Cap. 1. Mussolini di fronte alla realtà del regime fascista e alle sue prospettive alla svolta del decennale

Verso la metà del 1929 il regime fascista era ormai per l’Italia una realtà con caratteri e contorni precisi e, per più di un aspetto, definitivi. La Conciliazione e il “plebiscito” avevano infatti concluso a tutti gli effetti la prima fase del fascismo al governo e avevano sancito, appunto, il completamento del processo di strutturazione del regime vero e proprio. In poco meno di sette anni di governo fascista l’assetto politico del paese era profondamente mutato e, comunque si giudicasse questo mutamento, nulla seriamente autorizzava a pensare che il regime potesse scadere a breve scadenza. Nonostante le latenti contraddizioni che caratterizzavano l’equilibrio tra le sue componenti, esso infatti godeva di una indiscutibile solidità, basata in primo luogo su un consenso di massa vasto e che non si sarebbe a lungo incrinato e sul quale, per ogni evenienza, vigilavano costantemente sia il PNF sia la polizia. Un consenso, oltre tutto che – per quanto paradossale possa sembrare – diventava sempre più effettivo e vasto via via che, invece di politicizzarsi, si depoliticizzava e affondava le sue radici sempre meno nell’adesione al PNF (che ogni giorno perdeva prestigio e suscitava maggiori insofferenze) e sempre più nel mito di Mussolini e dell’Italia finalmente “in cammino”. Né la situazione internazionale e, a quest’epoca, la politica estera fascista poteva far pensare alla possibilità che il regime cadesse per cause esterne. Al contrario, proprio in questo periodo l’Italia fascista cominciava a vedere aumentare all’estero le simpatie verso di sé e ad essere considerata un elemento non trascurabile del giuoco internazionale
P. 3

Riassumendo al massimo, si può dire che la cultura di Mussolini poggiava su tre elementi costitutivi principali, un positivismo elementare, un volontarismo neoidealista con forti coloriture pragmatiche e un relativismo assoluto, sui quali – a loro volta – si innestavano abbastanza coerentemente varie suggestioni particolari tratte dalla lettura di autori come Nietzsche (per quel che riguardava la funzione della personalità e la sua potenza creativa e il concetto di civiltà), Sorel, Pareto, Renan (il Renan dei Dialogues et fragments philosophiques, che ha rinunciato alle giovanili idee demcratiche e responge la caratterizzazione indusriale ed egalitaria che ha assunto la società moderna).
P. 32

  1. Mazzetti ha scritto che “il conformismo antifascista ha la setssa natura, la stessa carica di impersonalità, di inautenticità, di equivoco morale e intellettuale, di sostanziale menzogna di se a se stesso, di sostanziale ipocrisia che ebbe il conformismo fascista”.
    Quale umanesimo? Ipotesi su Croce, Gentile, Ugo Spirito / R. Mazzetti. – Roma, 1966
    P. 35

In un certo senso si potrebbe addirittura sostenere che proprio solo grazie al concetto spengleriano di “cesarismo” i vari elementi psicologici e culturali contribuivano a determinare l’”idea morale” che in questi anni animò la politica di Mussolini trovarono il loro cemento; così come è assai probabile (ed è significativo che ciò sia confermato da un riscontro sul periodo in cui una certa tematica divenne in Mussolini più presente ed addirittura insistente) che il concetto spengleriano di “cesarismo” abbia in qualche misura contribuito anche ad accentuare sino all’esasperazione in Mussolini l’esaltazione della romanità e della funzione di Roma come affermatrice nel mondo di una nuova civiltà (che, non a caso, non era mai quella repubblicana, ma quella dell’età cesariana e augustea). E volendo, si potrebbe forse giungere sino al punto di chiedersi – almeno in via di ipotesi – se il profilo di Giulio Cesare tratteggiato da Spengler non abbia avuto qualche influenza sul comportamento di Mussolini, sul suo modo di trattare gli affari di politica internazionale.
P. 44

Citazione da Mussolini a Ludwig:
“La massa ama gli uomini forti. La massa per me non è altro che un gregge di pecore, finché non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. Soltanto nego che essa possa governarsi da sé. Ma se la si conduce, bisogna reggerla con due ordini: entusiasmo e interesse. Chi si serve solo di uno dei due, corre pericolo. Il lato mistico e politico si condizionano l’un altro. L’uno senza l’altro è arido, questo senza quello si disperde nel vento delle bandiere. Non posso pretendere dalla massa la vita incomoda: essa è solo per pochi. Musiche e donne sono il lievito della folla e la rendono più leggera. Il saluto romano, tutti i canti e le formule, le date e le commemorazioni sono indispensabili per conservare il pathos ad un movimento. Così è già stato nell’antica Roma.. Solo la fede smuove le montagne, non la ragione. Questa è uno strumento ma non può essere mai la forza motrice della massa. Oggi meno di prima. La gente ha oggi meno tempo di pensare. La disposizione dell’uomo moderno a credere è incredibile… Tutto dipende da ciò, dominare come un artista.
P. 50

Quanto siamo venuti dicendo, ci pare dimostri come sarebbe sbagliato ritenere che alla fine degli anni trenta Mussolini mancasse ormai di una prospettiva politica di fondo e fosse sostanzialmente in grado solo di arroccarsi su una politica di ordinaria amministrazione che non teneva conto delle aspirazioni, dei ripensamenti, degli stati d’animo che, invece, caratterizzavano l’atteggiamento della classe dirigente e del partito fascista. E ancora più sbagliato sarebbe dedurre da questo errato convincimento la spiegazione del fatto che in questo periodo Mussolini cominciò ad impegnare sempre di più l’Italia nel campo della politica internazionale, stabilendo così un esplicito rapporto tra la presunta stasi dell’iniziativa del duce in politica interna e il suo nuovo interesse per quella estera; quasi, insomma, che questo fosse dettato essenzialmente dalla necessità di creare una serie di diversivi che distogliessero gli italiani dai problemi interni e, al tempo stesso, dessero nuovo lustro all’ormai appannatasi figura del duce. Poiché della politica estera mussoliniana tratteremo ampiamente nei prossimi capitoli, è inutile anticipare qui le ragioni del nostro rifiuto ad accettare la seconda di queste due presunte spiegazioni. Quanto alla prima – dopo quello che siamo venuti dicendo e poiché alle vicende interne degli anni ’29-34 è dedicato tutto il prossimo capitolo – ora ci interessa mettere in rilievo solo i caratteri d’insieme, generali, che in questo periodo Mussolini avrebbe voluto imprimere e in parte impresse alla sua politica interna; caratteri che se appaiono a prima vista poco chiari ed evidenti ciò è dovuto a due ragioni ben precise: a) alle difficoltà di fondo che l’iniziativa politica mussoliniana incontrava nel dispiegarsi sul terreno politico-sociale per il perdurare, nonostante il progressivo rafforzarsi del regime, della precarietà dell’equilibrio politico-sociale realizzatosi tra fascismo e la preesistente classe dirigente italiana con il compromesso che aveva contribuito a rendere possibile il consolidamento al potere di Mussolini dopo la crisi Matteotti; b)All’aggiungersi a queste difficoltà di fondo di quelle, assai gravi, provocare all’economia italiana e, per riflesso, in una certa misura anche al regime, dalla “grande crisi” americana del ’29 e dal suo estendersi anche all’Italia, come del resto a tutta l’Europa e a gran parte dei paesi extraeuropei.
Contrariamente alle prime apparenze, in realtà Mussolini – conclusa con la Conciliazione e il plebiscito una ben precisa fase dei suo governo – aveva per gli anni immediatamente futuri una sua politica, a suo modo anche ben definita. Solo che essa non va ricercata sul terreno immediatamente o anche mediatamente (quello del corporativismo per esempio) politico. Su questo terreno, infatti, Mussolini si poneva solo obiettivi che erano sostanzialmente quelli di mantenere e perfezionare lo status quo; anche se ciò non significava una rinuncia a priori a sfruttare eventuali possibilità offertegli dalla situazione, e, ancor più, a erodere, se se ne fosse presentata l’occasione, i margini di autonomia e di potere che le altre componenti del regime si erano assicurate. Il terreno di attuazione dell’iniziativa politica mussoliniana in questa nuova fase era un altro, direttamente o indirettamente connesso alla nuova dimensione, ai nuovi tempi, alla nuova prospettiva nei quali Mussolini andava ormai collocando se stesso e il fascismo: era quello della politica agraria, della politica demografica, di quella dei lavori pubblici e soprattutto dell’educazione nazionale della gioventù e della cultura popolare di massa per gli italiani in genere. Rispetto a questi, tutti gli altro problemi, per importanti che fossero, in questo momento per Mussolini passavano sostanzialmente in secondo piano.
Il 16 settembre 1929 Mussolini trasferì la sua sede ufficiale di capo del governo da palazzo Chigi (che rimase sede del ministero degli Affari esteri, così come il Viminale era rimasto sede del ministero dell’Interno quando egli si era trasferito a Palazzo Chigi) a palazzo Venezia. Talvolta degli atti in se semplici, addirittura banali, assumono – come si sa – un valore particolare, simbolico. Non vi è dubbio che trasferendosi a palazzo Venezia Mussolini volle compiere un gesto che marcasse l’inizio di un nuovo periodo del suo governo: Mussolini si sentiva ormai sotto tutti i profili il duce, l’individuo cesareo che determinava la storia della nuova Italia; anche la sua sede ufficiale doveva essere storica – per il passato e per il presente – isolata e al tempo stesso a contatto diretto con le vestigia di quella Roma dei Cesari che Mussolini voleva emulare. E, a ben vedere, in questo periodo Mussolini non solo mutò la propria sede ufficiale, ma cercò, se non proprio di mutare, certo di modificare la sua stessa figura. Sino allora gli italiani lo avevano conosciuto soprattutto come l combattente, come il capo del fascismo, come il politico sicuro e lungimirante. D’ora in poi a questa immagine se ne venne progressivamente sovrapponendo un’altra, quella del costruttore di una nuova civiltà, di Mussolini, per dirla con un famoso titolo di uno dei più tipici libri dell’apologetica mussoliniana della seconda metà degli anni trenta, motore del secolo.
P. 51-53

Cap. 2. Gli anni del consenso: il paese.

Citazione da G. Germani:
“Il primo stadio corrisponde al periodo di lotta per instaurare il regime. In questo periodo il grado di impegno politico della gioventù è naturalmente più alto del normale (in riferimento al livello prevalente in ogni cultura politica nazionale), e la popolazione (compreso ai giovani) sarà fortemente orientata in favore o contro il nascente movimento fascista. Nel secondo stadio, una volta che il regime si è consolidato e stanno venendo fuori le prime generazioni politicamente socializzate sotto il nuovo ordine, la propensione all’impegno politico tenderà ad essere molto minore, di fatto la depoliticizzazione può prevalere. A questo livello di potere il regime si guarderà dal creare una leale e dinamica élite. Invece recluterà sempre più burocrati e giovani, motivati solo da ambizioni personali. Nel terzo stadio, mentre vengono fatti sforzi per ricreare lo “spirito” originario del movimento in modo da dare nuove motivazioni al leale e attivo sostegno dei giovani, il giovane politicamente impegnato tenderà verso qualche forma di “deviazionismo”. Infine, nel quarto stadio, la gente si rende conto una volta di più che il regime non può essere cambiato dal “didentro”, la minoranza dei giovani con alta propensione per la politica si svolgerà sempre più verso un totale rifiuto e un’attiva opposizione al sistema”.

“Per assicurare la continuità del regime, il partito favoriva una partecipazione creativa dei giovani e promuoveva l’emergere di una autentica élite politica (cioè, non soltanto una burocrazia di arrivisti); i meccanismi fondamentali usati per questo scopo comprendevano due elementi principali. Da una parte la speranza di una “evoluzione” sociale del regime in termini di giustizia sociale e di cambiamenti drastici nella sfera economica, dall’altra la promessa fatta alle nuove generazioni di esercitare un ruolo innovatore attraverso la critica, la “circolazione delle idee” e un effettivo cambiamento delle istituzioni e degli uomini. Ma queste componenti – il cambiamento sociale e la liberalizzazione – erano in profondo contrasto con gli scopi fondamentali del regime. Il persistere della sua iniziale “ragion d’essere”, la difesa e la conservazione dei principali interessi acquisiti nel sistema sociale esistente e la smobilitazione delle classi inferiori bloccavano il cambiamento sociale. Una volta eliminata questa possibilità, ogni “liberalizzazione” sarebbe apparsa la fonte di deviazioni pericolose e un ostacolo immediato alla stabilità del regime. La politica del partito nei riguardi dei giovani non riuscì perciò mai durante la sua storia a sfuggire a questa intima contraddizione. Più questi meccanismi dinamici avevano successo e più il partito era costretto a limitarli o a eliminarli. Le nuove generazioni scoprirono successivamente che il futuro promesso in realtà non esisteva e si preoccuparono di questi limiti inerenti; allora il loro “lungo viaggio attraverso il fascismo” giunse al termine: il conformismo passivo o l’aperta ribellione erano i risultati di questo processo, e la via scelta dipese dall’azione reciproca delle circostanze personali e delle esteriori condizioni storiche”.
La socializzazione politica dei giovani nei regimi fascisti: Italia e Spagna / G. Germani. – In: Quaderni di sociologia, genn.-giu. 1969
P. 102-104

Citazione da A. Carocci:
“Non vorrei essere frainteso. Non intendo dire che Solaria”, rivista di letteratura, svolse un’attività di opposizione politica al regime, e neppure un’attività di opposizione sul piano ideologico. Sarebbe attribuirle dei meriti che essa non ha avuto. Essa, molto più più modestamente, e con l’accettare l’isolamento in cui la letteratura ufficiale la relegava (i lettori di Solaria furono sempre quattro gatti; la sua tiratura non raggiungeva le 70 copie; né ricordo che essa ricevesse mai l’onore di essere citata dai giornali del tempo) svolse tutt’al più una funzione di obiettore di coscienza. La letteratura ufficiale celebrava il genio italico, il primato d’Italia, la gloria della stirpe; e tutte le pagine di Solaria manifestavano la persuasione che la letteratura italiana contemporanea non era che una provincia della più vasta letteratura europea, e neanche la provincia più splendida. La letteratura ufficiale affermava che in seno all’Italia esistevano tutte le premesse e tutti i risultati ai quali una cultura moderna poteva ambire; e Solaria riconosceva umilmente che le espressioni più originali della letteratura moderna erano fiorite altrove, si chiamassero esse Proust o Joyce o Kafka, e affermava si che anche gli scrittoti italiani erano voci degne di considerazione, ma che erano parte e Soltanto parte di un più vasto colloquio europeo.”
P. 111

Se non si ha ben presente – oltre al quadro politico generale del paese e internazionale – questa situazione particolare della cultura, è difficile ricostruire e comprendere l’atteggiamento degli intellettuali italiani negli anni tra il ’29 e il ’34 e si finisce, assai spesso, per esprimere giudizi ingiusti e storicamente non validi. In particolare, non si capisce perché in quegli anni l’opposizione al regime fosse anche tra gli intellettuali relativamente limitata e circoscritta, mentre più diffusa era – specie negli ambienti dell’alta cultura – un atteggiamento che potremmo definire, per un verso, di non opposizione e, per un altro verso, largamente caratterizzato da due convinzioni o speranze a seconda dei casi: che fosse possibile preservare la cultura da una eccessiva politicizzazione in senso fascista e trasmettere ai giovani il rispetto per alcuni suoi valori fondamentali e che non fosse opportuno lasciare il campo culturale (e, per riflesso, almeno per alcuni, quello politico) nelle mani del fascismo più intransigente e rozzo, ma, al contrario, fosse opportuno appoggiare quella parte del fascismo in cui certi valori culturali non erano stati sopraffatti dall’impegno politico. In questo atteggiamento, minoritario ma piuttosto diffuso, della cultura del tempo oggi noi possiamo certamente cogliere tutta una serie di spunti per un discorso più ampio sui caratteri e i limiti del ceto intellettuale di allora; la sua individuazione è però in questa sede indispensabile soprattutto ai fini di un altro discorso, assai più importante per comprendere la realtà del tempo: quello sull’atteggiamento e al funzione che ebbero, in questo periodo ma anche negli anni successivi, lungo tutto l’arco del regime, Benedetto Croce e il gruppo della Critica, sia in quanto gruppo di opposizione politico-culturale al fascismo con una propria fisionomia e una propria attività, sia in quanto punto di riferimento, consapevolmente o no, per quegli intellettuali non fascisti ma neppure antifascisti di cui abbiamo parlato, al cui posizione e soprattutto la successiva evoluzione nella seconda metà degli anni trenta fu in larga misura influenzata e talvolta determinata proprio dall’esistenza di questo punto di riferimento, quasi come una sorta di coscienza morale e culturale.
P. 111-12

Citazione da G. Salvemini:
“Gli italiani – scrisse Salvemini nel febbraio 1946 in occasione di una vivacissima polemica con Croce – non dovrebbero mai dimenticare la gratitudine che debbono a Croce per la sua resistenza al fascismo dal 1925 al 1943. Ogni altra voce in Italia era soffocata nelle carceri, sequestrata a domicilio coatto, costretta a stare in esilio. Lo stesso suo silenzio era una protesta. Resistenza e silenzio venivano dalla stratosfera, senza dubbio. Ma il loro effetto era potente. Molti giovani furono confortati dal suo insegnamento e dal suo esempio a credere nella libertà, per quanto ognuno intendesse la libertà in modo proprio e in forme che Croce non approvava. Ma quel che importava era che quella libertà non era il fascismo. Quel che importava era che Mussolini trovasse il maggior numero possibile di resistenze invincibili, anche se passive. Molte di queste resistenze furono dovute all’atteggiamento e all’esempio di Croce. Questo merito gli spetta, e nessuno dovrebbe dimenticarlo neanche oggi quando è necessario dissentire da lui”
Che cos’è un “liberale” italiano nel 1946 / G. Salvemini. – In: Benedetto Croce, Boston, 1946
P. 112

Citazione da G. Lombardo Radice:
“La verità è che nei tempi di calma i pratici curano la pratica e gli studiosi gli studi. Nei tempi di crisi i pratici si smarriscono o sono eliminati; e gli uomini di studi assumono la parte di critici ed educatori per l’avvenire”.
P. 113

Citazione da B. Croce:
“…l’odierno antistoricismo è tutto sfrenatezza di egoismo o durezza di comando, e par che celebri un’orgia o un culto satanico… L’antistoricismo odierno, dunque, par che sia non già un rovescio e un simbolo negativo di nuova sanità, ma impoverimento mentale, debolezza morale, eretismo, disperazione, nevrosi e, insomma, un’infermità, da superare con la pazienza e con la costanza, come tutte le infermità. Di questo suo carattere d’infermità  può recare conferma l’altro fatto che, insieme con l’antistoricismo, accade di osservare e che, intrinsecamente, forma tutt’uno con esso; la decadenza dell’ideale liberale, la quale in alcuni paesi ha avuto anche per effetto la formazione di regimi antiliberali, ma che si nota un po’ dappertutto nelle parole e negli atti, nei libri e nei metodi politici, e più ancora negli irrequieti desideri. Sentimento storico e sentimento liberale sono, in verità, inscindibili, tanto che della storia non si è potuto dare altra migliore definizione che di “storia della libertà”, perché solo da questa essa ottiene un senso e solo per essa si fa intelligibile. Senza dubbio, nella storia si vedono altresì regimi autocratici e regimi autoritari, regimi di violenza e reazioni e controriforme e dittature e tirannie; ma quel che solo e sempre risorge e si svolge e cresce è la libertà, la quale, ora in quelle varie forme si foggia i suoi mezzi, ora le piega a suoi strumenti, ora delle apparenti sue sconfitte si vale a stimoli della sua stessa vita… Per noi, filosofi e storici, lo storicismo – che vuol dire civiltà e cultura – è il valore che ci è stato confidato e che abbiamo il dovere di difendere, tenere forte e ampliare: lo storicismo, nodo del passato con l’avvenire, garanzia di serietà del nuovo che sorge, blasfemato come libertà, ma che, come libertà, ha sempre ragione di chi gli si rivolge contro”
P. 113-14

Citazione da A. Gramsci, Lettere dal carcere:
“Mentre tanta gente perde la testa e brancola tra sentimenti apocalittici di panico intellettuale, Croce diventa un punto di riferimento per attingere forza interiore per la sua incrollabile certezza che il male metafisicamente non può prevalere e che la storia è razionalità. Bisogna tener contro inoltre che a molti il pensiero di Croce non si presenta come un sistema filosofico massiccio e di difficile assimilazione come tale. Mi pare che la più grande qualità di Croce sia sempre stata questa: di far circolare non pedantescamente la sua concezione del mondo in tutta una serie di brevi scritti nei quali la filosofia si presenta immediatamente e viene assorbita come buon senso e senso comune. Così le soluzioni di tante quistioni finiscono col circolare divenute anonime, penetrano nei giornali, nella vita di ogni giorno e si ha una grande quantità di “crociani” che non sanno di esserlo e che magari non sanno neppure che Croce esista”.
P. 116

Il panorama della situazione italiana negli anni tra la fine del ’29 e quella del ’34 può dirsi a questo punto pressoché completo, almeno nei suoi aspetti più significativi e, in particolare, per quel tanto che può servire, a dare una idea d’insieme dell’atteggiamento delle varie componenti della società italiana rispetto al regime. Nel prossimo capitolo esamineremo quale fu, nello stesso periodo, la politica fascista e potremo così valutare l’influenza che essa ebbe nel determinare meglio questo atteggiamento. Anticipando un solo problema a mo’ di esempio, è infatti fuori di dubbio che, accanto a quanto si è già detto, una influenza tutt’altro che scarsa nel determinare quel clima di consenso che si stabilì in questi anni attorno al regime non poco contribuì il grande impegno, propagandistico ma anche effettivo, che questo mise nella politica d’intervento e di presenza nella vita economica e sociale del paese e soprattutto  dei lavori pubblici e di bonifica: la bonifica dell’Agro pontino, la creazione di Littoria e di Sabaudia furono per Mussolini e il regime successi di cui non si deve assolutamente sottovalutare l’importanza. Così come non si può sottovalutare l’influenza che sul prestigio interno del regime ebbe, sempre in questo periodo, la politica estera mussoliniana, della quale parleremo nel quarto capitolo. Pur con tutte le sue contraddizioni e un certo suo innato avventurismo (che, per altro, solo raramente trasparivano e potevano essere colti dalla gran maggioranza degli italiani), in questi anni essa fu sostanzialmente una politica di prestigio, ma di pace: la più adatta, cioè, a trovare consenso popolare. Né va sottovalutato il fatto che, se l’avvento al potere di Hitler in Germania alla fine del gennaio ’33 suscitò in un primo momento timori e perplessità tra gli italiani anche per quel che riguardava i futuri rapporti tra i due regimi, la cautela con cui Mussolini si mosse nelle sue relazioni con la Germania nel ’33 e nella prima metà del ’34 e la fermezza, poi, con la quale fronteggiò nell’estate del ’34 le mire nazionalsocialiste sull’Austria trovarono il consenso unanime – ben lo si può dire, degli italiani. E non solo dei fascisti, dei fiancheggiatori, della massa socializzata e inquadrata dal regime, ma anche di buona parte di coloro che in varie forme erano all’opposizione.
P. 123-24

Cap. 3. Gli anni del consenso: il regime

Sotto il profilo costituzionale l’Italia fu governata dal ’22 al ’43 da un unico “ministero Mussolini” che subì però durante un ventennio tanti rimpasti (o, come si preferì allora definirli, tante “rotazioni ministeriali”) che, di fatto, si può parlare di vari ministeri presieduti ininterrottamente da Mussolini. Se si accetta tale criterio di distinzione interna, si può affermare che tra tutti questi ministeri quello nato dal rimpasto del 12 settembre 1929 fu assai probabilmente non solo il più ricco di titolari effettivi dei vari dicasteri, ma anche quello più significativo e autorevole per il prestigio politico e le competenze tecniche dei suoi componenti.
P. 127

