di vista della cronologia, si conosce bene il caso dell’Africa.
La ripresa si manifestò dal 276, e fu molto netta sotto Diocleziano; la guerra civile provocò un rallentamento, seguito da una nuova fase di sviluppo sotto Costanzo 2., con un apogeo sotto Giuliano.
Una prosperità certa durò fino all’epoca di Teodosio.
Ma la fine del quarto secolo vide il ritorno della crisi, ben evidente sotto Onorio.
Quanto alla diversità geografica, essa permette di distinguere regioni più minacciate, la Gallia, la Britannia e le province che confinavano con Reno e Danubio, particolarmente bersagliate dalle invasioni barbariche.
L’Egitto, con l’eccezione di Alessandria, non aveva mai conosciuto una vita municipale molto attiva.
Italia e Spagna si mantennero relativamente bene.
In Anatolia e anche nella Siria di Libanio, ad Antiochia, c’erano ancora uomini che si appassionavano all’amministrazione della propria città.
L’Africa, infine, offre un esempio di buona salute municipale; sono stati enumerati 332 cantieri per il quarto secolo e in Proconsolare e Numidia anche le montagne erano romanizzate.
Ma si trattava si trattava soprattutto di lavori di restauro, e le Mauretanie e la Tripolitania seguivano a fatica il movimento generale.
Pag. 472
La prima vera e grande riforma si deve a Diocleziano nel 294.
Si mise in piedi un nuovo sistema, con nuovi pesi e nuove denominazioni; il fatto che si sia ufficialmente conservato il sistema bimetallico non deve far dimenticare la realtà: l’oro acquistò uan parte crescente negli scambi, il che si spiega con un maggiore dinamismo dell’Oriente in materia di commercio.
L’instaurazione di questo sistema provocò uan grave crisi finanziaria segnata da un aumento generalizzato del costo della vita.
Lo Stato si sforzò di reagire.
Nel 300 si ordinò uan indagine estesa a tutto l’Impero per stabilire il valore di merci e lavoro.
Quindi l’editto sui prezzi massimi (301), conosciuto grazie all’epigrafia, fissò un tetto da non superare per ciascun prezzo e ciascun salario.
Il testo, esposto in greco e in latino, doveva essere applicato in tutte le province e i contravventori rischiavano la pena di morte!
Contrariamente a quanto sostenuto da certi commentatori, questa misura conobbe un successo almeno relativo: i ricchi furono soddisfatti perché essa contribuiva alla stabilizzazione dei prezzi, i poveri perché ritoccava i bassi salari.
Pag. 472-73
Spesso soggetti al regime del colonato, i barbari stanziati nell’Impero erano inquadrati in differenti categorie giuridiche: 1: i deditici, sconfitti in guerra, dovevano pagare la capitazione e prestare servizio militare; essi vivevano su proprietà imperiali o private; 2: i federati, quelli che avevano ottenuto da Roma un trattato (foedus), avevano ricevuto il diritto di proprietà (commercium); 3: i leti (i franchi rientravano in questa categoria) fornivano reclute in cambio di terre; essi occupavano dunque una posizione intermedia tra deditici e federati; 4: i gentiles (soprattutto sarmati) avevano lo stesso statuto dei leti.
Questi nuovi venuti presentavano un vantaggio, fornire un rinforzo alla manodopera, ma ponevano un problema, poiché non si assimilavano.
Pag. 475
In linea di generale, lo Stato riflette la società del suo tempo.
L’Impero romano nel quarto secolo conobbe una situazione originale: lo Stato si sforzò di modificare la società affinché essa soddisfacesse i suoi bisogni.
Beninteso, lo Stato non conobbe un successo totale in questa impresa.
Ma solo il fatto che ci fosse questa volontà fece sì che la società del quarto secolo fu una società per ordini più di quanto lo fosse stata in passato.
L’imperatore, con una legislazione sempre più abbondante, definiva con sempre maggior precisione le gerarchie e i posti in queste gerarchie.
Dal punto di vista giuridico si operò la fondamentale opposizione tra l’élite degli honestiores e la massa degli humiliores, in virtù della quale le due categorie non avevano diritto ad un trattamento uguale davanti ai tribunali; per uno stesso delitto i primi erano puniti meno severamente dei secondi.
E’ innegabile che si trattasse anche di una società divisa in classi.
E’ chiaro che la concentrazione fondiaria, cui già si è fatto cenno, implicava, con tuta evidenza, una concentrazione di ricchezze.
Uan minoranza sempre più ristretta accaparrava una parte crescente dei beni; per quanto motivo la maggioranza diventava contemporaneamente più numerosa e più povera.
Pag. 477
Questa società del quarto secolo appariva insomma come molto legata al potere politico che interveniva dappertutto: era questa la statalizzazione.
Questa società sembra anche più frammentata in gruppi, in cellule, che ordinatamente disposta in strati orizzontali.
Un’altra originalità dell’epoca attiene ai nuovi rapporti che si stabiliscono tra città e campagna.
Esiste un’immagine tradizionale del quarto secolo, su questo argomento: declino delle città e ripiegamento sulle campagne.
Le ricerche recenti hanno rimesso in discussione questo schema.
Pag. 485
Dall’epoca di Costantino sono attestate grandi basiliche, San Pietro e soprattutot il Laterano, più tardi Santa Maria Maggiore.
Fuori della città le catacombe, come quelle di Domitilla e di San Callisto, permettevano di onorare tutti i defunti e in particolare i martiri.
Il caso di Costantinopoli è già stato ricordato prima.
Pag. 486
Un carattere generale del quarto secolo è costituito dallo sviluppo di centri economici di altra natura, le ville rustiche, soprattutto in Occidente.
Non bisogna certo immaginare un esodo immenso dalla città verso la campagna, nondimeno lo sviluppo della villa rustica rappresenta la manifestazione del dislocarsi dei centri di gravità in più luoghi.
In Africa l’archeologia ha portato in luce numerose fattorie fortificate e ville a torre, che sfoggiano gli stessi grandi mosaici di Cartagine e di Tabarka.
A Piazza Armerina, in Sicilia, un’immensa dimora decorata da bei mosaici potrebbe essere stata occupata da Massimiano fino al 309, secondo alcuni studiosi; di fatto, non esistono prove che la villa sia stata la dimora del tetrarca dopo il suo ritiro.
La famosa villa di Mantmaurin, in Gallia meridionale, si estendeva per quattro ettari nella sua parte centrale, per più di 200 ambienti e 18 ettari in tutto.
Si potrebbero citare molti altri esempi di questo genere di residenze, la “piccola eredità” di Ausonio o la villa di Nennig: il fenomeno raggiunse in effetti le Germanie.
Pag. 487-88
Cap. 18- Una civiltà diversa: tra paganesimo e cristianesimo, la rinascita
Da qualche decennio, gli storici che studiano il terzo e quarto secolo arrivano, nella loro maggioranza, ad una stessa conclusione: dopo la crisi – di cui conviene, anche e soprattutto qui, sottolineare i limiti – non si assiste ad un declino ma a una rinascita.
E’ bene comunque fare alcune distinzioni.
Per cominciare, si deve sottolineare che le difficoltà del terzo secolo, militari, politiche, economiche, non hanno comportato un arretramento generale delle attività intellettuali ed artistiche.
Al contrario, in certi campi, si constata che i creatori hanno continuato a perfezionare le loro tecniche di produzione: è in particolare il caso dei busti e dei sarcofaghi scolpiti: alcuni storici considerano proprio quest’epoca come un apogeo.
E il quarto secolo vide la prosecuzione di questo sviluppo, in particolare per il mosaico: immensi tappeti di tessere decorano le grandi dimore; essi si caratterizzano per le loro dimensioni, la pesantezza delle decorazioni ed una crescente indifferenza per la prospettiva.
La produzione del Maghreb, in particolare a Cartagine ea Tabarka, ha permesso di credere nell’esistenza di una scuola africana alla quale è stata attribuita, tra altre realizzazioni, la decorazione di Piazza Armerina, in Sicilia (qui hanno operato almeno cinque maestri, all’inizio del quarto secolo).
E’ comunque necessario notare i limiti di questa rinascita che non ha interessato in egual misura tutti i settori della produzione; lo si vedrà in seguito.
Pag. 489
Se tutti gli spiriti partecipavano dello stesso gusto per il passato e l’irrazionale, alcuni elementi di diversità cominciano a diffondersi.
Durante l’Alto Impero le tendenze unificatrici avevano prevalso: l’Urbe, Roma, l’imperatore e la sua famiglia costituivano modelli universali.
Si è osservato nelle produzioni artistiche un cambiamento che si produsse all’epoca di Costantino, un’epoca di transizione; dalla metà del quarto secolo, le opere presentano uan grande varietà, non solo da una regione all’altra, ma anche da una bottega all’altra.
Bisogna d’altra parte rilevare un certo numero di contrasti, che traggono origine dall’Alto Impero, ma che si accentuarono nel corso del quarto secolo.
Artisti e intellettuali erano presi tra indipendenza e servitù.
Pochi uomini disponevano di mezzi sufficienti per essere veramente liberi: molti dipendevano da benefattori.
E tutti dovevano fare i conti con il peso del potere politico, della Chiesa e delle mentalità dominanti, tutte costrizioni più soffocanti che nei secoli passati.
Bisognava sempre più scegliere tra greco e latino.
Ma gli abitanti della parte orientale si disinteressavano progressivamente al latino mentre si contavano sempre meno occidentali che usavano il greco.
Infine c’è il conflitto, più che il contrasto, che oppose pagani e cristiani.
La lotta non impediva tuttavia le influenze reciproche.
I pagani, allontanandosi dalla gaiezza dell’epicureismo volgare, gareggiarono in austerità con la morale cristiana; essi giustificavano allora questo atteggiamento con il neoplatonismo più che con lo stoicismo.
I cristiani, dal canto loro, si sforzavano di recuperare tutte le forme di arte o di pensiero possibili: piuttosto che distruggere, essi “battezzavano”.
Pag. 491
Bisogna evitare un facile anacronismo: all’inizio del quarto secolo non tutto era perduto per il paganesimo, che si trovava ancora in posizione di persecutore e che poggiava su una filosofia sempre più elaborata.
Pag. 492
Anche se aderì completamente al cristianesimo solo molto tardi e senza averlo compreso a fondo, Costantino inferse al paganesimo un colpo discreto ma ben più duro di quanto non si sia detto talvolta.
Ispirata dalla pietà o dall’interesse, o da entrambi, la legge del 331 che ordinava l’inventario dei beni dei templi, comportò confische che permisero la costruzione di Costantinopoli.
Ma la legge distrusse il potere economico del paganesimo, indebolimento che ebbe notevoli conseguenze.
Pag. 493
Agli occhi dei romani, l’appartenenza al giudaismo si definiva come l’appartenenza al tempo stesso ad una nazione e ad una religione.
Pag. 494
Niente autorizza a pensare che, dal punto di vista economico, i giudei si siano distinti dagli altri abitanti dell’Impero.
E’ in campo religioso che essi impiegavano le loro energie.
Si ammise che la Bibbia era giunta al termine: dal secondo al quarto secolo si cominciò a commentarla: quesot fu il Talmud.
Due scuole, una a Tiberiade, l’altra in Mesopotamia, raccolsero i pareri dei rabbini, raggruppandoli in numerosi trattati; la scuola di Tiberiade elaborò il Talmud di Gerusalemme (di fatto, di Tiberiade), quella mesopotamica il Talmud di Babilonia, l’uno e l’altro opere maggiori della spiritualità giudaica.
Pag. 498
La conversione dell’imperatore al cristianesimo ha costituito, per le sue conseguenze, uno degli aspetti principali del quarto secolo, lo si è visto.
Tra cristiani, giudei e pagani le relazioni erano complesse e arrivavano a volte allo scontro a volte alla pacificazione, ma erano sempre gravide di influenze reciproche.
Tutto dipendeva dai rapporti di forza.
Per quanto riguarda la “nuova fede”, la situazione variava in ragione della geografia (essa ebbe successo molto più presto in Oriente), e anche in funzione della cronologia: perseguitata durante la Tetrarchia, lo si è visto, la Chiesa conobbe “la pace” con Costantino, poi si trasformò a sua volta in organo di persecuzione, in particolare Graziano e Teodosia, come si vedrà ancora nel capitolo successivo.
Pag. 499
Nei campi della religione, della vita intellettuale e delle arti, la situazione non fu la stessa di quella descritta per l’economia.
Pagani, giudei e cristiani si opponevano gli uni agli altri, ma così si arricchivano reciprocamente.
Non c’è dubbio che furono il paganesimo, e in misura minore il giudaismo, a riuscire sconfitti: ma il loro declino fu lungi dall’essere totale.
Dal punto di vista delle lingue, si deve distinguere l’Occidente latino dall’Oriente greco.
Se rottura ci fu, essa riguardò soprattutto l’Occidente, in particolare dopo gli avvenimenti del 406 e 410; queste date, che non hanno un grande significato per il cristianesimo, riguardano soprattutto le questioni politiche e militari.
Pag. 508
Cap. 19. Verso la fine del mondo romano?
Nonostante le convenzioni accademiche, è difficile fissare una data per chiudere una storia romana.
Si può solamente osservare un processo complesso, differente secondo i settori di attività e secondo le regioni.
Si deve constatare tuttavia l’importanza almeno simbolica di alcuni avvenimenti e l’emergere di una crisi a partire dal 363.
Pag. 508
Il periodo che fu caratterizzato da una crisi analoga a quella del terzo secolo: essa traeva origine dalle guerre.
La nuova ondata di invasioni presentava caratteri particolari: in generale, ma ci furono delle eccezioni, si trattava di infiltrazioni lente e progressive.
I Barbari ammiravano Roma, ma si rivelarono incapaci o poco desiderosi di assimilarsi.
Questa situazione ebbe come conseguenza una divisione dell’Impero; ma mentre l’Occidente sprofondava nei disordini, l’Oriente fece passare la tempesta e preparò l’emergere di una nuova civiltà.
Il solo elemento d’unità venne dalla politica dinastica che fu allora seguita: a partire dal 364 e fino all’inizio del quinto secolo, uno stesso sangue continuò a scorrere nelle vene degli imperatori, eccezion fatta per Teodosio.
Per comodità espositiva si distingueranno tre epoche caratterizzate ciascuna da una personalità, Valentiniano 1., Teodosio e Stilicone.
Pag. 512
Fu dunque il tutore Stilicone a passare allora in primo piano.
Flavio Stilicone era nato verso il 360 in una famiglia di vandali stabilitasi nell’Impero e convertita al cristianesimo, ma di tendenza ariana.
Questa personalità è stata molto discussa, presentata da alcuni come un barbaro amico del capo dei goti, Alarico, da altri come un romano, difensore dell’Urbe; di fatto, egli si comportò come un barbaro romanizzato.
E’ questo ciò che mostrano la sua carriera e le sue relazioni con Claudiano.
Pag. 516
La fine di Roma?
Lo storico si trova sempre in difficoltà quando deve scegliere una data per chiudere una storia di Roma.
In effetti al momento della scelta si pongono tre domande: che cos’è successo? In che modo ciò è successo? E solo alla fine: in quale momento ciò è successo? Per riassumere: cosa, come e quando?
Alla prima domanda (“che cosa?”) sono state date molte risposte, dagli studiosi, tre tesi tengono oggi il campo.
Molti studiosi, e da molto tempo hanno parlato di decadenza.
Dall’antichità, questa idea costituiva un luogo comune della letteratura, e i cristiani rincararono la dose: la fine di Roma era una punizione inviata da Dio.
Durante il Rinascimento sono state cercate di nuovo cause morali: Biondo e Machiavelli vi aggiunsero il declino demografico; ancora nel Settecento Montesquieu e Gibbon non davano risposte diverse.
Alcune ricerche più recenti accusano l’inadeguatezza delle istituzioni, con G. Ferrero, o un crollo generale, secondo J. Carcopino, secondo cui l’Impero romano era morto di morte naturale.
Da ultimo un libro di M. Le Glay adopera di nuovo il termine “decadenza”, anche se a proposito della Repubblica, è vero.
La “teoria dell’assassinio” è più recente.
Costatando che la situazione delle province, secondo i dati archeologici, si presentava sotto una luce meno cupa di quanto si fosse creduto, A. Piganiol sostenne nel 1947 una tesi originale: erano stati i barbari ad assassinare un mondo romano in buona salute.
H. I. Marrou, che aveva parlato di decadenza nel 1938, ritrattò nel 1949, e si allineò all’idea di A. Piganiol, criticato nel frattempo da J. Carcopino, come si è detto.
Questa storia rinviava ogni crisi od ogni declino all’Alto Medioevo, al che si sono opposti alcuni medievisti.
Infine, recentemente, alcuni ricercatori, senza dubbio ispirati da una concezione del progresso, che non soffre di alcuna restrizione, si sono sforzati di dimostrare che non ci sarebbero state altro che trasformazioni e che si poteva rinunciare alle nozioni di declino e, a maggior ragione, di decadenza.
Per meglio rispondere alla prima domanda, bisogna porsi la seconda: come è successo? Il quarto secolo si caratterizza di fatto con la sua complessità: vi coesistono elementi dell’Alto Impero e novità; queste possono sia sembrare creazioni, e sarebbero dunque elementi di forza, o al contrario esse possono costituire elementi di debolezza, di crisi.
Questa complessità stessa impone di stabilire distinzioni, e da questo punto di vista tre coppie attirano la nostra attenzione.
In effetti, non bisogna considerare allo stesso modo Oriente e Occidente: mentre a est nasceva l’Impero bizantino, i provinciali dell’Occidente vedevano lo Stato indebolirsi e l’esercito sparire (esso non ha potuto impedire ai barbari di traversare il Reno nel 406 né di prendere Roma nel 410).
La forza dei germani spiega in parte questo declino.
I rinforzi ricevuti (popoli dell’est) e la loro migliore organizzazione (federazione di popoli) hanno contribuito al loro successo, allo stesso modo della burocrazia e della crisi economica (carenza di moneta e squilibrio città-campagna) che indebolivano Roma.
Seconda coppia da mettere in opposizione, la città e la campagna hanno in effetti conosciuto destini contrapposti e non più complementari.
Si ammette in generale una permanenza almeno relativa delle città, ma la ripartizione ineguale delle imposte pesava più sulle fasce rurali che sui cittadini, per di più, allo stesso modo, pesava più sui poveri che sui ricchi, in linea di massima (almeno era così che la situazione era vissuta e percepita).
Allo stesso tempo, una minoranza di privilegiati dilapidava sempre più senza risparmio.
Bisogna infine distinguere due culture, il paganesimo e il cristianesimo, che certo non sono totalmente estranee l’una all’altra, ma che talvolta si sono scontrate con durezza.
La tradizione fu preservata, certo, ma per diventare un oggetto di studio; essa non creò più, se non opere universitarie (Marziano Capella); il paganesimo conobbe un declino ma sopravvisse.
Il cristianesimo, al contrario, non smise mai di progredire, e questo sviluppo era accompagnato dalla nascita di nuove forme di arte e di pensiero.
Inoltre, secondo A. Piganiol, questa religione “favoriva la formazione di un’ideologia internazionalista che non conosceva più frontiere”.
Beninteso, tutti questi cambiamenti non sono avvenuti simultaneamente. DI qui la terza domanda: quando?
Durante l’ultimo terzo del quarto secolo, si assiste allo svolgimento di una crisi economica che accompagna il rallentamento dell’evergetismo.
Ma già Oriente e Occidente andavano incontro a destini diversi.
Per l’epoca successiva, alcuni avvenimenti principali hanno attirato l’attenzione degli storici.
Questi avvenimenti si situano sia all’inizio che alla fine del quinto secolo.
Gli ultimi anno di Stilicone furono segnati da un dramma che si consumò la notte del 31 dicembre 406: vandali, alani e svevi attraversarono il Reno che si era gelato.
Percorsero la Gallia, al Spagna e l’Africa (passaggio dello stretto di Gibilterra nel 429); i vandali finirono per fare di Cartagine la loro capitale.
Niente poté arrestarli.
Questa invasione provocò l’usurpazione di Costantino in Gallia, una nuova offensiva dei visigoti di Alarico, più fortunata, ed una reazione generale; il consigliere Olimpio, Galla Placidia, sorella dell’imperatore e l’esercito si unirono contro Stilicone che fu arrestato e decapitato, insieme alla moglie e ai figli, il 23 agosto del 408.
Galla Placidia emerse allora come un personaggio importante, al centro della sua epoca.
La morte di Stilicone non impedì ad Alarico di prendere Roma nel 410; la città fu abbandonata al saccheggio, che rappresenta anch’esso una data essenziale ai nostri fini.
Ormai l’Occidente romano era diventato di fatto l’Occidente barbarico.
Per quasi tutto il quinto secolo (dal 410 al 471-472) i destini delle due parti dell’Impero presero direzioni opposte.
In Occidente il debole Onorio, morto nel 432, aveva lasciato passare in primo piano Costanzo (411-421), l’effimero Costanzo 3. (421).
Fu poi il turno di Valentiniano 3. (425-455), con Ezio magister militum, comandante supremo dell’esercito; essi dovettero affrontare subito il capo degli eserciti d’Africa, Bonifacio, poi Attila, re degli unni, che fu sconfitto nel 451 al campus Mauriacus.
Ma questo potere centrale funzionava solo ad intermittenza: i visigoti passarono dall’Italia all’Aquitania; i franchi e i burgundi si insediarono in Gallia; vandali, alani e svevi proseguirono nella loro avventura.
Dal 457 al 472 fu il magister militum RIcimero, uno svevo, ad imporre il suo protettorato sull’Occidente.
In Oriente, anche se la situazione presentava talvolta caratteri analoghi a quelli descritti per l’Occidente, le condizioni generali, interne ed esterne, migliorarono durante il regno di Teodosio 2. (408-450), in particolare per le molteplici imprese di Antemio.
A quest’epoca risale l’elaborazione del Codice Teodosiano.
La tregua alle frontiere permise comunque dei conflitti interni: massacro della filosofa pagana Ipazia da parte della folla di Alessandria nel 415, disputa monofisita (i monofisiti credevano nella “unità di natura” del Cristo, contro Nestorio, il quale affermava che Gesù possedeva sia la natura umana che quella divina); il Concilio di Efeso nel 431 condannò i nestoriano.
Ma dal 450 al 471 l’Oriente conobbe la stessa sorte dell’Occidente, con una sola differenza: fu un alano, Aspar, ad imporre il suo protettorato.
La fine del secolo fu segnata da due avvenimenti di forte valore simbolico.
Nel 475 Oreste, già segretario di Attila, aveva cacciato da Roma l’imperatore Nepote e dato la porpora a suo figlio, Romolo Augustolo, dai nomi quanto evocativi!
Lo Sciro Odoacre, che aveva anche lui frequentato la corte di Attila, diventò re degli eruli e chiese lo status di federato.
Davanti al rifiuto che gli fu opposto, cacciò Romolo Augustolo e rispedì a Costantinopoli le insegne imperiali (476).
Odoacre diventò “patrizio”, “re dei popoli barbari” e costituì un proprio dominio (Italia-Sicilia-Dalmazia).
L’imperatore Zenone, nel 488, incaricò l’ostrogoto Teodorico di riconquistare l’Occidente; quest’ultimo, dopo l’assassinio di Odoacre nel 493, si impadronì di Roma e dell’Italia.
Ormai l’Occidente romano era diventato, di diritto, l’Occidente barbaro.
Ma il quinto secolo non rappresentò una fine in tutit i campi, poiché lasciò un’eredità.
In oriente si diede forma ad un impero romano originale, che era legato alla civiltà bizantina e che sparì solo nel 1453.
In Occidente l’idea imperiale restò molto forte; ne sono testimonianza la creazione del “Sacro Romano Impero Germanico” e la diffusione del titolo di “Cesare”.
Esso perdurò fino al 1917 in Russia (assassinio dell’ultimo “Czar” Nicola 2.), fino al 1918 in Germania (abdicazione dell’ultimo “Kaiser” Guglielmo 2.) e addirittura fino al 1946 in Bulgaria.
La Francia all’inizio del terzo millennio porta ancora, anch’essa, l’impronta di Roma; i nostri contemporanei non se ne rendono sempre conto.
E tuttavia, noi parliamo una lingua latina.
I principi del nostro diritto vengono dal diritto romano.
La nostra urbanizzazione e i nostri paesaggi rurali hanno venti secoli di storia.
La nostra vita quotidiana (festività, nomi propri…) reca l’impronta del cristianesimo.
La nostra arte, la nostra letteratura e la nostra filosofia, dopo il Rinascimento, che fu rinascita di Roma, si ispirano molto spesso ad opere della Repubblica e dell’Impero.
I nostri valori infine (Libertà, Giustizia, Diritto, Onore, Coraggio…) hanno venti secoli.
In certo modo, Roma vive ancora.
Roma vive in noi.
Il tardo romano impero / A. Cameron
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Introduzione: lo sfondo del terzo secolo
E’ un segno del profondo cambiamento intervenuto nel nostro modo di concepire il mondo antico il fatto che, quando fu avviata la realizzazione di questa serie di storia antica, non fosse previsto un volume dedicato al tardo impero o, come ora si preferisce dire, alla tarda antichità; oggi, invece, una sua esclusione potrebbe apparire alquanto inopportuna.
A produrre questo cambiamento, almeno per quanto riguarda gli studiosi di lingua inglese, hanno contribuito in modo particolare due lavori di natura molto diversa tra loro, vale a dire la monumentale opera di A. H. M. Jones Il tardo impero romano, 284-602 d. C., del 1964 e la breve ma affascinante sintesi di Peter Brown Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto, del 1971.
Naturalmente, quest’epoca non è stata trascurata da altri autorevoli studiosi, né è stata trascurata dalla storiografia del continente europeo; tuttavia, solo con la generazione successiva alla pubblicazione dell’opera di Jones si è manifestato per essa un così ampio interesse.
Anzi, proprio a partire da allora è diventato uno dei periodi in cui sono stati conseguiti i progressi più significativi nell’ambito dell’insegnamento e della ricerca.
L’arco di tempo ricoperto in questo volume è esattamente quello che intercorre tra l’avvento di Diocleziano nel 284 d. C. (la data con cui convenzionalmente si fissa l’inizio del tardo impero) e la fine del quarto secolo, quando la morte di Teodosio 1. nel 395 d. C. l’Impero fu diviso tra i suoi due figli, Onorio in Occidente e Arcadio in Oriente.
Si tratta, perciò, non tanto di un volume sulla tarda antichità in generale, un periodo che si può con buone ragioni comprendere tra il quarto e il settimo secolo e considerare concluso con le invasioni arabe, quanto piuttosto di un volume sul quarto secolo.
Fu questo il secolo di Costantino, il primo imperatore che aderì al cristianesimo e lo sostenne, e che fondò Costantinopoli, la città che doveva diventare la capitale dell’impero bizantino e rimanere tale fino alla conquista da parte dei Turchi Ottomani nel 1453 d. C.
La grande opera di Edward Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, spinge la narrazione fino a tale data, considerando questa e non il 476 d. C., quando fu deposto l’ultimo imperatore in Occidente, come la cera fine dell’Impero romano.
Pochi sarebbero oggi d’accordo con Gibbon, ma gli storici discutono ancora sul momento in cui collocare la fine di Roma e l’inizio di Bisanzio; su tale dibattito pesa ancora fortemente l’esagerata percezione del declino morale che egli pensava avesse avuto inizio una volta che era stato superato il punto più alto dello sviluppo della civiltà romana sotto gli imperatori Antonini nel secondo secolo d. C.
Tutti coloro che scrivono sul quarto secolo devono farsi un’opinione su quelle che si rivelano, in effetti, questioni estremamente soggettive: il regime del tardo impero fu un sistema repressivo che si sviluppò per porre termine al caos determinatosi nel terzo secolo?
Vi possiamo vedere i segni della decadenza che portò al crollo e alla frammentazione dell’Impero romano in Occidente nel quinto secolo?
L’adesione di Costantino al cristianesimo favorì un processo di declino con il definitivo abbandono dei valori romani più antichi, come pensava Gibbon?
Tutte queste valutazioni sono state fornite dagli storici e sono ancora ampiamente diffuse, caratterizzando la maggior parte delle opere su questo periodo.
Sarà presto evidente che questo volume adotta un diverso approccio.
Posizioni preconcette e, soprattutto, giudizi di valore non si possono completamente evitare in un’opera storica, ma certamente non aiutano né lo storico né lo studente.
Inoltre, proprio per la sfida lanciata dalla nostra società contro i valori tradizionali, oggi siamo meno portati a vedere il Principato come depositario dell’ideale classico e a ritenere che un qualsiasi allontanamento da esso dovesse necessariamente rappresentare una forma di declino.
Infine, rispetto alla precedente generazione di storici, siamo forse più consapevoli del potere e dei pericoli che comporta la retorica e meno propensi a prendere per buona l’immagine che viene dalla retorica imperiale della tarda antichità.
Il periodo che comincia con Diocleziano viene talvolta definito “dominato”, in quanto l’imperatore veniva denominato come dominus (”signore”), mentre nell’alto impero (il cosiddetto “Principato”) gli era stato assegnato, in origine, un appellativo molto diverso, quello di princeps (“primo cittadino”) semplicemente.
Ma bisogno considerare che il termine dominus non era affatto nuovo; e, oltretutto, una cosa era ciò che gli imperatori del quarto secolo volevano, o ciò che volevano apparire, una cosa alquanto diversa, invece, ara quale di tipo di società l’impero rappresentasse nel suo insieme.
Per cogliere la differenza, non bisogna partire da Diocleziano o dal sistema “tetrarchico” da lui istituito nel tentativo di ripristinare la stabilità politica – secondo il progetto di Diocleziano, il potere doveva essere diviso tra due imperatori (Augusti), ciascuno affiancato da un Cesare che ne avrebbe preso il posto al momento della successione.
Dobbiamo partire, invece, dal terzo secolo che costituisce un’evidente linea di demarcazione tra due sistemi contrapposti e che gli storici hanno tradizionalmente descritto come un’epoca di crisi (la cosiddetta “crisi del terzo secolo”), rappresentata da un continuo e rapido susseguirsi di imperatori tra il 235 e il 284 d. C., da uno stato di guerra, interna ed esterna, quasi permanente, accompagnato dal tracollo della moneta d’argento e dal ricorso da parte dello Stato ad esazioni in natura.
Una tale drammatica situazione fu riportata sotto controllo, almeno in parte, da Diocleziano, le cui riforme furono poi continuate da Costantino (306-337 d. C.), di modo che si posero le basi per la ripresa del quarto secolo.
Si è tentati di credere che in tali circostanze, sufficientemente documentate da fonti contemporanee, la gente fosse più facilmente portata a cercare un rifugio o una fuga nella religione e che lì si trovino le premesse perché il mondo della tarda antichità acquistasse quel carattere più intimamente spirituale con cui ai nostri occhi sembra presentarsi.
Ma anche questa visione è frutto, in gran parte, di giudizi soggettivi e di una lettura delle fonti troppo superficiale.
Quanto si può ricavare dalle fonti rabbiniche della Palestina e dai papiri egiziani contenenti lamentele sugli esattori fiscali è qualcosa di abbastanza scontato, in quanto è ovvio che la gente non fosse contenta di pagare le tasse; ma tali fonti non ci dicono se il peso fiscale fosse effettivamente cresciuto in misura così rilevante come potrebbe a prima vista sembrare.
Senza certamente negare l’esistenza di gravi problemi nel terzo secolo, specialmente per quanto riguarda la stabilità politica e il controllo delle emissioni monetarie, in questi ultimi anni il concetto di “crisi del terzo secolo” è stato messo in discussione sotto ogni suo singolo aspetto.
E se la crisi fu meno grave di quanto si sia finora creduto, allora è possibile che anche la portata dei cambiamenti tra il secondo e il quarto secolo sua stato dato un peso esagerato.
“Crisi del terzo secolo”, “età di transizione”, “età degli imperatori soldati”, “età di anarchia”, “monarchia militare” – comunque si voglia chiamare, gli storici sono concordi nel ritenere che il periodo critico nel terzo secolo sia cominciato con l’assassinio di Alessandro Severo nel 235 d. C. e che sia durato sino all’ascesa al trono di Diocleziano nel 284 d. C.
Il primo e più evidente sintomo con cui la crisi si manifestò fu la rapida successione di imperatori dopo Severo – in maggior parte durarono solo pochi mesi e andarono incontro ad una morte violenta, spesso per mano delle loro stesse truppe o in seguito ad un altro colpo di stato.
Il regno più lungo fu quello di Gallieno (253-275), che riuscì a reprimere il regime indipendente instaurato dalla regina Zenobia a Palmira in Siria dopo la morte del marito Odenato.
Valeriano (253-260), però, fu fatto prigioniero da Shahpur 1., re della potente dinastia dei Sassanidi, succeduta ai Parti nel 224 d. C. nel governo della Persia, mentre dal 258 al 274 la Gallia (il cosiddetto “impero gallico”) fu retta da Postumo e dai suoi successori in una forma di quasi totale indipendenza.
Con questo continuo avvicendamento di imperatori (la differenza tra imperatore e usurpatore diventava sempre più difficile da cogliere) è strettamente connesso il secondo sintomo della crisi, uan situazione di guerra permanente che permetteva all’esercito, o agli eserciti, di svolgere un ruolo ancora più importante rispetto all’epoca dei Severi.
I Sassanidi rappresentavano uan grande e inedita minaccia per l’Oriente che era destinata a durare per tre secoli, fino a quando le vittorie di Eraclio nel 628 segnarono la fine dell’Impero.
Il conflitto con i Sassanidi costò un elevato prezzo ai romani in termini demografici e di risorse.
Il loro più grande imperatore del terzo secolo, Shahpur 1. 8242-272 d. C.), creò un modello, invadendo la Mesopotamia, la Siria e l’Asia Minore nel 235 e 260 d. C., con la presa di Antiochia e la deportazione in Persia di migliaia dei suoi abitanti; le sue vittorie furono immortalate da una grandiosa iscrizione a Naqsh-i-Rustam, i cui rilievi raffiguravano l’umiliazione subita dall’imperatore Valeriano.
Le tribù germaniche continuavano ad esercitare sui confini settentrionali e occidentali la stessa pressione che aveva causato grosse difficoltà a Marco Aurelio; e, prima ancora che Valeriano fosse fatto prigioniero da Shahpur, Decio era già stato sconfitto dai Gori (251 d. C.)
Le motivazioni sottese alle continue incursioni barbariche e gli scopi reali degli invasori non sono stati ancora del tutto chiariti.
E’ certamente lontana dal vero ogni visione apocalittica di orde formate da migliaia e migliaia di barbari che dilagavano nell’Impero, dal momento che il numero effettivo degli invasori è sempre stato molto basso.
Tuttavia, non c’è dubbio che le incursioni del terzo secolo preannunciassero un problema che avrebbe assunto grandi proporzioni nel tardo impero e che è stato considerato da molti storici come la causa principale della caduta dell’Impero romano d’Occidente.
Presto o tardi furono invasi dai barbari più o meno tutte le province settentrionali e meridionali, come avvenne per la Cappadocia, l’Acaia, l’Egitto e la Siria, e neppure l’Italia fu risparmiata sotto Aureliano.
Si può quindi giustificare l’errore dei contemporanei che videro allora l’inizio della fine dell’Impero.
Le riforme di Settimio Severo avevano già assegnato all’esercito un’importanza maggiore rispetto al passato, ma la situazione critica del terzo secolo fece sì che la sua preponderanza divenisse ancora più pericolosa.
Non c’è da stupirsi che ogni esercito provinciale avesse un candidato da proporre come imperatore e che, con la stessa facilità con cui lo avesse designato, potesse poi eliminarlo.
Non c’era nessun mezzo per fermare il ripetersi di questo corso di eventi: il Senato non aveva mai controllato direttamente gli eserciti e, in tale confusione, anche se c’era un imperatore a Roma, erano scarse le possibilità che egli potesse controllare quanto avveniva nelle regioni più distanti dell’impero.
L’instabilità interna non era tanto determinata dalla minaccia di attacchi esterni (per quanto anche questi certamente vi contribuissero): il fatto è che l’impero era già fortemente instabile quando la minaccia si presentò, come dimostra chiaramente lo scoppio delle guerre civili da Marco Aurelio in poi.
Nel terzo secolo, però, vi furono altre conseguenze: l’esercito, com’era inevitabile, aumentò il proprio organico e perciò vi furono investite maggiori risorse; inoltre, mentre nelle condizioni pacifiche dell’alto impero i soldati venivano tenuti del tutto lontani dalle province interne, ora invece si trovavano dappertutto, nelle città come nelle campagne, senza la minima garanzia che potessero essere sempre tenuti sotto controllo.
Quando Diocleziano e Costantino ripristinarono un sistema militare più stabile, questa situazione fu riconosciuta in parte come definitiva e l’esercito del tardo impero, invece di essere dislocato in larga misura lungo le frontiere, fu diviso in piccole unità e disperso all’interno delle province e nelle città.
Non ci si deve sorprendere se in tali circostanze lo stipendio dell’esercito e il sistema di approvvigionamento avessero subito un crollo.
Il soldo dell’esercito era stato pagato principalmente in denarii d’argento, provenienti dagli introiti fiscali riscossi nella stessa moneta.
Il contenuto d’argento del denarius era stato ridotto già all’epoca di Nerone, ma da Marco Aurelio in poi la moneta era stata svalutata sempre più, mentre la paga militare era stata aumentata nel tentativo di mantenere l’esercito efficiente e fedele.
Il processo era ormai talmente avanzato che intorno al 260 il denarius aveva quasi completamente perduto il suo contenuto d’argento ed era praticamente composto di metallo vile.
Può sembrare strano che i prezzi non fossero saliti vertiginosamente non appena gli svilimenti avevano cominciato ad essere drastici.
Ma non si può paragonare l’Impero romano ad uno Stato moderno, dove tali misure sono annunciate ufficialmente e messe in atto con tempestività.
Le comunicazioni erano lente e il governo, se è lecito usare questo termine, anche nelle migliori condizioni aveva pochi strumenti per controllare le monete e i tassi di cambio a livello locale; ancora meno lo poteva fare in una situazione talmente confusa.
I vari svilimenti della moneta succedutisi nel corso del tempo, che avrebbero avuto così gravi conseguenze, furono assai più dei provvedimenti ad hoc, volti a garantire il pagamento alle truppe senza interruzioni, che la manifestazione di una politica di ampio respiro.
Ma, naturalmente, ci fu un rapido aumento dei prezzi, che causò reali difficoltà agli scambi ed alla circolazione dei beni.
Non si trattava di inflazione in senso moderno, quanto piuttosto del risultato della produzione di enormi quantità di monete di metallo vile da parte degli effimeri imperatori del terzo secolo per i loro scopi e della consapevolezza, che intanto la popolazione gradualmente acquisiva, che il valore effettivi dei denarii che circolavano non corrispondeva più al loro valore nominale.
Come inevitabile conseguenza vennero sottratte dalla circolazione le monete più vecchie e più pure, tanto è vero che le monete romane a noi pervenute derivano, in gran parte, da tesoretti interrati apparentemente nel terzo secolo.
Oro e argento scomparvero dalla circolazione con tale rapidità che Diocleziano e Costantino si videro costretti a introdurre particolari imposte pagabili solo in oro e argento allo scopo di recuperare questi preziosi metalli per le casse dello Stato.
Una volta che la spirale si avviò, fu ancora più difficile frenarla, per cui i prezzi, malgrado gli sforzi di Diocleziano per bloccarli, continuarono a salire vorticosamente sotto Costantino, come sappiamo dai papiri.
E’ questo il retroterra in cui si realizzò il ritorno allo scambio in natura che da molti storici è considerato come una regressione verso una forma di economia primitiva e, perciò, un sintomo cruciale di crisi.
Non erano solo le truppe ad essere pagate parzialmente in natura invece che in denaro; anche le tasse erano riscosse in natura, visto che la quota più rilevante delle entrare fiscali era stata sempre era stata sempre principalmente finalizzata al mantenimento dell’esercito.
Se proprio si volesse fare un confronto con l’esperienza del mondo contemporaneo, non dovremmo rimanere colpiti tanto dall’arretramento dell’economia monetaria, quanto dal successo con cui fu progettato e realizzato un complesso sistema di requisizioni a livello locale, che permise il raggiungimento di un equilibrio tra bisogni e risorse.
E’ anche importante notare che i romani avevano sempre fatto ricorso alla pratica delle riscossioni dirette per provvedere all’annona militaris, il rifornimento di grano per l’esercito, e all’angareia, il trasporto militare; il fenomeno in sé non era nuovo, ma lo erano le sue proporzioni.
A causa delle condizioni estremamente instabili, in particolar modo intorno alla metà del secolo, le popolazioni locali erano chiamate a soddisfare improvvise richieste e la mancanza di preavviso procurava effettivi disagi; spettò a Diocleziano il compito di rendere istituzionale la scadenza di queste riscossioni.
Dal fatto che l’esercito venisse pagato in natura (anche se solo in parte, poiché i pagamenti in denaro non furono mai eliminati del tutto) derivavano altre conseguenze, ad esempio la necessità di ricorrere agli approvvigionamenti in aree il più vicino possibile alle truppe, per le ovvie difficoltà causate dai trasporti su lunghe distanze.
Vediamo, allora, che nel quarto secolo l’esercito era diviso in unità più piccole situate in prossimità dei centri di rifornimento.
E vi furono anche dei cambiamenti nei posti di comando: i prefetti del pretorio, che inizialmente erano comandanti di rango equestre della guardia imperiale, avevano assunto gradualmente funzioni di comando più generali nell’esercito; con questi cambiamenti nell’annona e nelle requisizioni in genere, essi di fatto acquisirono il controllo del sistema dell’amministrazione provinciale e divennero subalterni solo all’imperatore.
In modo analogo i membri dell’ordine equestre acquisirono, in generale, un ruolo di gran lunga più importante nell’amministrazione, ad esempio come governatori delle province, una carica assegnata tradizionalmente ai senatori.
Fonti di età successiva attribuiscono a Gallieno l’esclusione per editto dei senatori da tali posti (Aur. Vitt., Caes. 33, 34), ma è chiaro che questa esclusione non fu mai ufficiale e assoluta ed alcuni senatori continuarono a ricoprirli; è più verosimile che il cambiamento fosse il naturale risultato del decentramento dei poteri e della rottura di quei rapporti di patronato tra l’imperatore e Roma e la classe senatoria sulla cui base avvenivano le designazioni.
Era più pratico, e può essere apparso più logico, per un imperatore cresciuto nelle province e proveniente dai ranghi dell’esercito, com’era nella maggior parte dei casi, nominare dei governatori estratti dalla classe che conosceva e con cui doveva trattare.
L’indubbia eclissi del Senato nel terzo secolo si può in parte attribuire al fatto che gli imperatori non risiedevano più né venivano designati a Roma; perciò lo stretto legame tra imperatore e Senato si ruppe e solo pochi imperatori videro la propria nomina ratificata dal Senato secondo l’antica tradizione.
Intanto, il Senato perdeva gran parte del suo ruolo politico, sebbene i suoi membri continuassero a godere di un certo prestigio e di considerevoli esenzioni fiscali.
In questo periodo, dunque, gli imperatori non dovevano la loro elezione al Senato, ma venivano innalzati al trono sul campo, circondati dalle loro truppe.
Si possono ancora riconoscere gli effetti di questa dispersione dell’autorità imperiale sotto Diocleziano e la tetrarchia, quando gli Augusti, invece di tenere la corte a Roma, passavano il loro tempo viaggiando e soggiornando in centri diversi come Serdica e Nicomedia, alcuni dei quali, in particolare Treviri e Antiochia, già nel terzo secolo avevano acquisito una funzione semiufficiale di sedi imperiali.
Roma non sarebbe diventata mai più una residenza imperiale di rilievo.
Inoltre, mentre in precedenza Roma e il Senato erano sempre stati associati, ora Costantino allargò ampiamente le basi di reclutamento dell’ordine senatorio, di modo che l’appartenenza ad esso non presupponeva più la residenza e lo svolgimento delle proprie funzioni a Roma, ma si diffondeva in tutto l’impero.
In effetti, intorno alla metà del terzo secolo non vi fu una crisi drammatica, ma la naturale prosecuzione di processi già avviati che, a loro volta, portarono alle misure adottate da Diocleziano e da Costantino che vengono comunemente indicate come le fondamenta del sistema tardoromano.
Come va valutata, allora, in questo momento la testimonianza offerta dal dissesto finanziario?
Questa è una delle questioni più difficili per la comprensione del processo in corso.
Dobbiamo chiederci in che misura il rialzo dei prezzi fosse dovuto a una crisi economica generale o se non fosse invece il risultato di un collasso monetario causato da ragioni alquanto particolari.
A sostegno della prima ipotesi viene spesso ricordata la fine pressoché completa della costruzione di edifici pubblici nelle città.
I maggiorenti locali che con tanto impegno avevano adornato le loro città di splendide costruzioni nel momento di massima prosperità nel corso del secondo secolo non sembravano avere più le risorse e la volontà per andare avanti.
Ora si era praticamente dissolta quella sorta di patronato civico che va spesso sotto il nome di “evergetismo” (dalla parola greca per “benefattore”), che era stata una delle caratteristiche più prominenti dell’alto impero.
Nelle fonti relative al periodo che va dal quarto secolo in poi, le difficoltà economiche delle amministrazioni cittadine diventano uno dei temi più ricorrenti.
Ma i disagi finanziari delle classi elevate rappresentano solo una delle possibili spiegazioni della crisi edilizia; la manutenzione degli edifici pubblici già esistenti, che era a carico dei governi locali, costituiva un problema già verso la fine del secondo secolo.
L’aggiunta di nuovi edifici, piuttosto che ispirare gratitudine, sarebbe stata vista come causa di maggiori problemi.
Anche l’incertezza della situazione verso la metà del terzo secolo avrebbe fatto sentire la costruzione di edifici come uan forma di beneficienza inadeguata; nelle città che correvano il rischio di invasioni o di guerre civili, la maggiore preoccupazione degli amministratori era la difesa degli edifici o il loro restauro.
Alcune città mostrarono notevoli capacità di recupero anche dopo aver subito gravi attacchi.
Antiochia ed Atene furono fortemente danneggiate, dai Sassanidi e dagli Eruli rispettivamente, eppure furono in grado di riprendersi.
Al contrario, le città della Gallia, sottoposte ad invasioni durante il terzo secolo, erano più vulnerabili di quelle dell’Oriente, più prospero e più densamente popolato, e, quando venivano ricostruite o fortificate, normalmente avveniva una contrazione del loro spazio urbano, come ad Amiens e a Parigi.
Mentre nell’alto impero non c’era stato bisogno di salde difese, ora le città cominciavano ad essere circondate da cinte murarie e il loro aspetto di trasformò in quello delle tipiche città fortificate della tarda antichità.
Nella stessa Atene l’area a Nord dell’Acropoli venne fortificata.
Ma la situazione era ancora diversa nell’Africa settentrionale, dove nel terzo secolo si continuavano a costruire edifici e le aree urbane si espandevano.
Essendo esposta al pericolo in misura minore che altrove, l’Africa settentrionale conobbe una crescita della propria economia grazie all’aumento della produzione di olio e le sue città nel quarto secolo erano tra le più sicure e prospere dell’impero.
Dato il rapido alternarsi degli imperatori, è evidente che le relazioni tra centro e periferia, che fino ad allora avevano funzionato in materia armoniosa, furono seriamente compromesse.
Fin dall’inizio l’impero si era sforzato di mantenere un saldo equilibrio interno, che veniva ora messo in pericolo.
Precedentemente, interesse imperiale e interessi locali si erano bilanciati e questa equità di rapporti aveva raggiunto la sua massima espressione nell’età degli Antonini.
Nel terzo secolo le culture locali ebbero possibilità molto maggiori di emergere.
Dalla Gallia alla Siria e all’Egitto, gli stili locali divennero più evidenti nelle arti visive e gli interessi locali ebbero l’opportunità di farsi sentire, specialmente – com’è ovvio – nel cosiddetto “impero gallico” e nella lotta di Zenobia per l’indipendenza a Palmira.
Un altro importante avvenimento del terzo secolo fu l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero sotto Caracalla attraverso la cosiddetta Constitutio Antoniniana del 212 d. C.; sebbene Caracalla potesse essere stato ispirato dall’intenzione di procurare maggiori entrate fiscali allo Stato, piuttosto che da idealismo o generosità, questo provvedimento fece si che la nozione di ciò che si considerava “romano” si estendesse fino a ricoprire una moltitudine di culture etniche e locali tra loro divergenti.
Sebbene si ritornasse verso una certa centralizzazione del potere sotto Diocleziano e la tetrarchia (284-305 d. C.), la frammentazione politica e militare verificatasi dalla metà sino alla fine del terzo secolo ebbe a lungo andare delle ripercussioni anche sui modelli culturali della tarda antichità.
In questa nuova fase sia il siriaco che il copto si affermarono come importanti lingue letterarie usate da un elevato numero di cristiani in Siria, Mesopotamia ed Egitto.
Anche la Chiesa cristiana trasse dei benefici: malgrado le persecuzioni subite sotto Decio (249-251) e Diocleziano (303-311), era riuscita a sviluppare una valida struttura istituzionale che si rivelò di grandissimo aiuto quando essa ottenne il favore di Costantino.
Certamente il terzo secolo fu un periodo difficile e non tutti i problemi sono da attribuire alla volontà degli uomini.
L’epidemia che si diffuse nell’impero sotto il regno di Marco Aurelio fu molto meno grave degli attacchi di peste bubbonica che colpirono l’impero d’Oriente nel sesto secolo e l’Europa occidentale nel quattordicesimo; e, senza dubbio, epidemie e malattie infettive furono endemiche in tutte le fasi del mondo antico.
Tuttavia, essa potrebbe aver costituito uno dei fattori, insieme agli effetti delle invasioni e delle guerre, che portò ad una riduzione della popolazione e, di conseguenza (dal momento che la terra richiede manodopera per produrre ricchezza), ad una riduzione della base economica.
La questione è estremamente controversa; sebbene la carenza di manodopera sia stata addotta come una delle cause del presunto declino dell’impero, vi sono scarsi elementi per provarlo.
Tuttavia, considerazioni generali, insieme alla testimonianza di città dove avviene una contrazione delle aree abitate, specialmente nelle province occidentali, autorizzano a parlare, se pur con cautela, di un calo della popolazione.
Ma è essenziale vedere il fenomeno nella lunga durata; in ogni caso l’impero d’Oriente fu capace di una buona ripresa e vi sono buone testimonianze del fatto che vi fu addirittura un aumento della popolazione a partire dalla fine del quarto e, certamente, nel corso del quinto secolo.
Per varie ragioni, gli storici moderni hanno messo l’accento, senza troppe discussioni, sugli aspetti negativi di questo periodo, ma il giudizio dei contemporanei non era così scontato.
La distinzione sociale e giuridica tra honestiores (“classi superiori”) e humiliores (“classi inferiori”) appare ai nostri occhi coem una caratteristica peculiare del tardo impero; questa distinzione, tuttavia, si era avviata molto tempo prima del periodo della “crisi del terzo secolo”.
E ancora, l’idea che gli imperatori gallici formassero un regime separatista è probabilmente una concezione moderna, perché, come aveva osservato tacito, già da molto tempo il fatto che i legittimi imperatori potessero essere creati lontano da Roma era considerato come uno degli “arcani dell’impero”.
Inoltre, le opinioni negative espresse dai contemporanei, a cui si affidano molte ricostruzioni moderne, di solito hanno una spiegazione specifica.
E’ certamente naturale che i mali dell’epoca venissero messi in risalto da Ciriano, vescovo di Cartagine, che subì il martirio nel 258 d. C. durante la persecuzione di Valeriano.
D’altro canto, però, vi era una fioritura dell’attività letteraria.
Le conferenze di Plotino a Roma sul platonismo continuavano ad essere di moda attirando una folla di persone che andavano a sentirlo, senza contare gli allievi che giungevano da molto lontano.
P. Erennio Dexippo, che aveva guidato la resistenza dei cittadini ateniesi contro gli Eruli, scrisse una storia delle invasioni dei Goti e degli Sciti, di cui purtroppo rimangono solo dei frammenti.
Siamo portati a dare un giudizio distorto di questi avvenimenti in quanto non ci è pervenuto alcun resoconto contemporaneo attendibile dei difficili cinquant’anni centrali del terzo secolo, così che siamo spesso costretti a ricorrere alla narrazione ricca di fantasie e banalità della Historia Augusta che suona quasi come quegli articoli pini di pettegolezzi che si leggono in un giornaletto popolare, e che una volta letti, non si dimenticano facilmente.