In questa prospettiva, il significato che il rimpasto governativo (a cui, non lo si dimentichi, avrebbe fatto da pendant nelle settimane immediatamente successive il riassetto del PNF, realizzato – come si è visto – con il nuovo statuto del partito e la modifica della legge sul Gran Consiglio) aveva per Mussolini può, grosso modo, essere così riassunto: a) sottolineare il carattere fascista del governo anche attraverso la sua composizione e in particolare la presenza di ben tre quadrunviri; b) dare sempre più ala figura del duce il carattere di quella del capo, liberandola di quasi tutte le responsabilità particolari che era venuta via via assumendo (il fatto che Mussolini mantenesse il ministero dell’Interno può essere visto come una manifestazione della sua volontà di controllare direttamente quello che in tutti i regimi autoritari è il dicastero chiave, ma anche come la conseguenza di una preoccupazione più politica: far si che in caso di contrasti tra partito e Stato, come ai tempi di Farinacci e Federzoni, questo fosse rappresentato dal primo dei fascisti e non si ponesse, quindi, neppure la questione di chi dovesse avere l’ultima parola), in modo da far si che, anche formalmente, Mussolini non rassomigliasse più in nulla al vecchio presidente del consiglio  dell’età liberale, che era solo un primus inter pares; c) decentrare e responsabilizzare più direttamente, in base alle loro funzioni e competenze ministeriali, quelli che sino allora erano stati i principali collaboratori in sottordine di Mussolini nei dicasteri da lui nominalmente retti; d) assicurare anche formalmente la continuità della direzione di quei dicasteri (Giustizia e Finanze, ché la permanenza di Ciano alle Comunicazioni aveva probabilmente un altro significato, quello di mantenere nel governo il successore in pectore del duce) che non avevano ancora esaurita la realizzazione del programma politico loro assegnato nella precedente fase del regime; e) sottolineare (sia mutando sin il nome di alcuni ministeri e assegnando loro nuovi titolari, sia creando nuovi sottosegretari ad hoc, come quello per la Bonifica integrale e quello per l’Educazione fisica e giovanile) l’importanza e i nuovi compiti attribuiti d’ora in poi alla politica agricola e a quella verso le giovani generazioni; f) riconfermare il principio dell’autogoverno tecnico della forze armate e della separazione istituzionale da esse della MVSN; g) dimostrare che il fascismo faceva effettivamente “largo ai giovani” anche nelle più importanti cariche dello Stato (Balbo aveva 33 anni, Bottai 34).
P. 132-34

Da qui, sempre secondo Mussolini, la necessità di una trasformazione delle caratteristiche di base e della dinamica di sviluppo della società italiana, da realizzare (oltre , ovviamente, che sul piano della “formazione” negli italiani e soprattutto nelle nuove generazioni di una “vera” “coscienza fascista” e di una “sana” “consapevolezza rurale) attraverso: a) il potenziamento e lo sviluppo massiccio dell’agricoltura sotto tutti i profili, della superficie coltivata, degli addetti, della meccanizzazione, degli investimenti, della produzione, anche se questa ultima avesse dovuto perdere di valore (“io sono per l’abbondanza dei prodotti anche se costeranno – come è fatale – di meno. L’abbondanza è sempre una fortuna se è vero, e sin qui fu sempre vero, che la carestia è sinonimo di fame e miseria); b) il ridimensionamento dell’industria, fondato, da un lato, su un sano sviluppo di quella piccola e media (specialmente di quella collegata all’agricoltura: “una agricoltura ricca costituisce nella nazione un incentivo allo sviluppo dell’industria, essendo questa, in molte sue branche [meccanica, chimica, tessile ecc.] legata a quella; c) la creazione di una economia mista, nella quale una vasta agricoltura incentivasse e al tempo stesso regolasse lo sviluppo industriale e l’industria curasse più il mercato interno che quello estero.
P. 147-48

Insomma, ruralizzando, Mussolini tendeva a risolvere assieme tutti i problemi della “vecchia” Italia e tutte le aspirazioni della “nuova” Italia; ruralizzare – per quanto la cosa possa apparire a noi assurda, anacronistica e antistorica, un confuso miscuglio, tipicamente piccolo borghese, di motivi e di suggestioni diversissime – voleva dire per lui trasformare alla radice le caratteristiche stesse più intime della società italiana, quelle economiche come quelle morali, e, al tempo stesso, gettare le premesse (“il numero è potenza”) di un nuovo ruolo e di una nuova potenza dell’Italia nel mondo.
P. 149-50

Il primo settore era quello più direttamente e immediatamente agricolo: l’agricoltura doveva beneficiare del massimo delle agevolazioni e di interventi da parte dello Stato, in modo da estendere al massimo la produzione, modernizzarsi e diventare economicamente più redditizia. Il secondo settore era quello della bonifica integrale e, a integrazione di essa, dell’edilizia rurale e dei lavori pubblici: si trattava, attraverso questo complesso di opere, di dilatare la superficie coltivabile, di permettere nuove colture, di migliorare le condizioni di vita dei ceti agricoli e, quindi, di rendere possibili sempre nuovi stanziamenti, sia nelle zone bonificate sia, in genere, in quelle agricole. Il terzo settore era quello delle migrazioni: in attesa del rilancio dell’agricoltura e di poter colonizzare le zone bonificate, bisognava impedire che la popolazione rurale continuasse ad essere attratta dalle grandi città, dalle industrie e, addirittura, bisognava sollecitare un processo di disurbanizzazione e di ritorno alla terra. Il quarto settore, infine, era quello demografico: bisognava porre fine alla diminuzione della natalità (più sensibile a mano a mano che si passava dalle zone agricole ai grandi centri urbani( e, anche qui, bisognava invertire la tendenza, in maniera di accrescere la popolazione, soprattutto quella agricola e dei centri medi e piccoli. In realtà un po’ per il sopraggiungere della “grande crisi”, un po’ per la sproporzione (anche se questa non fosse sopravvenuta) tra gli obiettivi che si volevano raggiungere e i mezzi di cui si poteva effettivamente disporre e, soprattutto, per l’anacronismo e l’intima assurdità (sia sotto il profilo economico sia, ancor più, sotto quello umano) dell’obiettivo finale che si voleva realizzare, in nessuno di questi quattro settori il regime riuscì a conseguire un successo e, tanto meno, Mussolini poté veder realizzate anche solo le premesse della tanto bramata realizzazione dell’Italia.
P. 151-52

Questo – nelle grandi linee – il bilancio della politica di ruralizzazione. Un bilancio che la propaganda del regime riuscì parzialmente a far apparire in attivo (soprattutto valorizzando al massimo l’aspetto delle bonifiche e in particolare di quella pontina) e che sotto il profilo sociale ed economico presenta certo alcuni aspetti parzialmente positivi, ma che sotto  il profilo degli obiettivi di fondo che Mussolini si era proposto di realizzare deve essere considerato  assolutamente negativo: è infatti indiscutibile che non solo la politica di ruralizzazione non riuscì a trasformare le caratteristiche di base e la dinamica di sviluppo della società italiana nel senso voluto da Mussolini, ma, al contrario, avvenne “questo fatto singolare: che l’Italia divenne paese industriale proprio durante gli anni della ruralizzazione fascista”.
P. 156

Questi successi della politica confindustriale non vanno – lo ripetiamo – sottovalutati. E’ però un fatto – e l’Abrate, sempre acuto e realista, lo ha messo bene in luce – che proprio in questi anni se i gruppi industriali più potenti poterono rafforzare la propria posizione economica e fronteggiare con successo i pericoli che temevano potessero venir loro dal corporativismo, non riuscirono però ad impedire un sempre crescente intervento diretto (non corporativo cioè) dello Stato nel campo dell’economia e, a ben vedere, finirono per pagare ciò che ottenevano (spesso solo settorialmente o addirittura individualmente) sul terreno economico con una notevole perdita di autonomia e di coesione, cioè di potere sul terreno politico.
P. 158

In questo contesto tutt’altro che rari erano le critiche e gli attacchi più o meno espliciti contro la grettezza conservatrice delle grandi forze economiche, il loro parassitismo e “antifascismo” e – sul versante opposto – contro l’assenza di una coerente e consapevole prospettiva di politica economica al vertice del fascismo. Tra i leader fascisti chi si fece portavoce a livello politico di queste idee e di questi fermenti – almeno sino al ’32, quando le polemiche suscitate dal convegno di Ferrara prima e il suo allontanamento dal governo poi  lo indussero ad un atteggiamento più cauto – fu Bottai, attorno al quale del resto si era raccolta – come si è detto – buona parte di quei fascisti che auspicavano un nuovo corso politico e soprattutto sociale del regime e che la “grande crisi” aveva contribuito potentemente ad orientare in senso più o meno esplicitamente anticapitalista.
P. 159

Citazione da Bottai:
“Il Consiglio nazionale delle corporazioni – disse al Senato il 27 maggio ’30, in occasione della discussione del bilancio del Ministero delle corporazioni – ha, secondo la legge 20 marzo 1930, la sua cabina di comando nell’istituto del Capo del Governo; ma ha il suo apparecchio motore, ha tutte le leve del suo funzionamento, nel Ministero delle corporazioni, dimodoché questo si collega, attraverso la presidenza del Capo del Governo, ad una posizione di centralità nell’amministrazione generale dello Stato. L’economia nazionale, quindi, trova il suo centro nel Ministero e assume, attraverso di esso, un’impostazione di carattere politico. Onde il Ministero è un Ministero economico, non nel senso tecnico ma nel senso politico della parola. E’ – come già si disse testé alla Camera – il Ministero della politica economica del regime. L’economia trova riflessi importantissimi e svariati in tutti gli altri ministeri e in alcuni singolarmente, che rispecchiano problemi particolarmente importanti dal punto di vista economico. Ma non vi è problema dell’economia italiana che, pur facendo capo ai vari ministeri dal punto fi vista della tecnica, non faccia poi capo alla competenza politica del Ministero delle corporazioni”.
P. 161

Quanto abbiamo detto ci pare spieghi perché Mussolini parlasse relativamente poco della politica di intervento dello Stato nell’economia e quando ne parlava lo facesse in termini abbastanza generici, con motivazioni fumosamente sociali e nazionali e soprattutto come di una pratica sostanzialmente straordinaria e provvisoria, imposta dalla gravità della situazione; ma, al tempo stesso, praticasse una politica di progressiva espansione dell’intervento statale. Non spiega, però, da un lato, la scarsa organicità di questa politica e, da un altro lato, perché gli interventi più significativi non fossero inseriti in alcun modo nel contesto dell’ordinamento corporativo, che in quello stesso periodo si andava faticosamente cercando di delineare e che, logicamente, avrebbe dovuto innanzi tutto estendere la propria competenza ai settori dell’economia nazionale a vario titolo controllati dallo Stato in modo da farne il banco di prova della funzione rinnovatrice del sistema corporativo e il volano dello sviluppo economico nazionale.
La spiegazione di questo aspetto della politica di Mussolini è, a nostro avviso, in parte politica e in parte psicologica. E’ politica laddove va ricercata nella volontà del duce a) di evitare che i provvedimenti di intervento che venivano attuati potessero – se affidati per la loro realizzazione agli organi corporativi – essere considerati non straordinari e provvisori ma rispondenti alla logica corporativa e, quindi, potessero turbare vieppiù il mondo economico (già abbastanza preoccupato per i propositi corporativi del fascismo, per i primi passi del relativo ordinamento e per la tendenza e le pressioni di alcuni ambienti fascisti a considerare certi “salvataggi” come le premesse per realizzare una politica di pianificazione corporativa) e provocarne un ulteriore irrigidimento; b) di assicurare ai provvedimenti adottati quella funzionalità, tempestività ed elasticità di attuazione che Mussolini pensava potessero venir loro dall’essere affidati, a seconda dei casi, o a istituzioni creati ad hoc o alla burocrazia delle amministrazioni tradizionali dello Stato (dipendenti esclusivamente dal potere centrale e gelose delle proprie prerogative), mentre temeva che  - affidati agli organi corporativi (per di più ancora non ben definiti ed organizzati) – la loro attuazione sarebbe stata probabilmente non solo meno pronta ed efficace, ma minacciata dal pericolo che in essi di producessero paralizzanti conflitti di interessi; c) di non dare un effettivo ed eccessivo potere, dal suo punto di vista, agli organi corporativi e gettare così le premesse di uno svuotamento dello Stato fascista a favore dello Stato corporativo, un dualismo che avrebbe diminuito i poteri centrali a favore di istituzioni e di interessi periferici e settoriali; d) di impedire la nascita anche in Italia di una tecnocrazia (sub specie corporativa), che avrebbe inevitabilmente teso a riassumere nelle proprie mani le redini dello Stato.
La spiegazione è, invece, più propriamente psicologica quando si considera che su queste motivazioni di ordine politico giuocava però anche una sostanziale, anche se ovviamente non dichiarata, incertezza di Mussolini sull’effettivo significato che nella struttura del regime avrebbe dovuto assumere l’ordinamento corporativo (e, quindi, su come realizzarlo e sui poteri da dargli) e, ancora più in genere, sulle linee di fondo da imprimere alla nuova politica economica del regime.
P. 172-74

Distinguere nettamente nella politica mussoliniana l’incidenza di queste motivazioni psicologiche e di quelle, invece, più propriamente politiche è ovviamente impossibile. Non ci pare però azzardato vederne il riflesso in varie manifestazioni  più caratteristiche di essa; per fare tre  casi maggiori, ci pare per esempio che se ne possa vedere il riflesso: a) nel sostanziale rifiuto di Mussolini di definire i caratteri dell’ordinamento corporativo e nell’insistenza nell’affermare che quanto veniva fatto in materia corporativa era sperimentale; b) nella cura da lui posta nel fare della figura del capo del governo la chiave di volta dell’ordinamento corporativo stesso – almeno come esso si venne delineando dal ’30 al ’34 – così da darle il massimo di poteri, di controllo e di assenso (per esempio per quel che concerneva la normazione in materia economica) sui principali atti corporativi; c) nel progressivo mettere da parte tutti quei fascisti che in materia corporativa ed economica avevano una propria precisa posizione e godevano di un prestigio personale (Turati nel ’30, Rocco e Bottai nel ’32, Arpinati nel ’33) e nell’utilizzare invece uomini di indubbio valore, ma che certo non puntavano essenzialmente ad uno sviluppo della politica corporativa (tipici i casi di Jung e Beneduce) e che, in quanto “puri tecnici”, Mussolini pensava avrebbero diretto l’economia italiana secondo criteri puramente tecnici, lasciando a lui (che non a caso quando liquidò Bottai riassunse in prima persona il ministero delle corporazioni) il compito di orientare come le circostanze politiche e le esigenze del suo potere avrebbero meglio richiesto la politica corporativa.
P. 175

Per formare le nuove generazioni era pur sempre necessario (lasciamo stare altre considerazioni altrettanto di fondo ma che non rientravano nella sensibilità e nella logica mussoliniana) poter disporre di una classe dirigente che, bene o male, rispondesse alle esigenze dell’impresa, vi credesse e, quindi, potesse assumersi in prima persona e con una certa dose di convinzione e di entusiasmo il compito di educare i giovani secondo una visione morale, culturale e politica e uno “stile di vita” veramente fascisti. Di una simile classe dirigente, però, il fascismo sostanzialmente mancava e, quel che era peggio, la prova dei fatti dimostrava che il regime – nonostante tutti i suoi sforzi – non solo non era capace id crearla, ma era esso stesso la causa, principale e quindi ineliminabile, di questa incapacità. Da qui il dramma del regime e la sua più intima ed effettiva condanna alla autodistruzione, ancor prima e a prescindere da quelle che furono poi le cause “esterne” della sua fine (che esse anticiparono nel tempo e resero più drammatica ma che, se non fossero sopravvenute, non sarebbe stata con ciò evitata, ma sarebbe solo avvenuta in forme diverse); da qui, ancora, il progressivo e crescente affannarsi del regime per uscire da questa situazione, ricorrendo a soluzioni e a provvedimenti che, invece, la aggravavano sempre di più e la rendevano più precaria anche sotto il profilo del consenso. E da qui, infine, la necessità in sede storica di rendersi conto del perché, pur essendo favorito dall’esistenza di un indubbio, sia pur superficiale, consenso di massa e dalla disponibilità di tutti gli strumenti atti, da un lato, a stimolare la crescita di questo consenso e, da un altro lato, a stroncare o almeno a circoscrivere entro misure non preoccupanti il dissenso attivo, il regime non riuscì a concretizzare sul piano della creazione di una propria classe politica questa situazione a lui apparentemente tanto favorevole e – a ben vedere – finì sostanzialmente per fallire assai prima sul terreno di quei ceti borghesi che avrebbero dovuto essere il suo punto di forza che non sul terreno dei ceti operai e contadini.
P. 180-81

Specie se riferito alla politica mussoliniana, un discorso sul segretariato di Starace non può però limitarsi alla mera recezione di un simile giudizio.
Che Starace fosse un uomo di scarsa intelligenza, animato da una mentalità grettamente militaresca e niente affatto politica, che lo portava a scambiare la forma esteriore, l’apparenza delle cose con la loro sostanza è pacifico. Da qui il suo appagarsi ed entusiasmarsi per risultati apparentemente grandiosi ma in realtà effimeri, quali un inquadramento di massa si anno in anno sempre più numerose ma organizzate con criteri essenzialmente burocratici, una partecipazione di esse alla vita del regime solo su basi emotive e coreografiche (in parte coattive), uno “stile di vita” che – mancando di contenuti veramente sentiti ed espressi dall’intima consapevolezza di operare per una società nuova e di poter contribuire al suo formarsi con un proprio apporto creativo – era quasi sempre il frutto solo di un generico adattamento, esteriore, superficiale e spesso opportunistico, ad un rituale, ad una retorica, ad una pianificazione dall’alto dei successi gradi del cursus fascista, che, pertanto, erano sentiti come qualcosa di estraneo e di imposto e suscitavano, a seconda dei casi, noia, insofferenza, scetticismo, irrisione. Ugualmente è fuori dubbio che la presenza di un tale uomo a capo del PNF incise alla lunga su tutto il tessuto morale del regime ed ebbe su di esso una influenza indubbiamente negativa. Su questo tipo di valutazione non è possibile non concordare con i critici anche più radicali di Starace. Per rilevante che sia stato questo aspetto dell’”era Starace”, bisogna però constatare che più importante è il fatto che durante gli anni Trenta il regime subì alcune trasformazioni – forse a prima vista non evidenti, ma certamente sostanziali – che ne modificarono addirittura gli equilibri interni e – contrariamente alle apparenze – non a favore di Mussolini; trasformazioni rispetto alle quali non è possibile, come si è detto, limitarsi a recepire il giudizio di coloro che ne hanno attribuito sic et simpliciter la responsabilità a Starace.
P. 216-17

Liquidando politicamente il PNF Mussolini – lo si è detto – indebolì notevolmente il regime e, in prospettiva, il suo stesso potere personale e si autocostrinse ad una politica sempre più attivistica e sempre più condizionata dalla ricerca e dal conseguimento del successo. Allargando per un momento il nostro orizzonte a tutto l’arco storico del regime, ci pare però evidente che con la sua scelta – della quale del resto abbiamo già visto le motivazioni psicologiche e politiche, sia remote sia recenti – Mussolini non fece altro che affrettare i tempi della crisi, così come – in ultima analisi – avrebbero fatto la partecipazione alla Seconda guerra mondiale a fianco della Germania e la sconfitta militare. La vera ed unica ragione della crisi del regime, quella che, anche senza gli errori di Mussolini, anche senza la causa traumatica della sconfitta militare, lo avrebbe portato ugualmente alla sua fine – anche se ovviamente in un più lungo arco di tempo e per evoluzione-trasformazione e non per morte violenta – fu un’altra: fu l’impossibilità, per contraddizione “che nol consente”, di creare quella propria nuova classe dirigente che sola gli avrebbe permesso di perpetuarsi nelle nuove generazioni e proiettarsi quindi nel futuro. In questa prospettiva il fallimento della politica di Starace – cioè, al solito, di Mussolini – volta appunto a fare del PNF lo strumento per educare e formare i nuovi quadri fascisti è veramente esemplare.
P. 228

Citazione dai Colloqui di Ludwig di Mussolini:
“Noi tendiamo a questo, a fare dell’Italia non precisamente una imitazione dell’antica Prussia, bensì un popolo altrettanto fortemente disciplinato. Noi abbiamo un concetto non analitico ma sintetico della nazione. Chi marcia, non si diminuisce… ma si moltiplica attraverso tutti quelli che marciano con lui. Noi siamo, come in Russia, per il senso collettivo della vita, e questo noi vogliamo rinforzare, a costo della vita individuale. Con ciò noi non giungiamo al punto di trasformare gli uomini in cifre, ma li consideriamo soprattutto nella loro funzione nello Stato. Questo è un grande avvenimento nella psicologia dei popoli, poiché viene fatto da un popolo del Mediterraneo, che era tenuto come inadatto a ciò. Là, nella vita collettiva, sta il nuovo fascino. Era forse diversamente nell’antica Roma? Al tempo della repubblica il cittadino non aveva che la vita di Stato, e con gli imperatori, sotto i quali questo mutò, venne appunto la decadenza. Si, questo è quello che il fascismo vuole fare della massa: organizzare una vita collettiva, una vita in comune, lavorare e combattere in una gerarchia senza gregge. Noi vogliamo l’umanità e la bellezza della vita in comune… L’uomo già a sei anni viene tolto in certo senso alla famiglia, e viene restituito dallo Stato a sessant’anni. L’uomo non vi perde nulla, lo creda pure: viene moltiplicato”.
P. 245

Il sigillo, che doveva mostrare al mondo che la crisi era ormai sepolta e che un nuovo periodo di amicizia e di collaborazione si era aperto, fu in questo senso costituito dalla visita dell’11 febbraio 1932, nel terzo anniversario della Conciliazione, Mussolini fece a Pio 11. In Vaticano. Lungamente preparato – tra l’altro con il conferimento al dice dell’ordine dello Sparon d’oro – la visita fu voluta soprattutto dal pontefice. In realtà, dal profondo, non valse a fugare in nessuna delle due parti né le diffidenze né i rancori. Valse solo a convincerle entrambe della opportunità – stante una certa situazione italiana ed internazionale – di evitare altri contrasti e di collaborare il più possibile entro questi limiti, in realtà non molto vasti, nei quali era possibile farlo senza pregiudicare il compromesso raggiunto sul piano dei rispettivi principi e cercando, al contempo, di sfruttare questa collaborazione per erodere, ognuno secondo i propri interessi, qualche piccolo miglioramento dello status quo a proprio vantaggio. Insomma, valse solo a dare ai rapporti tra la Chiesa e il regime sempre più il carattere di un matrimonio di interesse, in cui ognuno dei partners con un occhio controllava la situazione patrimoniale e con l’altro scrutava il futuro per anticipare eventualmente l’altro sulla via del divorzio, se non avesse più avuto vantaggi a rimanere legato ad esso.
P. 273-74

Certo, sui tempi lunghi, il fatto che l’Azione cattolica e in particolare le sue associazioni giovanili riuscirono bene o male a superare la bufera del ’31 avrebbe dato i suoi frutti. Come vedremo nel prossimo volume, è però un fatto che su questi frutti si furono, e copiosi - basta pensare all’esplosione della Democrazia cristiana dopo la caduta del fascismo e all’origine dei suoi quadri meno anziani -, ciò fu dovuto soprattutto alla nuova situazione italiana e internazionale determinatasi verso la fine degli anni Trenta: senza questo mutamento della situazione è difficile dire se, dopo la sconfitta del ’31, la sola esistenza dell’Azione cattolica sarebbe stata sufficiente ad evitare un progressivo perdere di importanza, un progressivo sfaldamento, una progressiva perdita di identità dei cattolici in quanto tali nella vita italiana. Per il momento però Mussolini riuscì a bloccare e a far retrocedere la penetrazione cattolica tra i giovani e il pericolo di una sua concorrenza sul terreno della formazione della nuova classe dirigente. Un successo, questo, che a ben vedere, rende ancora più grave lo scacco della sua politica verso i giovani, poiché conferma che questa fallì essenzialmente per l’intima contraddizione che era alla sua base e non per le resistenze o le alternative che ad essa venivano opposte dall’esterno.
Con questo excursus sulla crisi del ’31 tra il fascismo e la Chiesa possiamo considerare essenzialmente delineato il quadro complessivo del regime negli anni’29-’34, sia per quanto concerne la sua realtà di fondo, i maggiori problemi che esso dovette affrontare, il suo sviluppo tendenziale e le principali contraddizioni insite in questo sviluppo, sia soprattutto per quanto concerne il ruolo che nel determinare questa realtà di fondo ebbe Mussolini. Il quadro così delineato si riferisce però essenzialmente a quello che potremmo definire l’aspetto esterno del regime, alla sua proiezione verso il paese visto nel suo complesso. Per completarlo è quindi necessario ora soffermarci sugli aspetti più propriamente interni, su quelli che cioè attengono soprattutto (ma, ovviamente, non in modo esclusivo, ché, anzi, spesso ebbero echi notevoli nel paese e contribuirono a determinarne l’atteggiamento verso il regime), da un lato, alla organizzazione del potere statale, da un altro lato, alle diverse componenti del regime viste nei loro rapporti con esso e nel loro peso sulle scelte politiche del duce e, da un altro lato ancora, alla fisionomia del gruppo di potere fascista attorno a Mussolini: tre aspetti della realtà del regime nel ’29-’34 per molti versi distinti ma che crediamo opportuno trattare in questa seconda parte del capitolo il più possibile unitariamente, dato che solo visti nel loro insieme ci pare acquistino  quella connessione e quella reciproca reattività che, in definitiva, finirono per avere gli effetti della più generale vicenda del regime e, quindi, dell’azione politica di Mussolini.
P. 275-76