Soprattutto se riesaminiamo la questione dal punto di vista privilegiato del moderno razionalismo, siamo portati ad accettare la tesi di E. R. Dodds e altri secondo cui l’”epoca della spiritualità” (come è stata definita la tarda antichità) ebbe la sua genesi nell’incertezza dominante nel terzo secolo; e, in altre parole, che la gente si rivolse alla religione, e forse in modo particolare al cristianesimo, nel tentativo di sfuggire alle disgrazie presenti o per farsene una ragione.
Gli imperatori responsabili di persecuzioni, come Decio, Valeriano e Diocleziano, certamente credevano chela sicurezza dell’impero fosse messa in pericolo perché si trascuravano gli dèi e, perciò, fosse necessario richiamare alla disciplina quei gruppi, come i cristiani, che avevano deviato dalle regole.
Nello stesso modo, Costantino credette di aver ricevuto personalmente da Dio l’incarico di garantire la corretta applicazione delle norme divine.
Ma una cosa è supporre un generale collegamento tra la religione e il desiderio della gente di trovare conforto, rassicurazione e una spiegazione delle proprie sofferenze; un’altra cosa è invece immaginare che le epoche di difficoltà producano sempre dei movimenti religiosi o, capovolgendo il concetto, che lo sviluppo della religione possa essere sempre spiegato in connessione con un quadro sociale negativo.
Che la tarda antichità fosse un’epoca di maggiore spiritualità rispetto alle epoche che l’avevano preceduta è attualmente messo in questione; si tratta di un’ipotesi che tende ad essere formulata insieme all’idea che il paganesimo avesse perduto credibilità o subito un certo declino e che il cristianesimo prendesse piede per colmare questo vuoto.
Ma questo modo di vedere che è influenzato dalla prospettiva cristiana non si accorda con gli studi recenti che documentano per l ‘alto impero una vita religiosa molto intensa e composta da fedi diverse.
Solo attraverso un’analisi di ampio respiro si possono individuare le ragioni della crescita della Chiesa cristiana e della diffusione del cristianesimo, non con il semplice ricorso ad un presunto declino del paganesimo.
La cristianizzazione, e le profonde ripercussioni provocate dall’adesione di Costantino al cristianesimo sull’impero e sulla società, costituiscono uno degli elementi che differenziano la tarda antichità dall’alto impero.
Ma ve ne sono molti altri, tra i quali meritano un posto particolare la serie di riforme e i cambiamenti amministrativi, economici e militari che si verificarono nel corso dei circa cinquant’anni (284-337 d. C.) in cui ragnarono Diocleziano e Costantino.
Sebbene vi fossero, naturalmente, notevoli differenze tra i regni dei due imperatori, che sono vividamente riflesse nella documentazione a nostra disposizione, dovremmo tentare di inserirli anche in un’ampia visione d’insieme in modo da considerare il loro cinquantennio come un periodo du ripresa e di consolidamento in contrapposizione con il precedente cinquantennio, che fu definito da Rostovzev come un’”età di anarchia”.
Tuttavia, contrariamente all’enfasi posta tradizionalmente dagli studiosi sul ruolo svolto da Diocleziano e Costantino, il successo nel normalizzare la situazione non fu dovuto tanto alla loro personalità quanto piuttosto ad una combinazione e convergenza di fattori da cui, un po’ alla volta e in risposta a specifiche convergenze, scaturirono molte delle loro “riforme”.
Visti in questa luce, gli anni intorno alla metà del terzo secolo somigliano meno a un periodo di crisi da cui l’impero fu strappato a forza grazie agli sforzi di un imperatore forte e perfino solitario 8Diocleziano è spesso definito come “despota orientale” per aver adottato un complicato cerimoniale di corte di stile persiano) e sembrano più simili ad una fase temporanea di un sistema imperiale in evoluzione
Cap. 1. Le fonti
Non tento nemmeno, a questo punto, di descrivere o di fornire una valutazione delle fonti archeologiche e della documentazione visiva di quest’epoca.
Ciò è in parte dovuto al fatto che sono talmente vaste che non si potrebbero neppure riassumere suddividendole per argomenti.
Ma l’altra ragione è che oggi sarebbe semplicemente impossibile scrivere una storia di questo periodo senza fare costante riferimento alla documentazione archeologica e figurativa.
Mentre Jones poteva basarsi su una conoscenza esaustiva delle fonti letterarie e documentarie, negli ultimi venticinque anni il campo di indagine sul tema si è enormemente ampliato.
Gli archeologi si sono occupati di questo periodo in misura sempre crescente, specialmente dopo i progressi del sistema di datazione della ceramica tardoromana; l’interesse generale per la storia urbana di tutte le epoche ha spostato l’attenzione prevalentemente sull’abbondante materiale disponibile per le città tardoromane; e, infine, in seguito al calo di interesse per la storia politica e narrativa, la maggior parte degli storici sono diventati sempre più consapevoli della necessità di usare la documentazione materiale oltre che le fonti letterarie.
Per quanto riguarda le arti visive, due fattori hanno favorito una loro più stretta connessione con i dati delle fonti letterarie e documentarie; in primo luogo, una più accentuata volontà di utilizzare le fonti cristiane, ivi compresa l’arte cristiana e, in secondo luogo, gli effetti di una tendenza riscontrabile per altri periodi della storia antica, forse sviluppatasi grazie ai confronti con l’epoca moderna, a dare rilievo al contesto visivo e al potere delle immagini in quanto strumenti di comunicazione.
Per ricapitolare, se i principali autori sono ovviamente ancora gli stessi, e tuttavia in molti casi sono stati riesaminati sotto un’ottica diversa, è l’ambito della ricerca ad essersi, viceversa, enormemente ampliato.
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Cap. 2. Il nuovo impero: Diocleziano
Nel periodo che intercorre tra l’ascesa al potere di Diocleziano nel 284 d. C. e la morte di Costantino nel 337 d. C. la situazione confusa determinatasi intorno alla metà del terzo secolo fu ripresa sotto controllo e l’impero attraversò una fase di recupero e di consolidamento, in cui si verificarono importanti cambiamenti sociali e amministrativi.
In pratica, fu messo a punto quel sistema di governo che si sarebbe affermato in Oriente fino agli inizi del settimo secolo e, sebbene con minore successo, in Occidente fino alla caduta di questa parte dell’impero nel 476 d. C.
E’ naturale che i meriti di questi risultati vengano attribuiti principalmente ai due forti imperatori che regnarono nei cinquantatré anni che formano questo periodo, soprattutto perché anche le fonti antiche seguivano questa tendenza; ma bisogna ricordare che questo processo fu assai meno il risultato di un preciso piano programmatico e assai più un susseguirsi frammentato di eventi di quanto non ci possa far pensare, a posteriori, il suo esito.
Occorre soprattutto prudenza di fronte alla tendenza delle fonti e dare una distinzione troppo netta tra Diocleziano e Costantino a causa delle loro differenze religiose e di fronte ai condizionamenti che tale distinzione ha provocato nella valutazione della politica anche non religiosa dei due imperatori.
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Qualsiasi giudizio sulla natura delle riforme di Diocleziano è reso difficile da due fattori: lo stato insoddisfacente delle fonti letterarie a nostra disposizione relative al suo regno e il fatto che molti singoli cambiamenti si manifestarono in un secondo momento o ci sono attestati solo più tardi.
Un altro problema è causato dall’esagerato contrasto tra Diocleziano e Costantino messo in rilievo dalle fonti; la tendenza della politica non religiosa di Costantino, e perfino alcuni aspetti di quella religiosa, dovrebbero essere visti piuttosto come quelli che portarono avanti le linee generali della politica dioclezianea.
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Non c’era solo questo: in teoria, anche la somma da pagare doveva essere messa in rapporto con quanto si produceva a livello locale.
Tutti questi dati venivano calcolati attraverso un censimento regolare, organizzato per periodi quinquennali, noti come indizioni, a partire dal 287 d. C.
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Così come fallì il tentativo di Diocleziano di introdurre un controllo dei prezzi, fallirono anche le misure ad esso collegate volte a riformare il sistema monetario.
Entrambi i tentativi abortirono perché erano imposti dall’alto, senza un’adeguata comprensione ed una verifica delle condizioni generali che di fatto causavano tali difficoltà.
La terminologia adoperata da Lattanzio rivela una diffusa incomprensione dei fatti economici (della “razionalità economica”), che condizionava pesantemente la capacità degli imperatori del quarto secolo di gestire in una qualche maniera effettiva l’economia.
I provvedimenti di Diocleziano furono di gran lunga più aderenti alle necessità del momento di quanto lo fossero stati quelli dei suoi predecessori e, in qualche misura, furono portati avanti da Costantino, ma per descriverli non possiamo fare ricorso a concetti moderni come “economia diretta” o “Stato totalitario”, altrimenti rischiamo di confondere le intenzioni con la realtà.
Piuttosto, sarebbe il caso di interpretare le minacce rivolte dai governatori le minacce rivolte dai governatori provinciali contro gli esattori delle imposte che mancavano di assolvere al proprio compito come il sintomo di una concreta debolezza del potere centrale.
Pag. 55
Vi sono molti problemi che limitano la nostra comprensione del sistema amministrativo tardoromano, che mantenne un difficile equilibrio tra burocrazia e patronato; in particolare, il numero di coloro che ne facevano parte e che, di fatto, erano sottratti alla base produttiva e dovevano, invece, essere mantenuti (“le bocche da sfamare”, per usare l’espressione di Jones) è stato spesso visto come il principale fattore del declino economico.
Tali questioni sono discusse più avanti nel capitolo quarto; intanto, possiamo notare che il sistema – così coem noi lo conosciamo nella sua forma più tarda – non si formò completamente sotto Diocleziano, sebbene a questo imperatore venga rimproverato di aver creato una burocrazia troppo numerosa, nello stesso modo in cui egli è criticato per aver accresciuto talmente l’esercito da renderne impossibile per l’impero il mantenimento.
Pag. 58
Diocleziano rispettò fedelmente il suo progetto: il primo maggio del 305 d. C. abdicò con il suo collega Massimiano, si ritirò nel suo palazzo di Spalato e, da quel momento, rifiutò di ritornare alla vita politica.
Lattanzio, che intendeva trovare per lui una morte esemplare a causa della sua persecuzione, sostiene che si lasciò morire di fame nel 311 o 312 d. C. (De mortibus persecutorum, 42), ma secondo altre fonti visse più a lungo.
Diocleziano non aveva eredi diretti e la tetrarchia sopravvisse per poco tempo dopo il suo ritiro.
Costantino successe a suo padre Costanzo nel 306 d. C., si assicurò la posizione di Augusto attraverso l’alleanza con Massimiano nel 307 d. C. e si mise subito all’opera per eliminare i suoi rivali.
Una delle vittime fu lo stesso Massimiano (310 d. C.) e successivamente sconfisse il figlio di Massimiano, Massenzio, nel 312 d. C.
Una volta divenuto unico imperatore, Costantino diede avvio a grandi cambiamenti che hanno spinto sia gli osservatori del tempo sia gli storici moderni a sottolineare un forte contrasto tra lui e Diocleziano; ma fu egli stesso un prodotto della tetrarchia e, per molti versi, un erede di Diocleziano – molti dei progressi in campo sociale, amministrativo ed economico verificatisi sotto il suo regno rappresentano semplicemente la logica conclusione delle innovazioni introdotte da Diocleziano.
Pag. 64
Cap. 3. Il nuovo impero: Costantino
Il giudizio sulla figura di Costantino risente, più ancora di quello su Diocleziano, dei pregiudizi che hanno condizionato i commentatori sia antichi che moderni.
Il problema è incentrato sul suo riconoscimento del cristianesimo, che ha cambiato radicalmente le sorti della Chiesa cristiana e, con buone probabilità, ne ha determinato gli sviluppi della sua storia futura come religione universale.
Eusebio di Cesarea, che è la nostra principale fonte contemporanea, fu l’autore di una Storia ecclesiastica – che finì per diventare un’esaltazione della gloria di Costantino – e più tardi divenne il panegirista dell’imperatore nella sua Vita di Costantino.
Anche Lattanzio traccia una netta distinzione tra il virtuoso Costantino e il perverso Diocleziano, sebbene almeno nel suo caso – siccome la data del trattatello De mortibus persecutorum precede comunque la vittoria di Costantino su Licinio nel 324 d. C. – sia almeno riservato a Licinio un trattamento pari a quello di Costantino.
I Panegirici Latini relativi a Costantino naturalmente gli attribuiscono grandi meriti e il materiale storico è presentato con questa funzione.
Per gli aspetti non religiosi del suo regno, dipendiamo purtroppo in buona parte dalla Storia nuova di Zosimo, la quale non solo soffre dei medesimi pregiudizi (sebbene di segno opposto), ma contiene anche ingenue forzature.
Per quanto riguarda le testimonianze di tipo documentario, gran parte delle informazioni sono contenute solo nella Vita di Costantino di Eusebio e sono, quindi, da usare con molta cautela (cfr. cap. 1).
Infine, nonostante oggi generalmente si creda all’autenticità delle lettere imperiali conservate nell’Appendice alla storia della controversia donatista di Ottato (e, in questo caso, sarebbero molto utili per rivelare la mentalità stessa di Costantino), bisogna pur sempre ricordare che esse sono state preservate in un ambiente cattolico e presentano il punti di vista di una sola delle due parti del conflitto.
Pag. 65-66
Prima però di passare a parlare del rapporto tra Costantino e il cristianesimo, è necessario mettere in risalto quali e quanti furono gli aspetti di continuità tra questo periodo e il precedente.
Sulle scelte di Costantino in materia di politica non religiosa siamo male informati; anche in questo campo abbiamo a disposizione un maggior numero di fonti per il periodo che va dal 234 al 337 d. C.
Come si è visto, per quanto riguarda l’aspetto militare Costantino fu oggetto di rimproveri da parte degli autori pagani, in particolare da Zosimo (2., 34), per aver indebolito la difesa delle frontiere con il trasferimento di alcune truppe da utilizzare nell’esercito mobile.
Chiaramente le necessità militari degli anni 306-324 d. C. richiedevano un consolidamento delle forze di manovra mobili, ma in realtà non si trattava di una innovazione.
Anche per altri versi, ad esempio riguardo all’idea di una campagna persiana che egli carezzò negli ultimi anni della sua vita, Costantino aveva dei precedenti.
Continuò e poi consolidò il riordinamento delle province e quello amministrativo intrapresi da Diocleziano, con l’importante novità che ai prefetti del pretorio furono tolte le funzioni militari.
Si è molto discusso sulle ragioni – e sui particolari – di questa decisione, che fu presa solo verso la fine del suo regno; essa probabilmente è dovuta all’assegnazione di parti di territorio ai rimanenti figli di Costantino e ai due figli dei fratellastri nel 335 d. C., ma in ogni caso è perfettamente in linea con le riforme di Diocleziano.
Similmente, il nuovo ministro responsabile del tesoro, il comes sacrarum largitionum (letteralmente “conte delle sacre largizioni”), è attestato per la prima volta solo nell’ultima parte del regno e, probabilmente, la sua creazione è legata analogamente a motivi di opportunità.
L’inflazione andò avanti sotto Costantino esattamente come accadeva prima.
Egli riuscì ad emettere una nuova moneta d’oro, il solidus, che non fu più svalutata e rimase inalterata fino al periodo bizantino inoltrato; tuttavia, ciò non è indicativo di una politica economica sostanzialmente nuova, quanto del fatto che aveva a sua disposizione l’oro necessario.
In parte esso proveniva dai tesori dei templi pagani, che – come riferisce Eusebio – furono confiscati, ma derivava anche dalla nuove tasse in oro e in argento che furono imposte ai senatori (il follis) e ai mercanti (il chrysarfyron, “tassa in oro e in argento”).
Pag. 71-72
Il Concilio di Nicea del 325 d. C. fu nel complesso un evento molto significativo e venne in seguito registrato come il primo dei sette Concili ecumenici riconosciuti dalla Chiesa (il settimo ed ultimo si tenne anch’esso a Nicea nel 787 d. C.).
Il concilio non si occupò di uno scisma locale, ma di un importante problema dottrinale, la definizione del rapporto tra Dio Padre e il Figlio.
Molti vescovi, compreso Eusebio di Cesarea, si schierarono dalla parte di Ario, un prete di Alessandria, secondo il quale il Figlio doveva essere secondario al Padre, ma la discussione fu molto accesa; contrasti restarono anche sulla data corretta per la celebrazione della Pasqua, per la quale vi era discordanza tra la Chiesa di Antiochia e quella di Alessandria.
Costantino si era ormai reso conto che l’unità della Chiesa era un presupposto essenziale dell’impero cristiano che il suo panegirista Eusebio esalta come un ideale nell’Orazione dei Tricennalia e nella Vita di Costantino; negli anni successivi si prodigò per tentare di realizzarla.
In realtà i problemi erano troppo complicati per potersi prestare ad una rapida soluzione.
La conclusione apparentemente trionfale del Concilio di Nicea, dove Eusebio aveva rinnegato i propri principi e aveva firmato il documento, mentre altri – compreso Ario – che ancora si rifiutavano di farlo furono mandati in esilio, produsse un credo che da allora è rimasto sostanzialmente immutato all’interno della Chiesa; non molto tempo dopo, però, Ario venne riabilitato e i vincitori stessi di Nicea si sentirono in pericolo.
Il capo di questi era Atanasio, che era diventato vescovo di Alessandria solo nel 328 d. C., ma aveva partecipato a Nicea come Diacono.
Esiliato nel 335 d. C., dovette subire questo destino varie volte durante la generazione successiva in quanto principale oppositore dell’arianesimo, dal momenti che gli stessi figli di Costantino erano simpatizzanti per le idee di Ario.
Gli scritti polemici di Atanasio sono una fonte importante, sebbene difficile, per la ricostruzione di questa controversia.
Pag. 79-80
Si sostiene comunemente, ma a torto, che con la fondazione di Costantinopoli Costantino avesse stabilito di spostare la capitale in Oriente ed, effettivamente, questa città diventò più tardi la capitale dell’Impero bizantino.
Ma, nonostante mantenesse ancora il suo prestigio, Roma aveva da tempo cominciato a perdere la sua prerogativa di residenza imperiale ed era stata sostituita in questa funzione da centri come Treviri e Milano; la città fondata da Costantino, con il suo palazzo e l’annesso ippodromo, aveva tutte le caratteristiche di un’altra capitale tetrarchica.
Solo verso la fase conclusiva del quarto secolo, Costantinopoli iniziò quel processo di trasformazione che l’avrebbe condotta a diventare, alla fine del sesto secolo, una città di mezzo milione di abitanti.
Certamente Costantino volle darle un buon avvio, adornandola di opere famose di scultura come Zeus Olimpio, la colonna a forma di serpente di Delfi e la statua di Atena Promachos; c’era anche una grande strada principale (la Mese) e un foro di forma ovale dove si trovava uan statua dell’imperatore collocata in cima ad una colonna di porfido.
Assegnò alla città onori particolari, come il titolo di “Nuova Roma” e un proprio Senato, anche se i suoi senatori dovevano essere designati come clari, invece che con il normale appellativo di clarissimi (Anon. Vales. 6, 30).
I suoi detrattori, come Zosimo, lo accusarono di avere costruito edifici poco solidi e di aver sperperato tutte le sostanze dell’impero per la nuova città.
Eusebio, da parte sua, sostiene che al suo interno non si lasciò spazio ad alcuna parvenza di paganesimo, ma non si trattava certamente di quella città cristiana che egli vuol far credere o che anche i moderni spesso immaginano: il suo principale monumento cristiano era il mausoleo dello stesso Costantino.
E’ possibile che la prima chiesa di Santa Sofia sia stata cominciata da Costantino, coem vuole una più tarda tradizione, ma non troviamo la notizia in Eusebio; sorpresa desta anche il fatto che nella città restino poche tracce di chiese di epoca costantiniana – Zosimo addirittura sostiene che furono dedicati due nuovi templi a Rea e alla Fortuna.
Ma, nonostante la tendenziosità delle fonti più antiche e il groviglio delle tradizioni più tarde su Costantinopoli rendano estremamente difficile la comprensione dell’intera questione relativa alla fondazione da parte di Costantino, non ci sono dubbi sull’importanza dei suoi effetti sulla lunga durata o sul fatto che alla città Costantino fosse particolarmente affezionato; dopo la sua dedicatio, l’11 maggio 330 d. C., fino alla sua morte nel 337 d. C., vi trascorse la maggior parte del proprio tempo.
Roma non fu degradata – coem si è visto, senatori romani continuano ad essere attestati come titolari di alti uffici in questi anni, ed appaiono desiderosi di essere considerati parte del potere centrale, malgrado esso fosse ormai cristiano -, ma non era più il centro in cui l’imperatore risiedeva con la sua corte, e ciò avrebbe profondamente influenzato la sua evoluzione nel corso del quarto secolo.
Pag. 83-84
Cap. 4. Chiesa e Stato: l’eredità di Costantino
E’ incerto se Costantino sia stato cosciente delle conseguenze che a lungo termine avrebbero provocato i provvedimenti da lui presi nei confronti della Chiesa cristiana nell’inverno tra il 312 ed il 313 d. C.
La dispensa per il clero dai doveri curiali deve essere sembrata perfettamente in armonia con la tradizione dei favori imperiali nei riguardi di gruppi privilegiati, compresi i sacerdoti pagani; Costantino non doveva sapere che i cristiani stessi erano divisi in merito alla legittimità di una parte del loro clero o che i seguaci di Donato sarebbero stato così ostinati nella loro resistenza alle opinioni da lui tanto chiaramente espresse.
La sua corrispondenza sulla controversia donatista nell’arco di quasi un decennio ce lo mostra a partire dalla sorpresa ed ansietà iniziali per arrivare, attraverso l’indignazione e l’incredulità, ad una dolorosa rassegnazione; l’ultima sua lettera nella raccolta di Ottato, che si data al 330 d. C., costituisce un tentativo artificioso e poco convincente di persuadere gli insoddisfatti cattolici del Nord Africa ad essere pazienti e contiene l’invito a non attendere una soluzione imperiale e a rimettere la questione al giudizio divino.
Lo scisma donatista nel Nord Arica continuò per tutto il quarto secolo e costituiva una seria divisione nella Chiesa africana ancora ai tempi di Agostino, quando furono adottate severe misure repressive dal Concilio di Cartagine del 411 d. C.
La tattica di Costantino di mescolare la diplomazia alle minacce non aveva ottenuto nulla ed egli aveva provato l’amarezza causata dalle difficoltà che avrebbero incontrato anche i suoi successori nel tentativo di superare le divisioni all’interno della comunità cristiana.
Pag. 87
Il rapporto tra imperatore e Chiesa, pur destinato ad assumere cruciale importanza, non è di facile definizione.
Il termine “cesaropapismo” è spesso usato per definire il controllo imperiale sulla Chiesa, che alcuni studiosi moderni fanno risalire a Costantino.
In realtà, i fatti erano molto più complessi: la situazione dipendeva tanto dalla personalità dell’imperatore in questione, quanto dall’identità dei capi della Chiesa di quel dato momento.
L’imperatore non controllava la Chiesa in alcuna forma giuridica o costituzionale e tanto meno ne era il capo.
Perfino nel periodo bizantino l’imperatore, di norma, non nominava il patriarca di Costantinopoli e gli imperatori bizantini che assumevano un comportamento impopolare su specifiche questioni facilmente trovavano forti resistenze da parte della gerarchia ecclesiastica.
Nel quarto secolo, inoltre, mentre veniva riconosciuto il diritto di Roma a rivendicare la sua maggiore antichità come centro cristiano, la Chiesa era divisa in diocesi che per tradizione erano tra loro rivali.
Il Papato, come lo conosciamo per l’epoca successiva, è stata una creazione solo del primo Medioevo – e del tempo di Gregorio magno (590-604 d. C.) in particolare -, mentre in Oriente i vescovati di Costantinopoli e Gerusalemme giunsero a rivaleggiare con quelli di Antiochia ed Alessandria solo in conseguenza del patronato di Costantino su entrambe le città.
La superiorità dei vescovi di Gerusalemme, anzi, non fu subito accettata a Cesarea, la diocesi metropolitana che già c’era in Palestina, e la loro rivalità è evidentissima sotto la reggenza del potente vescovo Cirillo di Gerusalemme (349-386 circa).
Il Concilio di Nicea del 325 d. C. rappresentò un vero e proprio spartiacque.
Per la prima volta ci si sforzò di riunire insieme tutti i vescovi e si chiarì che i risultati del consilio andavano considerati universalmente vincolanti.
Il ruolo di Costantino fu ambiguo: egli partecipò a tutte le sedute e la sua apparizione nelle vesti di imperatore dovette grandemente impressionare la maggior parte dei vescovi, ma fu molto attento a rimettersi al loro giudizio.
Sebbene egli avesse manifestato chiaramente quale fosse la formula da lui preferita, voleva, evidentemente, che la decisione finale fosse presa a maggioranza e preferibilmente all’unanimità.
Ma questo non gli riuscì completamente: i pochi che ancora resistevano vennero esiliati, una sentenza imperiale più che ecclesiastica.
Ma la posizione adottata da Costantino prestava il fianco, e lo stessi fu per i suoi successori, alla pressione di vescovi influenti – come poteva l’imperatore scegliere la propria strada nel groviglio delle opinioni?
Inoltre, sebbene non vi sia alcun dubbio sulla consapevolezza della propria missione da parte di Costantino, il ritratto che abbiamo di lui lo dobbiamo in larga parte ad Eusebio di Cesarea, che era, da parte sua, estremamente desideroso di portare avanti l’idea di stretti rapporti tra impero e Chiesa.
Nella sua Orazione dei Tricennalia (336 d. C.) egli pone le fondamenta di buona parte della teoria politica cristiana successiva, dando un’interpretazione cristiana delle concezioni ellenistiche e romane sui rapporti tra il sovrano terreno e Dio .
Secondo Eusebio, l’imperatore cristiano rappresentava Dio sulla terra ed il regno terreno era un microcosmo, o un’imitazione, di quello celeste.
Tali opinioni ebbero un’enorme influenza e formarono la base della teoria politica per tutto il periodo bizantino; ma esse suggerivano anche l’idea che il Regno di Dio fosse già stato realizzato, cosicché da allora si poteva per sempre sperare in una felicità ininterrotta – un’idea ovviamente errata, di cui in seguito Agostino dové spiegare la fallacia.
Esse, inoltre, comportavano una pericolosa conseguenza, e cioè che essendo il primo dovere dell’imperatore individuato nella “pietà”, egli doveva cercare di metterla in atto nel suo regno con ogni mezzo, una potenziale giustificazione della persecuzione religiosa che anche Agostino raccolse e difese.