Nell’ottobre ’31, in sede di Gran Consiglio, Mussolini affermò però e fece mettere a verbale che in una successiva riunione il supremo organo del fascismo si sarebbe dovuto occupare del problema della riforma dello Statuto. Sulla base di questa decisione il segretario del PNF, Giuriati,  ebbe l’incarico di studiare il problema. Ai primi di luglio del ’33 Giuriati inviò a Mussolini una prima serie di proposte, riguardanti l’assetto legislativo e secondo le quali le Camere dovevano essere ridotte ad una sola, per metà nominata per decreto reale su proposta del Gran consiglio e per metà eletta dalle corporazioni col sistema del doppio grado di elezione. Ricevuta questa prima proposta, Mussolini scrisse il 10 luglio a Giuriati:
“Ho letto non solo con attenzione, il tuo scritto circa la riforma del nostro apparato legislativo. La tua diagnosi è perfetta. Le conclusioni vanno meditate. Comunque ti ringrazio e ti saluto con la vecchia cordialità”
P. 278-79

Negli anni precedenti Mussolini si era limitato, sfruttando i contrasti tra Cavallero e Badoglio, a confinare il secondo (tutt’altro che popolare tra i fascisti e considerato da molti un elemento infido) nella sua funzione di un suo “consulente tecnico”.
…..
Fu in questo periodo che, circolando la voce di prossime dimissioni di Gazzera, in alcuni ambienti si prese a ventilare la nomina a ministro della guerra  di Augusto turati: questa ipotesi suscitò però vivaci proteste tra gli ambienti militari (il maresciallo Caviglia  scrisse ai suoi colleghi marescialli proponendo loro che in tale eventualità intraprendessero un comune passo di protesta, dichiarandosi per parte sua pronto ad arrivare sino alle dimissioni):
p. 282-83

A meno di non spostare l’accento dal piano tecnico a quello politico; a meno cioè di non pensare che Mussolini, prevedendo la riottosità del sovrano e di uomini come Badoglio ad imbarcarsi in un eventuale conflitto coloniale, non pensasse che non era il momento di suscitare ulteriori motivi di polemica con Vittorio Emanuele 3 e con i capi dell’esercito. Ma con ciò non si fa che ritornare alla nostra tesi di fondo e confermarla vieppiù: si torna a dire che Mussolini non voleva toccare le forze armate perché sapeva che ciò gli avrebbe creato gravi difficoltà con la monarchia.
P. 286

Citazione da A. Iraci:
“dopo la cacciata di Arpinati, tutto cambiò nel fascismo, specie nei suoi quadri più alti, che, del resto, ormai erano completamente rinnovati, e non certo con un’elevazione delle qualità morali degli investiti. Essi compresero che potevano agire impunemente. L’occhio vigile del “censore disarmato” – come poi si disse – non c’era più. Rimaneva il pericolo delle “informative” di Bocchini. Ma questi, che desiderava soprattutto rimanere al suo posto, e, del resto, in materia di moralità non aveva interessi, poteva essere facilmente addomesticato da chi era potente. E così fu. Nel secondo periodo del fascismo, e poi sempre di più verso la fine, l’abuso dell’autorità e del pubblico denaro da parte di chi aveva il potere divenne la regola; non vi fu più discrezione né controllo. E il fenomeno, del resto caratteristico di ogni epoca di decadenza, assunse aspetti e proporzioni, che spiegano quella fama di disonestà generale che, forse anche in misura superiore al giusto, è rimasta attributo del regime fascista…
…..
questo toscano [Buffarini-Guidi], grosso e rubicondo, scaltro e intelligente, privo di principi e di scrupoli, fu proprio il tipo adatto per completare Starace. Il Ministero dell’interno, appena vi entrò Buffarini, accompagnato da una folta schiera di clienti, mutò fisionomia… Come abbiamo avuto occasione di dire, il Ministero dell’interno era stato sempre, pur nel fascismo, il controllore piuttosto severo di tutto ciò che avveniva nel paese, e anche l’estrema garanzia del cittadino offeso nei suoi diritti. Da allora divenne il complice, il compartecipe, il garante di tutti gli abusi, le illegalità, le prepotenze, le immoralità, che con ritmo crescente si perpetrarono in nome del fascismo”.
P. 298-99

Questo si spiega con la particolare prospettiva con la quale osservatori e storici si sono posti ognuno di fronte alla stessa realtà e, al tempo stesso, con la difficoltà di individuare veramente simili spartiacque, che in quanto tali sono la somma di tutta una serie di fatti e di momenti particolari. Resta però il fatto che per tutto lo spartiacque si pone grosso modo fra il ’32 e il ’34; resta cioè il fatto che il regime al suo interno cominciò la parabola discendente nel momento in cui godeva nel paese del maggior consenso, prima delle grandi iniziative di politica estera, prima che per Mussolini iniziasse il declino fisico. Entrare nel merito di questi spartiacque non sarebbe dunque solo inutile, ma anche assurdo.
P. 300

Tra il ’32 e il ’34 il regime – lo abbiamo detto – cominciò la sua parabola discendente. Questa però è una constatazione che possiamo fare noi oggi, in sede storica, tenendo conto di tutta una serie di elementi e di sintomi. Allora nessuno non solo se ne rese conto, ma neppure fu sostanzialmente sfiorato da una simile idea e ciò sia in Italia sia all’estero, sia tra i fascisti sia tra gli antifascisti più seri (lasciamo ovviamente fuori dal nostro discorso, perché ai suoi effetti irrilevanti, coloro i quali da anni il fascismo era sempre nell’ultimo semestre del suo potere). Al contrario, tutti gli elementi esterni inducevano a ritenere che il regime non fosse mai stato tanto solido e non avesse mai goduto di un consenso così vasto, sia all’interno sia a livello internazionale.
P. 304

E’ alla luce di tutto questo complesso di avvenimenti, di prese di posizione, di affermazioni e della loro utilizzazione ai vari livelli della formazione della pubblica opinione che si devono anche vedere e valutare i risultati del “secondo plebiscito” del 1934. Solo se si hanno presenti tutte le tessere del mosaico, tutte le motivazioni dirette ed indirette cioè, è possibile comprendere e la cura messa dal regime nel prepararlo e il suo esito. Une sito – lo ripetiamo – per tanti versi scontato e che indubbiamente fu condizionato dalla particolare situazione di illibertà in cui si svolse e dalle precauzioni prese dal fascismo per garantirne la plebiscitarietà, ma che, altrettanto indubbiamente, corrispose nel suo complesso al reale consenso che in quel momento caratterizzava – sia pure con motivazioni e stati d’animo diversi e molteplici – l’atteggiamento verso il regime e soprattutto verso Mussolini della grande maggioranza degli italiani.
P. 311

Citazione da Lelio Basso:
“Le polemiche scandalistiche che sono condotte intorno a questo gesto – da ritenersi tanto più coraggioso quanto più impolitico – sono una prova di più della scarsa conoscenza della situazione italiana di certi fuoriusciti, a cui non intendo ora replicare, anche però li considero politicamente inconsistenti e superati. Si può dissentire da Caldara, ma non è lecito ignorare che il suo atteggiamento non è che un aspetto di una situazione politica, che non è quella del 1922 o del 1926.
Bisogna avere una volta per tutte il coraggio di riconoscere che le antitesi Fascismo-Antifascismo, Dittatura-Democrazia, non hanno più fortuna in Italia, che le formule vuote di giustizia o di libertà non arricchiscono più…
Non è qui una tendenza, una simpatia, un desiderio che si esprime, è l’obbiettiva constatazione di una realtà di fatto. Ora in Italia i 12 anni di fascismo che sono passati e gli altri che si preparano son venuti formando e finiranno col plasmare una generazione per le quali le espressioni “democrazia”, “liberalismo” saran vuote di senso, una generazione interamente avezza a considerare i problemi politici e sociali nei termini in cui glieli presenta la realtà di ogni giorno.
I giovani che oggi, a 30 anni, vengono a poco a poco assumendo i posti di responsabilità nella vita civile e politica, nella scuola, nel giornalismo, nelle aziende, nelle libere professioni, erano in liceo all’epoca della marcia su Roma, e non hanno della lotta politica di un tempo che un ricordo confuso e, in genere, non gradito. Un fenomeno analogo, se non in tutto identico, si può riscontrare anche nella massa operaia.
Non voglio dire con questo che tutti gli italiani siano fascisti: tutt’altro. Alle realizzazioni miracolose del regime non crede quasi più nessuno, come pressappoco nessun prete crede ormai ai dogmi cattolici, ma tanto meno si crede all’antifascismo. I pochi convinti sono forse soltanto certi piccoli gruppi di giovani mistici del sindacalismo fascista, che vanno parlando di socialità e di collettivismo e credono in buona fede di potervi arrivare attraverso l’esperienza del corporativismo fascista. Per il resto del popolo il fascismo è ormai un’abitudine una realtà magari anche importuna, della quale si può brontolare o ridere volta a volta, ma che nessuno penserebbe seriamente di mettere in discussione.
Parlare oggi agli italiani di “difesa delle libertà democratiche2 è parlare un linguaggio che non intendono più. Bisogna rinunciare a difendere e puntellare un edificio che crolla da ogni parte se si vuol veramente costruire l’edificio del socialismo. E costruire non è possibile senza una massa alla quale non si può parlare se non di cose che erra conosce, delle esperienze che vive, dei problemi che la angustiano ogni giorno, di tutto quanto insomma forma da anni e formerà per anni ancora la sostanza della sua attività.
Bisogna convincersi una volta per tutte che il fascismo è una realtà di fatto della quale si deve tener conto, e che non i problemi di venti anni fa ma quelli che il fascismo lascia oggi aperti possono essere la matrice da cui scaturiranno le soluzioni di domani. Diversamente si è dei sopravvissuti. Le sconfitte delle socialdemocrazie su quasi tutti i fronti di Europa, l’involuzione del comunismo, ci permettono finalmente di liberarci dai pesi mori, dalle formule, dai luoghi comuni per iniziare veramente un lavoro nuovo con animo realistico e spregiudicato, totalmente sgombro da nostalgie e da soluzioni già pronte. Ritrovare Marx sotto incrostazioni pseudomarxistiche dei lunghi decenni parlamentari e democratici.
Al di là del caso Caldara vi è questo ansioso desiderio dei socialisti, che credono ancora nell’avvenire, di riprendere contatto con le vaste masse della gioventù, ben più concretamente che non attraverso una sterile propaganda clandestina, di portarle, dai bisogni insoddisfatti di oggi alle sperate conquiste di domani. Perché il domani socialista non può essere frutto e conquista che di questa gioventù”.
P. 319-20

Citazione da Berto Ricci:
“E’ certo che una parte della borghesia – aveva scritto l’Universale – viene alle Corporazioni con una mentalità anti-rivoluzionaria. Bisogna tenere presente questo fatto per evitare che certi posti di grande importanza strategica siano affidati a uomini i quali possono costituire un ostacolo alla marcia rivoluzionaria. Non bisogna confondere la gradualità degli sviluppi corporativi con lo spirito riformista. Il gradualismo è questione di tattica; ma conosce le mete da raggiungere e ad esse tende inflessibilmente. Il riformismo invece vorrebbe fare delle Corporazioni un inutile ed ibrido pasticcio, tra il liberalismo e il socialismo di Stato, un posto di medicazione, insomma, dell’economia individualista…
E’ bene anche intenderci quando si parla di riformisti. Questi nemici della rivoluzione si trovano non solo tra gli elementi della borghesia industriale, agricola e commerciale che vorrebbero fare delle Corporazioni l’istituto di salvataggio del capitalismo, ma anche tra i neo-convertiti della borghesia intellettuale, provenienti dal riformismo puro sangue del socialismo. Insistiamo sul termine “borghesia intellettuale” e non lavoratori, perché il riformismo fu nel socialismo una clausola tipicamente borghese e intellettualistica. Alcuni di codesti signori, i quali avevano a lungo diffidato del fascismo, si sono accorti finalmente che esso non solo tiene fede ai suoi principi, affermati fin dal lontano 1919, ma va oltre questi stessi principi, o meglio dà ad essi gli sviluppi che le diverse situazioni richiedono.  Ed ecco i signori del riformismo riconoscere finalmente che il fascismo non ha tradito le aspirazioni sociali del popolo italiano: fin qui tutto bene. Il difficile comincia quando essi vorrebbero dare il contributo del loro pensiero e della loro azione alla rivoluzione corporativa. Allora bisogna sorvergliarli: vedere cioè se vengono al fascismo per accettarne il contenuto rivoluzionario e imperiale; oppure se sperano di portare a noi di contrabbando la loro concezione della vita e della politica. Bisogna dir loro che se la politica fascista all’interno in questi anni puta soprattutto sui problemi sociali, il fascismo non si esaurisce in essi e non tende solo al benessere materiale del popolo, ma soprattutto alla sua grandezza morale. . La spiritualità del fascismo è la sua premessa della sua concezione imperiale: se i borghesi del riformismo volessero portare con l’adesione formale alle Corporazioni un’attenuazione dello spirito politico del fascismo a favore di un’interpretazione sociologica e antimperiale della vita, bisognerà contro di loro appellarci ancora allo spirito squadrista, che nel socialismo non combatte il nemico della borghesia, ma precisamente la concezione materialista do origine borghese che si opponeva alla missione imperiale del popolo italiano.
P. 320-21

Cap. 4. Alla ricerca di una politica estera fascista

La costituzione del governo Mussolini nel ’22 non era stata in genere accolta dagli ambasciatori accreditati a Roma e dai loro governi con eccessivo allarmismo. Per qualcuno qualsiasi cosa era in definitiva meglio che il succedersi dei deboli e vacillanti governi che aveva sino allora caratterizzato la vita politica italiana. Altri erano convinti che la difficile situazione interna italiana avrebbe per un pezzo assorbito tutte le energie del nuovo presidente del consiglio e si mostravano propensi a credere sia ai propositi “normalizzatori” del duce sia alle assicurazioni di Contarini e dello stesso Mussolini che una cosa erano le affermazioni sulla “nuova” politica estera fascista scritte nei giornali e gridate nelle piazze, un’altra l’effettiva politica che il fascismo, giunto al governo, avrebbe fatto. Anche coloro che guardavano al fascismo con qualche simpatia, convinti che esso avesse impedito all’Italia di cadere nelle mani del bolscevismo, si rendevano tutti più o meno conto della possibilità di un radicale mutamento della politica italiana in senso nazionalista.
P. 326

Citazione da W. Churchill:
“Nazioni diverse hanno modi diverse di fare la stessa cosa. Termini e parole spesso inducono in errore. I valori e i significati attribuiti alle parole differiscono molto da paese a paese. Nessuna questione politica può essere giudicata indipendentemente dalla propria atmosfera e dal proprio ambiente. Se fossi stato italiano sono sicuro che sarei stato interamente con voi dal principio alla fine della vostra lotta vittoriosa contro i bestiali appetiti e le passioni del leninismo. Ma in Inghilterra non abbiamo ancora avuto da affrontare questo pericolo sotto la stessa forma micidiale. Noi abbiamo il nostro particolare modo di fare le cose. Ma su una cosa non ho il minimo dubbio, e cioè che noi riusciremo, nella lotta al comunismo, a strozzarlo.
P. 330

Citazione da Mussolini:
“La vecchia generazione che si compiaceva nella politica del “piede di casa”, che quasi ci godeva ad esibire agli stranieri agli stranieri una Italiuzza discreta, modesta, senza pretese, che si contentava di far l’albergatrice; questa generazione che fu flagellata da Carducci è morta. Gli uomini della mia generazione, anche quando si professano universalisti, socialisti, internazionalisti, sono dei “nazionalisti” nel senso migliore della parola. Noi – parlo di quelli che stanno fra i venti e i trent’anni – siamo degli esasperati della italianità. Noi sentiamo nelle nostre vene, in ciò che in noi c’è di più intimo, il dinamismo dell’Italia. Lavoriamo per un’Italia più grande dentro e oltre i confini. E’ la guerra che ha rivelato noi a noi stessi. Non andremo troppo oltre, con questi stati d’animo, perché il senso innato dell’equilibrio e delle proporzioni ci vieta di scivolare o nelle imitazioni o nella caricatura. Ma questo è il “dato” dell’anima italiana…”
Se non si ha ben presente  questa serie di stati d’animo, di motivi culturali e di convinzioni che Mussolini aveva maturati negli anni precedenti l’assunzione del potere si rischia di non riuscire più a comprendere la su aplitica estera, forse sino alla guerra civile spagnola, allorquando la politica degli “interessi nazionali” andò perdendo rapidamente terreno rispetto a quella degli “interessi ideologici, certo sino al 1929-1930, quando avvenne il primo vero mutamento della politica estera mussoliniana dall’ottobre ’22.
P. 335

Da qui la sua tendenza a proiettare tutti i suoi progetti più ambiziosi e grandiosi, quelli che avrebbero dovuto consacrare il fascismo nella storia, sui tempi medi e lunghi, persino al di là della sua personale esistenza fisica. In questa prospettiva è evidente che una guerra coloniale localizzata era per Mussolini concepibile anche a breve scadenza, non così un grande conflitto intereuropeo, per il quale egli era convinto occorresse non solo la necessaria preparazione tecnica, ma quella preparazione morale e quella “virtù” che determinano la vittoria o la sconfitta e fanno della guerra un 2esame comparativo in cui i popoli rivelano i loro difetti e le loro capacità. Il che ci pare contribuisce a spiegare appunto in chiave psicologica perché Mussolini poté errare nel ritenere che la guerra non sarebbe scoppiata in Europa prima di molti anni. A questa considerazione, per valutate appieno la concezione nella quale Mussolini (e con lui la maggioranza dei suoi più stretti collaboratori in questo campo) avrebbe calato negli anni trenta i tempi lunghi della sua politica estera (concezione che, per altro, andò prendendo corpo già nella seconda metà degli anni Venti; si ricordi il sintomatico giudizio di Guariglia precedentemente citato a proposito della politica revisionistica), ci sembra indispensabile  farne seguire, per avere un quadro d’insieme il più completo possibile delle componenti di base della politica estera mussoliniana, un’altra relativa alle alleanze alle quali Mussolini pensava per la futura guerra intereuropea, dato che, ovviamente, un conflitto di tale importanza ed entità poteva essere affrontato dall’Italia solo nel quadro di uno schieramento di vaste dimensioni. Ebbene, per quanto la cosa possa, forse, destare meraviglia in chi è ancora legato ad una delle varie schematizzazioni sulla politica fascista, la nostra convinzione è che, non solo sino al patto d’acciaio ma sino alla primavera del ’40, sino alle grandi vittorie militari tedesche in occidente, Mussolini, nonostante tutto, non fece mai una scelta veramente pregiudiziale, ma lasciò impregiudicata la questione (o meglio, si illuse di lasciarla impregiudicata), pensando di poter scegliere in tal modo il campo per lui più vantaggioso e nel frattempo raccogliere i frutti che una tale disponibilità gli procurava. Una strategia politica, questa, sulla quale – ancora una volta – si può certo discutere molto, in relazione sia al suo presunto realismo sia alla sua aderenza alla tanto declamata “etica fascista”, ma che è difficile – pur con tutte le dovute distinzioni storiche – considerare del tutto fuori della tradizione politica dell’Italia prefascista e in particolare di quella che è stata definita la tradizionale vocazione italiana per l apolitica dei “giri di valzer”.
P. 339-40

Ai suoi esordi la politica estera di Mussolini si mosse in una prospettiva strategica facilmente individuabile e che si ricollegava alla linea Di San Giuliano-Contarini-nazionalisti moderati. In base ad essa gli obiettivi da conseguire erano due: assicurarsi la sicurezza della zona danubiano-balcanica e tendere all’espansione nel Mediterraneo e in Africa. La prima direttiva ebbe come manifestazioni più importanti, nel ’24, la politica di amicizia con la Cecoslovacchia e soprattutto gli accordi del gennaio con la Jugoslavia (entrambi questi atti tendevano anche a controbilanciare in qualche misura l’influenza francese sulla Piccola intesa) e sui tempi più lunghi la sistemazione dell’annosa questione albanese, sulla base di un rapporto del tipo di quello tra l’Inghilterra e il Portogallo, di alleanza e di protezione al tempo stesso. Poiché a questa sistemazione si giunse solo nel ’26-’27, quando i rapporti con la Jugoslavia si erano intanto deteriorati, con essa Mussolini raggiunse anche il risultato di stringere il vicino regno slavo in una specie di morsa. Parzialmente collegato a questa politica di sicurezza nella zona danubiano-balcanica si può considerare anche il riconoscimento nel ’24 dell’Unione Sovietica, nel senso che contribuiva a “rimettere in circolo” la Russia e quindi a controbilanciare in qualche misura la presenza francese in queste regioni; gli accordi con l’URSS risposero anche e forse più a ragioni politiche più generali (dimostrare che l’Italia fascista non si muoveva in base a considerazioni d’ordine ideologico e cercare di mettere in difficoltà le sinistre italiane) e d’indole economica. Più complesso è sintetizzare l’altra faccia di questa politica, quella tendenzialmente espansionistica.
In quel momento pensare ad una iniziativa italiana autonoma era un assurdo. Le uniche possibilità per una politica di espansione erano connesse ai rapporti con l’Inghilterra e con la Francia e a trattative con questi due paesi per ottenere da essi dei compensi coloniali in base agli accordi stipulati nel ’15 e alla risistemazione “mandataria” del dopoguerra.
Persino verso l’Etiopia la politica italiana – che negli anni Venti Mussolini concepì ed attuò come “una politica coloniale pacifica ed ordinata, basata sullo sviluppo dei rapporti di amicizia, commerciali ed economici” – non poteva prescindere da quella inglese e francese. Al trattato di amicizia italo-etiopico del 2 agosto ’28 si poté giungere infatti solo dopo una lunga preparazione diplomatica e, ciò che più conta, dopo una serie di trattative tutt’altro che facili con Parigi e soprattutto con Londra: dopo la riconferma nel ’25-’26 degli accordi del 1906 sui rispettivi interessi in Etiopia e dopo che nel marzo ’28 l’Italia, in cambio del consenso inglese a passare dai progetti di penetrazione economica al trattato politico, ebbe di fatto rinunziato a proseguire la propria penetrazione economica nello Yemen.
P. 347-48

Il governo inglese (conservatore o laburista che fosse) era interessato all’amicizia italiana per molti motivi. Perché l’Italia, non avendo rivendicazioni sul continente europeo, era in quel momento un elemento di stabilità e di conservazione e, al tempo stesso, di parziale contrappeso all’egemonia continentale francese. Perché il suo espansionismo coloniale non poteva avere in definitiva che un carattere subalterno rispetto alla politica imperiale di Londra e, data la non mai del tutto sopita rivalità anglo-francese nel Mediterraneo, rappresentava anche in questo settore un utile contrappeso a Parigi. Perché, infine, rendendosi conto gli inglesi e Chamberlain in particolare del potenziale pericolo o, almeno, elemento di disordine che l’Italia fascista avrebbe potuto rappresentare in futuro, essi preferivano sorvegliare dal presso Mussolini ad avere con lui buoni rapporti da poterlo influenzare nel modo più efficace, servirsene come una pedina per il loro gioco diplomatico (come fecero nel dicembre ’24, quando Mussolini in pratica silurò il protocollo” per il regolamento pacifico delle controversie internazionali” approvato dalla Società delle Nazioni che il governo inglese non voleva fosse ratificato) e deviare eventualmente il suo espansionismo laddove meno li danneggiava.
P. 348-349