I pagani non erano stati, finora, oggetto di un’effettiva persecuzione – dopo tutto, essi costituivano le grande maggioranza della popolazione -, ma quei cristiani le cui opinioni religiose erano giudicate in contrasto con la linea ufficiale (sempre definita come “ortodossia”) furono ben presto soggetti a severe misure.
Il donatismo, almeno, era limitato geograficamente e, in teoria, controllabile.
Non altrettanto si può dire dell’arianesimo, un termine che maschera un fenomeno ben più complesso e difficile, destinato a causare grossi problemi per molto più lungo tempo.
Diversamente dal donatismo, che è più propriamente uno “scisma”, implicando una divisione ma non una differenza dottrinale, l’”arianesimo” era classificato come “eresia”, una dottrina errata.
Paradossalmente, il Concilio di Nicea, con il quale Costantino cercò di risolvere quelle che forse gli erano sembrate differenze di poco conto, in pratica dette il via ad un processo di ricerca di una definizione da dare alla giusta dottrina; processo che fu causa di infiniti problemi e costituì per secoli la preoccupazione della Chiesa e dello Stato.
Il termine greco hairesis (“scelta”) era, in origine, del tutto neutro, indicando semplicemente una serie di dottrine o pratiche.
Ora, tuttavia, le “eresie”, le dottrine devianti, furono catalogate e demonizzate, man mano che la Chiesa andò assumendo un ruolo sempre più autoritario nel definire che cosa dovesse essere considerato giusto e meno.
Coinvolti in prima persona, gli imperatori avevano il compito di cercare di riconciliare gli individui ed i gruppi di opposizione.
Pag. 88-91
Tutti gli imperatori del quarto secolo sostennero il cristianesimo, con la sola eccezione di Giuliano, il quale cercò di dar vita ad un’alternativa pagana (361-363 d. C., cfr. cap. 5), e la loro protezione costituì senza dubbio il fattore più importante nella crescita dell’importanza della Chiesa.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, i tentativi di bandire o di perseguitare il paganesimo furono l’eccezione e non la regola.
Eusebio dice che lo stesso Costantino promulgò una legge che proibiva i sacrifici e, mentre la legge stessa non ci è pervenuta, una legge simile di Costanzo fa ad essa riferimento.
Pag. 96
I sussidi per i sacerdoti ed il culto pagani furono ritirati e gli anni successivi videro la distruzione dei templi e violenti scontri tra pagani e cristiani in numerose province.
Alcuni vescovi cristiani, tra i quali Giovanni Crisostomo ed Agostino, trassero grande vantaggio dalla situazione per sollecitare, o almeno per raccomandare, le violenze dei cristiani; l’imperatore d’Oriente, Arcadio, che con suo fratello Onorio era successo al padre Teodosio nel 395 d. C., cercò di limitare questi casi di azione di massa.
Bande di monaci (cfr. cap. 7.) erano in prima linea tra i cristiani che attaccavano templi o statue pagane, e l’ostilità mostrata nei loro confronti da un certo numero di autori pagani, tra i quali Libanio e Eunapio, non ci sorprende affatto.
Nello stesso periodo vediamo anche segni di una crescente ostilità cristiana verso gli ebrei, espressa non solo nelle prediche cristiane, soprattutto quelle di Giovanni Crisostomo, ma anche nella legislazione.
Il giudaismo non era proibito in quanto tale; al contrario, gli imperatori cristiani legiferarono per frenare gli attacchi alle sinagoghe da parte dei cristiani del luogo (CTh. 16., 8, 9, 393 d. C.; 16., 8,2,423 d. C.).
Ma i cristiani che si convertivano al giudaismo perdevano le loro proprietà, mentre gli stessi ebrei furono banditi dal servizio imperiale, dalla pratica dell’avvocatura e, nel 438 d. C., da tutti gli honores e dignitates.
La grande comunità ebraica in Giudea, con base in Galilea, era guidata dal patriarca ebraico e ci è rimasta una cospicua corrispondenza tra Libanio e il preposto a quell’ufficio in quel periodo.
Prospere e importanti comunità ebraiche esistettero anche in molte città dell’Impero, delle quali Antiochia ed Apamea in Siria sono buoni esempi.
Misure come quelle prescritte nella legislazione della fine del quarto secolo non si possono definire come persecuzioni su vasta scala.
Le omelie di Giovanni Crisostomo contro gli ebrei rivelano, per la verità, una situazione in cui molti cristiani sembrano effettivamente essere stati attratti dal culto ebraico.
Ma gli stessi sermoni, insieme ad altri accenni presenti nella letteratura cristiana, testimoniano la crescente intolleranza della Chiesa e il suo desiderio di porre fine ad una tale promiscuità tra le comunità.
Pag. 98-99
A livello intellettuale, come vedremo nel prossimo capitolo, l’alternativa più seria al cristianesimo era il neoplatonismo.
Questa versione tardoantica e più spiritualizzata della filosofia platonica era associata, in particolare, con il filosofo del terzo secolo Plotino e con il suo discepolo Porfirio (autore di un attacco al cristianesimo che fu ufficialmente distrutto); questo sistema attrasse profondamente Agostino.
Come i manichei, seguaci di mani, il maestro del terzo secolo, i neoplatonici erano asceti; essi citavano Pitagora, il filosofo greco del sesto secolo a. C., il quale insegnava che la saggezza si otteneva con l’astinenza.
Pag. 102-3
L’altro capolavoro di Agostino, La Città di Dio, scritta verso la fine della sua vita, tra il sacco di Roma da parte del Visigoti Alarico nel 410 d. C. e la sua morte nel 430 d. C., costituisce un’impegnata discussione sui rapporti tra affari religiosi e secolari e, in particolare, tra Chiesa e Stato.
Non a caso la prima metà della lunga opera è una trattazione del pensiero di alcuni autori classici latini, Sallustio e Cicerone in particolare.
Essi erano, dopo tutto, gli scrittori sulle cui opere Agostino stesso si era formato come maestro di retorica; ai fini del proprio progetto per Agostino era essenziale poter dimostrare l’inadeguatezza del loro pensiero a paragone dell’insegnamento cristiano.
Ciò che mancava, secondo lui, nella precedente storia di Roma, e soprattutto nella Repubblica, nonostante i successi militari, era la giustizia, che comportava il giusto riconoscimento del divino; al contrario, lo Stato romano era basato soltanto sulla ricerca della gloria (Civ. Dei, 19., 21-4)
I pagani dell’epoca potevano replicare che il sacco di Roma dimostrava che il Dio cristiano, dopotutto, non proteggeva il suo regno, come sostenevano i cristiani; e tuttavia la loro storia, egli rispondeva, non era stata quasi altro che una serie di disastri, mentre il regno cristiano non doveva ancora essere eguagliato al Regno dei Cieli ed era ancora nel suo periodo di prova.
Questa era una visione meni ottimistica di quella di Eusebio di Cesarea, con il suo entusiasmo per Costantino; si aggiunge una maggiore asprezza per il fatto che Agostino compose la sua grande opera alla vigilia dell’invasione e della riuscita conquista della propria provincia del Nord Africa da parte dei vandali ariani.
Laggiù, il periodo di prova per i cattolici come lui doveva durare un secolo e doveva essere seguito, quando Costantinopoli la riconquistò nel 533-534 d. C., da un ulteriore divisione dottrinale, questa volta imposta da un imperatore d’Oriente nel nome dell’unità della Chiesa.
Pag. 106-7
Cap. 5. Il regno di Giuliano
Giuliano (361-363 d. C.) era il figlio più giovane di Giulio Costanzo, uno dei fratellastri di Costantino assassinati dall’esercito a favore dei figli di Costantino nei mesi successivi alla sua morte nel maggio del 337 d. C.
Soltanto Giuliano e suo fratello maggiore Gallo scamparono al massacri e furono lasciati in vita; a quel tempo Giuliano aveva soltanto sei anni circa.
Dei tre figli di Costantino che si divisero l’impero quando diventarono Augusti il 9 novembre 337, Costantino 2. fu ucciso nel 340, mentre cercava di invadere il territorio del fratello Costante nel Nord Italia, e Costante stesso, lasciato a capo dell’Occidente, fu ucciso da uan congiura di palazzo nel 350.
Così Costanzo 2. rimase unico imperatore e senza un erede.
Quando partì per vendicare l’assassinio di suo fratello contro Magnenzio, l’ufficiale dell’esercito che era stato responsabile delle morte di Costante, e che ora si rifiutava di venire a patti, Costanzo fece Gallo Cesare e gli affidò l’Oriente.
Magnenzio venne infine sconfitto in Gallia nel 353 d. C., lasciando Costanzo unico ed incontrastato imperatore.
Pag. 109
Le caratteristiche ed il vigore di storico che Ammiano e, in particolare, la sua ammirazione per Giuliano, nel cui esercito servì come ufficiale, influenzano inevitabilmente la nostra percezione dell’intero racconto delle vicende che seguono, ma per fortuna, pur essendo di gran lunga lo scrittore più importante, non è la nostra unica fonte e può spesso essere integrato con opinioni differenti.
Abbiamo, per esempio, gli scritti dello stesso Giuliano, che ci mostrano un aspetto dell’imperatore su cui Ammiano non insiste, e quelli degli scrittori cristiani i quali, anche se pervenuti contro Giuliano, sono particolarmente importanti.
Pur essendo pagano, Ammiano non riteneva che la religione dovesse occupare il ruolo centrale nella sua opera, riconoscendo la priorità degli altri aspetti.
La sua più tradizionale attenzione per gli eventi politici e militari significa, peraltro, che la sua storia ci offre il quadro di gran lunga migliore dell’esercito tardoromano in azione.
I libri successivi sono alquanto diversi; a differenza della precedente narrazione, essi si concentrano si Roma e sono estremamente importanti per comprendere la classe senatoria tardoromana (cfr. cap. 9.).
Infine, la sua storia è piena di istruttive digressioni su tutti gli argomenti, che, oltre a fornire certi dettagli curiosi, alcuni relativi ai lunghi viaggi di Ammiano, ci consentono di individuare qualcosa del suo modo di ragionare.
Pag. 110
Giuliano era un idealista con opinioni e aspirazioni molto condivise e che molto oltre a lui stesso sentivano con passione.
Egli sembra aver avuto, inoltre, una personalità magnetica che attirava alcuni così come respingeva altri.
Se avesse avuto senso politico come imperatore in misura tale da corrispondere alla fiducia suscitata dalla sua carriera come Cesare, le cose sarebbero apparse molto diverse.
Il quadro del carattere dell’imperatore che ci offre Ammiano dopo la sua morte (25., 4) è ricco di lodi e risparmia le critiche; egli arriva a discolpare Giuliano dell’insuccesso militare imputando le responsabilità della ripresa della guerra contro la Persia a Costantino.
Ma questa interpretazione è in contrasto con la testimonianza del suo dettagliato resoconto e le critiche di Ammiano sulla superstizione di Giuliano e sulla sua passione per i sacrifici, sebbene suonino come una sostanziale condanna, tralasciano il fatto innegabile che egli si era alienato anche la propria funzione.
Inoltre, il ritegno di Ammiano quando vengono affrontati i problemi religiosi lascia totalmente in ombra la violenza della reazione cristiana contro Giuliano, espressa da contemporanei come Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo ed Efrem Siro, il quali avevano tutte le ragioni di temere durante il suo regno che la sua politica avesse successo e di manifestare tutta la loro soddisfazione quando non ebbe buon esito.
Pochi contemporanei poterono permettersi di essere neutrali riguardo a Giuliano.
Ciò spiega perché le fonti a nostra disposizione su di lui sono in modo sproporzionato abbondanti, vista la breve durata del suo regno, e nella maggior parte dei casi estremamente tendenziose, una situazione che di per sé ha favorito lo sviluppo di romantiche opinioni moderne.
Pag. 117-18
Il mito di Giuliano aveva cominciato a formarsi quando l’imperatore era ancora vivo ed il suo breve regno lasciò un’impressione indelebile sia sui pagani che sui cristiani.
Ciò che aumenta l’intensità della sua storia non è tanto il suo interesse o la sua importanza intrinseca, quanto i sentimenti che egli ispirò negli scrittori contemporanei e in quelli successivi e la quantità di scritti che essi hanno prodotto.
Come ispiratore di Ammiano e soggetto della più drammatica e ampia sezione di quella parte della sua storia che è sopravvissuta, Giuliano acquista anche una statura maggiore di quella che effettivamente ebbe.
Con uno di quegli interrogativi impossibili della storia, ci chiediamo se sarebbe riuscito a restaurare il paganesimo qualora fosse vissuto più a lungo.
L’ironia sta nel fatto che non furono tanto le cause che egli aveva sposato, né la situazione storica contemporanea a provocare le difficoltà, quanto piuttosto il suo carattere e, in particolare, la sua indimenticabile e irritante combinazione di nobiltà d’animo ed arroganza.
Pag. 124
Cap. 6. Lo Stato romano tardoantico: da Costanzo a Teodosio
Sebbene in vari momenti diversi Augusti si siano trovati nello stesso tempo al potere, l’impero in sé non subì alcuna divisione formale nel periodo che va dalla morte di Costantino nel 337 a quella di Teodosio 1. nel 395 d. C.
Alla morte di quest’ultimo i suoi due figli, Onorio e Arcadio, ancora in giovane età, assunsero rispettivamente il controllo dell’Occidente e dell’Oriente.
Anche in questo caso, dal punto di vista costituzionale, non vi fu alcuna divisione ed il periodo tetrarchico forniva un precedente per una tale sistemazione.
La differenza principale fu che la divisione venne ora mantenuta senza interruzioni dal 395 d. C. fino a quella che è convenzionalmente considerata la fine dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d. C.
Singoli imperatori potevano subire l’autorità di un vescovo influente, come nel caso di Graziano e Teodosio con Ambrogio.
Infine, questo periodo è caratterizzato sia dalla crescente pressione delle invasioni barbariche, sia dall’uso sempre più massiccio di personale barbarico perfino nei ranghi più elevati dell’esercito romano (cfr. cap. 8.); dalla fine del quarto secolo in poi i generali di origine barbarica, tra cui uno dei primi fu il vandalo Stilicone, magister militum dotto Teodosio 1. e futuro reggente per i suoi due figli, giunsero ad avere un ruolo determinante nella politica imperiale che, nella parte occidentale dell’impero, finì per essere addirittura superiore a quello degli stessi imperatori.
Un importante fattore per spiegare la sopravvivenza dell’impero d’Oriente dopo il 476 d. C. consiste nel fatto che nella parte orientale, durante il quinto secolo, si riuscì nel complesso ad evitare una simile situazione, con gli imperatori d’Oriente che fecero affidamento su funzionari civili piuttosto che su generali.
Pag. 129
Vi era insomma un esercito di funzionari: il sistema tardoromano sembra, ad un primo sguardo, corruzione sfrenata.
Ogni cosa era in vendita, incluso l’esercizio stesso del potere.
La ricerca dei codici e le colorite storie delle fonti letterarie, non ultimo Ammiano, gettano una luce fosca sul periodo che ancora costituisce, per molti storici moderni, soltanto il preludio del declino e della caduta dell’Impero d’Occidente.
Nel secondo secolo d. C., tuttavia, il principe nordafricano Giugurta aveva rivolto la medesima critica alla società romana e, a un più attento esame, viene da chiedersi se la situazione fosse veramente così negativa come sembra.
Molti degli organi propri di uno Stato moderno erano semplicemente inesistenti: per esempio, non vi erano forze di polizia per la caccia ai criminali o per far rispettare la legge, così come non vi era un sistema organizzato per l’assistenza legale o la rappresentanza delle parti nei processi (nonostante fossero innumerevoli le leggi da osservare).
Non vi era un sistema bancario in quanto tale e la protezione della salute era affidata ai personaggi che si trovavano sulla piazza: dai medici per i pochi, ai maghi e i guaritori per la massa; nonostante lo Stato avesse maggiore riguardo per l’istruzione, i suoi benefici erano riservati ad una stretta cerchia.
Alto era il numero degli impiegati statali nel tardo impero romano: se però il loro numero viene confrontato con la percentuale di cittadini impiegati direttamente dallo Stato nelle moderne società sviluppate, esso si rivela insignificante.
Una larga fetta della popolazione non aveva alcun genere di rapporto diretto di “impiego” (lavoro salariato): o si apparteneva al gruppo dei patroni, soprattutto in qualità di ricchi proprietari terrieri, o a quello dei dipendenti (schiavi, affittuari, coloni); quest’ultimo gruppo comprendeva anche i diseredati delle città, la cui sussistenza era garantita dalle pubbliche distribuzioni o dalla carità religiosa.
L’Impero romano non differiva molto, eccetto che per la sua estensione, da altre società da altre società premoderne: le masse ricorrevano allo stesso tipo di espedienti, per lo più forme di patronato e di dipendenza, per riuscire ad aggirare i più elementari problemi di sussistenza.
Nella pratica questo sistema era accettato da tutte le componenti della società, ma alcune procedure messe in atto finirono per modificare il modello prestabilito, provocando la condanna degli imperatori.
L’orazione di Libanio, Sui sistemi di protezione, probabilmente del 301-392, si rivolge all’imperatore Teodosio affinché siano adottate da parte sua delle misure contro quegli ufficiali dell’esercito che riescono ad ottenere dai coloni di grandi villaggi denaro o pagamenti in natura in cambio di protezione, i quali, in seguito, fanno uso della protezione dei militari, da loro acquistata, per terrorizzare e sfruttare i loro vicini.
Secondo il punto di vista di Libanio, il rapporto di protezione tra il proprietario terriero e l’affittuario era da considerarsi scontato, ma una simile ingerenza da parte dell’esercito turbava lo status quo in misura intollerabile.
Nelle società con caratteristiche simili all’Impero romano tardoantico lo Stato viene considerato come un’entità distante e ostile ed è del tutto naturale che i suoi funzionari si servano di organizzazioni che estorcono denaro per la protezione, al fine di incrementare i propri guadagni.
Mutando prospettiva, però, abbiamo anche modo di notare come, nel tardo Impero romano, i ceti ricchi facessero a gara nell’esercitare il patronato diminuendo, o perché gli organi del governo non funzionavano in maniera adeguata, sembra infatti che fossero in crescita in questo periodo il bisogno di protezione, subordinazione e patronato e, con esso, le opportunità per i protettori.
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Se perfino gli Stati moderni hanno grandi difficoltà nell’escogitare sistemi di governo realmente efficienti, sarebbe anacronistico ipotizzare che gli imperatori tardoantichi o i loro ministri fossero in grado di concettualizzare i problemi del loro tempo, e assurdo supporre che essi avessero la capacità di dar corso a cambiamenti della portata che una tale concettualizzazione implicherebbe.
Il governo tardoromano tentava di gestire un vasto impero, in condizioni economiche e militari difficili, ma senza poter contare su nessuno degli strumenti che sarebbero stati necessari.
Gli imperatori avevano un ruolo religioso, morale e simbolico; rivolgevano molta attenzione alla sicurezza militare e cercavano di mantenere l’ordine: per ciascuno di questi scopi essi avevano bisogno di incamerare proventi.
Questo era quanto uno avrebbe potuto aspettarsi e fu, in molte occasioni, più di quanto si potesse veramente conseguire.
Considerate le precedenti consuetudini del mondo antico, la crescente complessità dei problemi che gli imperatori tardoantichi dovettero affrontare e la permanente carenza di un organismo governativo efficiente, ne consegue necessariamente la crescita del sistema delle protezioni con i molteplici riferimenti a forme di corruzione che noi troviamo nelle fonti: questi fenomeni, tuttavia, non sono estranei nemmeno agli Stati moderni che si ritengono sviluppati.
E’ stato perfino ipotizzato che il peggioramento delle condizioni economiche abbia provocato l’estendersi del fenomeno del patronato nel momenti in cui le classi più ricche entrarono in competizione per procurarsi ricchezza e prestigio, e i poveri ebbero un più forte bisogno di protezione.
Ma ciò vuol dire, ancora una volta, dare per scontata la “decadenza”.
Gli storici moderni, poiché sanno a posteriori che la “decadenza” incombeva, tendono a concentrare il loro interesse sulle testimonianze negative.
“Decadenza”, però, può avere parecchi significati diversi; già solo i problemi organizzativi affrontati dall’amministrazione tardoantica erano enormi: qualsiasi lettore di Ammiano può avvertire si ala radicalità della contrapposizione tra gli estremi nella società, sia la consapevolezza dei rapidi mutamenti.
Tuttavia, mentre vi può essere stata uan qualche contrazione economica (cfr. cap. 7.), nessuno potrebbe figurarsi, attraverso Ammiano, che questa fosse una società in grave decadenza.
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Ad un primo sguardo, l’immagine della situazione che, in termini di libertà individuale, sembrano offrire le leggi che limitano la libertà di movimento è fosca.
Ancora una volta, comunque, viene da chiedersi se le cose fossero nei fatti veramente molto diverse da come lo erano state nel periodo imperiale precedente.
Infatti, immaginare l’esistenza di una sensibilità verso principi moderni quali i diritti umani sarebbe qualcosa di assolutamente anacronistico.
Né si può parlare di qualcosa che si avvicini vagamente alla nostra idea di democrazia: G. E. M. de Ste Croix, infatti, ha pienamente ragione a considerare la storia dell’Impero romano in termini di progressivo autoritarismo.
Per un altro verso, invece, i pasticci e l’inettitudine del governo e della legislazione tardoantica lasciavano aperte molte scappatoie: la massa delle fonti non giuridiche sembra indicare che l’esistenza di leggi, nei fatti, non facesse molta differenza.
Il problema, pertanto, può darsi che stia più nell’interpretazione della legislazione tardoromana, che non in ciò che di fatto poi avveniva.
Come anche per ciò che attiene le questioni relative alle leggi sul matrimonio, la dote e l’eredità (cfr. cap. 7.), sapere come si debbano valutare gli effetti pratici e la rispondenza alle situazioni reali di tale massa di provvedimenti legislativi spesso in conflitto tra loro e, di certo, frequentemente modificati, è uno dei problemi più difficili che gli studiosi di questo periodo storico sono costretti ad affrontare.
La politica degli imperatori del tardo quarto secolo rappresenta, in sostanza, la continuazione ed elaborazione del sistema creato da Diocleziano e Costantino.
Lo Stato romano della fine del quarto secolo differiva da quello del periodo precedente per quanto riguarda la sua spontanea evoluzione o il mutamento di fattori esterni, piuttosto che in conseguenza di un qualche importante mutamento di indirizzo.
Tra le trasformazioni più ovvie che un conservatore avrebbe notato ve ne sono due di cui abbiamo già parlato: l’accresciuto ruolo della Chiesa come istituzione e l’aumento di importanza dei vescovi, sia a livello centrale che nelle comunità di cui erano a capo.
Altre trasformazioni riguardano lo sviluppo della città di Roma nel quarto secolo, l’ascesa di Costantinopoli come capitale e, in particolare, l’impatto crescente delle invasioni barbariche nonché le difficoltà emerse nel tentativo di arginarle, il qual problema ingenerò in molti l’idea che si fossero indebolite le possibilità difensive di Roma o dell’esercito romano in generale.
Di ciò si discuterà nei prossimi capitoli, mentre il successivo affronterà alcune delle questioni di interpretazione emerse nel corso di questa discussione: ci si domanderà in quale modo possa valutarsi l’economia romana tardoantica nel suo insieme e si concentrerà l’attenzione su alcuni aspetti specifici dell’economia e della società del quarto secolo.
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Cap. 7. L’economia e la società romane tardoantiche
Durante il regno di Costantino l’inflazione continuò a crescere ad un ritmo vertiginoso a dispetto degli sforzi fatti da Diocleziano per ottenere il controllo dei prezzi e riformare il sistema monetario.
Il pilastro centrale dell’economia era ancora rappresentato dall’agricoltura per cui, sebbene Costantino imponesse nuove tasse a senatori e commercianti, v’era ben poco da fare per determinare un globale mutamento.
Né delle considerazioni di carattere generale, né gli indicatori esistenti sembrano suggerire che l’effettiva contrazione della base economica, che probabilmente ebbe luogo nella metà del terzo secolo, abbia subito una significativa inversione di tendenza.
Se anche si nutre dello scetticismo circa le elevatissime cifre relative all’ammontare delle forze armate nelle fonti letterarie (cfr. capp. 2 e 8), resta comunque il fatto che si trattava di uno Stato fortemente oberato dalle spese militari.
Non sembra verosimile, inoltre, che l’imposizione fiscale potesse effettivamente portarsi ad un livello significativamente più elevato per il semplice fatto che la maggior parte dei contribuenti non avevano alcun modo efficace di incrementare il proprio surplus.
Né, comunque si sostenga spesso il contrario, la confisca dei beni dei templi operata da Costantino può davvero essere stata responsabile di una ripresa economica di vasta portata.
Si può osservare, infine, che, se è vero che, come un aspetto della sua manovra fiscale, Diocleziano introdusse le “fabbriche statali” (fabricae) che sono menzionate nella Notitia Dignitatum, e di cui quelle a Carnutum e a Ticinum erano specializzate, rispettivamente, nella costruzione di scudi e di archi, è anche vero che tali fabbriche furono istituite per far fronte alla necessità militari, piuttosto che per ragioni economiche di carattere più generale.
Se, dunque, si verificò un certo miglioramento economico nella prima metà del quarto storico, il merito va attribuito in larga misura al miglioramento dei sistemi di esazione in concomitanza con il ritorno a delle condizioni di relativa stabilità.
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L’effetto della svalutazione della moneta d’argento nel terzo secolo e delle varie misure fiscali di Diocleziano e Costantino fu quello di lasciare l’impero, nel quarto secolo, con un sistema basato essenzialmente su due tipi di monete: una in oro (solidus) ed una in rame.
La moneta d’argento, che pur continuava ad essere coniata, fu progressivamente soppiantata, come principale unità di conto, dal solidus.
A differenza dei denarii argentei del periodo più antico, il solidus non venne mai svilito e continuò ad essere adoperato fino all’epoca bizantina avanzata.
Ciò, comunque, dipendeva dalla disponibilità di regolari approvvigionamenti di oro che in un primo momento furono favoriti dalla combinazione di particolare circostanze e da misure allora prese, tra cui l’acquisizione, da parte di Costantino, delle ricchezze dei rivali sconfitti, la confisca dei tesori d’oro e d’argento appartenenti ai templi pagani nonché l’esazione di nuove tasse da pagare in oro ed il forzoso acquisto dell’oro dei ceti abbienti da parte dello Stato.