Il trattato di amicizia italo-ungherese, sottoscritto nell’aprile ’27 tra Mussolini e il conte Bethlen, è in genere considerato un momento decisivo della politica estera fascista. Con esso si sarebbe completata la frattura tra la prima fase di questa politica, quella mussoliniana-contariniana, e quella più propriamente mussoliniana; avviata tra la fine del ’25 e i primi del ’26 col sabotaggio del sistema di Locarno (in particolare attraverso l’accentuazione delle punte anti francesi e il tentativo di tenerne fuori la Germania, in modo da poterne sfruttare contro di esso il potenziale sovversivo) e con l’abbandono dei propositi di accordo con la Jugoslavia – che furono la causa delle dimissioni nel marzo ’26 di Contarini – la svolta mussoliniana si sarebbe infatti definita in tutti i suoi elementi nel ’27 con la scelta revisionista operata attraverso l’accordo con l’Ungheria. In questa periodizzazione-valutazione vi è certo del vero; a nostro avviso, ai fini di una valutazione concretamente storica del trattato italo-ungherese del ’27 e, più in genere, del revisionismo mussoliniano è necessario inserire questo problema in un quadro più vasto, che ci riporta ai rapporti italo-francesi.
P. 357

In una situazione internazionale sostanzialmente statica come quella della seconda metà degli anni Venti, per il duce la prospettiva della politica estera italiana – realizzato l’ancoraggio alla politica inglese – era ancora quella del periodo immediatamente successivo alla sua andata al potere: nonostante l’intransigenza di Parigi, egli vedeva l’obiettivo da raggiungere nell’amicizia con la Francia. Solo essa infatti poteva, in teoria, soddisfare le sue aspirazioni di espansione coloniale sia le sue necessità di sicurezza rispetto alla Germania. Se si esaminano da vicino le relazioni diplomatiche italo-francesi in questo periodo e, al tempo stesso, non ci si lascia suggestionare dagli aspetti esterni delle altre iniziative politiche mussoliniane parallele ad esse, è facile rendersi conto che Parigi era sempre la stella polare del duce. Lo era quando polemizzava violentemente con gli austriaci e soprattutto con i tedeschi per l’Anschluss e per le condizioni della popolazione di lingua tedesca dell’Alto Adige.
P. 358

Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di individuare i momenti principali della politica estera italiana nei primi sette anni dopo la “marcia su Roma” e, al tempo stesso, di coglierne le motivazioni di fondo. Da quanto abbiamo detto si ricavano, a nostro avviso, alcuni punti fermi, così riassumibili:
- in questi primi anni per motivi generali (staticità della situazione internazionale) e particolari (situazione interna italiana), la politica estera di Mussolini fu scarsamente dinamica, priva di effettiva autonomia e concepita sostanzialmente in funzione della politica interna, come uno degli elementi, cioè, volti a suscitare il consenso attorno al regime che si andava costituendo;
- in questo quadro generale, Mussolini e al “carriera” mirarono soprattutto a realizzare una politica di sicurezza in Europa e una politica di espansione nel Mediterraneo orientale e specialmente in Africa;
- entrambe queste politiche avevano come pre-condizione l’amicizia con l’Inghilterra e con la Francia, considerata necessaria sia per l’oggettiva realtà europea, sia perché l’espansione coloniale veniva ritenuta possibile solo attraverso una serie di accordi con queste due potenze volti ad attuare il “sospeso coloniale” del patto di Londra;
- sia pure con qualche frizione temporanea, questa politica di amicizia poté essere realizzata con l’Inghilterra, non così invece con la Francia;
- da qui una tensione, in certi momenti anche grave, con la Francia e l’affermarsi della tendenza a costringere Parigi ad un accordo, cercando di mettere in difficoltà il suo sistema di egemonia europea e di rendere l’Italia indispensabile alla sua sicurezza, favorendo prima il revisionismo ungherese, poi quello tedesco.
P. 365

Citazione dal Di Nolfo (Mussolini e la politica estera italiana):
“Fino a questo momento l’attività di Mussolini come ministro degli esteri aveva comportato una responsabilità e una visione limitate unicamente alla considerazione degli interessi italiani. Su nessuno dei grandi problemi internazionali prospettatisi nel periodo 1922-29 (eccezion fatta per il memorandum sulle riparazioni del 1923) il governo italiano aveva preso una posizione autonoma e originale, contentandosi sempre Mussolini di seguire l’iniziativa altrui, e di restare al margine delle questioni. A partire invece dal 1929, le nuove conferenze delle riparazioni prima e poi quelle per il disarmo, ponendo in primo piano quei grandi problemi che… esprimevano la svolta avvenuta nella situazione mondiale, esigevano prese di posizione nuove da parte dell’Italia, le quali non potevano non essere, sulla base delle premesse poste dal fascismo, originali ed autonome. Per la prima volta quindi Mussolini e il fascismo si trovavano di fronte a problemi che implicavano quella visione complessiva e organica della situazione internazionale che Mussolini non era riuscito a formulare negli anni in cui aveva tenuto il ministero degli esteri. Il loro carattere particolare era che essi non potevano più venir considerati da un punto di vista ristretto e unilaterale, ma richiedevano una prospettiva più ampia, la considerazione di un interesse generale.
P. 369-70

Alla luce di questa pessimistica ma realistica diagnosi della situazione internazionale, per Grandi il fascismo – anche se la sua tradizione e i suoi stati d’animo lo portavano a muoversi in un senso diverso e contrario – doveva attuare una politica estera di pace, di disarmo, di collaborazione attiva con la Società delle Nazioni, di conciliazione, al limite, con le potenze democratiche. Questa era la vera politica estera rivoluzionaria che l’Italia fascista avrebbe potuto fare. La politica e estera che corrispondeva agli interessi generali dell’Europa, che realisticamente l’Italia poteva in quel momento permettersi (“I grossi eserciti, le potenti flotte, le grandi aviazioni sono, nella moderna età delle macchine, un diretto prodotto della ricchezza. Può l’Italia ricca di uomini, ma povera di mezzi materiali, competere su questo terreno con le altre nazioni?”), che le avrebbe permesso di “mettersi in grado di porre davanti alle assise del mondo il problema fondamentale dell’espansione italiana, ossia il diritto alla vita della nostra nazione”, era questa. Su questa strada si potevano incontrare momenti difficili, momenti di isolamento; essi non dovevano però spaventare l’Italia. Solo percorrendo con tenacia e coerenza questa strada l’Italia poteva infatti acquistare, da un lato, un posto, un ruolo autonomo nella politica internazionale e, da un altro lato, un peso determinante nella realtà europea, che le avrebbe permesso di realizzare i suoi obiettivi storici, ovvero la creazione di un vero e proprio impero coloniale.
P. 373

Anche ammettendo che il patto consultivo non finisse per rilanciare – come in un primo tempo  fu temuto – l’idea di una unione federale europea avanzata da Briand due anni prima (che inevitabilmente avrebbe vieppiù rafforzata l’egemonia francese) è fuori dubbio che la rinnovata collaborazione anglo-francese (realizzata bilateralmente e solo successivamente allargata, con la proposta del patto consultivo, all’Italia, alla Germania e al Belgio) introduceva una nuova procedura nel modo di affrontare i problemi europei, facendone, in pratica, dipendere la trattazione dal preliminare accordo fra Londra e Parigi. A parte la questione del prestigio, così importante per Mussolini, ciò voleva dire un indebolimento dell’amicizia italo-inglese e soprattutto una riduzione assai grave dei margini di manovra della politica estera italiana e ciò, per di più, in un contesto che sanciva un notevole rafforzamento della posizione delle Germania (alla quale oltre tutto la Francia, volente o nolente, cominciava a mostrare l’intenzione di non negare più a lungo l’eguaglianza dei diritti, che, infatti, la Germania ebbe teoricamente riconosciuta meno di cinque mesi dopo). In altri termini voleva dire il fallimento o, almeno, il rinvio chi sa per quanto tempo della possibilità di costringere Parigi ad accordarsi con Roma alle condizioni di quest’ultima.
Una serie di fatti nuovi così gravi non poteva non avere conseguenze altrettanto gravi. La prima fu costituita dall’annuncio, il 21 luglio, della riassunzione da parte di Mussolini della guida della politica estera italiana e, una settimana dopo, della nomina di Grandi ad ambasciatore a Londra.
P. 393

Un primo motivo – il più evidente – fu quello di fare di Grandi una sorta di capro espiatorio su cui dirottare il malcontento di larga pare del gruppo dirigente fascista e, soprattutto, di cui servirsi in negativo per giustificare la rettifica decisa da Mussolini della politica di “collaborazione” internazionale sino allora attuata.
Un secondo motivo – più sostanziale – fu quello determinato dalla convinzione alla quale Mussolini era ormai pervenuto della necessità di imprimere (almeno formalmente, ché il suo radicato tatticismo gli impedì sempre di ancorare veramente la sua politica e specialmente quella estera a rigide formulazioni ideologiche) alla politica estera italiana un carattere più marcatamente fascista, più corrispondente cioè non solo alle richieste che venivano dal vertice del PNF, alle esigenze, per lui sempre più prioritarie, della formazione di nuove generazioni e alle indicazioni di base del “fascismo universale” dei vari gruppi intellettuali e giovanili fascisti, ma anche e soprattutto alla sua personale concezione ideologica del fascismo, quale egli veniva delineando in quel periodo in connessione con tutta una serie di avvenimenti (in primo luogo il drammatico sviluppo assunto dalla “grande crisi”) e di opportunità politiche. Di questa concezione (di cui una delle manifestazioni più significative, la Dottrina del fascismo, fu pubblicata proprio nelle settimane a cavallo dell’allontanamento di Grandi) non è qui il caso di parlare, dato che lo abbiamo già fatto ampiamente nei precedenti capitoli. Qualche parola merita piuttosto – a proposito di quelle che abbiamo definito le opportunità politiche – l’incidenza che sul suo convincersi della necessità di dare alla politica estera un carattere più marcatamente fascista dovettero avere, da un lato, i grandi progressi compiuti dal ’30 in poi in Germania dal nazionalsocialismo e, da un altro lato, i fermenti e le iniziative politiche che in questo stesso periodo tendevano – sinceramente o strumentalmente poco importa ai fini del nostro discorso – a cercare il superamento della crisi europea in una soluzione di tipo federalista.
P. 407-08

Il motivo decisivo dell’allontanamento di Grandi fu però un altro, squisitamente politico e di cui il precedente non era, almeno in parte, che la conseguenza. Alla metà del ’32 Mussolini era ormai convinto che la situazione europea fosse sul punto di modificarsi sul punto di modificarsi radicalmente e di avviarsi quindi su dei binari assai diversi da quelli lungo i quali si era mossa sino allora. In tutti i principali paesi la lotta politica andava, sotto i colpi della crisi economica, radicalizzandosi e polarizzandosi a favore delle forze estreme, di destra e di sinistra. In Germania in particolare l’andata al potere del nazionalsocialismo era per Mussolini scontata ed egli era ormai convinto che nulla ormai l’avrebbe evitata.
P. 411-12

In questa prospettiva, per Mussolini, la politica estera dell’Italia fascista doveva essere concepita ed impostata in termini assai precisi. Sui tempi brevi – in attesa della completa definizione della situazione interna tedesca – essa doveva tendere: 1) a prendere le proprie distanze sia dalla Francia sia dalla Germania, assumendo un atteggiamento equidistante da entrambe, in maniera da mantenere intatte tutte le possibilità per una futura politica pendolare, dalla quale trarre, a seconda delle circostanze, ogni vantaggio possibile; 2) a mettere in difficoltà e possibilmente in crisi l’accordo anglo-francese di Losanna, in maniera da recuperare all’Italia l’appoggio inglese, sfruttando a questo fine l’assoluta ostilità dell’Inghilterra ad impegnarsi di più sul continente e la sua paura che l’intransigenza francese aggravasse la situazione europea (alla importanza annessa da Mussolini a questo aspetto della sua politica ci pare si debba attribuire essenzialmente la nomina di Grandi ad ambasciatore a Londra, dove nessun altro diplomatico italiano avrebbe avuto tante per una simile azione; 3)a sfruttare il problema dei debiti di guerra per creare difficoltà al governo francese sia sul piano interno sia su quello dei rapporti con gli Stati Uniti; 4) a rinsaldare al massimo gli accordi con Budapest e Vienna, sia per creare difficoltà alla Francia e alla Piccola intesa, sia soprattutto per precostituire una barriera alla spinta politico-economica della Germania in quella regione; spinta già chiaramente delineatasi da un anno e più, ma che si sarebbe certamente accentuata (specie sull’Austria) quando i nazionalsocialisti fossero arrivati al potere. Lo sbocco di questa politica doveva essere un accordo tra le 4 grandi potenze. Italia, Inghilterra, Francia e Germania dovevano costituire una sorta di direttorio europeo, che – riprendendo in un certo senso lo schema di Locarno ma adeguandolo alla nuova realtà europea e cioè dando ad esso un valore non statico ma dinamico, ovvero moderatamente revisionistico – assicurasse all’Europa almeno un decennio di sostanziale stabilità e pace.
P. 413

In conclusione, alo stato della documentazione (ma non crediamo che i nuovi elementi possano modificare sostanzialmente il quadro), ci pare si possa dire che, nonostante le ripetute dichiarazioni di Hitler in senso filo-italiano e filo-fascista sull’Alto Adige e nonostante le sue avances per un incontro con Mussolini, l’interesse per il nazionalsocialismo fu negli anni Venti assai scarso sia a palazzo Chigi sia al vertice del PNF (è sintomatico che se fu inviato negli ultimi anni qualche rappresentante del partito ai congressi di Norimberga si trattò sempre di figure senza importanza, oscure addirittura), sia da parte di Mussolini e che i rapporti intrattenuti con alcuni dei suoi leaders non andarono mai oltre il tipo e il livello di quelli con altri esponenti di partiti e movimenti di estrema destra e filo-fascisti europei (e spesso si mantennero al di sotto di essi) e risposero solo alla logica di “guardar dentro” alla vicende politiche tedesche, cercare di controbattere in qualche modo la propaganda antifascista dei partiti democratici e di sinistra e assicurarsi una certa influenza in ambienti che si considerava opportuno avere amici, sia per servirsene per creare difficoltà al governo tedesco (soprattutto l’odiato Stresemann) sia nella prospettiva di una partecipazione al potere delle destre. Un mutamento in questo atteggiamento si ebbe solo nel 1930:
P. 423

Un atteggiamento che si può – a grandi linee – così riassumere: a) il nazionalsocialismo era il prodotto dell’errata politica delle grandi potenze vincitrici e della Francia soprattutto verso la Germania; b) esso si poneva nel denso dei nuovi tempi e del fascismo, ma sera troppo particolaristicamente tedesco, troppo dogmatico e poco politico; gli mancava, insomma, la carica universale del vero fascismo, quello italiano, che a questo derivava dalla capacità di sintesi e di equilibrio, tipica di un popolo la cui antichissima civiltà si rifaceva alla romanità; c) più che una vittoria nazionalsocialista in prima persona, era dunque auspicabile in Germania una vittoria del fronte delle destre nel suo complesso: tedesco-nazionali e Stahlhelm avrebbero infatti moderato Hitler, lo avrebbero indotto ad un maggiore realismo e, con la loro presenza, avrebbero dato vita ad una grande forza nazionale capace di darsi una politica e delle istituzioni veramente fasciste.
P. 426-27

Stanti queste buone disposizioni e questa situazione, già nel luglio G. Renzetti aveva preveduto la prossima costituzione di un fronte nazionale formato da tedesco-nazionali, nazional-socialisti e Stahlhelm e aveva consigliato di favorirlo e di puntare su di esso. Se a questi precedenti si aggiunge a) che lo Stahlhelm dava l’impressione di avere una organizzazione assai solida e vasti consensi nel paese; b)che per esplicite ammissioni dello stesso Hitler, non solo la polizia ma anche la Reichswehr erano in quel momento contrari al nazionalsocialismo; c) che la NSDAP era perpetuamente travagliata da crisi interne e defezioni, anche di esponenti di primo piano, e ciò faceva dubitare della sua solidità come partito e sembrava talvolta brancolare nel buio; d) che soprattutto, a Roma, nel partito come nelle sfere governative e diplomatiche, il nazionalsocialismo era visto con sospetto e con timore, come qualche cosa che poteva essere indubbiamente molto utile ma anche pericoloso e controproducente; non può destare meraviglia che subito dopo il 14 settembre Mussolini si facesse suggestionare da coloro – primo fra tutti il Renzetti – che concepirono l’idea di puntare, discretamente ma essenzialmente, sulla carta dello Stahlhelm, per cercare di farne il perno di una grande combinazione i destra, in grado di costituire un sicuro punto di riferimento per tutte le forze nazionali e di allargare quindi vieppiù il consenso popolare attorno a esse; un gruppo insomma che potesse porsi come effettiva alternativa di potere, ma che servisse anche a stemperare alcuni degli aspetti più eversivi e intransigenti del nazionalsocialismo, a renderlo più malleabile e “politico”; il tutto senza però inimicarsi Hitler, ma anzi atteggiandosi a suoi amici e consiglieri, in modo da tenerlo come carta di riserva, essere sempre al corrente delle sue intenzioni e influenzarne il più possibile la politica, sia direttamente sia attraverso i tedesco-nazionali e soprattutto lo Stahlhelm.
P. 431-32

A parte considerazioni più propriamente politiche che, per altro, riguardavano solo settori abbastanza limitati, l’andata al potere di Hitler, di cui erano ben noti i propositi revanchisti, aveva infatti risvegliato in molti ex combattenti della guerra ’15-’18 ricordi, timori, stati d’animo che non potevano essere sottovalutati; così come, a un altro livello, non poteva neppure essere trascurato il peso che nel giudizio sul nazionalsocialismo non potevano non avere le condanne che di questo movimento aveva pronunciato negli anni precedenti l’episcopato tedesco e della quali la stampa, specie quella cattolica, non aveva mancato di dare a suo tempo notizia. Né, infine, in un paese sostanzialmente estraneo all’antisemitismo come l’Italia si poteva evitare di tener conto dell’impressione suscitata dal fatto che all’andata al potere di Hitler fossero subito seguite in Germania gravi manifestazioni di intolleranza antisemita; specie dato il clamore che esse avevano suscitato in molti paesi europei e americani. La spiegazione di fondo dell’atteggiamento assunto dalla stampa italiana va però ricercata soprattutto ne carattere che Mussolini aveva subito impresso ai rapporti italo-tedeschi dopo il 30 gennaio.
P. 440

Per comprendere a fondo questo atteggiamento di Mussolini bisogna avere ben presente a stretta collaborazione che in questi mesi intercorse tra i rapporti italo-tedeschi, la questione austriaca e le trattative per il Patto a quattro. E’ opinione comune che il primo accenno all’idea di quello che sarebbe dovuto essere il patto a Quattro Mussolini l’abbia fatto nel discorso di Torino del 23 ottobre ’32. Su questo punto non ci pare possano essere dubbi di sorta. Nel discorso di Torino, infatti, non solo si trova il primo accenno alla opportunità che la pace europea fosse assicurata da una collaborazione tra le quattro grandi potenze (Francia, Inghilterra, Germania e Italia), ma sono anche enunciati alcuni degli argomenti per i quali Mussolini riteneva necessario l’accordo tra di esse. In questa occasione il duce, infatti, dopo aver negato che l’Italia avesse avuto alla conferenza per il disarmo un atteggiamento machiavellico e aver affermato che essa “segue una politica di pace, di vera pace, che non può essere dissociata dalla giustizia, di quella pace che deve ridare l’equilibrio all’Europa, di quella pace che deve scendere nel cuore, come una speranza e una fede e che sarebbe rimasta nella Società delle Nazioni, perché “oggi che essa è straordinariamente malata, non bisogna abbandonarne il capezzale”, aveva detto:
“Vi sono stati dei tentativi per disincagliare l’Europa da questa costruzione troppo universalistica. Ma io penso che, se domani, sulla base della giustizia, sulla base del riconoscimento dei nostri sacrosanti diritti, consacrati dal sangue di tante giovani generazioni italiane, si realizzassero le premesse necessarie e sufficienti per una collaborazione delle quattro grandi potenze occidentali, l’Europa sarebbe tranquilla dal punto di vista politico e forse la crisi economica, che ci attanaglia, andrebbe verso la fine.
Vi è un’altra questione, quella che concerne la domanda tedesca di parità. Anche qui il fascismo ha avuto delle idee e delle direttive recise. La domanda tedesca della parità giuridica è pienamente giustificata. Bisogna riconoscerlo, quanto più presto, tanto meglio! Nello stesso tempo, sinché dura la conferenza del disarmo, la Germania non può chiedere di riarmarsi in nessuna misura, ma quando la conferenza del disarmo sarà finita e se avrà dato un risultato negativo, allora la Germania non potrà rimanere nella Società delle Nazioni se questo divario che l’ha diminuita sin qui non viene annullato.
Non vogliamo egemonie in Europa. Noi saremo contro l’affermazione di qualsiasi egemonia, specialmente se essa vuole cristallizzare una posizione di patente ingiustizia”.
P. 443-44

Il 7 giugno pomeriggio, prima di recarsi alla cerimonia della sigla, Mussolini tenne al Senato un discorso che aveva annunciato il girono prima. E’ un discorso che va esaminato da vicino, dato che offre alcuni elementi per comprendere le ragioni per le quali il duce considerava il patto un suo successo. In esso si possono distinguere grosso modo tre parti. La prima concerneva la genesi e la collocazione storico-politica del patto. Il patto veniva ricollegato strettamente con quello di Locarno e con gli impegni di collaborazione effettiva che da esso discendevano per le quattro grandi potenze. Questo collegamento serviva a Mussolini per ribadire come, a suo giudizio, “molte delle opposizioni suscitate dal Patto sono l’effetto di reazioni sentimentali, più che di un meditato esame della realtà”: il patto non stabiliva infatti gerarchie definitive e immutabili, non era diretto contro nessuno, non voleva imporre a chicchessia nulla, non voleva gettare le basi di nessun potenziale fronte unico contro nessuno; esso si muoveva nello spirito e nella lettera del patto della Società delle Nazioni e mirava “a ristabilire l’equilibrio fra tutti gli articoli del Covenant, come è indispensabile che si voglia se si deve fare opera costruttiva e duratura”. Il patto tendeva solo ad assicurare la collaborazione tra le grandi potenze e, quindi, la pace. Solo in questo clima, Mussolini lasciava intendere, si sarebbe potuto procedere a quella revisione pacifica dei trattati che lo stesso patto ginevrino prevedeva.
P.460-61

Per valutare appieno il significato non solo tattico ma strategico che il patto a quattro aveva per Mussolini e come esso si inseriva nel contesto generale della sua politica non ci si può limitare all’esame delle vicende che portarono alla sua stipulazione, né alla valutazione che il duce ne diede al Senato. Al contrario, bisogna estendere l’esame anche alle vicende diplomatiche dei mesi successivi, a quelle direttamente connesse al patto e cioè verificatesi entro la metà del novembre ’33, ma anche a quelle successive, relative a tutto il ’34. Da questo complesso di vicende si può infatti ricavare una serie di elementi che permette di farsi un’idea precisa delle linee di fondo lungo le quali Mussolini si mosse nei due anni successivi all’andata al potere di Hitler e rendersi conto di come in questo periodo la sua politica continuò sostanzialmente ad essere quella del peso determinante, anche se, ovviamente, adattata alla nuova situazione. In particolare, si può dire:
a) dopo la conclusione del patto a quattro, anche se fece di tutto per non darlo a vedere, Mussolini continuò ad allontanarsi sempre di più dalla Germania, sicché in realtà l’asserita equidistanza di Roma da Parigi e da Berlino fu solo un’apparenza che a livello diplomatico non ingannava nessuno, ma che al duce serviva per motivi di ordine sia interno sia internazionale: per continuare a recitare il ruolo, che si era dato proponendo il patto a quattro, di mediatore, ovvero – come ebbe a dire, con una evidente punta di sarcasmo, un diplomatico belga – di “Principe della Pace”; per distinguere anche in politica estera il fascismo dalla democrazia e dal nazionalsocialismo; per non impegnarsi con la Francia prima di aver ottenuto reali contropartite (e nella speranza di lucrare, intanto, qualche cosa anche dalla Germania) che, tenendo le cose in sospeso, doveva pensare di rendere anche più consistenti; e, infine, come era nel suo carattere, per non compromettersi irrimediabilmente anzi tempo e, quindi, per un verso precludersi la possibilità di un ripensamento (al limite, in quel momento forse anche giustificabile stante la riottosità dell’Inghilterra ad impegnarsi oltre un certo punto sul continente) e, per un altro verso, rinunciare a prospettare una propria politica, autonoma da qualsiasi altra;
b) in conseguenza id ciò, pur allontanandosi sempre di più dalla Germania, Mussolini cercò, fino e che gli fu possibile (luglio ’34), di non contrastarla apertamente e in particolare di evitare una formale crisi dei suoi rapporti personali con Hitler e, soprattutto, di differenziare pubblicamente la politica italiana da quella della Francia e dell’Inghilterra, in maniera da farla apparire il più possibile autonoma e darle, a seconda delle circostanze e dei problemi, un carattere elastico, super partes, di mediazione, pendolare; tipico è in questo senso l’accenno finale nel già citato dispaccio a Grandi del 31 maggio ’33 al Reno e al Danubio, ovvero alla opportunità di una politica più vicina a Berlino per questioni come quella del disarmo e più vicina a Parigi per questioni quella austriaca;
c) il fulcro, il polo di riferimento di questa politica si confermò via via essere la questione austriaca, che in questo periodo costituì per Mussolini il problema del problemi, quello in funzione del quale dovevano essere visti tutti gli altri, dato che questi avrebbero assunto un valore e una prospettiva diversi conformemente a come quello fosse stato risolto; la questione austriaca – a seconda della sua evoluzione – avrebbe potuto persino consigliare un riequilibrio dell’equidistanza o addirittura una inversione di tendenza e, quindi, un avvicinamento a Berlino, ovvero al limite opposto – se sistemata secondo le intenzioni di Mussolini – avrebbe dimostrato che la posizione speciale dell’Italia non era – come sosteneva Vansittart, “un bene deperibile”, che col tempo avrebbe perso dunque valore -  ma un elemento decisivo della nuova situazione europea con il quale tutti avrebbero dovuto fare i conti e che, quindi, avrebbe permesso all’Italia di sistemare i suoi problemi in sospeso con la Francia non solo alle migliori condizioni ma, in pratica, senza rinunciare completamente per questo alla sua autonomia e, quindi, alla possibilità di far valere ancora, in futuro, il suo peso determinante;
d) in questa prospettiva, per Mussolini le trasformazioni subite prima del suo progetto e le difficoltà incontrate poi dal patto a quattro, sino alla sua mancata entrata in vigore in seguito al ritiro, il 19 ottobre ’33, della Germania dalla Società delle nazioni (che lo rese inapplicabile, dati i collegamenti che in esso erano stabiliti con il Covenant ginevrino), è evidente avessero una importanza assai relativa; a parte gli aspetti più propriamente propagandistici e di prestigio, ciò che per lui contava era che il patto avesse impedito il costituirsi di due blocchi contrapposti e offerto all’Italia di poter assumere e veder praticamente riconosciuta la sua posizione speciale; né è da escludere che la sua mancata entrata in vigore fosse da lui vista con favore, dato che gli permetteva per il momento di rinviare la conclusione dell’accordo bilaterale con Parigi, lasciandogli al tempo stesso la possibilità – se lo avesse stimato utile – di rilanciare l’idea del patto, sia con gli stessi partner sia solo a tre sia a cinque o più partecipanti a seconda dello scopo a cui avrebbe dovuto servire.
P. 464-67

Questo atteggiamento della stampa e della propaganda italiana suscitò in Germania vivaci reazioni a livello governativo sia di opinione pubblica. Ai fini di una giusta comprensione del modus operandi di Mussolini si deve però notare che se, dopo il putsch di Vienna, i rapporti diplomatici italo-tedeschi andarono perdendo – per usare un’espressione tratta da un’ampia relazione dell’ambasciatore Cerruti del 26 settembre sulla Situazione politica in Germania e suoi rapporti con l’estero – “la loro intimità” e assunsero un tono di freddezza, essi furono però mantenuti da parte italiana ben lontani dall’asprezza che contemporaneamente caratterizzava  l’atteggiamento della stampa italiana. A parte quella austriaca sulla quale era intransigente, sulle altre questioni (tipica quella della Saar) Palazzo Chigi o mutò atteggiamento o lo mutò assai poco e mai portò le cose in modo da rischiare pur lontanamente una vera rottura. Ciò sarebbe stato infatti non solo imprudente ed inutile in quel particolare momenti, ma – ciò che più conta – avrebbe fatto perdere all’Italia quella sua posizione speciale sulla quale si fondava tutta la strategia mussoliniana. In quel momento essa doveva essere realizzata sul tavolo delle trattative con la Francia; in prospettiva, sui tempi più lunghi cioè, se voleva – come voleva – continuare a realizzarla ancora, Mussolini avrebbe dovuto inevitabilmente tornare in qualche modo ad una posizione di equidistanza tra Parigi e Berlino; da qui la necessità di non rompere con la Germania e di circoscrivere, sia pure in un quadro di durezza, il contrasto con Hitler essenzialmente alla questione austriaca, in modo che un accordo su di essa potesse in futuro aprire la strada ad un nuovo movimento pendolare della politica italiana alla fine del quale, a seconda delle circostanze, il pendolo avrebbe trovato il suo nuovo punto di sosta…..
505-06

Cap. 5. Mussolini e l’Europa

Per dare una spiegazione non unilaterale del nuovo modo con cui in questo periodo fu visto il fascismo nel mondo occidentale bisogna tenere presente tutta una serie di elementi, particolari e al tempo stesso interagenti tra loro. Schematizzando (una trattazione articolata esula dai limiti di questo lavoro e comporterebbe centinaia di pagine), è evidente che, a livello di opinione pubblica media (meno politicizzata), fattori significativi di questo mutamento furono:
- il tempo: a dieci e più anni dalla sua andata al potere, il fascismo era diventato un elemento abituale del panorama internazionale; fatti come il delitto Matteotti e la crisi di Corfù, che tanto avevano scosso la  opinione pubblica, erano stati se non dimenticati certo sempre più ridotti ad episodi sui quali il tempo esercitava la sua usura, favorito, per un verso, dal non ripetersi di fatti tanto brutali e clamorosi e, per un altro verso, dal moltiplicarsi nel mondo di atti di violenza, individuali e collettivi, che provocavano un appiattimento, un pareggiamento delle singole responsabilità, una sorta di assuefazione ad essi; contemporaneamente il consolidarsi del regime e il suo durare nel tempo, determinavano una sorta di processo di legittimazione del regime stesso, da un altro lato inducevano a cercare di penetrarne le ragioni (significativo è in questo senso il moltiplicarsi alla fine degli anni Venti dei servizi giornalistici e dei libri sull’Italia fascista) e ad individuarle sempre più spesso in due direzioni: quella della immaturità democratica degli italiani, che li portava ad accettare il fascismo e ad esaltarsi per Mussolini, e quella dei benefici materiali realizzati dal regime con la sua “organizzazione sociale del paese;
- l’atteggiamento della classe dirigente democratica e delle grandi fonti di informazione: all’origine dell’atteggiamento via via più possibilista di molti ambienti democratici europei e americani verso l’Italia vi erano indubbiamente motivazioni assai diverse: per alcuni si trattava di una necessità oggettiva dettata da opportunità di ordine politico ed economico, le stesse che li inducevano ad abbandonare la politica dura messa in atto negli anni precedenti verso l’URSS, ad intrattenere relazioni commerciali e ad accordarsi con essa a seconda delle esigenze politiche e delle necessità economiche appunto, senza che ciò volesse dire rinunciare alla proprie relazioni ideologiche; per altri si trattava di una mera accettazione di una realtà che, non riguardando il proprio paese e la propria condizione di vita, veniva ritenuta non contraria ai propri interessi e quindi oggettivamente accettabile, mentre erano imprevedibili le conseguenze di un suo eventuale sovvertimento; per altri ancora si trattava di una effettiva simpatia per la capacità dimostrata dal fascismo nel liberare l’Italia dal pericolo comunista: altrettanto indubbiamente tutte queste motivazioni (e altre secondarie sulle quali non ci soffermiamo) a livello di opinione pubblica media venivano però recepite, amalgamate tra loro e quindi assumevano culturalmente un valore che – con linguaggio politico di oggi – si può definire di distensione e di coesistenza pacifica; né, sempre in questo ambito di suggestioni culturali, possono essere sottovalutati due sub fattori particolari che contribuivano  aa completare lo amalgama: a) l’influenza  che nei paesi e nelle comunità cattolici aveva avuto la Conciliazione, anche se va detto che l’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche e soprattutto del clero verso il fascismo era assai spesso diverso e più articolato in quelli che non in Italia; b) la convinzione, largamente diffusa e in buona parte legata all’idea che il fascismo fosse un fenomeno tipicamente italiano, connesso alla mentalità e all’arretratezza civile degli italiani, che in sostanza si poteva credere a Mussolini quando diceva che il fascismo non era una merce d’esportazione;
. l’influenza diretta e indiretta della propaganda fascista: anche se in questo periodo l’organizzazione della propaganda fascista all’estero non era ancora giunta al suo massimo, è fuori dubbio che anche questo fu un fattore importante, soprattutto in due direzioni, quella delle comunità italiane all’estero (alcune delle quali e specialmente quella statunitense avevano un peso non trascurabile sulla vita dei rispettivi paesi) e quella di alcuni giornali di opinione (soprattutto inglesi e statunitensi) sui quali, attraverso i loro corrispondenti in Italia e le rappresentanze diplomatiche all’estero, il regime riusciva ad esercitare una certa influenza, che, essendo in genere né troppo esplicita né continuativa,  finiva per risultare la più produttiva; se nella prima metà degli anni Trenta il quadro dell’Italia che prese a circolare all’estero fu caratterizzato sempre più da una messa in valore degli aspetti positivi del regime e da un tono, in genere, discreto nel trattare quelli negativi (e, per di più, quasi sempre con una sorta di ricorso più o meno esplicito al leit motiv dell’immaturità civile degli italiani) ciò fu dovuto anche a questo ménagement diretto ed indiretto della stampa internazionale;
. l’affermazione del nazionalsocialismo in Germania: la vittoria di Hitler, dopo il primissimo momento di incertezza, giocò a tutto vantaggio del fascismo, sia perché nel confronto tra i due regimi quello mussoliniano apparve subito più umano, liberale, pacifista, conservatore dello statu quo europeo di quello hitleriano (alla fine del ’33 la stampa ebraica degli USA fece un sondaggio di opinione per stabilire chi avesse sostenuto più efficacemente i diritti civili e politici degli ebrei: Mussolini fu fra i dodici prescelti), sia perché l’atteggiamento antitedesco assunto da Mussolini e specialmente la sua reazione al putsch di Vienna fecero convergere sull’Italia non poche simpatie e speranze che, certo, erano frutto di paura ma, altrettanto certamente, fecero passare in second’ordine molte prevenzioni verso il fascismo e contribuirono non poco ad accreditare la convinzione che esso fosse un elemento di ordine e non di disordine internazionale.
P.518-20

Che Roosevelt fosse un sincero democratico è fuori dubbio. Per lui a quest’epoca Mussolini e Stalin erano “fratelli di sangue”. Ciò non gli impediva però di considerare il duce un vero galantuomo, di tenersi in contatto con lui e di dirsi “molto interessato e profondamente impressionato da ciò che egli ha realizzato e dal suo comprovato onesto sforzo di rinnovare l’Italia e di cercare di impedire seri sconvolgimenti in Europa”.
P. 342

Citazione da Landsbury (capo dell’opposizione laburista a Londra):
“Io non riesco a vedere che due metodi e questi sono già stati indicati da Mussolini: lavori pubblici o sussidi. A mio avviso vi è una enorme quantità di opere che possono essere compiute nel campo dell’agricoltura e della bonifica, nelle strade, nelle comunicazioni e nelle miniere…. Se io fossi dittatore, io farei come Mussolini: sceglierei cioè gli uomini che sappiano tracciare dei piani di opere pubbliche effettivamente utili al paese e continuerei risolutamente sulla mia strada fino a portare una completa riorganizzazione nella vita nazionale”.
P. 543

L’aspetto francese della “cultura della crisi” è stato ampiamente studiato sia nelle sue manifestazioni particolari più significative sia nel suo complesso. Fondamentale è a quest’ultimo proposito la ricerca di J. L. Loubet Del Bayle sui “non conformisti” della prima metà degli anni Trenta. Da questi studi risulta chiaramente come questa cultura, rimettendo tutto in discussione, dall’assetto capitalistico della società, al sistema politico, ai valori che sino allora erano stati bene o male alla base della società occidentale, alla stessa organizzazione internazionale e alla posizione della Francia in Europa, giungesse a parlare di una “crisi totale di civiltà” e, volendo combattere le cause del “disordine stabilito” della società contemporanea e cioè “l’egoismo ottuso del mondo borghese e liberale”, “il materialismo economico e spirituale” e “l’importanza di una politica senza spirito e senza anima”, finisse per sostenere la necessità di una “terza via” tra capitalismo e comunismo e, in alcuni casi, tra destra e sinistra e, quindi, per trovarsi o per dare l’impressione di essere su una linea non dissimile da quella del fascismo. Pochi esempi possono spiegare meglio questa posizione. In campo internazionale la “cultura della crisi” era critica verso il trattato di Versailles, la Società delle Nazioni, l’internazionalismo e il pacifismo. In campo politico la sua critica e la sua sfiducia si appuntavano contro i partiti, sia contro il parlamentarismo, sia contro la democrazia liberale, accusati tutti di essere corrotti e falsati dal gioco del capitalismo.
P. 546

Pur presentando caratteristiche e sfumature diverse da paese a paese, l’atteggiamento della stampa d’informazione occidentale in questo periodo può essere schematicamente riassunto attorno a due tendenze: quella a dare poco rilievo alla sostanza antidemocratica e repressiva del fascismo e a privilegiare, invece, alcuni aspetti operativi, tecnici, innovatori della politica del regime, considerati positivi per l’Italia e, non di rado, prospettati in un modo che lasciava trapelare non solo interesse e consenso, ma anche una sorta di invidia per le possibilità di governare effettivamente il paese e di determinarne l’impegno morale e materiale nel senso voluto dal governo che il fascismo aveva e che mancavano invece ai governi democratici; e quella di attribuire assai spesso tutto ciò alla personalità di Mussolini, alla sua capacità di realizzare la sua politica con il consenso e la partecipazione della gran maggioranza, del popolo italiano, al suo dinamismo, al suo realismo, alla sua spregiudicatezza nel mettere in discussione ciò che non era più adeguato ai tempi, senza per altro aver paura di andare contro corrente quando si trattava ei preservare e rivitalizzare valori e istituti che considerava utili alla realizzazione dei suoi fini. Sebbene spesso strettamente confuse fra loro, queste due tendenze, a ben vedere, di rado si fondevano veramente. Questa constatazione è, a nostro avviso, la chiave per comprendere e valutare giustamente il vero significato della “fortuna” di Mussolini, quale appare dalla stampa del tempo, e, insieme, l’influenza che essa ebbe sull’opinione pubblica e le ragioni del suo crollo nella seconda metà degli anni Trenta.
P. 369-70

A parte l’influenza di questi fatti, già di per sé significativi per capire quel tipo di visione, non bisogna sottovalutare infatti quella di tutta una serie di altri fatti: 1) dopo il delitto Matteotti non si erano più verificati casi di violenza estrema che avessero avuto all’estero una eco lontanamente simile a quella suscitata dalla uccisione del leader riformista: ciò aveva favorito il diffondersi della convinzione che il delitto Matteotti fosse stato solo un episodio e che in ogni modo il regime di fosse ormai liberalizzato ed umanizzato; 2) in confronto ad altri paesi occidentali, il regime fascista dava l’impressione di fronteggiare bene la “grande crisi”; 3) mentre gli antifascisti avevano per anni parlato di una imminente caduta del regime, questo non solo appariva ben solido, ma forte di un vasto consenso popolare; 4) il sistema corporativo era ancora nella fase della sua elaborazione culturale ed istituzional-organizzativa: in una fase, dunque, nella quale non emergevano ancora in che misura minima i suoi difetti e la sua inefficienza, mentre il fervore delle discussioni che attorno ad esso si sviluppavano, il battage propagandistico del regime e la suggestione di certi apparenti affinità con altri tentativi che si venivano facendo nel mondo per fronteggiare la crisi e correggere il capitalismo potevano indurre a credere in esso.
P. 571

In questo senso il caso più tipico e al tempo stesso il caso limite fu costituito dalla stampa statunitense. Come ha scritto il Diggins:
“consapevolmente o no, i giornalisti americani “fecero” Mussolini mediante il controllo di quello strumento di ipnosi che è la pubblicità, ed essi “fecero” lui semplicemente perché lui faceva notizia”:
Il fenomeno non fu però solo statunitense, in misura minore fu comune anche alla stampa di altri paesi. E, d’altra parte, dato il peso delle grandi agenzie americane, i collegamenti tra le varie catene giornalistiche, il prestigio di alcuni giornalisti e inviati speciali che più si dedicarono al genere (sovente traendo successivamente dai loro servizi e dalle loro interviste dei libri, che spesso avevano l’ambizione di comparare e mettere a confronto i vari dittatori del tempo e che ebbero tutti grande successo) e la suggestione imitativa che il giornalismo statunitense suscitava nella stampa mondiale, molto di ciò che si stampava oltre oceano rimbalzava direttamente ed indirettamente anche in Europa. Se non si capisce questo fenomeno non solo è impossibile avere una idea realistica del carattere particolarissimo che nella prima metà degli anni Trenta ebbe – a livello di opinione pubblica di massa – la “fortuna” di Mussolini, ma non ci si può nemmeno rendere conto del perché essa subì, come si è detto e ripetuto, un crollo così drastico ed improvviso. Questo infatti fu si conseguenza della reazione morale e politica suscitata all’estero dalla guerra d’Etiopia e dalla successiva politica mussoliniana e, in quanto tale, ebbe una motivazione immediatamente e squisitamente etico-politica; ma non si valuta giustamente la sua imponenza se non ci si rende contro che – a livello di opinione pubblica di massa - essa dipese anche e soprattutto dal carattere particolarissimo che sino allora aveva avuto la “fortuna” di Mussolini. Un carattere particolarissimo che spiega, appunto, perché – appena la grande stampa capovolse il proprio atteggiamento – la “fortuna” si trasformò in “sfortuna” per gran parte dei suoi lettori. Il che è stato riassunto per la stampa statunitense dal DIggins quando ha scritto:
“Che la stampa, dopo la guerra d’Etiopia, potesse fare a pezzi l’immagine di Mussolini, indica che il prestigio del dittatore era in grandissima parte un prodotto della stampa americana”.
P. 575-76

A parte i sospetti (non ingiustificati del resto) che dietro l’iniziativa del CAUR si nascondesse una manovra di tipo egemonico degli italiani, le riunioni interfasciste del ’34-’35  misero infatti in luce gli ostacoli e le divisioni che rendevano impossibile un effettivo accordo fra i  vari partiti e movimenti fascisti. In primo luogo l’assurdità della pretesa italiana di escludere dal campo fascista i nazionalsocialisti (e cioè l’unico altro governo che si proclamasse apertamente fascista), dato che questa esclusione  poteva essere giustificata solo in base ad argomenti di opportunità e di interesse politico nazionale, che potevano trovare sensibili solo alcuni fascismi, mentre era insostenibile sotto ogni altro profilo; in secondo luogo (ma in realtà più che di una questione a sé si trattava di un aspetto particolare della precedente)  la impossibilità di trovare un effettivo punto d’accordo sulla “questione ebraica”. Per Mussolini, a quest’epoca, il problema ebraico e più in genere quello della razza erano problemi non solo non sentiti, ma che, politicamente, egli vedeva in maniera antitetica a come li vedeva Hitler; sia perché si rendeva conto della impopolarità e degli odi che essi suscitavano contro la Germania, sia perché le teorie razziali naziste tendevano più o meno esplicitamente a sottolineare la superiorità della razza germanica rispetto a tutte le altre razze, quella italiana compresa, con le conseguenze morali e politiche che ciò comportava. In vari movimenti fascisti (in genere dell’Europa orientale) la componente antisemita era però assai forte e, quindi, la suggestione della posizione nazionalsocialista assai viva, anche se molto spesso chi era d’accordo con i nazionalsocialisti in materia di antisemitismo era però in disaccordo con essi in materia razziale, si mostrava assai geloso della propria integrità ed indipendenza nazionale  e partecipe di una comune civiltà occidentale che nulla aveva a che fare con la Weltanschauung nazionalsocialista del primato della razza ariana e aveva, invece, molti punti in comune con la concezione fascista italiana, che, per altro, aveva il difetto – almeno per i più coerenti – di dividere il fronte fascista, laddove essi lo volevano rafforzato al massimo perché si rendevano conto (e col ’35-’36 se ne sarebbero sempre più resi conto) che non era affatto detto che l’affermazione del fascismo si sarebbe realizzata attraverso una pacifica conquista delle nuove generazioni ai suoi ideali e non comportasse invece uno scontro frontale – interno ed internazionale – con l’altro aspirante alla successione alla società democratico-capitalistica: il comunismo. Da qui l’impossibilità non solo di dar vita ad una internazionale fascista, ma anche di fare del “fascismo universale” la piattaforma ideologico-politica attorno a cui far gravitare i vari fascismi; diventato “merce d’esportazione” il fascismo non poteva sottrarsi alle “leggi del mercato” e, tra gli elementi del mercato, quello italiano non era certo, almeno potenzialmente, il più forte. Sicché per Mussolini l’”esportazione” del fascismo, se indubbiamente costituiva un motivo di prestigio e gli dava alcune carte utili al suo immediato giuoco politico, lo poneva però anche e soprattutto di  fronte ad una prospettiva drammatica per il futuro: o farsi fascista tra i fascisti, accettando la logica e i rischi di una identificazione con i nazionalsocialisti (soluzione per lui perniciosa sul piano internazionale) o rinunciare nella sostanza ad identificare il fascismo con una delle grandi alternative storiche della civiltà contemporanea (soluzione per lui altrettanto perniciosa sul piano interno). In altre parole, il fallimento del “fascismo universale” lasciava intravvedere quella che prima o poi sarebbe stata l’alternativa per Mussolini: una scelta di campo fra fascismo e interessi nazionali, tra fascismo e civiltà occidentale, una scelta dunque che in ogni caso avrebbe significato in pratica la negazione del fascismo storico italiano, dato che avrebbe portato al suo travaso nel ben più vasto fascismo europeo, inevitabilmente egemonizzato dal nazionalsocialismo, o alla sua riduzione da fatto rivoluzionario e rinnovatore della civiltà occidentale a fatto riformistico della società italiana.
P. 595-96