Ma un siffatto sistema monetario era ancora lontano dall’acquisire stabilità: un papiro del 300 d. C., per esempio, fissa il prezzo di una libbra d’oro a sessantamila denarii; il suo valore, però, salì poco dopo a centomila denarii e raggiunse i duecentosettantacinquemila alla fine del regno di Costantino.
Eppure una tale situazione, che sembrerebbe essere sostenibile, era di per sé in gran parte artefatta e non rappresentava le condizioni reali degli scambi di mercato.
Il problema consisteva nel fatto che circolavano troppe cattive monete, i nummi o folles (i denarii erano in questo periodo una semplice unità di conto teorica); inoltre, la responsabilità effettiva era, in gran parte, del governo centrale dato che alle regolari coniazioni di rame esso non faceva corrispondere una manovra di prelievo fiscale nello stesso tipo di moneta.
Anzi, ne furono poste in circolazione ancor di più quando lo Stato decise di acquistare oro, in cambio di rame, dai cambiavalute.
Risulta per noi difficile concepire un sistema in cui monete dalle differenti denominazioni non erano, a rigor di termini, scambiabili fra loro; il fatto è, però, che gli imperatori tardoantichi erano ancora interessati alla circolazione monetaria in larga misura per scopi che li riguardavano direttamente: l’esazione di tasse, alcuni tipi di pagamenti, l’accantonamento di ricchezze nonché il prestigio.
La moneta d’oro e quelle di metallo cattivo non facevano parte di un sistema unificato e, finché la situazione non sfuggiva al suo controllo, l’autorità centrale non era troppo preoccupata di ciò.
In ogni caso, le soluzioni da seguire erano limitate; Valentiniano ricorse al comune espediente di emanare delle norme in questo campo (CJ 9., 11, 1, 371 d. C.), ma tale misura non equivaleva a mettere in pratica il controllo dello Stato in materia.
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L’istituzione della schiavitù (ci riferiamo in particolare all’uso della manodopera servile nella produzione agricola) ha assunto un posto di primaria importanza in ogni discussione relativa all’economia tardoromana.
In particolare, il ruolo della schiavitù nei sistemi economici del mondo antico ha rappresentato un punto di riflessione assai importante per la storiografia marxista, che ha sempre ritenuto che esista un’interdipendenza tra l’esistenza della schiavitù e il fatto che l’antichità classica finì per tramontare.
Recenti contributi hanno portato il dibattito ad un livello di maggiore complessità, per cui non solo il concetto di un tipico “modo di produzione schiavistico” è stato sottoposto ad una critica radicale, ma si è fatto osservare come l’uso di schiavi nei latifondi privati non sia mai stato la regola al di fuori dell’Italia, e perfino qui lo è stato solo per un breve periodo e con molte limitazioni.
Allo stesso tempo, contrariamente a quanto si sosteneva in passato, è oggi assodato che nel tardo impero gli schiavi non furono sostituiti con lavoratori liberi, ma il loro numero continuò a mantenersi alto.
Tuttavia, dal momento che tra gli storici circola con persistenza da tempo (malgrado gli argomenti desumibili, comparativamente, da altri periodi storici) l’ipotesi che le grandi proprietà a conduzione schiavile debbano necessariamente esser state più produttive, è necessario domandarsi non soltanto se nei latifondi erano ancora impiegati gli schiavi, ma anche come questi fossero impiegati e in che cosa le loro condizioni differissero da quelle dei liberi.
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Molti aspetti riguardanti la schiavitù nel tardo impero restano incerti e la loro importanza non dovrebbe essere sopravvalutata né sminuita.
Dobbiamo ricordare che, in questo periodo, il numero degli schiavi poteva divenire elevato in alcune occasioni a seguito di conquiste (anche se i barbari prigionieri di guerra potevano anche essere utilizzati come coloni) e che, nel solco delle premesse gettate da Roma, la schiavitù continuò ad essere un’istituzione ben salda nell’Occidente medievale.
Però, come abbiamo osservato (cfr. cap. 6), la condizione degli schiavi impiegati nell’agricoltura e quella dei liberi coloni andò via via assimilandosi.
Per quanto attiene la conduzione delle grandi tenute nel tardo impero, non v’è dubbio che questa variò notevolmente.
Se per un verso la schiavitù, in questo periodo, non va vista secondo l’agghiacciante prospettiva di torme di uomini incatenati, non dobbiamo nemmeno abbandonare l’idea che l’azienda agricola basata su una conduzione centralizzata (domanial farming) abbia continuato ad esistere.
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Fu inevitabile che la Chiesa, quando il suo patrimonio prese ad includere proprietà terriere, facesse proprio lo stesso tipo di regole e comportamenti: in fin dei conti, la gran parte dei vescovi proveniva proprio dalla classe cui appartenevano i ricchi latifondisti.
E’ dunque possibile vedere come, in questo periodo, la Chiesa di Alessandria sia impegnata in operazioni commerciali, proprio come si trova notizia nelle fonti di proprietari terrieri che registrano lauti guadagni grazie alla vendita di prodotti agricoli.
Infine, il modello di scambio non mercantile caratterizzava anche il sistema statale delle forniture ed elargizioni in natura.
Lo Stato aveva addirittura intrapreso la realizzazione di proprie strutture per la produzione di oggetti d’uso indispensabili, come le armi: anche se non possiamo assolutamente definirle come delle fabbriche in uan qualsiasi accezione moderna, trattandosi piuttosto di artigiani che lavoravano insieme, non di meno furono in grado di aggirare gli assai limitati processi di scambio di mercato effettivamente esistenti.
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Fu dunque la combinazione di molti fattori, in aggiunta a quanto osservato in generale circa il carattere rurale della società romana dell’impero e sulla natura delle città antiche, ad avere come effetto la diminuzione del livello degli scambi commerciali su vasta scala.
Gli storici che si interessano degli aspetti economici del mondo antico vanno, in questi ultimi tempi, dedicando sempre più attenzione agli scambi commerciali, come risulta chiaro dalla seconda edizione del libro di Finley The Ancient Economy, pubblicata nel 1985: in essa è stato dedicato al commercio uno spazio maggiore di quanto fosse nella prima e molto autorevole, edizione.
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Gli studi relativi a questo settore vanno evolvendosi con rapidità, per cui le generalizzazioni circa l’economia romana tardoantica sono necessariamente grossolane.
E’ tuttavia possibile, oggi, dare almeno inizio ad un più sicuro raffronto tra i dati oggettivi forniti dall’indagine archeologica ed il gran numero di indicazioni, che in taluni casi risultano fuorvianti, presenti nelle raccolte di leggi: in tal modo possiamo giungere ad avere un quadro della situazione più preciso di quanto non fosse possibile solo qualche tempo addietro.
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Anche i padri della Chiesa ebbero, per lo più, un giudizio negativo della donna, per quanto potessero coltivare singole ricche nobildonne; le donne erano viste come fonte della tentazione degli uomini, e molti scrittori cristiani erano dell’idea che non solo i rapporti sessuali, ma anche il matrimonio fosse di per sé un peccato.
Un vivace dibattito accesosi alla fine del quarto secolo concerneva la questione se Adamo ed Eva fossero stati esseri con pulsioni sessuali nell’Eden; molti sostenevano di no e che la sessualità, negli uomini, era stato il risultato del peccato originale.
Appassionata era anche la discussione circa gli esatti dettagli della nascita di Cristo, dato che erano in molti ad affermare che Maria aveva mantenuto la sua verginità durante e dopo il parto.
Per quanto inutili o assurdi possano sembrare, questi erano i fondamentali argomenti di discussione nell’interpretazione che la scienza teologica del tempo tentava dell’Incarnazione; questi argomenti, pertanto, avevano una parte rilevante nella controversia sulla natura di Cristo; la condizione della Vergine Maria fu il punto centrale della discussione al Concilio di Efeso del 431 d. C.
Tuttavia, sebbene sia vero che celibato e verginità venivano imposti agli uomini altrettanto che alle donne, si può facilmente notare come in genere fossero le donne ad avere il ruolo delle seduttrici e ad essere incolpate, coem Eva, per la debolezza sessuale degli uomini, non da ultimo per il fatto che gli autori di molti dei trattati sulla verginità ed il matrimonio erano, invariabilmente, degli uomini.
E’ di gran lunga più difficile stabilire quale fosse mai l’effetto che una simile campagna di predicazione e moralizzazione ebbe sulle abitudini sessuali dei singoli individui e delle coppie: sembra molto improbabile che idee tanto austere fossero messe in pratica già allora da una cerchia poco più ampia di una sparuta minoranza.
Ma anche nel caso in cui se ne sminuisca di parecchio l’importanza, è certo che le idee prevalenti di un élite che sia pronta a far sentire la propria voce alla fine influiscono, come è noto sulla base dell’esperienza moderna, sulle idee e sull’agire stesso dei singoli.
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I fattori chiave individuati sono l’accresciuta presenza di fattori coercitivi e la supposta alienazione dallo Stato di gran parte della popolazione: si afferma che fu questo l’elemento che, con altri, spinse la gente a fuggire in massa verso le popolazioni barbariche e ridurre lo Stato all’incapacità di trovare una soluzione ai problemi di carattere militare: “ci si abituò a considerare i barbari un male minore rispetto all’ordinamento statale romano”.
Il prossimo capitolo avrà come argomento di discussione le relazioni tra lo Stato romano tardoantico ed i barbari.
Per quanto riguarda le questioni generali, tali considerazioni di carattere storico dipendono non soltanto dalla prospettiva del singolo, ma anche da ciò che si va a guardare.
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Cap. 8. Le vicende militari, i barbari e l’esercito romano tardoantico
I mutamenti economici e sociali che si verificarono nel quarto secolo si successero su uno sfondo di continui conflitti militari di un tipo o di un altro.
Per quanto il regno di Diocleziano e la tetrarchia siano riusciti a dare un certo sollievo dalle difficoltà del terzo secolo, è difficile trovare un momento, all’interno del periodo preso in considerazione, in cui l’impero poté godere di una pace in qualche modo duratura; le inverosimili affermazioni dei panegiristi tendono più ad esprimere dei pii desideri che la realtà dei fatti.
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Le campagne di Gallia, sebbene presentate da Ammiano in maniera da accrescere il credito di Giuliano come militare, hanno comunque il merito di farci comprendere i problemi che Roma affrontava, causati dalle tribù barbare nella Gallia e nelle Germania.
Anzitutto, per Giuliano le cose non furono facili: le armi ci cui disponevano i romani non erano, di per sé, superiori a quelle dei barbari; gli alamanni si erano spinti assai all’interno del territorio gallico e si erano sparpagliati di un così vasto numero di aree, che i romani potevano verisimilmente trovarsi accerchiati; infine, questi ultimi non potevano sempre contare su una benevola accoglienza da parte delle comunità locali, i cui abitanti non avevano imparato ad essere pronti ad aspettarsi qualsiasi cosa.
Nel suo racconto, Ammiano adombra la tesi che i barbari erano incapaci di condurre a termine un assedio con successo (16., 4): eppure è indubbio che molti centri, compresa Colonia, furono presi e distrutti o danneggiati.
Se anche i romani potevano conseguire un successo, come a Strasburgo, in grado di scardinare una pericolosa alleanza di tribù, il problema era di quelli a lungo termine, e già comportava la necessità di una difficile commistione di azione militare, iniziative diplomatiche e concessioni.
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Ma il più grave disastro di questo periodo nella parte occidentale dell’Impero, proprio quello che Ammiano considerò come sufficientemente importante da usarlo come il punto conclusivo del suo racconto storico, fu la sconfitta e la morte dell’imperatore Valente ad Adrianopoli nel 378 d. C. (31., 12-13), uno shock che diede un aspetto diverso alla situazione generale e che era stato causato da un certo numero di fattori diversi.
Apparsi per la prima volta intorno agli anni cinquanta del terzo secolo, al tempo in cui il racconto di Ammiano prende avvio, nel 354 d. C., i franchi ed altre popolazioni della Germania occidentale come gli alamanni sono un elemento con cui dover fare i conti: alcuni franchi, individualmente, hanno perfino trovato la via d’accesso ai quadri superiori dell’esercito romano.
Una cosa diversa fu lo spostamento verso Occidente, nel quarto secolo, dei tervingi, quelli che sarebbero divenuti i visigoti, degli ostrogoti ed altre genti germaniche provenienti da Oriente.
Già durante il terzo secolo queste genti avevano portato attacchi nel territorio romano dalle loro sei situate nella parte nord del Mar Nero, in specie durante gli anni cinquanta del terzo secolo, quando esse attraversarono proprio il Mar Nero e fecero incursioni nel Ponto, sulla costa turca del Mar Nero (Zosimo 1., 27, 31-6).
Nel quarto secolo, essi certamente controllavano ormai vaste aree a nord del Mar Nero tra il Danubio e il Don (la provincia romana di Dacia era già stata abbandonata da tempo); anche questi popoli servivano nell’esercito romano, per esempio durante la spedizione persiana di Giuliano (indicati come “sciti”).
Il vescovo ariano Ulfila, con il beneplacito di Costanzo 2., trascorse sette anni della sua vita a convertire i goti, fino a che non fu costretto ad abbandonare il loro territorio alla fine degli anni quaranta del quarto secolo: a lui viene attribuita la creazione di un alfabeto gotico e la traduzione della Bibbia in questa lingua (Filostorgio HE, 2., 5).
In breve, questo gruppo di goti venne ora spinto a mutare le proprie sedi dagli spostamenti verso sud e verso Ovest di un diverso popolo nomade, gli unni: essi provenivano dalle steppe dell’Asia centrale ed il loro aspetto era così insolito che i romani ne avevano un terribile e profondo terrore.
Ciò risulta evidente dalle osservazioni di Girolamo così come dalla famosa descrizione di Ammiano, in cui essi appaiono come esseri che hanno ben poco di umano, che si cibano di radici e carne cruda messa a frollare durante le loro marce, tra il dorso del cavallo e le cosce del cavaliere (31., 2).
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Lo stesso Valente rimase ucciso sul campo (31., 13; Zosimo 4., 20-24).
Alcuni autori hanno di recente sostenuto che per lo Stato romano la battaglia di Adrianopoli non fu, di per se stessa, un momento così cruciale o una tale catastrofe come si è spesso sostenuto, in primo luogo proprio da quegli scrittori delle generazioni successive al fatto, inclini a ricavarne uan morale religiosa o politica.
Così Ruffino, nella sua opera che è la prosecuzione in latino della Storia ecclesiastica di Eusebio, definisce questa sconfitta come “l’inizio delle calamità che ci furono in quel tempo e delle successive” (11., 13), mentre Zosimo la attribuisce all’opera del fato (4., 24).
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L’orazione di Temistio è però assai tendenziosa e se mai il tributo ai barbari subì una qualche interruzione, esso venne ristabilito dopo poco.
La politica di Teodosio non era altro che un palliativo che poco riusciva a fare per allontanare il pericolo o trovare una soluzione ai problemi basilari; questi problemi si complicarono durante gli anni tra la morte di questo imperatore nel 395 ed il 410 d. C., quando salì alla ribalta Alarico come condottiero dei visigoti.
Vi era ormai, in questa fase, la separazione tra l’amministrazione imperiale occidentale e quella orientale, la qual cosa rese più semplice per i capi barbari metterle l’una contro l’altra; durante questi anni, Alarico domandò coerentemente un pagamento annuale in denaro e vettovaglie, nonché per se stesso il grado di magister militum.
Stilicone cercò, in un primo tempo, di servirsi di lui, ma fu poi costretto a venire a battaglia con Alarico in Italia presso Pollenza (402 d. C.).
Cinque anni più tardi, nel 407 d. C., Stilicone stipulò un accordo con Alarico, di cui accettò le richieste in cambio della fedeltà; ma tali concessioni finirono per costare a Stilicone l’imputazione di “nemico pubblico” da parte dell’Impero orientale (Zosimo 5., 29; Olimpiodoro fr. 5).
Il governo orientale si volse ad osteggiare l’uso di generali barbarici e la guarnigione del goto Gainas fu massacrata a Costantinopoli.
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Quando però egli stesso cominciò a perdere il sostegno di altri goti, il suo esercito si abbandonò al saccheggio della città per tre giorni, verso la fine dell’agosto del 410 d. C.
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Dobbiamo anche tener presente il fatto che i contemporanea consideravano le invasioni in termini di scorrerie di singole genti, piuttosto che alla stregua di un processo a lungo termine (effettivamente, i motivi che hanno determinato le invasioni sono, ai nostri giorni, lungi dall’essere chiari).
Il vecchio concetto delle orde barbariche “spinte” contro le frontiere dell’impero si è dimostrato completamente falso: anzitutto, l’effettiva consistenza di questi popoli doveva probabilmente essere alquanto ridotta; in secondo luogo, questo modello interpretativo non spiega perché gli unni stessi abbiano abbandonato le loro sedi nell’Asia centrale.
Allo stesso modo, l’”impero unni” di Attila (morto nel 453 d. C.) è un fenomeno appartenente al quinto secolo che si data a epoca successiva rispetto alle migrazioni e non ne fu la causa.
Un diverso tipo di spiegazione vorrebbe vedere lo spostamento degli ostrogoti in termini di mutamenti di condizioni economiche nell’area tra il Don e il Dniester, e vorrebbe situare l’intero fenomeno nel contesto del apporto tra comunità stanziali e comunità nomadi.
Gli uomini del tempo erano più inclini ad indicare, quale giustificazione alle incursioni barbariche, l’indebolimento della frontiera romana.
In pratica, gli imperatori del quarto secolo fino all’età di Teodosio 1. Furono, per lo più, in grado di tenere testa alla situazione creatasi, quantunque ciò richiedesse molto tempo e spesa; solo nel quinto secolo gli invasori riuscirono ad insinuarsi così profondamente entro il territorio romano da esigere di potervisi stanziare e da minacciare l’unità delle province occidentali.
E tuttavia, una volta che il processo ebbe inizio, proseguì con una facilità e velocità sorprendenti, considerato che una masnada di ottomila vandali era riuscita ad impadronirsi dell’intero Nord Africa romano nel 439 d. C.
In quel periodo, l’esercito romano occidentale era in serie difficoltà: su quest’argomento torneremo a breve.
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L’impegno romano nei territori della frontiera con l’Oriente, che era andato costantemente aumentando sin dal periodo della dinastia dei Severi, durante il quale essi riuscirono ad annettere la Mesopotamia settentrionale, area in cui si svolsero anche tutte le operazioni di guerra promosse da Costanzo 2., fu in questa fase estremamente intenso.
Non esisteva una frontiera naturale: nel quarto secolo, dopo la riorganizzazione ad opera di Diocleziano, le truppe romane vennero acquartierate in forti situati lungo la cosiddetta strata Diocletiana, una strada militare che andava dall’Arabia nord-orientale e Damasco fino a Palmira e l’Eufrate, e lungo un’altra strada da Damasco a Palmira.
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Quali che ne fossero le ragioni, concentrare l’attenzione sulle zone orientali di frontiera aveva implicazioni culturali oltre che militari: se ne discuterà nel capitolo 10.
Quanto alla presenza militare romana in Oriente nel periodo preso in considerazione, Isaac pone l’accento su tre importanti elementi distintivi.
Si tratta, anzitutto, di un’accresciuta attenzione verso la regione nordorientale dell’impero, a partire dalla fine del quarto secolo; questo interesse è connesso con la comparsa sulla scena degli unni, che già durante la metà del quarto secolo erano entrati in territorio persiano, e dopo il 394 avevano invaso Persia, Melitene, Siria e Cilicia.
L’Armenia era stata il centro di operazioni militari già sotto Diocleziano e nel 335 d. C. fu nuovamente invasa dai persiani; poiché era cristiana, dal 314 d. C., come lo era l’Iberia caucasica fin dal periodo subito dopo il 324 d. C., i fattori religiosi avevano reso queste regioni oggetto di disputa tra Roma e la Persia, e ciò era ancora un punto di controversia nel sesto secolo.
La stessa popolazione cristiana della Persia compariva nelle relazioni diplomatiche tra le due potenze sin dal regno di Costantino, la cui lettera a Shahpur 2. su questo argomento è conservata da Eusebio (VC 4., 8-13).
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Malgrado ciò, comunque vadano valutati i suoi scopi, l’intervento militare romano in Oriente continuò fino al sesto secolo; nel settimo secolo, l’imperatore Eraclio fu addirittura in grado (benché con grande difficoltà) di invertire gli effetti negativi della recente e disastrosa invasione persiana guidata da Cosroe 2.
Questa situazione è in netto contrasto con quanto avveniva in Occidente dove, già all’inizio del quinto secolo, le forze armate romane cominciavano a disgregarsi.
Le truppe di Roma furono ritirate dalla Britannia e da gran parte della Spagna; la facilità della conquista del Nord Africa da parte dei vandali può spiegarsi solo con l’assenza di una reazione romana: invero, non molto tempo prima, i soldati erano stati fatti affluire vi amare in Italia per essere impiegati nella guerra civile che qui si svolgeva.
Nella Gallia il progressivo stanziamento di gruppi di barbari, a partire dai visigoti in Aquitania nel 418 d. C., ridusse l’area geografica di competenza propria dell’esercito romano, i cui effettivi erano anche scesi.
la complessa situazione di questi anni, per i quali dobbiamo basarci su delle cronache galli che e spagnole, mostra chiaramente che il governo di Ravenna non era in grado di far altro che utilizzare un gruppo di barbari contro l’altro e, infine, stare a guardare la Gallia andare gradualmente in pezzi.
Un tratto distintivo di questo periodo fu l’avvenuto utilizzo, come mercenari, degli unni; un altro fu la rapida crescita dell’importanza di potenti generali come Flavio Aezio, colui che in pratica guidò l’impero d’Occidente dal 433 al 454 d. C.
Gli unni riuscirono ad estorcere un pagamento annuale anche dagli imperatori d’Oriente e quando l’imperatore Marciano (450-457 d. C.) mise fine ad esso, gli unni mossero verso Occidente ed invasero l’Italia nel 452; malgrado ciò, a seguito di uno straordinario colpo di fortuna per Roma, Attila, il re di questo popolo, morì improvvisamente l’anno seguente, dopo di che l’impero unno si sfaldò.
Cap. 183-84
Più volte gli studiosi hanno pensato (e Ferrill ha argomentato la questione come se si trattasse di una novità) che l’esercito romano fosse anche inefficiente dal punto di vista delle capacità di combattimento, ma ciò è difficile da provarsi.
Il declino delle capacità di combattimento dell’esercito romano viene ipotizzato in base a varie argomentazioni: anzitutto l’argomentazione, a priori, che i mercenari barbarici dovevano essere meno efficienti di un esercito formato da cittadini, specie se usato contro altri barbari; in secondo luogo, in ragione del fatto che la gran massa della popolazione che include, per definizione, la truppa, era malcontenta ed estraniata; in terzo luogo, in ragione del fatto che i cosiddetti limitanei posti alle frontiere erano dei contadini-soldati part time, che non ci si poteva aspettare che fossero di molta utilità in periodi di guerra aperta; infine, in ragione del fatto che, in sostanza, l’esercito romano tardoantico era spesso sconfitto.
Molte di queste argomentazioni sono altamente soggettive, sebbene scaturiscano da punti di vista diversi; tipica è l’affermazione che “il fatto che nel quinto secolo l’Impero romano d’Occidente non si trovò più in grado di tenere testa alle popolazioni barbare … fu soprattutto la conseguenza dell’allontanamento tra Stato e società (G. Alfoldy, Storia sociale dell’antica Roma, p. 297).
Per quanto riguarda i limitanei, siano essi stati dei buoni o dei cattivi soldati, il termine stesso non compare, a indicare le truppe di frontiera, prima della fine del quarto secolo e anche allora non denota una “milizia contadina”, ma solo “le truppe in una zona di frontiera”.
Questi soldati, pertanto, non possono avere la responsabilità, che è stata spesso loro addossata, del declino.
Pag. 187
Come J. H. W. G. Liebesschuetz ha fatto notare, la differenza stava nel fatto che nella parte orientale l’episodio di Gainas produsse una duratura avversione a dipendere da estesi reclutamenti di barbari; quando Uldin invase la Tracia nel 408 e venne sconfitto, i suoi uomini piuttosto che essere arruolati come federati, furono sistemati qua e là come coloni (CTh. 5., 6,3).
Il contrasto con la parte occidentale non poteva essere maggiore: alla caduta di Stilicone fecero seguito, nello stesso anno, la marcia di Alarico su Roma ed ulteriori anni di minacciosa ostilità ad opera dei vari capi barbarici e dei loro eserciti.
Ma la differenza va imputata anche a fattori strutturali più basilari, sia politici che economici; durante il quinto secolo, mentre l’Impero d’Occidente si andava frammentando e i suoi imperatori andavano divenendo più deboli e sempre più a corto di mezzi, la parte orientale vennero facendosi uniformemente sempre più prospera,. In grado di tenere a freno col denaro i barbari, se ve ne fosse stato bisogno.
Infine, la classe senatoria orientale, meno pomposa ma più integrata, permise che si sviluppasse un più stabile sistema di governo, basato essenzialmente su personale civile, coem possiamo osservare durante il regno di Teodosio 2. E il periodo successivo.
Pag. 189-90
Cap. 9. La cultura nel tardo quarto secolo
Per semplicità, questo volume separa nettamente i vasi aspetti sotto cui osservare la struttura sociale tardoromana: l’economico, il militare, il religioso, il politico senza entrare nel merito della questione se questo tipo di classificazione è effettivamente il modo migliore di studiare il processo storico.
Con il termine “cultura” intendiamo quel nesso di idee e conoscenze da cui ogni società dipende per conseguire la propria identità di comunità e che vengono trasmesse attraverso il processo di apprendimento e di istruzione.
Questo, in pratica, comprende gran parte del materiale di cui ci siamo occupati nei capitoli precedenti: per esempio, la conoscenza del modo in cui la propria società è organizzata politicamente viene acquisita con l’apprendimento, non è innata, ed il consenso generale circa la struttura politica costituisce l’elemento che tiene insieme una società.
La religione appartiene certo al regno della cultura e presuppone un certo punto di vista riguardo al modo in cui l’organizzazione del mondo è, o dovrebbe essere, strutturata.
Ma il termine “cultura” è anche generalmente adoperato in un senso più limitato, per indicare i campi del sapere, dell’educazione, dei costumi e dei gusti.
Ci si è abituati, nel mondo attuale, all’idea di una pluralità di culture e a considerare una società multiculturale come un auspicabile obiettivo; può riuscire difficile, tuttavia, che questo concetto (“i terrori della molteplicità”, secondo le recenti parole di uno scrittore) vada bene sia ai singoli individui che a gruppi sociali.
Al contrario, le società tradizionali sono, in genere, dominate da una sola cultura.