Cap. 6. La guerra d’Etiopia.
Se questo accordo e questo rispetto dovevano essere la chiave di volta di tutta l’operazione, la sua ragion d’essere “politica” doveva risiedere nell’amicizia e nell’alleanza di Roma con Parigi e Londra contro Berlino, mentre la sua premessa “di diritto” doveva risiedere nell’accordo tripartito del 1906, con il quale Inghilterra, Italia e Francia avevano indicato e si erano impegnate a rispettare le rispettive zone di interessi in Etiopia. L’accordo tripartito del 1906 era per Guariglia “la magna charta dei nostri diritti e delle nostre aspirazioni”. Per quel che riguardava l’Inghilterra, il suo significato era stato confermato e ribadito nel dicembre ’25 con lo scambio di note tra Graham e Mussolini: con tali note i due governi si erano infatti impegnati ad aiutarsi vicendevolmente per ottenere da quello di Addis-Abeba la concessione a costruire uno sbarramento idraulico nel lago Tana, una strada automobilistica dalla frontiera sudanese allo sbarramento (per l’Inghilterra) e una ferrovia congiungente l’Eritrea e la Somalia attraverso l’Ovest etiopico (per l’Italia) e l’Inghilterra si era impegnata, una volta ottenuto ciò che le stava a cuore, a riconoscere il diritto italiano ad ottenere “l’esclusività dell’influenza economica nell’Ovest dell’Abissinia ed in tutto il territorio attraversato dalla ferrovia”. Per quel che riguardava la Francia, poi, il significato dall’accordo tripartito era stato confermato e ribadito ben più esplicitamente dagli accordi Laval-Mussolini del gennaio ’35. In questa prospettiva, per Guariglia l’operazione Etiopia non doveva solo servire a dare all’Italia il modo di espandersi in Africa, ma era necessaria per realizzare altri due obiettivi, squisitamente politici e non meno importanti:
“1) creare una più forte ragione di solidarietà con l’Inghilterra e con la Francia nella condotta politica tendente ad evitare futuri conflitti europei, oppure, se questi si fossero dimostrati inevitabili, nella nostra partecipazione alle lotte destinate a risolverli conformemente agli interessi europei e in particolare ai nostri interessi;
2) rafforzare anziché indebolire l’efficienza militare dell’Italia in Africa, cioè nel teatro di guerra che in caso di conflagrazione fatalmente si sarebbe aperto a fianco del teatro europeo”.
P. 599-600

Apparentemente chiarissimo e, a suo modo, esauriente, questo documento, in realtà, serve solo a provare a) che, decisa l’azione, Mussolini era convinto della necessità di tradurla in pratica e di concluderla nel più breve tempo possibile ed era pronto a questo scopo ad impiegare tutti i mezzi, senza risparmio alcuno. E che era convinto: b) che – sia pure per motivi diversi – nessuna delle grandi potenze si sarebbe concretamente opposta alla sua iniziativa; c) che la Società delle Nazioni non si sarebbe mossa o non avrebbe potuto fare nulla di veramente efficace per impedirla. E ancora: d) che, apparentemente, egli sembrava anche convinto che l’Etiopia si andava rafforzando in misura tale da rendere col passare del tempo difficile e pericolosa un’azione che in quel momento, invece, non presentava grandi difficoltà; sicché era sua convinzione e) che per risolvere il problema dell’espansione in Etiopia non vi fosse altro mezzo che un’azione militare, in grande stile, e portata a fondo, sino alla completa occupazione dell’impero etiopico.
P. 609

Citazione da G. W. Baer (La guerra italo-etiopica):
Quasi certamente l’avventura etiopica fu, almeno in parte, escogitata coma un’alternativa alla riforma sociale: era un mezzo per glorificare il duce e distogliere di conseguenza l’attenzione del pubblico dai problemi interni. Nel 1934 Mussolini si trovò di fronte a un crescente malcontento popolare, il quale esigeva uno sfogo prima che potesse diventare una minaccia alla dittatura. L’Italia fu gravemente colpita dalla crisi economica mondiale degli inizi degli anni Trenta. Apparve manifesto che, benché il fascismo avesse recato benefici ai proprietari, lo Stato fascista non era garante, rispetto a operai e contadini, della loro protezione. Alla pressione dei lavoratori disoccupati delle fabbriche e dei campi s’aggiungeva ora la tensione che la disoccupazione portava in seno alla classe media urbana: piccoli commercianti erano soffocati dalla maggiore concentrazione di capitale, possessori di titoli di stato subivano una riduzione nel tasso di interesse e appartenenti alle professioni liberali e laureati non potevano trovare impiego. Anziché fruire di benefici sotto il fascismo, la piccola borghesia italiana, come gli operai e i contadini, stava vivendo in condizioni di insicurezza crescente. Ciò, naturalmente, era fonte d’un possibile pericolo per Mussolini, il quale aveva sfruttato, dopo la guerra, analoghe tensioni nella sua conquista del potere politico. Ed eccoci giunti alla grande svolta nella storia del fascismo italiano: Mussolini mancò in quella circostanza di attuare per l’Italia un programma globale di riforma sociale ed economica, e quindi non gli restò nessun’altra scelta tranne che ribadire gli sterili slogan del fascismo: l’attivismo, il militarismo, il nazionalismo combattivo. Per evitare le conseguenze del suo fallimento nel risolvere i problemi di politica interna, Mussolini cercò di coinvolgere la nazione nella conquista dell’Etiopia”.
P. 611-12

Citazione da F. Chabod (L’Italia contemporanea, 1918-1948):
Per spiegare la guerra, i giornali affermano che essa è una necessità votale per l’Italia, dato l’eccesso di popolazione. Il problema esiste. Tuttavia non fu questo il principale motivo che indusse Mussolini ad iniziare la campagna d’Etiopia; e neppure la necessità di trovare un diversivo alla grave situazione economica interna. E’ probabile che questa preoccupazione non fosse del tutto assente, ma solo in via subordinata. Essenziale è invece nel pensiero di Mussolini il motivo politico, cioè la potenza della nazione, dell’Italia. Ciò che lo occupa ora è il nazionalismo. Sempre più volge lo sguardo verso l’esterno, la mente rivolta alla potenza, al prestigio dell’Italia, il che fa tutt’uno con la sua potenza e col suo prestigio personale. E’ la legge fatale delle dittature: il successo all’esterno destinato a compensare la perdita delle libertà all’interno.
P. 612-13

La ragione prima della decisione presa da Mussolini con le direttive del 30 dicembre ’34 (nel momento stesso cioè in cui fu sicuro che l’accordo con la Francia sarebbe stato concluso formalmente tra qualche giorno) va individuata nella convinzione del duce: a) che con l’accordo franco-italiano si stava finalmente realizzando in Europa quel rapporto delle forze (reali ma soprattutto politiche, che indubbiamente la Francia era militarmente più forte della Germania, ma non poteva per tutta una serie di motivi soggettivi ed oggettivi far valere la sua forza), che avrebbe reso il ruolo dell’Italia determinante, specialmente in funzione della sicurezza della Francia; b) che in quel momento, data la sproporzione delle forze reali esistenti in Europa, l’Italia poteva limitarsi ad esercitare il suo peso determinante in termini politici, senza cioè doversi impegnare a fondo anche in termini di presenza militare sul vecchio continente; c) che tale duplice realtà favorevole era però destinata a mutare via via che il riarmo tedesco (già iniziato) fosse diventato una realtà; d) che se l’Italia voleva espandersi in Etiopia quello era l’unico momento possibile, dato che la Germania non era sufficientemente forte per approfittare dell’impegno militare italiano in Africa, neppure per minacciare le posizioni dell’Italia in Austria ed in Ungheria, e la Francia e l’Inghilterra non potevano impedirlo, perché – specie la prima – erano convinte di non poter fare a meno dell’amicizia e dell’alleanza italiane contro la Germania; e) che – nonostante questa convinzione – sia la Francia sia l’Inghilterra non avrebbero mai spontaneamente accondisceso ad un sostanziale rafforzamento dell’Italia, sia perché oggettivamente contrario ai loro interessi, sia perché  ciò avrebbe creato ai loro governi difficoltà molteplici e di vario genere, interne, internazionali e di principio; f) che, stando così le cose, per l’Italia non vi era altra via che quella di forzare la mano a Parigi e Londra, costringendole a subire una iniziativa unilaterale italiana, senza per altro ledere i loro interessi diretti in Etiopia e, anzi, garantendoli esplicitamente, così da coinvolgere il più possibile in tutta l’operazione e dimostrare loro al tempo stesso la volontà di Roma di farne un banco di prova della comune amicizia e della comune solidarietà.
P. 614-15

Se non si penetra questa atmosfera e non se ne individuano e comprendono le varie componenti e il loro interagire si rischia di non rendersi conto del clima che attorno alla vicenda etiopica si venne creando nel ’35 e, ciò che più importa, il significato che questo clima ebbe non solo nel determinare le grandi adunate e manifestazioni popolari che accompagnarono l’avvicinarsi del conflitto, l’entrata in guerra, le sanzioni, le prime vittorie militari ovvero il successo di grandi iniziative essenzialmente politico-propagandistiche del regime come la “giornata della fede” (18 dicembre) e la raccolta dell’oro e del ferro “per la patria”, ma ci si impedisce anche di valutare giustamente come e in che misura questa atmosfera agì a sua volta sia a livello politico del vertice del regime, sia a livello internazionale, sia sullo stesso Mussolini.
P. 627

Citazione da un rapporto del Ministero dell’interno:
“Da persona che è esponente di primo piano della massoneria giustiniana apprendiamo che “verso il 20 agosto u. s. in Roma, e mentre S. E.  il Capo del Governo era sul teatro delle grandi manovre dell’esercito, si sarebbero riuniti alcuni senatori, inseriti nel fascismo, ma tendenzialmente avversari della politica del duce, per esaminare la situazione del nostro paese nei rapporti con l’estero e per compiere un passo verso S. M. il Re d’Italia allo scopo di precisare le proprie responsabilità nel caso che il Capo del Governo persistesse, in odio ad ogni tentativo di conciliazione offerto all’Italia, ad affrontare l’alea della guerra in Abissinia.
Sempre secondo il nostro informatore confidenziale, alla riunione avrebbero partecipato, oltre all’on. Federzoni, il senatore Casati, Caviglia, Badoglio ed altri, notoriamente fedeli alla monarchia, di cui non ci si è voluto dire i nomi. Gli adunati, esaminata minutamente la situazione interna in rapporto alle nostre possibilità economiche e finanziarie nonché alla propaganda comunista e antifascista che si è fatta più sensibile nel paese; considerato che “la politica di intransigenza di Mussolini porterebbe al completo isolamento dell’Italia e alla conseguente organizzazione di un potente blocco di stati antifascisti che renderebbe più difficile e più dura la nostra guerra; avrebbero deliberato di compiere un passo collettivo verso il Re per suggerirgli, nell’interesse dell’avvenire della nazione, di consigliare al duce una linea di condotta meno aspra e meno provocatrice verso la Gran Bretagna e l’istituto ginevrino, accontentandoci per ora di avere quello che ci potrebbe venire per via diplomatica e rimandando a miglior tempo il compimento del nostro programma di espansione coloniale”. Nella stessa riunione qualcuno avrebbe avanzata la proposta di far sapere al re che sarebbe consigliabile, visto che molti stati, nel trattare con il nostro paese fanno una pregiudiziale antifascista e chiedono addirittura la sostituzione dell’attuale regime mussoliniano, di togliere al duce il timone dello Stato per passarlo ad un uomo che goda delle simpatie straniere: Mussolini, tanto per non distruggerne il mito, diventerebbe Presidente del Consiglio senza portafoglio e tutti i dicasteri che egli tiene oggi nelle sue mani passerebbero ad uomini capaci e preparati ad assumere le sue responsabilità nel momento difficile che il duce attraversa.
A S. M. il re la commissione senatoriale porrebbe o avrebbe già imposta questa condizione, avente valore di dilemma: “O si accettano le nostre proposte, o noi da questo momento decliniamo le responsabilità, tutte le responsabilità, su quello che nell’interno del paese potrebbe accadere durante o dopo la guerra che Mussolini sta per scatenare”.
P. 631

Alla luce di questi elementi non ci pare di escludere che la spiegazione del comportamento di Badoglio possa essere trovata anche nel diverso se queste fossero state concordi, i margini di manovra del capo di Stato maggiore generale ( e di coloro che nelle gerarchie militari ne condividevano le preoccupazioni) sarebbero stati probabilmente maggiori e Badoglio avrebbe, forse, potuto esercitare la sua influenza anche su Vittorio Emanuele 3; essendo invece su pozioni diverse, è evidente che per Badoglio pochissimo, anche volendo, vi era da fare specialmente data l’evoluzione che nel frattempo, come si è visto, aveva subito l’opinione pubblica e dato che ormai anche le perplessità e i timori tra le gerarchie fasciste mostravano la tendenza a placarsi o, almeno per il momento, a rientrare. Sicché appare a suo modo naturale che, da quel politico tempista che era, Badoglio non abbia voluto correre personalmente rischi e abbia preferito invece giuocare le sue carte per poter essere, nonostante tutto, l’uomo che avrebbe raccolto sul campo di battaglia gli allori etiopici.
P.641

Citazione da Mussolini:
“Non è la medesima strada che ho previsto ma è ancora il medesimo viandante. La via si è cambiata, perché così fa la storia: l’individuo rimane lo stesso. Il materiale dell’uomo politico, l’uomo, è appunto una materia viva. Tutto il materiale è talmente flessibile che le conseguenze di un’azione non possono affatto essere sempre tali quali si previdero”

In questa convinzione, oltre che nella giustezza della sua intuizione di fondo, che, per altro, da sola non sarebbe stata sufficiente, è a nostro avviso la chiave per comprendere – la di là della mera abilità tattica, importante ma non decisiva – le ragioni del successo della politica mussoliniana in Etiopia, ovvero, se si preferisce, la sua superiorità rispetto a quella inglese, troppo incapace di uscire da una serie di schemi troppo rigidi e tra di loro contraddittori e troppo legata ad alcune previsioni che, a torto o a ragione, non si volevano o non ci si sentiva moralmente e politicamente in grado di riconoscere superate dalla realtà degli avvenimenti.
P. 643

E ciò tanto più che alle parole del duce corrispondevano alcune iniziative politiche e di propaganda fasciste (e di penetrazione economica, però, in genere sul momento passarono inosservate) che avevano per oggetto l’oriente mediterraneo e che non potevano non mettere in sospetto e preoccupare gli inglesi, che in questa regione avevano già tante difficoltà con gli arabi e con gli ebrei per non considerare una intromissione italiana in essa come una vera iattura. In questa sede basterà solo ricordare sia le avances che in questi anni Mussolini fece con Weizmann e con altri esponenti sionisti, offrendo loro il suo aiuto per la creazione di uno Stato ebraico nella parte meridionale della Palestina, sia l’azione di avvicinamento e di sostegno (anche non dissimulato: per esempio attraverso le emissioni in arabo di Radio bari, che molto allarmarono gli inglesi) dei movimenti nazionali arabi messa ina atto a vari livelli dal regime con risultati nel complesso non irrilevanti. Due linee di azione che solo in apparenza possono sembrare contraddittorie: a parte le difficoltà che questa politica poteva procurare agli inglesi (e durante la guerra d’Etiopia esse furono per quel che riguarda gli arabi notevoli, anche se non vanno sopravvalutate, perché Londra in parte le drammatizzò ad arte e in parte se ne spaventò troppo e finì per dar corpo ad una strategia mediterranea di Mussolini che non esisteva o, al massimo, era proiettata in un futuro assai remoto), essa ha, a ben vedere, una sua chiara logica: giungere alla creazione di uno Stato ebraico abbastanza piccolo da essere accettato dagli arabi, eliminando così con il conflitto arabo-ebraico  ogni giustificazione per la permanenza dell’Inghilterra in quella regione e, quindi, ottenere, il triplice risultato di cattivarsi sia le simpatie ebraiche sia quelle arabe, di scalzare il mandato britannico e di assicurarsi (facendo anche leva sulla questione dei luoghi santi) una posizione di privilegio nel Vicino Oriente.
P. 655-56

Citazione da J. Barros:
La frase conclusiva originariamente affermava che “le tre potenze, l’obiettivo della cui politica è il mantenimento collettivo della pace nel contesto della Società delle Nazioni, si trovano completamente d’accordo nell’opporsi, con tutti i mezzi possibili, a qualsiasi ripudio unilaterale dei trattati che possa mettere in pericolo la pace ed agiranno in stretta e cordiale collaborazione a questo scopo”. Quando questa venne letta, Mussolini propose che la dichiarazione fosse modificata così: “che possa mettere in pericolo la pace dell’Europa”. La proposta del duce era chiara per tutti. Vi fu silenzio. MacDonald guardò Simon e così fece sir Robert Vansittart, il sottosegretario permanente al Foreign Office. Nel settore francese del tavolo la richiesta di Mussolini “provocò un sorriso saputo sulle labbra del sig. Laval”. Il primo ministro francese, Pierre-Etienne Flandin, rimase silenzioso. Non fu sollevata nessuna obiezione e la proposta del duce fu accettata.
P. 660-61

La seconda parte del calcolo di base al quale dovette essere deciso l’invio della Home Fleet nel Mediterraneo non comporta, dopo quanto abbiamo detto sull’atteggiamento inglese successivo al fallimento delle conversazioni tripartite di Parigi di metà agosto, che ci si dilunghi ad illustrarla. La sua logica è infatti evidente. Qualche parola merita piuttosto quello che si può definire il risvolto più propriamente italiano di questa seconda parte del calcolo inglese, ché, infatti, la presenza nel Mediterraneo di buona parte della flotta britannica se serviva ad accreditare agli occhi del mondo una certa idea dell’impegno inglese a sostegno della Società delle Nazioni, voleva esercitare anche sull’Italia una seconda forma di pressione, meno evidente, forse, della prima, ma per Londra certo più importante. Se nonostante tutto Mussolini avesse “tirato dritto”, al presenza della Home Fleet doveva servire (oltre che come deterrente per i nazionalisti arabi nel caso che avessero pensato di poter approfittare della situazione per scuotere il dominio inglese) a ricordargli che il Mediterraneo era e restava la maggiore e più importante linea di comunicazione imperiale dell’Inghilterra e che, se questa, volente o nolente, poteva chiudere un occhio sulle sue ambizioni etiopiche, mai gli avrebbe permesso però di alterare lo statu quo mediterraneo.
P. 681

Oltre che gli inglesi, queste pubbliche prese di posizione avevano come destinatari anche gli italiani e servivano al regime per completare il quadro che della situazione internazionale e dei rapporti italo-inglesi esso voleva accreditare all’interno, onde far apparire l’Italia il più possibile vittima della egoistica prepotenza dei popoli ricchi. In questo senso esse non possono essere viste disgiunte dalla sempre più violenta campagna anti-inglese che l’apparato propagandistico del regime portò avanti in questo stesso periodo e alla quale contribuì personalmente anche il duce con alcuni articoli anonimi sul Popolo d’Italia, che in più di un caso le dettero anzi il la. Di questa campagna esse furono certamente parte integrante, in quanto ne costituivano l’aspetto italiano, positivo e responsabile, in contrapposizione a quello inglese, negativo e irresponsabile, che veniva prospettato essenzialmente in base ad alcuni argomenti che servivano a loro volta da avvio per tutte le altre variazioni sul tema: l’Inghilterra non voleva un’espansione coloniale italiana, aveva essa stessa mite sull’Etiopia ed era dietro all’atteggiamento aggressivo del negus; l’Inghilterra maneggiava a suo piacere la Società delle Nazioni e si serviva del suo paravento per coprire per coprire un apolitica mirante esclusivamente a difendere i suoi interessi imperiali; l’imperialismo inglese agiva in stretto collegamento con l’antifascismo massonico internazionale che voleva umiliare e battere il fascismo e si serviva a questo scopo di tutti gli alleati (compreso il bolscevismo) e di tutte le armi, anche di quelle, come le sanzioni, che non erano mai usate in altre circostanze, più gravi (aggressione giapponese alla Cina nel ’31), o che avevano visto di fronte due paesi di uguale grado di civiltà (guerra del Chaco nel ’32), ma che non avevano riguardato un paese fascista. Nonostante la loro funzionalità rispetto al tipo di mobilitazione psicologica del paese che il regime voleva realizzare, sarebbe però sbagliato ritenere che queste prese di posizione “distensive” e “rassicuranti” fossero solo strumentali e propagandistiche. In realtà esse non furono che alcune manifestazioni di quella che abbiamo definito la prima linea di azione verso l’Inghilterra messa in atto da Mussolini e dalla diplomazia italiana un po’ a tutti i livelli e che aveva effettivamente l’obiettivo di sdrammatizzare il contrasto con Londra e di permettere una ripresa delle trattative per giungere ad una composizione del conflitto ocn L’Etiopia appena ciò fosse stato possibile e cioè appena – come Mussolini sin dal 19 agosto lasciò capire all’incaricato d’affari statunitense Kirk – le truppe italiane avessero riportato un primo tangibile successo su quelle etiopiche.
P. 684-85

Cap. 7. Il fondatore dell’Impero.

Da qui, in giugno, l’appello alla “riconciliazione del popolo italiano” con cui i comunisti si rivolsero direttamente alle masse fasciste:
“Noi tendiamo la mano ai fascisti, nostri fratelli di lavoro e di sofferenze, perché vogliamo combattere assieme ad essi la buona e santa battaglia del pane, del lavoro e della pace. Tutto quanto noi vogliamo, fascisti e non fascisti, possiamo ottenerlo unendoci e levando la nostra voce, che è la voce del popolo. Fascisti, ex-combattenti dell’Africa, conquistate al popolo il diritto di parlare in tutte le organizzazioni. Fate che ogni organizzazione, ogni circolo, ogni sindacato diventi il cuore pulsante della nazione riconciliata, contro i suoi nemici che l’affamano e l’opprimono, contro il pugno di parassiti che domina il nostro paese.
Noi comunisti vogliamo fare l’Italia forte, libera e felice. La nostra aspirazione è pure la vostra, o fascisti, cattolici, uomini italiani d’ogni opinione politica, d’ogni fede religiosa.
Uniamoci. Uniamoci in un solo cuore ed in una sola volontà.
Uniamoci ovunque ed in ogni ora. Parliamo un linguaggio solo: quello degli interessi del popolo e del paese. Lottiamo uniti, per il nostro pane, per il nostro lavoro, per la nostra pace, perché l’Italia sia strappata ai suoi nemici e restituita agli italiani, perché l’Italia sia salvata dalla catastrofe”.
P. 774

Dire che questi ceti erano stati in gran parte coinvolti psicologicamente nella guerra della propaganda fascista e avevano in qualche misura condiviso sia le motivazioni che questa aveva dato della guerra sia le speranze, i miti di un futuro benessere che l’Italia tutta avrebbe tratto dall’impero, è limitarsi ad un solo aspetto del problema, anche se certo il più appariscente. Ad essa se ne affiancava però un altro, reale quanto il primo, anche se meno appariscente, specie per chi giudicava la realtà italiana ormai quasi solo dall’esterno ed in base ad un metro di giudizio in parte astrattamente ideologico e in parte ormai inadeguato a capire una realtà molto diversa da quella per il quale esso era stato elaborato e – per di più – la giudicava sotto l’impressione traumatica di aver dovuto constatare che quei ceti si erano comportati di fronte alla guerra in modo contrario a tutte le sue convinzioni e previsioni. Un aspetto che per altro non sfuggiva all’occhiuta vigilanza – tutto realismo e pragmatismo - della polizia fascista e dei suoi informatori e di quella parte del PNF che viveva la vita dei lavoratori in fabbrica, nei sindacati, nei dopolavoro, nella realtà quotidiana. Tanto è vero che è d queste fonti che esso emerge più chiaramente e con notevole anticipo rispetto ad altre. Riassumendo e generalizzando al tempo stesso, questo secondo aspetto è così individuabile. A livello di massa, il coinvolgimento psicologico dei ceti popolari e soprattutto di quelli operai nella guerra d’Etiopia non equivaleva ad un pieno consenso politico verso il regime fascista: le riserve (come gli apprezzamenti) rimanevano e con esse le preoccupazioni e le insoddisfazioni connesse alle condizioni di vita e di lavoro, i timori per i sacrifici e i rischi che la politica estera mussoliniana poteva ancora provocare e le aspirazioni ad un diverso assetto politico. Diverso assetto politico che – parlando sempre in generale e schematizzando -  per gli anziani rimaneva pressoché sempre quello da essi vagheggiato in gioventù, talché avevano sostanzialmente ragione quegli informatori dell’OVRA che in piena guerra d’Africa mettevano in rilievo che la grande maggioranza degli operai dei grandi magazzini industriali “quantunque apparentemente facente parte delle organizzazioni sindacali fasciste, e benché iscritta al Partito, è rimasta quella che era, cioè socialista e comunista per convinzione. Mentre per i giovani questo diverso assetto politico poteva essere lo stesso che per i padri (specie se si trattava di famiglie con una certa tradizione di milizia politica “sovversiva” o di non recente inurbamento) ma, più spesso, era invece concepito nel quadro, nella prospettiva fascista e sovente più propriamente mussoliniana, in cui per altro  ciò che la caratterizzava era il porre in primo piano tutta una serie di suggestioni e di istanze, sociali, progressiste, più o meno esplicitamente anticapitalistiche, e di aspirazioni all’autogestione e alla democratizzazione della vita interna dei sindacati.
Se lo si vede in questa prospettiva, il problema dell’atteggiamento della masse popolari verso il regime all’indomani della guerra d’Etiopia appare assai più articolato, complesso e “aperto” di quello che può sembrare a prima vista e di come, sul momento, apparve a parte dell’emigrazione antifascista. E se lo si vede in questa prospettiva, si capisce come nel giro di pochi mesi – di fronte, prima alla vittoria del fronte popolare nelle elezioni francesi (che, confermando quella di pochi mesi prima del fronte popolare spagnolo, le diede una sorte di valore di tendenza) e poi, soprattutto,  della guerra civile spagnola – i suoi termini cominciarono a subire alcuni mutamenti, non certo sconvolgenti, ma altrettanto certamente significativi, se non altro proprio perché essi dimostrano come la guerra d’Etiopia avesse inciso meno di quanto si fosse creduto e si potrebbe credere. E, in particolare, si capisce che esisteva ancora, sia pure latente o, se si preferisce, dormiente una serie di potenzialità antifasciste che in definitiva non attendevano altro che di essere rimesse in moto, ridestate, se appena vi fossero stati gli stimoli adatti e, ancor più, delle concrete prospettive per un’azione antifascista.
P. 776-77

Citazione da una nota del Ministero dell’interno:
“Se l’impresa etiopica non ebbe alcun effetto in favore dei partiti politici antifascisti, ma anzi si rafforzò lo spirito patriottico del popolo italiano e portò perfino ad un riesame di coscienza non pochi antifascisti, le vittorie dei “fronti popolari” nelle elezioni politiche francesi e spagnole prima e la guerra civile spagnola dopo hanno avuto una innegabile ripercussione in quella parte del popolo italiano che non ha aderito con pieno animo al regime”.
P. 778

In un momento in cui molti giovani fascisti – convinti di essere dei precursori che, in un periodo di transizione, tendevano a creare un ordine nuovo nel mondo dello spirito e nella concreta realtà politica, economica e sociale – erano pronti alla lotta purché questa ne valesse veramente la pena, cioè potesse condurre ad un rinnovamento del fascismo e della società italiana, ed erano convinti di essere pienamente in grado di realizzare da “veri” fascisti la propria disciplina nella propria libertà, ma  - al tempo stesso – si ribellavano nel proprio intimo (un po’ consapevolmente un po’ esteticamente) ai formalismi, alla grettezza del fascismo e all’imperiosità, alla sicumera della sua propaganda, in questo momento così delicato, la decisione di Mussolini di bloccare ogni discussione e di ridurre tutto al “credere, obbedire e combattere” provocò nella maggioranza di questi giovani una crisi gravissima. Molti infatti furono colti da un senso di insoddisfazione, di delusione, di frustrazione che si tradusse, a seconda dei casi, o in un disinteresse per la politica attiva e in un allontanamento da essa, o in un conformismo passivo ed opportunista, in un “menefreghismo passivo per mezzo del quale si attua quella forma di assenteismo che deriva dall’evitare le responsabilità, dallo scaricare il lavoro sugli altri, dal rimettersi ciecamente e perciò quasi sempre intelligentemente agli ordini e alle disposizioni”.
P. 780

In particolare la valorizzazione dell’impero doveva puntare a sei obiettivi: 1) creazione delle condizioni generali per la vita civile e lo sviluppo economico (in primo luogo attraverso la costruzione di una adeguata rete stradale e la creazione di alcuni centri urbani pilota); 2) produzione locale del fabbisogno per la popolazione, indigena e da far immigrare dall’Italia; 3) immigrazione permanente (di popolamento) e temporanea su vasta scala dalla madrepatria; 4) sviluppo per l’esportazione della produzione locale; 5) individuazione e messa in valore delle materie prime locali; 6) interscambio commerciale con la madrepatria e, in un secondo tempo, sviluppo del commercio estero con l’AOI.
P. 784

Sebbene non molto diversa, forse più attendibile psicologicamente ci pare la spiegazione che lo stesso Mussolini diede nell’estate del ’43 al vicebrigadiere dei carabinieri Giuseppe Accetta a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, ove era stato internato dal governo Badoglio. All’Accetta, con cui talvolta conversava per passare il tempo e che gli aveva detto – riecheggiando quello che, come si è visto, era allora un luogo comune per tanti italiani – che, se dopo la conquista dell’impero, si fosse ritirato dal governo o avesse evitato un’altra guerra, “sarebbe rimasto nella storia uno dei grandi benefattori del popolo italiano”, egli replicò che “è insito in qualsiasi uomo l’amore della grandezza e il senso del progresso. Come spiegazione l’una e l’altra sono attendibili. Psicologicamente, dicevamo, la seconda ci pare metta però meglio a fuoco l’elemento dell’amore della grandezza che, a nostro avviso, dovette essere quello prevalente, anche se – come vedremo – non l’unico.
P. 798

Tutto quello che abbiamo detto a proposito del suo crescente amore della grandezza non basta però da solo a spiegare perché Mussolini non accettò le esortazioni della moglie a ritirarsi dalla vita politica. E soprattutto, accontentarsi di questa spiegazione impedisce di comprendere e valutare pienamente un avvenimento estremamente importante nella storia del regime fascista che seguì immediatamente la conclusione della guerra d’Etiopia: la nomina di Galeazzo Ciano e ministro degli esteri.
P. 802

Il vero significato del rimpasto era però un altro e consisteva nella nomina di Galeazzo Ciano agli Esteri, di cui il resto del movimento non era che la mascheratura. Con questa nomina in pratica Mussolini aveva scelto il suo successore e cominciato ad aprirgli la strada. Non avendo veramente stima e fiducia di nessuno e non potendo fare una scelta politica tra uomini di primo piano del regime, aveva deciso di allevarsi il successore, scegliendo un giovane, figlio di una delle pochissime persone di cui aveva fiducia (e che quindi poteva avere una influenza su di lui) e soprattutto marito di sua figlia, intelligente, ma senza una propria personalità marcata (così da poterselo plasmare come voleva) sostanzialmente estraneo ai grandi giri del regime e che in Etiopia, come ufficiale d’aviazione, aveva dato buone prove di coraggio (che per la mentalità fascista non era cosa trascurabile9 e, per aprirgli la strada ed affermarlo sia all’interno sia all’estero, gli aveva affidato il ministero a suo avviso più prestigioso ed importante, del quale in sostanza egli si sarebbe ad ogni buon conto continuato ad occupare personalmente dietro le spalle del genero in maniera da guidarlo con la sua “mano sicura” e facendo così del nuovo ministro une secutore fedele della sua politica.
Mussolini – lo si è detto – era un cattivo conoscitore dell’uomo-individuo e in particolare di quelli non della sua stessa generazione e formazione. Come pedagogo poi non aveva né capacità né esperienza e inoltre era portato a considerare l’individuo un po’ come considerava le masse, come un oggetto inerte da plasmare con le sue mani da “artista”. Con queste premesse, la scelta di Ciano si rivelò assolutamente sbagliata.
P. 804-05

Un atteggiamento, un tipo di rapporto che spiegano perché quando, ad un certo momento, la sudditanza psicologica verso il duce sarebbe venuta meno, anche la possibilità di una vera intesa tra i due uomini sarebbe definitivamente sfumata e al suo posto si sarebbe venuto a creare un reciproco, amaro disagio psicologico, che in Ciano si sarebbe via via trasformato in una sorta di irritazione profonda e in un criticismo insoddisfatto e frustrante e in Mussolini in un nuovo motivo di umana solitudine, in sfiducia in tutti, in autoconvincimento della propria insostituibilità ed eccezionalità.
A metà del 1936 tutto ciò ara ancora però lontano e imprevedibile, e Mussolini, nonostante tutto, poteva credere di aver trovato per il suo impero se non un secondo duce – ché una tale eventualità, impensabile già nel ’32, era oggi per lui un assordo – almeno un delfino, scelto es espresso da lui. La parola d’ordine, l’obiettivo degli anni duri, durare, sembrava essere diventata una realtà.
P. 807-08

         FINE

 

Cap. 1.: dallo stato liberale al regime fascista: i primi passi

Con la svolta politica del 3 gennaio Mussolini riequilibrò la situazione politica a proprio vantaggio. Il riequilibrio fu però molto meno sostanziale di quanto apparve e di quanto comunemente si crede. Decise le sorti del fascismo sul piano del potere, assicurando a Mussolini la permanenza al governo; a ben vedere non lo sottrasse però alla “vendetta fiancheggiatrice”. Dopo il 3 gennaio il compromesso dell’ottobre ’22 fu ribadito nel modo più pesante e definitivo, precludendo al fascismo ogni concreta possibilità di modificarlo a breve scadenza a proprio vantaggio. I fiancheggiatori interni ed esterno del PNF, cioè la vecchia classe politica costituzional-moderata e conservatrice e la burocrazia, conservarono la loro fiducia a Mussolini e si lasciarono “fascistizzare”; così facendo però si assicurarono la possibilità di continuare a tenere salde nelle proprie mani le tradizionali leve del loro effettivo potere, sia politico sia economico, e in breve volgere di tempo conquistarono anche il PNF, trasformandone la composizione sociale, i rapporti interni di forze e lo stesso carattere, così da svirilizzarlo completamente d’ogni carica o velleità rivoluzionaria, ridurlo sostanzialmente alle dipendenze dello Stato (è sintomatico che – come si vedrà – in breve volgere di tempo e per poco la sede delle ultime resistenze e velleità rivoluzionarie più propriamente fasciste sarebbero divenuti i sindacati, più difficili, per ovvi motivi, ad essere conquistato dall’interno dai fiancheggiatori) e farne non più un ostacolo ma un sostegno del compromesso.
P. 8

In una società in trasformazione, quale – nonostante i ritardi e gli ostacoli frapposti dalle vecchie strutture e dai vecchi interessi – era pur sempre l’Italia, questo equilibrio non poteva non diventare via via sempre più difficile e non rivelare in sé contraddizioni e scontri di interessi sempre più difficili a sanarsi col sistema del compromesso o, addirittura, del mero rinvio; specie se fosse venuto meno il superficiale cemento che teneva insieme tutto il laborioso ma vieppiù debole edificio del “regime fascista”: il mito-abitudine del capo e la fiducia (alla quale contribuiva largamente l’ancor viva tradizione patriottica risorgimentale) nelle capacità del “duce” a conseguire la “grandezza” e a liberare tutte le forze centrifughe più o meno latenti,  sopite o compresse. E ciò sarebbe avvenuto, appunto, il 25 luglio 1943, quando, di fronte alla sconfitta militare, il “regime fascista” crollò d’un colpo e con esso il fascismo e se qualcosa sopravvisse furono, da un lato, con al Repubblica Sociale Italiana, il vecchio fascismo rivoluzionario e intransigente che si illuse di poter tornare alla ribalta riallacciandosi al programma sociale del 1919 e che cercò di vendicarsi dei suoi nemici fiancheggiatori e, da n altro lato, buona parte del vecchio regime che, toltasi la camicia nera, cercò, e in parte riuscì, a scaricare le proprie pesanti responsabilità sul fascismo, presentandosi nelle vesti di una delle sue numerose vittime.
P. 9-10

Articolo da Non mollare del 27 luglio 1925
Ancora l’Aventino
Dal 3 gennaio l’Aventino è fuori strada….. Il significato sostanziale della crisi del 3 gennaio si riassume in poche parole: per la prima volta dopo la marcia su Roma i fascisti acquistano piena consapevolezza della loro forza….. Salvo isolate eccezioni, non sembra che i capi dell’Aventino si siano resi ancora conto della situazione. Sono sempre sulle vecchie posizioni…. Si attende la salvezza da tutto e da tutti, fuori che da se stessi… In tutte queste proposte e speranza, fatte e nutrite per lo più in buona fede, si rivela un abisso di incomprensione da far paura. Vien fatto di chiedersi se fra noi e molti dei vecchi capi partito sia finita davvero ogni possibilità di intesa: se fra il vecchio stato maggiore che governò l’Italia e gli elementi che sono in prima linea nella battaglia antifascista sussista una incompatibilità definitiva. Rispondiamo, si. Esiste questa incomprensione, sussiste la incompatibilità: Occorre che i vecchi capi si ritirino in disparte, o per lo meno che affidino senza indugi a mani più adatte la direzione della lotta…. L’Aventino è un prolungamento del vecchio regime parlamentare, necessario e sacrosanto in periodi legali, malgrado tutti i suoi difetti, ma assurdo attualmente. Oggi l’Aventino è l’equivoco, è l’illusione vivente e concreta della persistenza di una qualche speranza legalitaria. Prolungandole la vita si rischia di allontanare e addormentare la minoranza decisa ad una azione più risoluta e di sfibrare definitivamente le masse… Dal 3 gennaio la situazione è mutata. Ogni speranza di soluzione legale è caduta. La monarchia è legata a filo doppio con Mussolini….. In queste condizioni il compito dell’Aventino è ormai uno solo: dire alto e forte al paese qual è la situazione. Dire al popolo italiano che la legalità è morta, che nulla v’è da fare e da sperare sul terreno legale.
P. 14

Tra la crisi dell’Aventino, il definirsi dell’atteggiamento dei fiancheggiatori e la posizione di Vittorio Emanuele 3 vi è un nesso inscindibile, un fitto tessuto di motivazioni e condizionamenti reciproci. A questo nesso inscindibile bisogna rifarsi per mettere un po’ d’ordine e comprendere il significato della confusione politica che caratterizzò gran parte del 1925. Alla base del defilamento del re vi erano certo motivi di carattere e opportunistici calcoli dinastici; sarebbe però errato ridurre il giudizio sul ruolo di Vittorio Emanuele a questi due soli elementi. Sull’atteggiamento della Corona giuocarono altrettanto certamente altre considerazioni. Fascista Vittorio Emanuele non lo fu mai e certo non lo era nel 1925. Se si fosse sentito sicuro di potersi liberare di Mussolini e soprattutto del fascismo senza scosse e soprattutto con la certezza di non mettere in forse l’equilibrio politico-sociale e l’istituto monarchico lo avrebbe indubbiamente fatto. Egli temeva però da un lato la reazione fascista e da un altro lato che la successione avvenisse tra scosse incontrollabili, delle quali potessero approfittare altre forze “anticostituzionali” e addirittura rivoluzionarie. Da qui il suo sforzarsi a prendere tempo e non precludersi – in teoria – alcuna strada: senza rendersi però conto  che così facendo finiva invece per influire massicciamente nell’orientare lo sbocco della situazione verso Mussolini. Così facendo infatti tarpava le ali agli elementi costituzionali più lealisti, che non si muovevano per timore di “scoprire la Corona” e si sentivano legati alla sua posizione; suggeriva di fatto ai fiancheggiatori la via del reinserimento e della riconferma del compromesso del ’22; condannava l’Aventino – già di per sé autoconfinatosi un uno spazio politico ridottissimo e sterile di sviluppi – ad un immobilismo sempre più inconcludente che favoriva da un lato le tendenze alla capitolazione e da un altro lato quelle apertamente antimonarchiche e “sovversive”; coll’evidente risultato di indebolire vieppiù ogni potenziale fronte costituzionale antifascista e di gettare nelle braccia di Mussolini i fiancheggiatori e – il processo assumeva infatti inevitabilmente il classico andamento a spirale – la stessa Corona.
P. 17-18

Citazione da Salandra
Gli avvenimenti italiani di quel tempo apparivano… agli occhi di molti come una sinistra riprova dell’influenza che la propaganda russa esercitava sulle masse del sovversivismo in Italia. E in quel momento storico, a ragione o a torto, i liberali di destra non credettero di poter considerare prossima la fine del pericolo rivoluzionario…. E di poter deliberare il passaggio sui banchi dell’opposizione…. New 1925-26 il fascismo rappresentava purtroppo, da più di un quadriennio, il sistema politico formalmente costituito in Italia, dove era sorto come prodotto del dopoguerra col programma di fronteggiare quel pericolo rivoluzionario, di cui nel cielo d’oriente continuavano a fiammeggiare i sinistri bagliori. Ed era allora opinione dominante nel gruppo della destra liberale che coloro i quali credevano – o dimostravano allora di credere -  che ogni pericolo di violenti sovvertimenti fosse a quel tempo dissipato, si illudessero ed illudessero, esponendo se stessi e i loro seguaci a gravi e prossime delusioni.
P. 25

Solo nel quadro di questa molteplicità di motivazioni e del loro reciproco giuoco di influenze (importantissimo fu quello fra fiancheggiatori e monarchia) possono essere veramente capiti il travaglio dei fiancheggiatori nel ’25 e le ragioni che li indussero a non fare le loro “vendette” contro Mussolini e, soprattutto, si comprendono il carattere e i limiti del definitivo rinnovo del loro compromesso con l’uomo che, se avessero potuto, avrebbero volentieri estromesso dal potere. Tra il “salto nel buio”, che in una misura o in un’altra avrebbe inevitabilmente compromesso  le loro posizioni morali, politiche ed economiche, e Mussolini, i fiancheggiatori – preoccupati soprattutto di salvaguardare il più possibile queste loro posizioni e, quindi, le strutture portanti della vecchia società liberale postunitaria della quale erano espressione e che ormai non erano più in grado di difendere da soli contro l’attacco che veniva loro mosso da tutti gli altri settori della società italiana – scelsero Mussolini, cercando di ripetere su un altro piano l’operazione che era loro fallita nel periodo tra la marcia su Roma e il delitto Matteotti: allora avevano cercato di rivitalizzarsi con un fascismo che invano avevano sperato di costituzionalizzare e di assorbire nel sistema; ora cercavano almeno di salvare le strutture essenziali del loro regime sperando di fagocitare in esso Mussolini e una parte del fascismo.
La gravità e le conseguenze di questa scelta sono oggi evidenti, così come incontrovertibile è la responsabilità che con essa i ceti conservatori si assunsero. Constatare questa responsabilità e sottolineare il valore – forse decisivo -  che la scelta dei fiancheggiatori ha avuto non solo nel ’25-’26 ma agli effetti di tutta la successiva vicenda italiana sino al 1943, compreso dunque il suo tragico epilogo della guerra, è giusto e necessario. Questa constatazione non deve però indurre a fare per tutti gli avvenimenti successivi al ’25-’26 di ogni erba un fascio e a confondere in un tutto unico inscindibile fascismo e fiancheggiatori (anche se entrati nel PNF). E ciò – sia ben chiaro - non per volere in tal modo diminuire in qualche misura la responsabilità della classe dirigente prefascista, ma perché altrimenti – lo ripetiamo -  si perde la possibilità di intendere in sede storica una delle peculiarità del regime fascista, forse la più importante. E cioè il contrasto di fondo – l’”opposizione” della quale abbiamo parlato all’inizio di queste pagine – tra fiancheggiatori (della prima e della seconda ora, di origine liberale e di origine cattolica, appartenenti al mondo più immediatamente politico o espressi dalla burocrazia, dai tecnici e dalle grandi centrali economiche, ecc.) e fascisti veri e propri, contrasto che caratterizzò certamente l’affermarsi del regime, dal ’25-’26 al 1929 e che dopo un certo attenuamento nel 1930-35 – grosso modo gli anni nei quali la politica di Mussolini raccolse i più larghi consensi - , si riaccese in maniera sempre più marcata (sino ad assumere via via l’aspetto di una vera e propria lotta per la successione) nell’ultimo periodo del regime fascista, dalla guerra d’Africa alla definitiva catastrofe del ’43.
P. 31-32

Citazione da Gramsci

Da una parte la tendenza Federzoni, Rocco, Volpi, che vuole tirare le conclusioni di tutto questo periodo dopo la marcia su Roma. Essa vuole liquidare il partito fascista come organismo politico e incorporare nell’apparato statale la situazione di forza borghese creata dal fascismo nelle sue lotte contro tutti gli altri partiti. Questa tendenza lavora d’accordo con la corona e con lo Stato maggiore. Essa vuoel incorporare nelle forze centrali dello Stato da una parte l’Azione cattolica, cioè il Vaticano, ponendo termine di fatto e possibilmente anche di diritto al dissidio fra la casa Savoia ed il Vaticano e dall’altra parte gli elementi più moderati dell’ex Aventino. E’ certo che mentre il fascismo nella sua ala nazionalista, dato il passato e le tradizioni del vecchio nazionalismo italiano, lavora verso l’Azione cattolica, dall’altro lato la casa Savoia cerca ancora una volta di sfruttare le sue tradizioni per attirare nelle sfere governative gli uomini del gruppo di di Cesarò e del gruppo Amendola.
L’altra tendenza è ufficialmente impersonata da Farinacci. Essa obbiettivamente rappresenta due contraddizioni del fascismo. 1) Contraddizione tra agrari e capitalisti nelle divergenze di interesse specialmente doganali. E’ certo che l’attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, capitale che vuole asservire a sé tutte le forze produttive del paese. 2) La Seconda contraddizione è di gran lunga la più importante ed è quella tra la piccola borghesia e il capitalismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo.
In generale si può dire che la tendenza Farinacci nel partito fascista manca di unità, di organizzazione, di principi generali. Essa è più di uno stato d’animo diffuso che una tendenza vera e propria. Non sarà molto difficile al governo di disgregare i suoi nuclei costitutivi. Ciò che importa dal nostro punto di vista è che questa crisi, in quanto rappresenta il distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese agraria fascista, non può non essere un elemento di debolezza militare del fascismo.
P. 33-34

Telegramma di Mussolini a Farinacci:

Non ammetto squadre di nessuna specie e non ammetto che si revochi in dubbio esistenza ordine giorno Gran Consiglio che non fu votato perché i miei ordini non si votano, si accettano e si eseguiscono senza chiacchiere aut riserve perché Gran Consiglio non è parlamentino e nel Gran Consiglio non si è mai – dico mai – proceduto a votazioni di sorta. I signori Puci e Tuninetti mi faranno quindi il sacrosanto piacere di accettare senza discutere il fatto compiuto poiché quando è in gioco prestigio e autorità governo sono indiscutibile e ricorso (sic) e qualunque mezzo. Mio ordine è preciso tutte le formazioni squadristiche a cominciare dai corsari neri del troppo loquace Castelli saranno sciolte a qualunque costo dico a qualunque costo. E’ gran tempo di fare la separazione necessaria: i fascisti coi fascisti, i delinquenti coi delinquenti, i profittatori coi profittatori e soprattutto bisogna praticare intransigenza morale dico morale.
P. 65

Citazione da P. Gobetti:
La maggioranza degli italiani è fascista solo in questo senso: che ha un’assoluta incompatibilità di carattere coi partiti moderni, coi regimi di autonomia democratica, col la loro politica. Messi al bivio tra il governo attuale e una ipotesi di governo futuro in cui i cittadini abbiano la loro responsabilità nella libera lotta politica, votano per Mussolini.
P. 70

Se a questa frustrazione del ’25 si aggiungono poi gli attentati contro Mussolini della fine dello stesso anno e del successivo, che – proprio per essere solo degli attentati senza altro obiettivo che l’uccisione di Mussolini – lasciavano capire una cosa sola: che se Mussolini fosse stato ucciso nulla sarebbe stato risolto ma si sarebbe aperto solo un nuovo periodo di accese lotte politiche e probabilmente civili, delle quali nulla lasciava prevedere la conclusione tranne quella o di una vittoria “bolscevica” o di un ritorno alla situazione e al governo degli anni del dopoguerra; è facile capire come in questi  frangenti un popolo stanco, preoccupato per la situazione economica e di labili tradizioni democratiche si orientasse in maggioranza verso la soluzione apparentemente più facile e meno dolorosa. Ed è facile capire perché, un po’ per inconscio desiderio di giustificare a se stessa questa abdicazione, un po’ per effettiva delusione per la soluzione conservatrice della “rivoluzione fascista” (che, almeno in un primo tempo, alcune speranze – sia pure confuse – indubbiamente aveva suscitato) e un po’ per consapevole sfiducia negli uomini del fascismo e nei loro fiancheggiatori, questa maggioranza più che aderire al fascismo già tendesse a rifugiarsi nel mito-speranza di Mussolini, il “duce”.
P. 71