Sebbene fosse uan società tradizionale, tuttavia l’Impero romano, assai esteso geograficamente, comprendeva un gran numero di culture diverse.
Per di più, proprio la società tardoimperiale era in rapida mutazione sotto vari aspetti importanti: i barbari (stranieri) acquistavano un’importanza via via maggiore, servendo nell’esercito o insediandosi entro l’impero; la diffusione del cristianesimo comportava dei cambiamenti sociali ma anche religiosi; il divario tra ricchi e poveri si andava facendo, per certi aspetti, più consistente.
Tutto questo conduceva ad una realtà molteplice, ma talvolta allo scontro.
Pag. 191-92
Il travaglio afflisse a livello individuale: Girolamo si sentiva colpevole per il fatto che prediligeva Cicerone, mentre Agostino provò per tutta la vita questa lacerazione tra la cultura classica di cui si era imbevuto e che aveva lui stesso insegnato, e la sua più tarda convinzione che la conoscenza non poteva provenire dall’istruzione laica, ma solo da Dio.
Egli discusse direttamente di questo problema in due importanti opere, il De Doctrina Christiana (“Sull’istruzione cristiana”) e il De Magistro (“Sulla figura del docente”).
Un ulteriore motivo di tensione fu il fatto che il cristianesimo, di per sé, si rivolgeva ad uomini e donne di tutte le classi.
Questo non era certo il caso dell’istruzione classica e, per l’appunto, provavano disagio per la “semplicità” della letteratura cristiana che si ritiene si fosse sviluppata da ciò che essi chiamavano il sermo piscatorius (“la lingua dei pescatori”).
Arrivare da farsi capire anche da quei membri della congregazione non forniti di istruzione era visto come un importante dovere; vescovi come Ambrogio si preoccupavano dei mezzi per effettuare la conversione dei rustici (la popolazione rurale), Agostino possedeva una vivida consapevolezza di come giungere fino a loro in un sermone.
Si è giustamente fatto notare, però, che ciò non condusse ad un qualche programma di istruzione cristiano in quanto tale.
Gli uomini di Chiesa volevano operare delle conversioni, ma pensare di farlo nel contesto delle scuole o dell’innalzamento del livello di alfabetizzazione è un’idea moderna.
Per l’appunto, il livello generale dell’alfabetizzazione non crebbe in questo periodo: è più probabile che scendesse con il disgregarsi dell’impero d’Occidente.
Pag. 194
La cultura classica era una cultura elevata, limitata alle classi più ricche.
I libri, come l’istruzione, avevano un costo elevato e si potevano reperire con difficoltà; un’altra percentuale della popolazione più povera sarà stata analfabeta o quasi.
La limitatezza della cultura d’élite fu anche l’elemento che maggiormente ostacolò ogni possibile processo di amalgamazione tra romani e barbari.
Con l’affermarsi del cristianesimo i poveri e le classi inferiori furono oggetto di maggiore attenzione.
Pur stando così le cose, le tensioni culturali tra pagani e cristiani di questo periodo che ci vengono illustrate dalle fonti letterarie sono, in gran parte, quelle tra membri diversi della stessa classe.
Su costoro siamo ben informati, laddove scarsi sono i dati circa i molti cristiani delle classi inferiori facenti parte delle congregazioni cittadine, o quelli relativi all’estrazione sociale dei gruppi monastici che provocarono un tale stato di turbamento verso la fine del quarto secolo.
In maniera analoga, ad esempio, il paganesimo di Giuliano fu un fatto fortemente intellettualistico e, laddove abbiamo molteplici informazioni su problematiche come il neoplatonismo, sappiamo assai meno, a livello personale, sulla figura del pagano medio.
Pag. 197
La principale alternativa, sul piano intellettuale, al cristianesimo era il neoplatonismo, che possedeva anch’esso una sua particolare sfumatura distintamente religiosa e superstiziosa, specie in virtù delle pratiche teurgiche, una tecnica per invocare gli dèi con mezzi magici ed occulti; la teurgia si associò in particolare ad un filosofo degli inizi del quarto secolo, originario di Apamea di Siria, Giamblico, e fu trasmessa a Giuliano da Massimo di Efeso.
Scopo ultimo della teurgia, così come del neoplatonismo in generale, era l’unione dell’anima con Dio; le pratiche magiche ed i miracoli quotidiani erano semplicemente il primo gradino della scala che portava l’adepto alla sua unione mistica, dato che l’abilità del teurgo gli dava la conoscenza e la capacità di controllo del mondo fisico.
Nella sua opera Le vite dei sofisti, scritta intorno al 399 d. C., Eunapio ci descrive come Massimo poteva dar camminare le statue e come Giamblico poteva evocare le divinità.
Quest’ultimo scrisse un ampio commentario sui cosiddetti Oracoli caldaici, un insieme di scritti ritenuti rivelazioni oracolari in versi, concernenti Dio e la natura dell’universo, che egli presentò anche nell’opera Sui misteri, quale chiave ultima di comprensione della filosofia di Platone.
Ed invero in tal maniera le opere di Platone finirono per trovarsi nella condizione di libro sacro, una serie cioè di scritture filosofiche.
Pag. 207-8
Tra le opere di Platone, quelle che riuscivano più delle altre interessanti per i cristiani erano, dunque, il Simposio e il Fedro, che trattano il tema dell’ascesa dell’anima a Dio.
Altro tratto comune al cristianesimo e al neoplatonismo era l’enfasi posta sull’ascetismo ed il controllo delle passioni; Porfirio compose un’opera intitolata De Abstinentia ed una Lettera a Marcella (sua moglie), consigliandole l’astinenza sessuale.
Il De Abstinentia, come l’opera di Giamblico La vita pitagorica, propugnava il vegetarianismo, sul modello degli insegnamenti di Pitagora, predecessore di Platone.
Pag. 208
Nel secondo secolo, il periodo di maggiore floridezza dell’Impero romano, la cultura dell’élite fu straordinariamente omogenea per un’entità politica così vasta.
L’ideale di un’istruzione retorica era condivisa in tutte le province; ovviamente i suoi contenuti potevano cambiare a seconda che si fosse acquisita in latino o in greco ma, nel complesso, tra un’area ed un’altra c’era poca differenza di stili e concezioni.
Col tardo quarto secolo, anche se la retorica continuava ad avere il posto d’onore, vari fattori avevano cominciato ad avviare una diversificazione culturale di livello più ampio.
Uno di questi elementi fu il cristianesimo: da un aparte, con esso si prospettarono dei valori diversi e stili di vita alternativi; dall’altra, esso fornì nuove opportunità per mantenere in funzione l’istruzione retorica.
Altro fattore che mise in crisi le tendenze tradizionali fu la pressione esercitata dai barbari, sia a livello individuale che collettivo; a lungo andare, ciò avrebbe impedito la conservazione del vecchio sistema.
Un terzo fattore fu l’insorgere delle culture locali, che era stato un tratto caratteristico degli sconvolgimenti del terzo secolo.
Pag. 210
Se consideriamo il grado di mutamenti sociali e politici nell’Impero d’Occidente, risulta sorprendente la decisa continuità della cultura latina; ovviamente, nella parte orientale dell’Impero, dove esisteva una continuità di governo e di amministrazione e non vi erano insediamenti barbarici paragonabili a quelli dell’altra parte, esistevano condizioni più favorevoli perché continuasse ad esistere una letteratura classicheggiante in greco, sebbene anche in quest’area i mutamenti nella lingua parlata siano evidenti già nel sesto secolo.
Anche nel quarto secolo vi furono importanti mutamenti di ordine culturale che, per esempio, arrivarono a toccare il pur lieve aumento di importanza riconosciuto alle donne (cfr. cap. 7).
Non si trattò certo di rinascita o rivoluzione; nella società romana tardoantica non si stava attuando alcun fondamentale movimento economico o politico che possa paragonarsi a quelli che si verificarono in periodi successivi della storia europea.
E tuttavia, neppure il modello interpretativo convenzionale del declino corrisponde esattamente a ciò che si stava verificando.
Di certo, la gran massa di leggi nei codici sembra suggerirci che il governo, o gli imperatori, avevano la spiacevole consapevolezza che accadevano fatti i quali sfuggivano al loro controllo.
Le iperboliche espressioni retoriche cui essi facevano ricorso rappresentano il tentativo da loro messo in atto di arrestare i mutamenti di cui non riuscivano a scorgere le cause profonde.
Ma ciò, più che a totalitarismo, equivale ad una non invidiabile condizione di impotenza.
Volgersi ad altri testi e ad altre testimonianze può fornire un’immagine alquanto diversa di che cosa significasse vivere nel quarto secolo d. C.
Pag. 212-13
Cap. 10. Costantinopoli e l’Oriente
Sorprende il grado di mistero che circonda gli inizi della storia di Costantinopoli, dai motivi personali che Costantino aveva per fondare la città col suo nome all’aspetto fisico di questa (cfr. cap. 3).
Ciò è dovuto in gran parte al comprensibile desiderio degli abitanti di epoche successive, i quali vivevano in un mondo diverso, di scrivere o riscrivere la storia delle proprie origini.
Poiché l’esatta conoscenza storica del periodo di Costantino era andata perduta a partire dal settimo secolo, se non da prima e Costantino stesso era divenuto una figura del mito e della leggenda, gli sforzi di costoro potevano ben condurre a risultati bizzarri.
Già nel sesto secolo la gente riteneva che la battaglia prima della quale si diceva che Costantino avesse avuto quella sua visione premonitrice fosse uno scontro con i “barbari”; ben presto i suoi antagonisti divennero i mitici giganti Byzas e Antes da cui, secondo l’opinione comune, l’esistente Bisanzio derivava il suo nome.
Possiamo vedere che gran parte delle motivazioni che stanno alla base di queste storie derivano dal fatto che con gli inizi del sesto secolo il ruolo e le funzioni di Costantinopoli avevano sostituito quelle di Roma, ormai sotto la dominazione ostrogota; gli abitanti di Costantinopoli, pertanto, avevano bisogno di credere che la loro città fosse stata destinata da sempre a tale ruolo.
Allo stesso modo si riteneva che anche l’antico Palladio di Roma, che, secondo la tradizione, Enea aveva portato lì da Troia, fosse stato trasportato a Costantinopoli, dove giaceva sepolto sotto la colonna costantiniana di porfido quale portafortuna della città.
Pag. 215
Abbiamo, ora, testimonianze di un’incipiente prosperità in alcune aree, che divenne così impressionante in Oriente nel corso del quinto secolo, proseguendo nel sesto.
Anzitutto, la Terrasanta stessa trasse dei benefici, durante il quarto secolo, dai viaggi dei pellegrini e da quei ricchi personaggi che vi fondarono monasteri e li dotarono di beni; a parte le proprie fondazioni, la stessa Melania inviò quindicimila solidi d’oro alla Palestina.
La Chiesa di Gerusalemme ricevette donazioni assai ricche già alla metà del quarto secolo, e la città stessa divenne un affollato centro cosmopolita, il cui trambusto fu successivamente criticato da Girolamo (Ep. 58., 4, 4, diretta da Paolino da Nola).
Egeria rileva che a Gerusalemme le funzioni si svolgevano in greco, ma con interpreti per la popolazione del luogo, di lingua aramaica, e traduzioni latine fornite da monaci e suore bilingui; la stessa cosa accadeva a Betlemme.
Gerusalemme e i luoghi sacri raggiunsero l’apice della loro prosperità nel quinto secolo, con il regno dell’imperatore Teodosio 2. e la protezione dell’imperatrice Eudossia.
Pag. 225
Tutte le valutazioni circa l’ampiezza della popolazione nell’antichità sono penalizzate dalla mancanza di dadi di carattere statistico e dalla fragilità delle argomentazioni basate sulle fonti letterarie, sull’archeologia degli insediamenti e sul numero e l’ampiezza delle chiese; le tendenze sottostanti della dinamica della popolazione sono solo imperfettamente comprese.
A partire dal tardo sesto secolo devono aver cominciato a farsi sentire gli effetti della grande pestilenza che colpì l’Oriente nel 451 d. C.
Ma per il periodo precedente al verificarsi di essa, ci sono testimonianze abbastanza solide id un consistente numero di insediamenti nell’Oriente in questo periodo, tali da dimostrare che le tesi espresse in passato di un universale declino demografico quale fattore responsabile del declino dell’antichità semplicemente non stanno in piedi.
Arrischiando una ipergeneralizzazione, si può dunque contrapporre Oriente ed Occidente non solo in termini di stabilità di governo e di debolezza di fronte alle incursioni barbariche, ma anche in termini di organizzazione economica.
Laddove in Occidente vi è una concentrazione delle grandi tenute con le loro economie basate sulla villa (cfr. cap. 7), nelle provincie orientali esiste un maggior numero di testimonianze sull’esistenza, in questo periodo, di piccoli contadini e di un’economia di villaggio, con paesi di una certa estensione, più piccoli di una “città”, e privi dello status di comunità cittadina (sebbene alcune “città” fossero molto piccole secondo i parametri moderni), ma che mostrano tracce di organizzazione e diversificazione sociale.
Anche all’interno delle categorie di “villaggi”, vi era grande diversità di dimensioni, dai ricchi villaggi nei pressi di Antiochia agli insediamenti molto più piccoli nell’Asia Minore ed in altre aree.
Inoltre, un villaggio poteva anche trovarsi all’interno di una tenuta assai estesa.
Queste comunità avevano degli “uomini eminenti”, attestati su iscrizioni e in fonti letterarie, e potevano fare offerte presso i santuari locali o costruire chiese o sinagoghe loro proprie.
Una semplice chiesa di villaggio di questo tipo, della metà del quarto secolo, è quella di Qirk Bizze, ad est di Antiochia, costruita secondo uno stile locale non diverso da quelli delle abitazioni appartenenti allo stesso periodo.
Alla fine del quarto secolo questo tipo di edificazioni cominciavano a farsi più ampie e più elaborate, un segno, di per sé, che il villaggi andavano prosperando.
Una preziosa serie di papiri da Nessana, nel Negev, dove c’era anche una guarnigione, ci permettono di intravvedere le complicazioni della proprietà fondiaria in queste comunità in un periodo appena più tardo.
Sebbene molti siano ancora i problemi che devono essere risolti, la continuità di tali insediamenti fino al sesto ed al settimo secolo e, in molti casi, il loro declino dopo questa data, resta uno dei tratti più singolari delle province orientali nella tarda antichità.
Fu questo fenomeno, più che l’esistenza delle grandi città, che rese possibile all’Impero d’Oriente di evitare la frammentazione che ebbe a soffrire l’Impero d’Occidente; per di più, quando cominciarono a mostrarsi i segni di un declino appare avere alla sua base tanto fattori esterni quali la pestilenza ed un riaccendersi delle operazioni belliche, quanto ragioni specifiche ed esclusive delle province orientali.
Pag. 226-27
La condanna dell’arianesimo nel Concilio di Nicea del 325 d. C. non aveva risolto il problema dell’unità dei cristiani; al contrario, nel corso del quarto secolo, questo fatto portò ad una serie continua di dispute sulla natura di Cristo (“dispute cristologiche”) all’interno delle quali si svilupparono due correnti note come monofisismo e nestorianismo: entrambe furono condannate al Concilio di Calcedonia nel 451 d. C.
La prima corrente di pensiero sosteneva che Cristo aveva una sola natura, quella divina, mentre la seconda, che si identificava in Nestorio (eletto vescovo di Costantinopoli nel 428 d. C. e deposto dal Concilio di Efeso nel 431 d. C.), insisteva sulla separazione esistente tra le due nature, quella umana e quella divina.
Il problema stava nel fornire adeguate giustificazioni alla dottrina cristiana ortodossa secondo la quale la natura di Cristo era una e indivisibile, umana e divina allo stesso tempo, la qual cosa poneva grandi problemi di definizione.
Queste dispute, che si svolsero a partire dalla fine del quarto secolo, coinvolgevano un buon numero di questioni personali e locali, non ultima la supremazia di un seggio episcopale sull’altro.
Una delle prime fu la controversia intorno alla figura di Origene, un pensatore cristiano del terzo secolo di Cesarea di Palestina, cui si attribuiva, nei circoli antiocheni, di aver portato all’eccesso l’interpretazione allegorica alessandrina delle scritture, nonché di avere opinioni errate su altre questioni dottrinali.
Uno dei protagonisti principali delle controversie del quinto secolo fu Cirillo d’Alessandria, un abile uomo politico che era già vescovo quando Ipazia, filosofa pagana maestra di Sinesio, fu linciata nel 415 ad Alessandria da un gruppo di fanatici cristiani.
Non è un caso che, nel momento in cui molti personaggi contemporanei, da Giovanni Crisostomo a Girolamo, si trovavano impegnati nella questione origeniana, i due maggiori concili del quinto secolo, relativi alla natura di Cristo, abbiano avuto luogo in Oriente; essi furono e sono considerati dalla Chiesa come vincolanti: è comunque significativo il fatto che le controversie da cui essi furono determinati abbiano avuto origine nell’Impero d’Oriente.
Pag. 229-30
La caduta dell’Impero di Roma si colloca, convenzionalmente, nel 476 d. C.; dopo questa data in Occidente non vi furono più imperatori romani.
In maniera altrettanto convenzionale, viene in genere messo in evidenza il fatto che la linea di successione legittima continuò ad esistere nell’Impero d’Oriente, col suo centro in Costantinopoli, fino alla conquista delle città, nel 1453, da parte die turchi guidati da Maometto il conquistatore.
Il 476 d. C. risulta essere, più che altro, una data comoda per gli storici dato che, come si è già osservato, la debolezza degli imperatori del quinto secolo si era manifestata ben prima: in molti casi essi non furono che degli strumenti nelle mani dei generali che ricoprivano la potente carica di magister militum.
Fu l’ultimo di questi, Odoacre, a deporre il giovane Romolo Augustolo, imperatore per meno di un anno, e si autonominò rex (re) , titolo che a Roma per tradizione si detestava fin dalla cacciata dei re e la fondazione della Repubblica nel 510 a. C.
Già agli inizi del sesto secolo si erano venuti a formare parecchi regni barbarici che, in alcuni casi, furono i definitivi precursori degli Stati d’età medievale in Occidente.
Tra i regni più importanti ci fu quello degli ostrogoti in Italia, sotto il comando di re Teodorico (493-526 d. C.); dei franchi (detti anche merovingi), che venne a formarsi dopo la vittoria di Clodoveo nella battaglia di Vouillé del 507 d. C. e dei visigoti che, nonostante la sconfitta in quella battaglia e le successive disfatte ad opera dei franchi, riuscirono a fondare un regno unitario in Spagna alla metà del sesto secolo.
Perfino dopo che questi regni si furono costituiti continuò ad esistere un tale numero di tradizioni ed istituzioni romane che talvolta li si definisce società “subromane”.
In particolare, dalle famiglie romane di possidenti terrieri, con la loro forte tradizione culturale, vennero molti degli energici vescovi di questo periodo, ed il latino continuò ad essere adoperato come lingua amministrativa e della cultura.
Nell’ultimo capitolo abbiamo visto come in Oriente vi fossero già, alla fine del quarto e certamente nel quinto secolo, segni della prosperità e della crescita demografica che sono una caratteristica così marcata delle province orientali agli inizi del sesto secolo; il divario tra Oriente e Occidente, infatti, si andò allargando in maniera tale che l’imperatore Giustiniano (527-565 d. c.) fu perfino in gradi di porre in atto una serie di campagne militari finalizzate a ristabilire il controllo imperiale sull’Occidente.
La “riconquista” ebbe successo per un certo periodo, anche se Giustiniano aveva dovuto schierare le sue truppe pure contro la Persia lungo la frontiera orientale; tuttavia, c’erano stati troppi cambiamenti per un periodo eccessivamente lungo per permettere uan duratura restaurazione dell’impero ed i successori di Giustiniano ebbero addirittura difficoltà a mantenere un numero di forze adeguate sul fronte orientale.
Dopo le invasioni persiane agli inizi del settimo secolo e le conquiste arabe che ebbero luogo subito dopo, Oriente ed Occidente furono separati in maniera ancor più netta.
Agostino trascorse un periodo di 35 anni come vescovo di Ippona, sulla costa oggi algerina del Nord Africa, quasi al confine tra l’Algeria e la Tunisia: egli morì proprio quando i vandali erano passati dalla Spagna nel Nord Africa ed avevano iniziato la loro conquista della provincia.
La città di Dio è una delle sue ultime opere, scritta in arco di tempo di circa 14 anni e conclusa nel 427 d. C.
Alcuni degli aristocratici cristiani erano fuggiti da Roma nel Nord Africa quando Roma era stata saccheggiata da Alarico nel 410 d. C.; essi necessitavano di una risposta per le sarcastiche osservazioni dei pagani, secondo cui Dio aveva permesso che un tale disastro accadesse nonostante Roma fosse una città cristiana.
La risposta di Agostino si articolò si articolò in 32 libri di lunghe e spesso difficili argomentazioni.
Egli cercò sia di mostrare che la cultura pagana era manchevole e basata sull’errore, sia di convincere i cristiani dotti che costituivano il suo pubblico per quest’opera che anch’essi erano in errore se pensavano che il solo essere cristiani avrebbe loro garantito la felicità e la prosperità sulla terra.
Anzi, la città celeste, Gerusalemme contrapposta ad Atene, era un concetto spirituale che esiste in noi stessi e nella vita futura.
L’ultimo libro analizza in dettaglio il tipo di vita che le persone virtuose possono attendersi in paradiso dopo il giudizio che separerà i credenti dai non credenti.
Ma La città di Dio è anche una grande opera di teoria politica che passa in rassegna ed interpreta la storia di Roma dal suo anno di fondazione secondo la tradizione, il 753 a. C., fino all’epoca cui viveva Agostino.
Egli intendeva dimostrare che il mondo era governato secondo un modello provvidenziale cristiano; pertanto, Agostino doveva dare una spiegazione del passato pagano di Roma agli occhi dei cristiani e rigettare le argomentazioni dei pagani, ossia che il sacco di Roma del 410 d. C. invalidasse la dottrina della provvidenza cristiana.
Così Agostino, egli stesso imbevuto di cultura classica, sostenne che la Roma pagana era basata sull’errore; non solo: neppure la Roma di Cicerone e di Livio era stata in grado di realizzare il modello di Stato che Cicerone teorizza nel De repubblica; ciò accadde, secondo l’opinione di Agostino, perché lo Stato romano non era basato sulla giustizia, il che vuol dire dare a Dio il dovuto come pure agli uomini.
Un’ampia sezione de La città di Dio è, in effetti, dedicata ai grandi scrittori latini classici, in specie Cicerone e Virgilio, dato che Agostino stesso conosceva la forza di attrazione che la loro opera esercitava sulle persone colte.
I lunghi passi relativi a Platone ed i suoi recenti seguaci, i neoplatonici, sono anche un riflesso delle simpatie intellettuali di Agostino, mentre si indirizzano alla principale alternativa di pensiero al cristianesimo.
Nondimeno, la posizione di Agostino non mostra cedimenti: Platone ed il platonismo possono rappresentare la forma più raffinata di pensiero filosofico, ma hanno torto, per il fatto che non hanno avuto la capacità di riconoscere il vero Dio.
Nel passato, insomma, i pagani erano stati indotti in errore, laddove l’Impero cristiano rientra nei progetti che Dio ha nei confronti del genere umano.
I cristiani, però, non possono aspettarsi automaticamente felicità e successo sulla terra.
Dio continuerà a metterli alla prova e a saggiare le loro qualità; per di più, gli esseri umani sono innatamente inclini al peccato, quindi devono lottar per agire rettamente con l’aiuto della grazia divina: i giusti riceveranno solo in cielo la ricompensa che meritano.
La città di Dio è insieme opera di storia, di filosofia, di teoria della politica e di teologia: queste varie componenti sono combinate in un unico, vasto disegno.
Ma, così come essa respinge in ultima analisi la validità di quella cultura classica nell’insegnamento della quale Agostino aveva speso la prima fase della sua vita, così essa rigetta il valore del passato di Roma e della sua storia a paragone del presente cristiano, e rifiuta ogni genere di indagine critica sostenendo fermamente che sia la provvidenza divina a dirigere la storia.
Secondo tale concezione, il primo dovere di un governante cristiano è quello di imporre la vera fede.
Agostino giustifica, espressamente, le persecuzioni cristiane.
La città di Dio venne scritta perché Roma fu saccheggiata: il suo punto focale è Roma, il passato di Roma e gli scrittori di Roma.
Coloro che risiedevano in Oriente non lessero Agostino, sia durante la sua vita che successivamente: anche se il greco che egli conosceva era di un livello migliore di quello che alcuni studiosi vogliono riconoscergli, egli non si sentiva a proprio agio con questa lingua.
Un aspetto molto importante dell’eredità di Agostino è rappresentato dalla sua dottrina del peccato, destinata ad essere fondamentale per le idee della cristianità occidentale nel Medioevo e nelle età successive.
Egli riteneva che gli uomini e le donne fossero intrinsecamente peccaminosi e necessitassero della grazia divina per la remissione dei peccati; e contestò appassionatamente l’accentuazione posta dal monaco Pelagio, originario della Britannia, sul libero arbitrio.
La psicologia di Agostino può essere di una modernità sorprendente, così come la sua comprensione filosofica del linguaggio: le sue Confessioni sono uan pietra miliare nella storia del genere autobiografico.
Fu però la sua insistenza sulla fragilità umana e sulla subordinazione della storia al volere di Dio che ebbe un’influenza tanto straordinaria sull’Occidente medievale.
Tanto grande è la statura di questo personaggio che si tende a trascurare il fatto che la Chiesa orientale si sottrasse alla sua influenza per questo particolare aspetto, così come per altri e ancora rifiuta l’insistenza agostiniana sul peccato originale.
L’aspetto amaro della sua personale situazione di Agostino fu che, come anche il suo biografo Possidio sottolinea, dopo aver formulato la propria interpretazione cristiana della storia ne La città di Dio, la sua esistenza continuò fini a vedere addirittura la sua provincia invasa, le chiese profanate ed i fedeli uccisi o imprigionati.
Alcuni vescovi erano inclini ad abbandonare le proprie sedi vescovili per motivi di sicurezza, ma Agostino asserì con fermezza che il dovere di un vescovo era quello di stare con i suoi fedeli.
Gli venne, comunque, risparmiata la distruzione di Ippona: egli morì verso la fine del 430, un anno prima che la città fosse evacuata e parzialmente incendiata.
L’esercito romano in Nord Africa era diventato debole al punto da non poter offrire nessun tipo di difesa reale nei confronti dei vandali; per quella che era stata una delle più floride e tranquille province iniziò il periodo della dominazione dei vandali ariani, che durò finché Belisario, generale di Giustiniano, non vi giunse con l’esercito bizantino nel 533 d. C.
Il Nord Africa ci fornisce una vivida immagine del crollo del sistema imperiale in Occidente; in pratica i vandali entrarono in questa provincia, con le proprie mogli, i propri bagagli e i propri dipendenti – non si trattava proprio, globalmente, di forze molto numerose – ed incontrarono una scarsa, o addirittura nessuna forma di resistenza sia da parte delle truppe romane che da parte della popolazione locale.
Recenti ricerche hanno dimostrato che i motivi di quanto accadde sono da ricollegarsi più al progressivo indebolimento del governo centrale ed ai problemi generali che affliggevano l’esercito romano che non al declino economico a livello locale, dato che le città nordafricane e la stessa economia nordafricana erano fiorenti alla fine del quarto secolo.
Questo fatto ci riporta inevitabilmente a considerare il problema del perché l’Impero romano d’Occidente “decadde” o “cadde” nel quinto secolo.
Sono ormai inaccettabili quelle antiquate spiegazioni di carattere moraleggiante (sebbene ve ne siano ancora molte in circolazione), così come risulta troppo semplicistico attribuire la colpa alle invasioni barbariche (quantunque sia intrigante l’ipotetica questione di che cosa sarebbe potuto accadere se non ci fossero state le invasioni barbariche).
Una teoria più recente raffronta la caduta dell’Impero romano con quella di altre importanti culture della storia mondiale e cerca di darne una spiegazione in termini di crollo delle società complesse.
In breve, secondo questa teoria, a mano a mano che una società cresce, diviene sempre più differenziata da un punto di vista sociale e più complessa: solo perché questa possa stare in piedi si verifica un aumento proporzionale delle sue necessità.
Viene però un momento in cui il profitto marginale delle strategie di massimizzazione come la conquista o la tassazione, diminuisce sotto la pressione di “sollecitazioni continue, impreviste sfide e del prezzo eccessivo dell’integrazione sociopolitica”.
Segue, caratteristicamente, un periodo di difficoltà (stagnazione economica, declino politico, riduzione del territorio), cui succederà il vero e proprio crollo, a meno che non intervengano nuovi fattori.
Nel caso dell’Impero romano, delle sfide impreviste facevano parte la pressione permanente che proveniva da effettivi e da potenziali invasori, problema che l’impero non riuscì a risolvere o a contenere.
Molto, in questa analisi, ci è familiare, anche se essa poggia sulla discutibile ipotesi che lo sviluppo storico delle società sia di per sé in un certo senso storicamente determinato.
Tale teoria, perlomeno, permette agli storici romani di avere un atteggiamento più obiettivo nei confronti del proprio campo di indagine, nonché di vedere che i problemi affrontati dallo Stato tardoromano non erano unici nel loro genere e che nemmeno lo erano i tentativi, spesso inefficaci, di trovare delle soluzioni ad essi.
In questo caso particolare, bisognerebbe aggiungere a questa equazione la relativa mancanza sia di comprensione dei fatti economici che di strutture economiche, nonché l’incapacità del governo centrale, perfino dopo Diocleziano, di assicurare il benessere all’impero nella sua interezza.
L’Impero romano era da sempre in una situazione di equilibrio precario tra centro e periferia: la sua sopravvivenza era dipesa non solo dalla pace esterna, ma anche da un elevato grado di buona volontà all’interno.
Tra la fine del quarto secolo ed il quinto secolo tutti questi fattori furono messi a repentaglio.
Considerazioni come quelle svolte incitano a compiere dei confronti con il mondo moderno: questa operazione può aiutarci a capire il mondo antico solo a condizione che badiamo a stabilire paragoni tra gli elementi che si somigliano.
Nelle pagine di questo libri abbiamo notato che dietro le generalizzazioni usuali sulla società romana tardoantica si cela una grande varietà e diversità di fenomeni.
La tarda antichità fu un’epoca di rapidi cambiamenti che si manifestarono in aree diverse secondo modalità diverse.
Questa è anche una componente di rilievo per riuscire a spiegare la sopravvivenza dell’Impero d’Oriente dopo la caduta di quello d’Occidente.
Certo, nella parte orientale la ricchezza era distribuita in maniera più equilibrata e du maggiore il successo nell’allontanare la minaccia portata dai barbari del nord (a detrimento della parte occidentale).
A questo dobbiamo aggiungere il fatto che in questo periodo si impose un certo equilibrio delle forze tra l’Impero d’Oriente ed il suo maggiore rivale, la Persia sassanide; per quanto penoso od oneroso possa essere stato un singolo episodio, nessuna delle due parti cercò seriamente di distruggere l’altra.
Erano però le infinite piccole variabili locali che determinavano il quadro d’insieme.
Inoltre, sebbene ciò esuli dall’argomento di questo libro, nessuna di queste argomentazioni è in grado di dar conto della persistente capacità di sopravvivenza di Bisanzio alle disastrose catastrofi che ebbe a soffrire nel settimo secolo e nelle epoche seguenti, quando l’equilibro si infranse, sino al costituirsi dell’Impero ottomano.
Il senso del fluire ampio – ossia la longue durée – della storia si trova anch’esso celato dietro un tipo di approccio in qualche misura diverso da questo tipo di questioni.
Piuttosto che porre l’accento sulle divisioni e fratture sia l’Impero d’Oriente che quello d’Occidente possono essere considerati come qualcosa che appartiene alla più lunga storia dell’Europa e del Mediterraneo.
Questo particolare modo di affrontare i problemi ha anche il vantaggio di allontanare per un po’ le nostre menti dal problema dibattuto fino all’eccesso della fine del mondo antico, fornendoci invece la possibilità di volgere lo sguardo a particolari argomenti di discussione quali gli insediamenti, il clima, gli scambi e l’organizzazione politica all’interno di un periodo molto più lungo.
Le ricostruzioni degli storici moderni hanno anche molto a che fare con il tipo di dati che essi hanno adoperato: le fonti letterarie portano a concentrare l’attenzione su una serie limitata di questioni, tra cui quella, rilevante, del rapporto che esiste con il passato classico, mentre uno studio più ampio, basato maggiormente sulle testimonianze archeologiche e soprattutto quelle delle indagini di superficie, riesce a far sì che emergano tipi di problematiche alquanto diversi.
Visti da questa prospettiva molto più ampia, sebbene debbano certo essersi verificati dei sostanziali mutamenti politici in determinati momenti (la “crisi del terzo secolo”, seguita dalle riforme di Diocleziano, la frammentazione del governo romano in Occidente, l’invasione araba in Oriente), nessuno di questi fatti in sé modificò fondamentalmente lo status quo.
Invero, in alcune regioni dell’Impero d’Oriente si era raggiunta un’assai elevata densità di insediamenti al tempo dell’invasione araba, mentre l’effetto che quest’ultima ebbe fu all’inizio molto più limitato di quanto non si supponga di solito.
Piuttosto, questi momenti politici di svolta rappresentano delle fasi si un’evoluzione molto più lunga, alla fine della quale il baricentro si spostò verso il Nord Europa, mentre si stavano sviluppando le condizioni che portarono all’espansione ed alla crescita economica dell’età altomedievale.
In Oriente il trasferimento della capitale islamica da Damasco a Baghdad alla metà dell’ottavo secolo fu non solo di portata cruciale nel determinare il carattere del dominio islamico d’ora in avanti, ma pose anche fine agli effetti benefici dell’investimento effettuato per lungo tempo dall’Impero tardoromano nel Vicino Oriente.
In Occidente il governo imperiale romano fu sostituito da regni che gli successero, nei quali molti dei tratti peculiari del primo vennero mantenuti.
Ugualmente, in Oriente, la vita nelle regioni conquistate non fu immediatamente o totalmente cambiata dall’invasione araba.
In qualsivoglia momento la si collochi cronologicamente, la “caduta” dell’Impero romano non fu un singolo, drammatico evento che mutò l’aspetto dell’Europa e del Mediterraneo.
Il tema di questo volume è stato soprattutto il quarto secolo.
In questo periodo possiamo vedere tanto la capacità di ricupero del sistema imperiale romano, quanto l’inerzia tipica di una società premoderna.
La “crisi del terzo secolo” non sfociò in una rivoluzione, ma neppure, alla fine, gli imperatori del quarto secolo furono in grado di superare gli ostacoli che si frapponevano all’esercizio di un efficace potere.
Nello stesso periodo il cristianesimo ottenne il sostegno degli ambienti ufficiali, mentre il suo potente sistema istituzionale venne rafforzato da vantaggi legali ed economici.
Costantino aveva inconsciamente creato una Chiesa che per secoli avrebbe rivaleggiato col potere statale.
Durante il tardo impero non ebbe luogo alcuna fondamentale trasformazione economica: certo, ora la Chiesa assorbiva buona parte del surplus produttivo, proprio nel momento in cui le difficoltà di mantenere un esercito adeguato crebbero, per effetto delle pressioni esterne, ad un livello tale che il governo della parte occidentale finì per arrendersi.
I problemi politici, economici e militari che si conobbero in quest’ultima fase del sistema imperiale romano erano senz’altro, perciò, molo grandi e le fonti letterarie conservano un’eco di essi.
Da un punto di vista culturale, tuttavia, la tarda antichità fu molto diversa da ciò che questo modello suggerisce.
Diverso, mutevole, innovativo, contraddittorio: tutti questi aggettivi possono legittimamente attribuirsi al tumultuoso mondo di Ammiano Marcellino.
Per alcuni versi, si tratta di un mondo come il nostro, con i suoi rapidi cambiamenti ed il senso di trovarsi fuori posto che ad essi si accompagna.
Non è il mondo classico a noi familiare, ma è proprio questo che ne costituisce il fascino.
Bibliografia
Il tardo impero romano / A. H. M. Jones. – Il Saggiatore, 1973. – 3 v.
Il tramonto del mondo antico / A. H. M. Jones. – Laterza, 1982
Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto / P. Brown. – Einaudi, 1974
Storia sociale dell’antica Roma G. Alfoldy, . Il Mulino, 1987
Storia del mondo antico: evoluzione e declino dell’Impero romano. – Il Saggiatore/Garzanti, 1982
Storia del mondo medievale, vol. 1.: La fine del mondo antico. – Garzanti, 1983
Società romana e impero tardoantico / a cura di A. Giardina. – Laterza, 1986. – 4 v.
Storia di Roma / a cura di A. Carandini … et al. – Einaudi, 1993
Introduzione
L’Impero romano e i popoli limitrofi / a cura di F. Millar. – Feltrinelli, 1968
Storia economica e sociale dell’Impero romano / M. I. Rostovzev. – La Nuova Italia, 1976
Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel terzo secolo d. C. / M. Mazza. – Laterza, 1973
Pagani e cristiani in un’epoca d’angoscia / E. R. Dodds. – La Nuova Italia, 1970
Pagani e cristiani / R. Lane Fox. – Laterza, 1991
I cristiani e l’Impero romano / M. Sordi. – Mondadori, 1990
Cap. 1. Le fonti
Lo spazio letterario di Roma antica. – Salerno, 1989-1991. – 5 v.
Storia dell’educazione nell’antichità / H. I. Marrou. – Studium, 1966
Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo quarto / a cura di A. Momigliano. – Einaudi, 1968
Il pensiero storico classico / S. Mazzarino. – Laterza, 1965-66
Cap. 2. Il nuovo impero: Diocleziano
La corruzione e il declino di Roma / R. MacMullen. – Il Mulino, 1991
Cap. 3. Il nuovo impero: Costantino
Roma: profilo di una città / R. Krauthheimer. – Edizioni dell’Elefante, 1981
Cap. 4.: Chiesa e Stato: l’eredità di Costantino
Religione e società nell’età di Sant’Agostino / P. Brown. – Einaudi, 1975
Cap. 6. Lo Stato romano tardoantico: da Costanzo a Teodosio
L’economia romana / A. H. M. Jones. – Einaudi, 1984
La schiavitù nel mondo antico /a cura di M. I. Finley. – Laterza, 1990
Egitto e storia antica dall’ellenismo all’età araba / a cura di L. Criscuolo e G. Geraci. – Il Mulino, 1989
Cap. 7. L’economia e la società romane tardoantiche
L’inflazione nel quarto secolo d. C. – Istituto italiano di numismatica, 1993
L’economia degli antichi e dei moderni / M. I. Finley. – Laterza, 1977
Nuove questioni di Roma antica. – Marzorati
Povertà ed emarginazione a Bisanzio / E. Parlagean. – Laterza, 1986
Pellegrinaggio in terra santa / J. Wilkinson. – Nardini, 1989
Cap. 8. Le vicende militare, i barbari e l’esercito romano tardoantico
Una cultura barbarica: i germani / E. A. Thompson. – Laterza, 1976
Storia di Attila e degli unni / E. A. Thompson. – Sansoni, 1978
La grande strategia dell’Impero romano / E. Luttwak. – Rizzoli, 1987
Per la storia dell’esercito romano in età imperiale / E. Gabba. – Patron, 1974
Cap. 9. La cultura nel tardo quarto secolo
Lettura e istruzione nel mondo antico / W. V. Harris. – Laterza, 1991
Cristianesimo primitivo e paideia greca / W. Jaeger. – La Nuova Italia, 1974
La fine dell’arte antica / R. Bianchi. – Rizzoli, 1976
Cap. 10. Costantinopoli e l’Oriente
Studi sulla città imperiale romana nell’Oriente tardoantico / A. Lewin. – New Press, 1991
La società e il sacri nella tarda antichità / P. Brown. – Einaudi, 1988
Cronologia
Anni |
Occidente |
Oriente |
|||
224 |
|
Comincia la dinastia sassanide |
|||
241-272 |
|
Shahpur 1. |
|||
253-260 |
Valeriano |
|
|||
253-268 |
Gallieno |
|
|||
259-274 |
Impero gallico |
|
|||
272 |
Aureliano prende Palmira |
|
|||
284-305 |
|
Diocleziano |
|||
301 |
|
Editto dei prezzi |
|||
306 |
Costantino proclamato imperatore a York |
|
|||
312 |
Battaglia di Ponte Milvio |
|
|||
313 |
|
Editto di Milano |
|||
314 |
Concilio di Arles |
|
|||
324 |
|
Costantino sconfigge Licinio |
|
||
325 |
|
Concilio di Nicea |
|
||
330 |
|
Dedicatio di Costantinopoli |
|
||
337 |
|
Morte di Costantino |
|
||
350-353 |
|
Gallo Cesare |
|
||
350-353 |
Magnenzio in Britannia |
|
|
||
357-359 |
Giuliano Cesare in Gallia |
|
|
||
359 |
|
Shapur 2. Cattura Amida |
|
||
361-363 |
|
Regno di Giuliano |
|
||
362-363 |
|
Spedizione di Giuliano contro la Persia |
|
||
364 |
|
Gioviano cede Nisibi |
|
||
364-375 |
Valentiniano 1. |
|
|
||
364-378 |
|
Valente |
|
||
378 |
|
Battaglia di Adrianopoli |
|
||
379-395 |
|
Teodosio 1. |
|
||
381 |
|
Concilio di Costantinopoli |
|
||
382 |
Teodosio insedia i goti come federati |
|
|
||
384 |
Graziano fa rimuovere l’altare della vittoria dal senato |
|
|
||
387 |
|
Sommossa di Antiochia |
|
||
392 |
Rivolta di Eugenio |
|
|
||
394 |
Battaglia del fiume Frigido; suicidio di Nicomado Flaviano |
|
|
||
395 |
Onorio regna in Occidente |
Arcadio regna in Oriente |
|
||
395-430 |
Agostino vescovo di Ippona |
|
|
||
398 |
|
Giovanni Crisostomo vescovo di Costantinopoli |
|
||
403 |
|
Primo esilio di Crisostomo |
|
||
404 |
|
Crisostomo viene deposto |
|
||
408 |
Caduta e morte di Stilicone |
|
|
||
410 |
Alarico e i visigoti prendono Roma |
|
|
||
429 |
I vandali si spostano in Africa |
|
|
||
430 |
Morte di Agostino |
|
|
||
Imperatori da Gordiano 1. a Teodosio 2.
I nomi in parentesi quadre sono quelli degli usurpatori, cioè degli imperatori non ritenuti legittimi; non tutti sono stati inclusi.
Le dare che si sovrappongono indicano regni congiunti
238 |
Gordiano 1. |
238 |
Gordiano 2. |
238 |
Balbino |
238 |
Pupieno |
238-244 |
Gordiano 3. |
244-249 |
Filippo l’Arabo |
249-251 |
Decio |
251-253 |
Treboniano Gallo |
251-253 |
Volusiano |
253-260 |
Valeriano |
253-268 |
Gallieno |
259-268 |
[Postumo] |
267-268 |
[Vittorino] |
270-274 |
[Tetrico] |
268-270 |
Claudio 2. Gotico |
270 |
Quintillo |
270-275 |
Aureliano |
275-276 |
Tacito |
276 |
Floriano |
276-282 |
Probo |
282-283 |
Caro |
283-285 |
Cario |
283-284 |
Numeriamo |
284-285 |
Diocleziano |
286-305, 307-310 |
Massimiano |
286-293 |
[Carausio] |
293-296 |
[Alletto] |
305-306 |
Costanzo 1. Cloro |
305-311 |
Galerio |
306-307 |
Severo |
306-337 |
Costantino 1., f. di Costanzo 1. |
308-324 |
Licinio |
308-313 |
Massimino, nipote di Galerio |
337-340 |
Costantino 2., f. di Costantino 1. |
337-350 |
Costante., f. di Costantino 1. |
337-361 |
Costanzo 2. ., f. di Costantino 1. |
350-353 |
[Magnenzio] |
350 |
[Vetranione] |
350 |
[Nepoziano] |
361-363 |
Giuliano |
363-364 |
Gioviano |
364-375 |
Valentiniano 1. |
364-378 |
Valente, fratello di Valentiniano 1. |
365-366 |
[Procopio] |
367-383 |
Graziano, f. di Valentiniano 1. |
379-395 |
Teodosio 1. |
383-387 |
[Magno Massimo] |
392-394 |
[Eugenio] |
383-408 |
Arcadio, f. di Teodosio 1. |
393-423 |
Onorio, f. di Teodosio 1. |
408-450 |
Teodosio 2., f. di Arcadio |
Storia di Roma di Adam Ziolkowski
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Cap. 2. La Roma dei Tarquini
Roma emerge definitivamente dalle tenebre dalla protostoria alla fine del 6. secolo a. C. nel momento dell’istituzione della Repubblica. La monarchia lasciò in eredità la potenza politica (l’ampiezza dell’ager Romanus, l’egemonia sul Lazio), quella economica e culturale, e istituzioni civiche di una raffinatezza pari a quella delle strutture delle poleis più progredite della Grecia arcaica. Anche se poco più tardi l’egemonia sul Lazio subì una temporanea eclissi ed entro la comunità scoppiò un conflitto sociale lungo e accanito, le istituzioni politiche, l’ampiezza del territorio e le tradizioni egemoniche sopravvissero, rendendo possibile cent’anni dopo la caduta della monarchia la ripresa dell’espansione.
L’elemento cruciale di questa eredità – l’emergere di Roma come un gigante tra le città latine – fu, come abbiamo visto, opera delle prime generazioni dell’età monarchica. Gli altri elementi sono collocati dalla tradizione nei tempi dei tre ultimi re, che costituiscono una vera e propria dinastia: Lucio Tarquinio Prisco (616-578), il genero di costui Servio Tullio (578-534) e il genero, cognato (e uccisore) di Servio, Lucio Tarquinio il Superbo (534-509), figlio di Tarquinio Prisco. E’ per questo che Giorgio pasquali intitolò il suo celebre articolo del 1936, che valorizzava la tradizione della potenza romana nel 6. secolo, La grande Roma dei Tarquini. La mostra del 1990, intitolata allo stesso modo, consacrò – a quanto pare definitivamente – l’uso di questa espressione.
P. 31
Cap. 3. La prima Repubblica (509-396 a. C.)
Da tutto questo consegue che la forma romana del potere – due magistrati di pari grado, detentori del pieno imperium dei re – nacque assieme alla Repubblica. L’obiettivo degli autori di questa eccezionale soluzione costituzionale risulta chiaramente dal fatto che nel caso del dissenso tra i consoli aveva la meglio il principio della protesta: si cercava così di mettersi al sicuro dalla possibilità di un abuso del suo enorme potere da parte del console. L’altro principale mezzo di protezione fu naturalmente la limitazione dei poteri dei consoli a un anno. Il padre della Repubblica, Publio Valerio Publicola, ricoprì il consolato senza interruzione per i primi tre o quattro anni del nuovo regime, ma presto prevalse la regola per cui nessuno poteva detenere il potere supremo per due anni di seguito.
La sola eccezione al principio di collegialità fu la dittatura, attestata per la prima volta nel 501. Il dittatore, detentore del potere supremo, veniva nominato da uno dei consoli con un mandato che prevedeva un incarico concreto che esigeva il possesso dell’imperium maximum, come poteva essere un’emergenza militare o conficcare il chiodo nel muro del tempio capitolino; dopo la nomina il dittatore designava il suo magister equitum. Il dittatore poteva tenere la carica per sei mesi al massimo, ma normalmente abdicava dopo aver compiuto il suo incarico. La sola garanzia contro il potere in tutto e per tutto regale del dittatore era la regola secondo la quale il console che faceva la nomina aveva la facoltà di scegliere chiunque, anche il suo collega, ma non se stesso.
P. 60
Cap. 5. La conquista dell’egemonia nel Mediterraneo
Secondo la prospettiva delle radici greco-romane della nostra civiltà i più importanti conflitti armati dell’antichità furono indubbiamente le guerre persiane e quelle puniche: le prime, in quanto salvaguardarono l’indipendenza e l’identità culturale dei greci, consentendo loro di sviluppare senza più ostacoli la loro inconfondibile civiltà; le seconde, perché decisero una volta per tutte che Roma avrebbe dominato il mondo. Le guerre puniche – e concretamente la prima (264-241) e la seconda (218-201) – furono peraltro il maggiore conflitto armato dell’antichità anche il senso letterale, in considerazione della loro durata, dell’entità delle forze impegnate e dell’ampiezza delle perdite di entrambe le parti. La terza (149-146), più che una guerra, fu l’omicidio premeditato di una vittima inerme.
Le fonti conservate delle guerre puniche sono esclusivamente romane o filoromane e dunque tendenziose; questa constatazione va riferita in egual misura al greco Polibio, che passa per un modello di obiettività, e al romano Livio, del tutto innocente nel suo sciovinismo acritico. L’aver messo sullo stesso piano i due antagonisti è forse la deformazione più grave derivante dall’ottica romana delle nostre fonti, il fatto di guardare al conflitto romano-cartaginese come allo scontro di due imperialismi equivalenti, tutti e due decisi a neutralizzare il rivale e a conquistare, in una prospettiva ulteriore, il dominio del mondo. Questi sono scopo che si potevano semmai attribuire a Roma (che però costituiva un’assoluta eccezione tra le città stato mediterranee), in considerazione non tanto delle sue smanie imperialistiche in quanto tali, ma della formazione di meccanismi che fecero della continua espansione armata un suo tratto costitutivo e che le permisero di valersi di ogni nuova conquista per potenziare il proprio potenziale militare. Cartagine, come già in passato Siracusa, Sparte o Atene, possedeva, da parte sua, un proprio impero, ma non aveva realizzato una simile macchina da espansione militare; questo significa tra l’altro che le sue possibilità – e i suoi appetiti – di conquista erano incompatibilmente più modeste. Le guerre puniche furono lo scontro dell’imperialismo romano, del tutto unico e incontenibile nella sua sete di possesso, con il più efficace degli imperialismi di tipi tradizionale, di carattere e portata limitati.
In questo scontro Roma fu fin dall’inizio superiore al rivale in quanto a potenziale demografico, economico e militare; da questo punto di vista è possibile sostenere che i destini del mondo fossero decisi già dopo Sentino e che le guerre puniche furono semplicemente il banco di prova, peraltro severissimo, che misurò la potenza dell’Impero italico della repubblica e la sua resistenza, e allo stesso tempo il momento in cui le dimensioni di quella potenza si rivelarono al mondo intero. D’altra parte, anche se i romani intrapresero le guerre con Cartagine del tutto consapevoli della propria superiorità, il loto andamento fu per loro assolutamente sorprendente e lo stesso risultato finale rimase aperto fino all’ultimo momento. I Cartaginesi si dimostrarono altrettanto resistenti dei Sanniti; oltretutto, per vincere contro di loro la prima di queste guerre, degli animali terricoli come i Romani furono costretti a dominare un elemento che fino ad allora era per loro sconosciuto e che si rivelò più che mai impegnativo, il mare. Nella seconda, invece, il loro impero venne a trovarsi sull’orlo del baratro a causa di un fattore il cui peso, nonostante il precedente di Pirro, non era prevedibile: un condottiero dell’inimmaginabile genio tattico.
P. 126-27
Quando poi il successore di Filippo, Perseo (dal 179), tentò di riallacciare le relazioni interrotte con gli stati greci, e in particolare con il più forte e autonomo di essi, la Lega achea, il senato prese le decisioni di distruggere il suo regno. La propaganda romana accusò il re di accingersi alla vendetta, ; il pretesto arrivò da una provocazione allestita grossolanamente dal compiacente Eumene di pergamo, il quale, mentre faceva ritorno nel 173 a Roma, dove era andato per aizzare la repubblica contro Perseo, mise in scena un attentato contro se stesso in prossimità di Delfi, incolpandone il re di Macedonia.
P. 161
In realtà questi casi sono solamente la prova della propria assoluta superiorità sugli altri, di cui si diceva poc’anzi. Azioni volte a salvare la faccia sono tipiche di chi è cosciente della propria inferiorità. Fu esattamente il senso della propria debolezza che nel 1914 spinse la Russia a ritenere inammissibile un’ulteriore umiliazione da parte dell’Austria-Ungheria e di conseguenza a lasciarsi trascinare in una guerra i cui effetti catastrofici per il suo impero erano ben chiari a tutti quelli che avevano preso quella decisione. Roma, invece, non lasciò mai che l’attenzione per le questioni altrui dettasse la propria politica, né a lungo né a breve termine. Tanto per ricordare un caso, a suo modo estremo, come quello che ebbe luogo in Siria nel 162: se nel 219 Annibale aveva reagito in modo sorprendentemente rapido e risoluto alle provocazioni saguntine, tanto peggio per i Saguntini. I Romani avevano preso già le loro decisioni sulla politica di quell’anno, specialmente quella di mandare entrambi i consoli in Illiria; rimasero pertanto a osservare inerti un assedio di otto mesi, finito con la distruzione dell’alleato, che essi stessi avevano spinto a muoversi contro i Cartaginesi. La coscienza della grandezza della propria potenza e della sua preponderanza sugli altri, quale era stata raggiunta nella seconda guerra punica e verificata poi a fondo nei primi decenni del 2. secolo, fece si che le decisioni romane se intervenire o non intervenire, guerra o pace, annessione o non annessione, furono dettate fondamentalmente da considerazioni interne. Questa era la sostanza dell’imperialismo romano all’epoca dell’espansione della repubblica al di là del mare.
P. 181
Cap. 6. Società e Stato in età mediorepubblicana
Esamineremo ora le vicende interne della repubblica che avevamo lasciato agli anni 343/341, nel momento in cui l’inizio della seconda fase dell’espansione militare di Roma, questa volta inarrestabile, rese acuto il problema delle modalità con cui sfruttare la vittoria. Il “contratto sociale” concluso attorno al 342/341, che garantiva alla comunità romana la partecipazione ai profitti derivanti dall’impero, rimase in vigore per duecento anni, prima di venire apertamente rotto da una delle parti nel 133. Nel frattempo la repubblica, da principale potenza laziale, era cresciuta fino a diventare la signora del mondo, il corpo della sua cittadinanza si era decuplicato, la sua struttura economica e sociale si era trasformata completamente, le istituzioni dello Stato e le regole della vita politica avevano subito una profonda evoluzione. Ciò nonostante gli anni 343/341.133 costituiscono per la storia di Roma un periodo profondamente unitario proprio perché fu questa l’epoca di quel “contratto sociale” dal quale derivò una relativa pace interna. La stasis (“turbolenza interna”) era iscritta nella natura della città-stato antica; Roma però per duecento anni seppe tutelarsi dalle sue troppo violente e in particolare dallo spargimento di sangue dei suoi cittadini per ragioni di politica interna, arte che non le era riuscita in precedenza e non le riuscirà più in seguito.
Cap. 7. La “rivoluzione romana” e la fine della repubblica
- I Gracchi e la rottura del contratto sociale repubblicano (133-91 a. C.)
Gli antichi erano consapevoli del fatto che il tribunato di Tiberio Gracco fu un momento di svolta nella storia della repubblica. Dopo il 133 niente restò più come prima; ma, soprattutto, il colpo inferto con la gamba di una panca che spezzò la vita di Tiberio fu l’inizio di un secolo di lotte fratricide, alle quali pose fine l’instaurazione di un dispotismo militare detto convenzionalmente “impero”. Anche gli studiosi contemporanei guardano agli eventi del 133 più che altro secondo la prospettiva di quello che accadde più tardi, chiedendosi se i meccanismi propulsivi della rivoluzione romana che furono messi in moto dal tribunato di Tiberio avrebbero potuto svilupparsi nel quadro dell’ordinamento esistente; in altre parole la rivoluzione romana era evitabile?
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Caio, Flacco e i loro partigiani si ritirarono armati sull’Aventino, la tradizionale rocca plebea, dalla quale tentarono un accordo con il console.
[Ecco il precedente dell’Aventino del 20. secolo]
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La municipalizzazione in molti casi significava l’urbanizzazione o almeno la creazione del nucleo religioso-amministrativo del nuovo centro. Unitamente alle distruzioni della guerra sociale e della guerra civile, che ne era la continuazione, e probabilmente con al disponibilità delle somme che un tempo venivano spese per l’allestimento e il mantenimento dei contingenti per l’esercito romano, questo fatto provocò un vero boom edilizio, che durante l’ultima generazione della repubblica trasformò profondamente il paesaggio italico. L’elemento urbanistico più caratteristico delle città italiche del tempo fu non i templi e i fori, ma le raffinate fortificazioni, testimonianza non solo di orgoglio e di patriottismo locali, ma anche della condizione di inquietudine (guerre civili e servili, banditismo) nella quali la penisola sarebbe rimasta fino ai tempi di Augusto. Dei cambiamenti particolarmente importanti intervennero nei territori transpadani, dove l’acquisizione dello ius Latinum accompagnò non solo la trasformazione dei locali centri in imponenti città, ma anche la centuriazione associata a una bonifica dei terreni di campagna.
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Nel 55 e nel 54 Cesare passò in Britannia e al di là del Reno, contro i germani, ma gli eventuali piani di conquista su questi territori andarono a monte per il fermento insorto tra i Galli, che si erano resi conto che alleanza con Roma significava sottomissione. Nel 53 insorsero i popoli renani, appoggiati dai Germani, mentre nell’inverno del 53/52 si giunse persino a una sommossa generale di quasi tutta la Gallia sotto la guida di Vercingetorige del ceppo reale degli Arverni. La soluzione arrivò nel 52 ad Alesia, dove Vercingetorige si era chiuso, assediato da Cesare, La disfatta dell’armata mandata in soccorso e formata da contingenti di tutti gli stati della coalizione antiromana, oltra la capitolazione di Vercingetorige, ebbe come conseguenza la fine dell’insurrezione; nel 51 vennero liquidati gli ultimi punti di resistenza.
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Questi esperimenti e anche il suo aperto disprezzo per le inefficienti istituzioni repubblicane, ma soprattutto il fatto imperdonabile che un singolo esercitava e intendeva continuare a esercitare un potere che spettava a tutta l’élite lo portarono a morte per mano dei membri di una congiura organizzata da Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Longino; tra essi, accanto agli ottimati e ai pompeiani, si trovarono alcuni dei suoi amici più stretti (Decimo Giunio Bruto Albino, Caio Trebonio), incapaci di accettare le aspirazioni monarchiche del capo.
[Esempio di capo solo al comando]
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Cap. 8. Augusto e la formazione del principato (30 a. C.-14 d. C.)
- La monarchia del restitutor rei publicae
Nessuno, a quanto pare, dopo Azio si aspettava che il giovane Cesare cedesse il potere (come aveva più volte promesso durante la guerra di propaganda con Antonio); ed è anche poco probabile che fossero in molti a desiderarlo sinceramente. I gruppi che contavano – la plebe urbana, i veterani, i soldati – avevano già da prima optato per il monarca. Meno di tutti erano interessati al rovesciamento del nuovo stato di cose coloro che a fianco dei triumviri avevano conseguito posizioni più importanti e colossali patrimoni, , dando vita a un’élite nuova ed eterogenea (gli Italici che avevano ricevuto la cittadinanza nell’88/89 più gli eredi dei migliori cognomi storici di Roma). Ma anche costoro, ai quali gli anni che seguirono la morte di Cesare avevano portato solo perdite, probabilmente non rimpiangevano la “libera” repubblica. I lamenti per gli orrori delle lotte fratricide, la stanchezza per la guerra in generale, la nostalgia per la pace, che affiorano in quasi tutte le opere letterarie conservate di questi anni, dovevano essere universalmente condivisi.
Altrettanto universale era la consapevolezza che a recare tale pace poteva essere solo il potere di un singolo. I “liberatori” potevano ancora illudersi che, uccidendo il tiranno, avrebbero riportato la libertà; dopo le esperienze degli anni 44-30 fu chiaro che, qualora fosse andata a buon fine una delle numerose congiure contro il vincitore, ormai il suo unico risultato sarebbe stato la sostituzione del signore assoluto.
Nessuna congiura ebbe successo e il diciannovenne, che all’inizio della sua carriera era il più giovane dei signori della guerra del tramonto della repubblica, visse ancora 57 anni, 43 dei quali come signore esclusivo di tutto l’impero. Quando morì, la forma di governo da lui creata esisteva nei suoi elementi fondamentali già da una generazione. Questo lunghissimo regno (in seguito il maggior rivoluzionario porporato, Costantino, regnò “solo” 31 anni, di cui 13 su tutto l’impero) doveva essere la sua carta decisiva, quella che gli diede ciò che era mancato a suo padre: il tempo necessario per creare e rafforzare quel nuovo regime che dopo la sua morte sarebbe durato per più di 200 anni,
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L’istituzione repubblicana alla quale Augusto riconobbe il ruolo più importante del proprio sistema di potere fu il Senato. Mommsen non esitò a dichiarare che la formula che meglio esprime l’essenza del principato è quella della diarchia del principe e del Senato (beninteso, esclusivamente nell’ottica particolare, cioè giuridico-formale, del suo opus magnum, che il principato fosse de facto una monarchia assoluta egli lo sapeva non meno di Syme che su questo punto lo criticò in “The Augustian Aristocracy”). Le competenze formali della curia e la loro evoluzione sotto il principato verranno illustrate in seguito; qui è sufficiente ricordare le sue due funzioni principali. In primo luogo, come abbiamo visto, appartenervi era il segno distintivo e la condizione dell’appartenenza al gruppo che occupava tutti i posti importanti dello Stato (sotto Augusto in pratica l’unica eccezione a questa regola era il posto di prefetto dell’Egitto). In secondo luogo il Senato conservò il ruolo di principale foro del dibattito politico e dei contatti ufficiali con il mondo; e anche se le decisioni negli affari di Stato venivano prese nel “gabinetto” del principe, la loro presentazione in Senato e il relativo senatusconsultum costituiva lo stadio successivo e indispensabile della loro promulgazione (a differenza dei comizi legislativi, convocati solo per le questioni di particolare rilievo).
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Cap. 9. Il principato e l’integrazione dell’impero
Convenzionalmente i termini temporali del principato, cioè l’autocrazia mitigata dalle forme repubblicane, sono: la determinazione da parte di Augusto della propria posizione nello Stato negli anni 27/23 a. C. da un lato e, dall’altro, il tracollo del sistema politico da lui creato nel suo punto più debole, la trasmissione del potere, negli anni 235/244/249 d. C. Questi termini coprono con buona approssimazione l’epoca della pax romana, quella della pace interna e (a partire dai successori di Augusto) del venir meno dell’aggressività verso l’esterno, quando, a parte le truppe concentrate ai confini, la popolazione dell’impero conosceva le guerre e le rivoluzioni dai racconti e dalle letture, e lo spargimento di sangue dai giochi dei gladiatori.
Esagerando un po’ si può dire che i 200 anni di storia politica dello Stato comprendente il bacino del mare Mediterraneo, l’Occidente europeo e i Balcani, si esauriscono – a parte due guerre civili (69-70 e 193-197), una fase di espansione esterna (101-117) e una grande guerra difensiva (166-180) – con le biografie dei singoli imperatori: i loro rapporti con il Senato, le occasionali spedizioni fuori Roma, la vita privata: tutti aspetti che per il ungo tempo ebbero un’influenza minima sul funzionamento della macchina statale e sulla vita della stragrande maggioranza degli abitanti dell’impero.
Nel frattempo nel quadro istituzionale e territoriale creato da Augusto ebbero luogo fenomeni dei quali almeno due avrebbero avuto un’importanza storica infinitamente maggiore – tanto in una dimensione universale che dal punto di vista dell’ulteriore storia di Roma – di qualsivoglia iniziativa dei sovrani nella sfera politica: la romanizzazione delle province, ma specialmente la nascita e lo sviluppo del cristianesimo. L’effetto cumulativo dei cambiamenti che intervennero nell’impero nel corso dei 200 anni successivi alla morte di Augusto non fu minore di quello arrecato dai 40 anni del suo regno; quelli però erano in maggioranza fondamentalmente di un’altra natura ed ebbero luogo per lo più fuori dal centro di potere, Roma, e persino fuori d’Italia.
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- L’esercito, i confini e la politica estera
Verso la vien del 2. secolo i territori sotto la diretta amministrazione di Roma erano decisamente più estesi che al momento della morte di Augusto. In Africa, dopo l’annessione del regno di Mauritania (40), il potere romano arrivava sino all’Atlantico e, all’interno del continente, fino a Casablanca e Atlas Tellien. In Asia la conversione in provincia Arabia del regno di Nabateo (107) fece avanzare l’impero fino ai margini della zona semi desertica, su tutta l’area compresa fra l’Eufrate e il Mar Rosso oltre l’Eufrate, sui territori compresi tra l’odierna frontiera siriano-irachena a sud (Dura Europos) quasi fono al Tigri a nord (SIngara), sorsero le province di Osroena (195) e di Mesopotamia (198); a sua volta l’annessione di Cappadocia (17) e del Ponto orientale (64) sottomise al potere di Roma tutta l’Asia Minore fino ai confini con l’Armenia. In Europa vennero ad aggiungersi nuove province: nel 43 la Britannia, nel 44 la Tracia e nel 107 la Dacia (Transilvania); contemporaneamente, sotto l’amministrazione romana si venne a trovare un cuneo tra l’alto Reno e l’alto Danubio (85), i cosiddetti agri decumates (“terre sottomesse alla decima”).
Dall’altro lato, in conformità con l’antica concezione dell’impero composto di province e di regni, l’unica acquisizione territoriale di Roma nel Vicino Oriente fu la Mesopotamia; nei rimanenti territori, un tempo sottoposti ai re-clienti, avvenne un passaggio da un controllo indiretto a uno diretto. Identica natura ebbe l’espansione romana in Asia Minore, Africa e Tracia. Nel giro dei 200 anni successivi alla morte di Augusto l’impero si accrebbe in termini reali della Mesopotamia, della Dacia, della Britannia e degli agri decumates. Fatto il paragone con il ritmo delle conquiste dei secoli precedenti, abbiamo pertanto il diritto di affermare che l’avvento del principato significò l’abbandono della politica di espansione svolta per 400 anni.
Abbiamo visto in precedenza che Augusto aveva le sue ragioni per porre un freno alle sue conquiste. Ma perché i suoi successori, con poche eccezioni, continuarono questa stessa politica? La domanda è tanto più opportuna se si riflette che la causa principale dell’arresto dell’espansione negli anni 6-9 d. C. – l’impossibilità di continuare le conquiste e allo stesso tempo di controllare i territori già conquistati con el stesse forze, relativamente esigue – ben presto cessò di esistere. Il processo di romanizzazione delle élites locali sotto il principato fu talmente rapido che la necessità di mantenere degli eserciti di occupazione nelle province veniva meno in media nel corso della terza generazione dopo la conquista. Nella seconda metà del 1. secolo era già possibile concentrare quasi tutto l’esercito sui confini dell’impero senza il timore che scoppiasse la rivolta tra i popoli battuti. Dalla volontà dell’imperatore dipendeva il suo impiego come strumento di ulteriori conquiste o come guardia di frontiera. Per quale ragione quasi tutti gli imperatori lo utilizzassero come guardia di frontiera è la domanda più importante di tutta la storia del principato. Il tentativo di rispondervi richiede però in primo luogo una presentazione di questo stesso esercito e dei modi della sua utilizzazione, cioè in pratica la presentazione della politica estera dell’impero.
P. 352-353
Questa decisione trasformò uno dei più grandi – e pagati a più caro prezzo – trionfi militari della storia di Roma in una delle sue maggiori sconfitte. Per 150 anni, avendo fissato per i barbari la frontiera non oltrepassabile sul Reno e sul Danubio, Roma era stata costantemente presente in Europa centrale, specialmente nella sua parte meridionale, tra i Carpazi e il Danubio, facendo sì che questa piano piano si integrasse politicamente ed economicamente, anche se non culturalmente (in mancanza di urbanizzazione), con il resto dell’impero. Le guerre marcomanne costituirono la crisi generale del sistema di stati vassalli, che Marco Aurelio aveva deciso di risolvere con la loro annessione. La decisione di suo figlio significò de facto la ritirata dell’Europa centrale. Reno e Danubio divennero il confine non solo per i barbari ma anche per i Romani.
P. 363
Per la maggior parte dell’epoca del principato il cristianesimo compare come fenomeno secondario: una setta diffusa, ma non troppo numerosa, fuori dal comune più che altro per il fatto che anche la sola appartenenza ad essa era un crimine, punibile in linea di principio con la morte. D’altra parte, appena 15 anni dopo la morte di Alessandro Severo, la Chiesa venne riconosciuta dal potere imperiale quale nemico degno della prima azione generale contro un gruppo religioso dai tempi della sanguinosa repressione sei seguaci di Bacco nel 186 a. C.; del resto vale la pena di aggiungere: stavolta con scarsi risultati per lo stesso potere (a dire il vero i mezzi usati furono completamente diversi). Senza sopravvalutare quindi il grado di penetrazione del cristianesimo nella società dell’impero fino all’inizio del 3. secolo, sono almeno due le questioni di fondo che occorre cercare di affrontare: i meccanismi che provocarono il costante sviluppo della Chiesa, nonostante la generale ostilità verso di essa (in altre parole: che cosa spingeva la gente verso il cristianesimo e faceva sì che perseverasse, nonostante i problemi e i pericoli che ciò comportava?), e la reazione nei suoi confronti della società e del potere imperiale (altrimenti detto: che cosa fece sì che essi vedessero nei cristiani i loro nemici, come manifestarono la propria ostilità nei loro confronti e perché le persecuzioni furono così poco efficaci?).
P. 392
Cap. 10. La crisi, la ristrutturazione e la spartizione (235-295)
La profonda crisi politica e militare il cui inizio, come si è visto, si può datare al 235, si aggravò nel terzo quarto del 3. secolo a tal punto da mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’impero. Ciò costrinse gli imperatori a ricorrere a misure straordinarie, con conseguenze economiche e sociali di ampia portata che, a loro volta, resero necessarie altre riforme. Risultato finale di questo processo furono una completa trasformazione delle strutture dello Stato e, per conseguenza, un cambiamento radicale del modo di governare. La creazione di un “nuovo impero”, per molti aspetti interamente diverso dal vecchio, non fu tuttavia la sola novità rispetto all’età del principato: la novità più importante fu l’impetuosa espansione del cristianesimo, contemporanea alla crisi e alla ristrutturazione dello Stato che ebbe come risultato, prima della fine del secolo 4., la quasi totale cristianizzazione dell’impero.
La nuova forma statale continuò a esistere fino agli inizi del 7. secolo ; anche l’organizzazione urbana della società si mantenne in molte parti dell’impero almeno sino alla catastrofica pestilenza della metà del 6. secolo (non meno rovinosa di quella che avrebbe devastato l’Europa verso la metà del 14. secolo). Fino a quel tempo non possiamo ancora parlare di una civiltà cristiana; gli abitanti dell’impero erano ancora, culturalmente, dei Romani di fede cristiana. Tuttavia, per quell’organismo politico che era lo Stato romano, la cesura decisiva fu l’anno 395. La divisione dell’impero che fu fatta in quell’anno – di per sé non dissimile dalle divisioni che erano state fatte più volte a partire dalla fine del 3. secolo allo scopo di rendere più efficiente il governo di un territorio immenso – si rivelò duratura a causa delle invasioni barbariche che inondarono una delle parti dell’impero quasi immediatamente dopo quella data.
Il caso fece sì che la divisione amministrativa decisa nell’anno 395 coincidesse quasi perfettamente con la divisione linguistico-culturale dell’impero che esisteva da secoli, e cioè con la divisione in una parte occidentale in cui dominava la lingua latina e in una parte orientale in cui dominava la lingua greca. L’inaspettata decadenza dell’Occidente latino intensificò le differenze culturali, ebbe dunque come conseguenza una divaricazione sempre maggiore delle due parti, tanto più che l’Oriente greco disponeva ormai di un proprio centro politico e ideale, di una nuova Roma: Costantinopoli. L’Impero romano, il cui centro si trovava nel Bosforo, mentre sulle rive del Tevere comandavano, dapprima de facto, più tardi de jure, capi, più o meno romanizzati, di bande germaniche, era cosa radicalmente diversa dall’impero di una volta: di qui la scelta dell’anno 395 come data finale di questo libro.
Il mezzo secolo di crisi tra il 235 e il 284 può essere diviso in tre fasi. Gli anni 235-249/51 sono quelli dei prodromi della crisi, l’epoca dell’erosione del precedente sistema di successione nella misura in cui cresceva la minaccia esterna e, collegata ad essa, un senso di impotenza fino ad allora ignoto ai Romani. Nella fase delle più gravi sconfitte militari, cominciata con la sconfitta di Decio nel 251 e che durò fino alla vittoria di Nasso nel 267, quando fu evidente che l’esercito non era l’unica istituzione a mantenere in vita l’impero, il patriottismo o l’istinto di autoconservazione indussero la maggior parte di esso a restare al fianco della famiglia imperiale, la cui autorità rese possibile la concentrazione delle forze per il raggiungimento del fine più importante: battere i nemici esterni. L’ultima fase fu la conseguenza della presa del potere supremo da parte di un gruppo di militari professionisti, che non possedeva un meccanismo definito di conquista o di trasmissione del medesimo; questo fece sì che i vittoriosi anni 268-284 fossero di nuovo una catena di cesaricidi e usurpazioni che resero difficile l’opera della restituzione dell’ordine nello Stato dopo le convulsioni degli anni precedenti.
P. 413
Cosa altrettanto importante, nonostante la perdita del controllo su parte del territorio e la disorganizzazione provocata dalle invasioni, lo Stato fu un grado anche negli anni peggiori di mantenere un enorme esercito, il quale, se pure non crebbe numericamente, richiedeva spese sempre maggiori, se non altro a causa del ruolo crescente della cavalleria, particolarmente costosa nel mantenimento. Tenendo presenti le condizioni nelle quali si era trovato l’impero, questa necessaria impennata delle spese statali doveva aver luogo nell’ambito del sistema fiscale esistente. In questa situazione l’unica via d’uscita era l’aumento dell’emissione di moneta, cosa che, di fronte alla mancanza di riserve di metalli pregiati, significò la drastica riduzione del loro contenuto nelle monete, specialmente quelle d’argento, la vera base della circolazione monetaria. La spirale della svalutazione messa in moto in questo modo in poco più di 10 anni distrusse il sistema monetario dell’impero.
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Riassumendo: negare la crisi o metterla tra virgolette è il frutto di una profonda incomprensione, derivante dall’assolutizzazione di certe categorie di dati – secondo Tamara Lewit non ci fu nessuna crisi, dal momento che (secondo lei!) gli studi del territorio dimostrano che l’estensione delle aree coltivate nel 3. E nel 4. secolo rimase fondamentalmente la stessa – oppure dalla limitazione dell’ottica di indagine ai territori dove si manteneva la prosperity: come se l’interrotta espansione delle esportazioni in Africa fosse in grado di cancellare lo stato di rovina nel quale nello stesso tempo era caduta la Gallia. Sembra che il merito principale dei revisionisti sia la messa in discussone della convinzione – condivisa da autori che hanno una visione storica assai differente, come Mario mazza da una parte e Gèza Alfoldy dall’altra - secondo cui la catastrofe che si abbatté sull’impero alla metà del 3. secolo dovette essere provocata prima di tutto da profonde cause interne, alle quali la peste, i barbari e i Persiani, consentirono di venire ala luce. Non sembra che la crisi delle strutture statali negli anni 235-284 fosse l’effetto inevitabile di una crisi sociale ed economica più fondamentale; al contrario: la crisi sociale ed economica fu il risultato di una crisi politica e militare, suscitata da un unico fattore esterno – la comparsa di organismi aggressivi nei confronti dell’impero, dotati di una forza superiore alla capacità di resistenza del sistema militare esistente – al quale se ne sovrappose un altro, la peste.
P. 419
- La ristrutturazione: il nuovo impero (284-395)
La crisi dell’impero fece si che le considerazioni militari, prioritarie solo in alcuni momenti eccezionali nel periodo della pax romana, si venissero a trovare permanentemente in primo piano, subordinando a sé tutte le altre. L’adattamento delle istituzioni politiche dell’impero alla nuova situazione, iniziato da Diocleziano, venne fondamentalmente portato a termine sotto Costantino e, dunque, durò per due generazioni (284-337 circa). Effetto dell’azione degli imperatori riformatori fu quella fase dell’impero che tradizionalmente viene definito come “dominato” e, secondo la feconda definizione di Timoty Barnes, come “nuovo impero”. Il potere imperiale era quanto mai pronto a questo mutamento: gli imperatori erano sempre prima di tutto imperatori, bastò mettere definitivamente da parte la maschera dei principes con la quale per tre secoli si erano presentati all’élite e alla società. Per il Senato, invece, il processo di ristrutturazione non fu così facile; Costantino, a dire il vero, lo tirò fuori dalla soffitta nel quale era rimasto da Gallieno a Diocleziano, ma al prezzo di un significativo rovesciamento dei ruoli: una volta, per far carriera, bisognava diventare senatore; adesso l’ingresso in Senato era il segno della carriera compiuta. Ma soprattutto il nuovo impero metteva in discussione il paradigma, risalente ancora all’epoca ellenistica, del grande stato territoriale, che si accontentava in pratica di due soli livelli istituzionali: al vertice un centro autoritario, sotto di esso centinaia di migliaia di comunità autonome, le città. Le soluzioni dell’epoca della crisi – l’affidamento dell’amministrazione delle province agli ufficiali e la copertura dello sforzo militare mediante le requisizioni, pseudo-ricompensate con una moneta che si svalutava a un ritmo pauroso – erano semplici palliativi. Dopo che la situazione politica si stabilizzò, il gruppo al governo cominciò a creare una struttura intermedia, il cui compito era quello di trasmettere alla popolazione la volontà di potere e di vigilare che essa venisse eseguita, ma soprattutto di tenere sotto controllo i partner del potere da esso accettati a malavoglia e cioè le élites locali. La comparsa di un apparato burocratico, un vero e proprio corpo estraneo al mondo della civiltà greco-romana, fu la novità maggiore, dalle ripercussioni importantissime, anche se spesso contrarie a quelle volute, tanto per la società che per il potere.
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Ciò nonostante l’impotenza militare dell’Oriente durò in pratica fino alla fine del secolo, il che fece sì che esso non fosse in grado di impedire la caduta dell’Occidente. La caduta dell’Occidente sarebbe stata un processo lungo e a tal punto di difficile percezione (“la caduta senza rumore di un impero”, come scrisse Arnaldo Momigliano) che, anche se siamo d’accordo con l’opinione tornata nuovamente di moda che tra le date in lizza per segnare la sua fine il 476 è quella migliore, fu necessaria ancora una generazione, prima che a Costantinopoli qualche intellettuale riconoscesse che in quell’anno era successo qualcosa di importante. L’equivalente dello shock che sarebbe stato per l’Europa medievale l’anno 1453, per gli antichi fu il sacco di Roma da parte die Goti del 410. Ed è anch’esso una data simbolica: gli eventi che resero inevitabile la caduta dell’antica Roma occorsero principalmente negli anni 395-408
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