Rapporto della PS dell’agosto 1932:
Lo stato d’animo delle popolazioni si va quasi dovunque e stranamente orientando sempre più verso il duce e sempre meno verso il fascismo, che è visto attraverso le beghe locali e il contegno non sempre o quasi mai esemplare dei gerarchi.
P. 72

In mezzo, tra questi partiti e i comunisti, vi erano poi il repubblicano e ciò che rimaneva dell’Italia Libera, di Patria e Libertà e di alcuni altri gruppi minori intransigenti, spesso però in via di esaurimento. A parte (salvo nella Venezia Giulia alcuni sporadici e discussi contatti con i comunisti) vi erano poi i vari partiti e organizzazioni degli allogeni dell’alto Adige e della Venezia Giulia. Da un altro lato ancora vi era infine un vasto e atomizzato schieramento di liberal-democratico che concepiva l’opposizione al fascismo forse più in termini morali, culturali, di gusto che non concretamente politico-partitici e che si muoveva sotto gli stimoli più disparati, crociani, giolittiani, gobettiani, amendoliniani, salveminiani, ecc. Un coacervo di posizioni, caratterizzabili più per la negazione del fascismo che per una concorde affermazione positiva e politicamente sterili, ma che, alla prova dei fatti, si sarebbe dimostrato lungo quasi un ventennio una realtà viva, della quale il fascismo non sarebbe riuscito ad avere ragione; una realtà estremamente variegata e in continuo mutamento, che, per altro, come si vedrà, avrebbe costituito – a livello intellettuale e di una certa borghesia professionale – lo scoglio più resistente contro cui si sarebbe infranto il fascismo nel suo tentativo di permeare di sé tutto il paese e al tempo stesso il più effettivo punto di riferimento e di formazione morale e intellettuale dell’antifascismo (di tutte le gradazioni) degli anni trenta e quaranta; una realtà che, intanto, il 1° maggio 1925 espresse quel “manifesto degli intellettuali antifascisti” che, nel clima del momento, costituì senza dubbio la presa di posizione più alta e concreta dell’antifascismo, poiché riuscì a dare la misura della quantità e della qualità della parte della classe dirigente italiana che rifiutava di accettare il fascismo e a rendere chiari – agli italiani e agli stranieri – i motivi più reali e insopprimibili della sua opposizione.
P. 117-18

In questo clima di rinnovata e aumentata fiducia per Mussolini, anche i provvedimenti che il Gran Consiglio aveva deciso, nella sessione del 5-8 ottobre, di sottoporre al governo per la realizzazione finirono per trovare meno ostilità e resistenze di quante ne avrebbero trovate se non ci fossero stati i fatti di Firenze con i successivi provvedimenti del Gran Consiglio e del governo. E lo stesso di può dire per quelli approvati contemporaneamente dal Consiglio dei ministri. I primi, riprendendo alcune delle proposte formulate dalla Commissione dei diciotto, prevedevano, tra l’altro, la costituzione di un ministero della Presidenza, la presentazione di un disegno di legge di modifica dell’articolo 10 dello Statuto (sull’iniziativa legislativa), l’inquadramento nello Stato dei sindacati, attraverso il iri riconoscimento e l’obbligo dell’arbitrato (con relativa istituzione di una magistratura del lavoro), e la riforma del Senato, da realizzarsi con l’elezione di una parte dei suoi membri ad opera di alcuni enti e delle corporazioni. I secondi introducevano a loro volta podestà di nomina governativa in tutti i comuni sino a cinquemila abitanti, al posto dei sindaci elettivi.
Questi provvedimenti, sia singolarmente sia nel loro insieme, avrebbero avuto – una volta approvati dal Parlamento – ripercussioni notevolissime sia in sede politica sia in sede economico-sociale e avrebbero costituito un nuovo importante passo sulla strada del regime. Su ciò nessuno si faceva illusioni. Soprattutto al Senato non mancavano pertanto coloro che erano ad essi ostili. Quanto alla Camera, nella stessa maggioranza vi erano vari deputati – tra i quali il gruppo legato alla Confindustria – tutt’altro che favorevoli all’idea di una riforma sindacale del tipo di quella richiesta dal Gran Consiglio. Sappiamo infine che il re non era favorevole alla riforma del Senato. Come vedremo nei prossimi capitoli, quando i provvedimenti sarebbero stati portati davanti alle camere, alcune di queste critiche e resistenze non avrebbero mancato di venire a galla. Se esse furono però meno numerose e vivaci di quanto si sarebbe potuto credere in un primo momenti, ciò fu dovuto in gran parte alla nuova situazione determinata nel frattempo dall’attentato Zaniboni. E’ anche però un fatto da non sottovalutare che in non pochi fiancheggiatori s’era frattanto fatta strada – come abbiamo visto nel caso particolare del re – l’idea che le “leggi fasciste” (le prime, già approvate dalla Camera, e le seconde decise ai primo di ottobre dal Gran Consiglio e dal governo) costituissero, insieme alla rinuncia di appoggiare un eventuale ritorno in aula dei gruppi costituzionali dell’Aventino, una specie di prezzo da pagare a Mussolini perché egli potesse tenere a freno l’intransigentismo fascista e procedere alla sua progressiva estromissione politica. E se questa idea si era fatta strada e aveva n molti casi avuto la meglio sugli scrupoli costituzionali e sulle preoccupazioni dei fiancheggiatori e dello stesso sovrano, ciò era stato determinato soprattutto del nuovo atteggiamento assunto da Mussolini all’indomani dei fatti di Firenze verso l’intransigentismo farinacciano e dal fatto che l’intransigentismo non era riuscito ad impedirlo, sicché veniva ulteriormente confermata la tesi che solo Mussolini fosse in grado di pacificare l’Italia e di garantire la classe dirigente e i ceti che la esprimevano sia dal “sovversivismo” rosso sia di quello nero.
P. 137-38

Cap. 2. Le premesse politiche del regime: la soppressione dei partiti d’opposizione e la liquidazione politica del partito fascista

Per Rocco – che già prima della guerra pensava, per dirla con l’Ungari, ad una moderna sistemazione dei problemi sollevati dalla grande produzione di massa che legittimasse “un duro autoritarismo alla prussiana e una stretta integrazione, sempre alla tedesca, tra apparato statale e cartelli industriali, con la filosofia positivistica dell’organicismo sociale, dove i capi dell’economia si trasfigurano in “organi di interesse nazionale2, le masse trovano nei sindacati misti, o corporazioni, “non l’assurda uguaglianza, ma disciplina delle differenze”, e Comte e Shaeffle porgon la mano a Bismarck e List – il “nuovo” ordine politico doveva infatti, da un alto, tradurre in pratica gli elementi di pensiero politico autoritario sparsi nelle pagine dei giuristi ormai da una quindicina d’anni, da quando cioè si era fatto più vivo il pericolo di una disgregazione sindacalista del potere politico, e, da un altro lato, non limitarsi ad un mero rafforzamento dell’esecutivo, ma realizzare un vero e proprio nuovo regime politico-sociale fondato sul trinomio “Stato autoritario-concentrazione cartellistica-ideologia e prassi si alti salari, alla Ford”.
P. 165

Il più importante di questi mutamenti fu l’allontanamento dal governo del ministro Lanza di Scalea: pur accettando le dimissioni di Federzoni da ministro dell’interno, Mussolini non volle infatti per il momento privarsi del tutto della copertura federzoniana (che gli era ancora utile per i rapporti con il re e con alcuni gruppi di senatori) e trasferì il titolare dell’interno alle colonie, sacrificando, appunto, Landa di Scalea. Gli altri mutamenti riguardarono invece un certo numero di sottosegretari, tra i quali Suardo che passò dall’interno e fu sostituito da Bottai alle corporazioni. L’estrema gravità dei provvedimenti decisi dal consiglio dei ministri il 5 novembre è così evidente che non è il caso di insistere su di essa: il significato di quei provvedimenti non può sfuggire a nessuno: con essi veniva praticamente sancita la definitiva distruzione di quel poco dell’ordinamento liberal-democratico e del vecchio Stato di diritto che erano, bene o male, sin lì sopravvissuti a quattro anni di governo fascista e si può considerare conclusa la fase  - iniziata il 3 gennaio 1925 – del trapasso dal vecchio Stato prefascista al nuovo regime fascista.
P. 213-14

E’ necessario spiegare un successo cos’ completo e facile. Dire che fu conseguito solo facendo leva sulla paura, col ricorso alla minaccia di nuove violenze fasciste, sarebbe solo molto parzialmente vero. Che una simile paura abbia avuto una parte nell’assicurare il successo a Mussolini è indubbiamente vero, specie se l’affermazione si riferisce ad alcuni settori ben precisi del mondo politico, della classe dirigente fiancheggiatrice. Sarebbe però sbagliato ricorrere solo a questa spiegazione e colerla applicare a tutti. Una spiegazione esauriente va – almeno a nostro avviso – cercata anche e soprattutto in due altre direzioni.
Una prima spiegazione può essere trovata nel mutato orientamento che, soprattutto nei dodici mesi che precedettero l’ultimo decisivo giro di vite mussoliniano, si era verificato nell’opinione pubblica italiana. Il paese – lo si è detto – era ormai stanco, desideroso solo di sanare le proprie ferite, sfiduciato nelle opposizioni, ridotte per di più ormai a delle larve. Dopo i tragici fatti di Firenze l’ordine pubblico era andato notevolmente migliorando e ciò aveva fatto sperare che si stesse finalmente arrivando alla tanto bramata “normalizzazione”. Il fascismo a sua volta aveva posto radici in larghi settori della popolazione e – come avrebbe riconosciuto anche Silone – non appariva più tanto come “un esercito nemico accampato in terra di occupazione” (come era potuto sembrare a molti in un primo tempo e soprattutto durante la crisi Matteotti), quanto piuttosto come un fenomeno sociale con proprie caratteristiche. In questo clima gli attentati Zaniboni, Gibson, Lucetti e Zamboni avevano scosso profondamente l’opinione pubblica a tutto vantaggio del governo e dello stesso fascismo: un po’ spontaneamente un po’ grazie alla sistematica azione della stampa e della propaganda fasciste – ormai pressoché complete padrone del campo – l’opinione pubblica media si era orientata sempre di più a considerare perturbatori dell’ordine pubblico e della pace interna non più i fascisti ma gli antifascisti e ad accettare come necessità – sull’altare della totale “pacificazione” – l’eventualità di una loro estromissione violenta dalla vita pubblica. Significativa è a questo proposito una relazione della PS su come furono accolti nel paese i provvedimenti del 5 novembre: da essa risulta infatti che le nuove leggi, “severe ma giuste”, erano state in genere accolte “favorevolmente e con disciplina” e “con sollievo”. Questo stato d’animo trovava ormai echi persino in certi settori proletari nei quali – come lo stesso Serrati aveva avuto occasione di constatare sin dalla fine del ’25 – “molti sono coloro che dicono che in questa situazione non è possibile fare altro che inchinarsi”. Oltre a ciò, il problema centrale, un po’ in tutti gli ambienti sociali, non era più tanto, in questa situazione, quello immediatamente politico, quanto piuttosto quello finanziario ed economico, quello – come si vedrà nel prossimo capitolo - della stabilità della lira. Ed era convinzione diffusissima che per risolvere questo problema occorresse una stabilità politica e una pace sociale effettive e una energica azione del governo: tre cose che in quel momento solo il fascismo era in grado di assicurare e alla realizzazione delle quali si era disposti sempre di più a posporre il problema generale della difesa di un assetto politico che non mancava di difetti, che era stato per anni criticato e persino villipeso e che il fascismo ad ogni occasione proclamava voler rendere più efficiente, moderno ed incisivo anche sul piano sociale. Da qui – a nostro avviso – la prima causa della “corsa” al fascismo dopo l’attentato Zaniboni priam e dell’accettazione ora – con “sollievo” – dei provvedimenti del novembre ’26. Provvedimenti che – oltre tutto – si sperava sarebbero stato solo provvisori e di cui – persino al livello politico più alto – non tutti dovettero cogliere subito l’irrimediabile gravità, se persino una vecchia volpe della politica come Salandra in un primo momento arrivò a cullarsi nella illusione che ai deputati antifascisti estromessi con la decadenza da Montecitorio potessero subentrare “secondo la legge” i secondi non eletti in lista nel ’24.
Essendo così orientata la maggioranza dell’opinione pubblica, perché una opposizione “legale” – e con ciò arriviamo alla seconda delle spiegazioni della facilità del successo mussoliniano – potesse non limitarsi ad una serie di prese di posizione personali, morali più che politiche, come quelle che si ebbero alla Camera il 9 e al Senato il 20 novembre, sarebbe occorso un punto di effettivo riferimento politico che non poteva essere costituito che dalla monarchia. Ma, come già nel ’24-’25, Vittorio Emanuele 3 sfuggì anche in questa occasione alle sue responsabilità
P. 215-16

In questa vicenda particolare, così come in quella delle nuove leggi e – più in genere – nelle altre venute sul tappeto nell’ultimo anno e mezzo circa, ilr e si limitò a subire l’iniziativa di Mussolini, pur rendendosi conto che così facendo indeboliva la propria posizione e anzi crucciandosene; egli però non si sentiva sufficientemente forte per agire e per fare ora ciò che non aveva voluto fare quando il fascismo e il governo era in crisi, l’opposizione era forte e godeva di vastissimi consensi nel paese e la dinastia, per dirla con Caviglia, era sugli altari e tutti attendevano da essa una indicazione; si rendeva anche conto che, al punto al quale erano arrivate le cose, la linea di condotta meno pericolosa per lui e per la dinastia era ormai quella di rimanere legato a Mussolini; tanto più l’esperienza sembrava insegnare che le dinastie duravano in generale più dei singoli uomini e del loro governi ed era estremamente improbabile che Mussolini potesse diventare tanto forte da poter pensare di porsi esplicitamente contro la monarchia; anzi c’era anche da credere che avrebbe piuttosto avuto sempre bisogno  del suo avallo. Questo – a nostro avviso – il vero atteggiamento del re. Una atteggiamento che, alla lunga, si sarebbe dimostrato deleterio per l’Italia sia per la dinastia dei Savoia, ma che – date le premesse che stavano alla sua base e che ormai lo determinavano e data la psicologia del re lontanissimo dal voler giuocare il tutto per tutto – era non solo ormai pressoché obbligato ma chiaro anche a Mussolini che, quindi, si sentiva sicuro dei suoi movimenti, e a tutti coloro – fascisti e antifascisti – che avessero un po’ di sensibilità politica.
In questo clima e nel modo che abbiamo narrato Mussolini nel novembre 1926 realizzò il suo vero diciotto brumaio. Un diciotto brumaio tutt’altro che eroico e anche meno rischioso di quello che aveva portato al potere il generale Bonaparte. Un diciotto brumaio di cui Mussolini aveva posto le premesse quasi due anni prima, il 3 gennaio del ’25, e che da allora era venuto si costruendo pezzo a pezzo, attraverso tutta una serie di mosse e di provvedimenti, ma che gli fu possibile realizzare, in quel certo modo e in quel dato momento, molto anche per una serie di circostanze esterne, del tutto impreviste, ma delle quali seppe cogliere l’intrinseco valore politico. Un diciotto brumaio, infine, che, più che capovolgere una precedente situazione, sancì ufficialmente la fine di un processo di trasformazione che aveva già profondamente mutato il volto politico dell’Italia, nelle istituzioni come nelle forze in presenza. In termini strettamente giuridici le ultime vestigia del regime liberal-democratico italiano sarebbero state spazzate via solo nel 1929, con lo scioglimento della Camera eletta nel ’24 e con l’eliminazione degli ultimi superstiti rappresentanti elettivi dell’opposizione liberale.
Nonostante ciò, non vi è dubbio che il regime fascista sia diventato una effettiva realtà nel novembre del ’26.
P. 218-21

Cap. 3. Le premesse economiche e sociali del regime: la “quota novanta” e la Carta del lavoro

Citazione da Pesaro:
Voglio dirvi, che noi condurremo con la più strenua decisione la battaglia economica in difesa della lira e da questa piazza a tutto il mondo civile dico che difenderemo la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue.
Non infliggerò mai a questo popolo meraviglioso d’Italia, che da quattro anni lavora come un eroe e soffre come un santo, l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento della lira. Il regime fascista resisterà con tutte le sue forze ai tentativi di jugulazione delle forze finanziarie avverse, deciso a stroncarle quando siano individuate all’interno.
Il regime fascista è disposto, dal suo capo all’ultimo suo gregario, a imporsi tutti i sacrifici necessari, ma la nostra lira, che rappresenta il simbolo della nazione, il segno della nostra ricchezza, il simbolo delle nostre fatiche, dei nostri sforzi, dei nostri sacrifici, delle nostre lacrime, del nostro sangue, va difesa e sarà difesa.
P. 232

Ma, alla fine, a prevalere furono i motivi politici e di prestigio. Buona regola sarebbe stata quella di riportare la lira ad una quota più economica e più corrispondente alla realtà dell’economia italiana. Mussolini, invece, non volle rinunciare alla “quota novanta”, sia perché essa era ormai diventata uno slogan, una bandiera del regime e gli sembrava che rinunciarvi equivalesse ad uno scacco, sia perché - come vedremo ampiamente più avanti – resistere sulla “quota novanta” diventava per lui ogni giorno di più il modo per affermare la sua autorità sui “fiancheggiatori2. Non diede dunque ascolto a coloro che avrebbero voluto proseguire sulla strada della rivalutazione sino a raggiungere la parità aurea, ma non ascoltò neppure quelli che avrebbero voluto un progressivo assestamento su una quota più realistica: “sia pure con strilli e dolori”, tutte le forze dell’economia italiana dovevano “adeguarsi” alla “quota novanta”.
P. 239

Ma la politica di rivalutazione non può essere vista solo in termini strettamente economici e non può essere considerata quasi come una pagina a sé della storia italiana di quegli anni. Al contrario, proprio solo se la si vede strettamente connessa a tutta la politica mussoliniana del tempo essa acquista tutto il suo significato e se en possono capire gli “errori”; “errori” che dal punto di vista di Mussolini, della sua politica tout court, non furono in gran parte né tali né tanto meno involontari, ma una precisa scelta, un rischio calcolato, in funzione di un preciso piano politico.
P. 263-64

La carta del lavoro, formalmente parlando, non era un atto giuridico, tanto è vero che – come si è detto – il Gran Consiglio aveva dato mandato al governo di curarne la traduzione legislativa. Come sarebbe stato scritto di là ad un anno, essa doveva soprattutto “funzionare di fatto” come norma giuridica ed essere per ogni fascista “la legge di partito inderogabile”. Ciò nonostante, per darle più importanza e solennità venne pubblicata nella Gazzetta ufficiale. Con questo atto solenne (anche se formalmente strano ed eterodosso) la carta del lavoro entrò, tra il tripudio della stampa fascista e fascistizzata, nell’Olimpo della “dottrina” e della politica del regime e concluse la seconda fase dell’azione sindacale e corporativa fascista. Sotto il profilo sociale e in particolare del miglioramento delle condizioni di lavoro, la Carta del lavoro non innovava in realtà gran che. A parte alcune enunciazioni piuttosto generiche, varie norme in essa contenute già preesistevano legislativamente, altre erano già allo studio e in un clima politico diverso sarebbero quasi certamente già maturate naturalmente, logico portato dello dello sviluppo sociale di un paese in trasformazione abbastanza rapida come era l’Italia, e si può dire che lo spirito di compromesso che presiedette a tutta l’elaborazione della Carta del lavoro la rese, se mai, meno incisive. Contrariamente a quanto sbandierato dal fascismo, che parlò di “punti di partenza per la costruzione della nuova organizzazione della società italiana”, di “Stato di popolo” e di altre cose del genere, nulla vi era insomma di “rivoluzionario” nella Carta del lavoro. La sua pubblicazione servì però bene agli scopi politici che Mussolini si era prefissi. Essa valse infatti a dare una patina di socialità al nuovo regime, permettendogli di presentarsi come avviato su una strada nuova e giusta, con un Mussolini che – ormai libero da ogni impaccio – mostrava di essere pronto ad “andare al popolo” e a sfidare anche le oligarchie economiche…
P. 195-96

Cap. 4. La prima strutturazione dello Stato fascista

Come abbiamo visto nei due precedenti capitoli, le premesse politiche ed economico-sociali del regime fascista furono poste e in parte realizzate tra la fine del ’25 e la fine del ’27. In poco più di due anni l’Italia mutò radicalmente il suo volto politico; furono pressoché totalmente eliminate le ultime vestigia del vecchio Stato liberale e il fascismo – ormai autoproclamatosi unica realtà politica lecita e unica espressione positiva e dei singoli cittadini e del complesso della nazione – cominciò chiaramente a mostrare la sua volontà e la sua tendenza (connaturata a tutti i moderni regimi totalitari e anche autoritari di massa) e rendere il proprio potere superiore ed autonomo rispetto alle forze (politiche, economiche, sociali) che erano state all’origine del suo successo. Il processo, come si è visto si sviluppò nel campo più immediatamente politico e in quello economico-sociale con tempi e con conseguenze diversi, più rapido ed effettivo nel primo, più lento e meno incisivo nel secondo. Pur tenendo conto di questa sfasatura, si può però affermare che, se la vera e propria ristrutturazione dello Stato secondo la nuova realtà politica sancita dagli avvenimenti del ’25-27 si ebbe nel ’28-29, i primi punti fermi di questa ristrutturazione furono posti già nel ’27, che può pertanto essere considerato a tutti gli effetti il vero “anno primo” del regime fascista propriamente detto.
Se è vero che la giornata si giudica dalle prime ore del mattino, è fuori dubbio che il primo importante atto politico pubblico “positivo” compiuto da Mussolini dopo aver assunto anche il portafoglio dell’Interno (la circolare diramata ai prefetti il 5 gennaio 1927) mostra senza ombra di incoerenza che per il duce la totale eliminazione di ogni alternativa politica “lecita” (anche solo teorica) alla sua dittatura personale e, più in genere, al potere fascista non solo escludeva sin l’eventualità di una modifica della sua concezione del partito e dei rapporti di esso con lo Stato ma, anzi, determinava le condizioni più favorevoli a ribadire tale concezione e a tradurla definitivamente in atto.
P. 297

Per quel che riguarda il PNF la circolare di Mussolini ai prefetti costituì insomma il terzo punto fermo dopo la sostituzione di Farinacci con Turati e l’approvazione, nel ’26, del nuovo statuto del partito. Né il processo di svuotamento politico del partito fascista era destinato ad arrestarsi a questo punto. Due nuovi gravi colpi alla sua autonomia, al suo prestigio e alla sua funzione politica furono infatti portati alla fine del ’28 e alla fine del ’29 con due leggi, relative all’ordinamento e alle attribuzioni del Gran Consiglio e, ancora una volta, allo statuto del partito stesso.
P. 304

Secondo il testo approvato dal Gran Consiglio il 18 settembre ’28 e tradotto successivamente in legge, il Gran Consiglio era “l’organo supremo che coordina tutte le attività del regime” ed era presieduto dal capo del governo, a cui spettava convocarlo e fissarne l’ordine del giorno. Esso era chiamato a deliberare sulle liste dei deputati da presentare alle elezioni, sugli statuti, ordinamenti e direttive politiche del PNF e sulla nomina e sulla revoca del segretario generale, dei vicesegretari e dei membri del direttorio del partito. Doveva essere consultato “sulle questioni aventi carattere costituzionale” e cioè sulle proposte di legge concernenti la successione al trono, i poteri e le prerogative del re, la composizione e il funzionamento del Gran Consiglio stesso, del Senato e della Camera, le attribuzioni e le prerogative del capo del governo, la facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, l’ordinamento sindacale e corporativo, i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, i trattati internazionali comportanti mutamenti territoriali. Oltre a ciò il Gran Consiglio aveva il compito di formare e tenere aggiornata “la lista dei nomi da presentare alla Corona, in caso di vacanza, per la nomina del Capo del Governo” e “delle persone, che in caso di vacanza, esso reputa idonee ad assumere le funzioni di governo”.
P. 305

Il colpo era infatti tanto grave e carico di conseguenze che – pur non potendosi dubitare che il sovrano l’avesse subito obtorto collo – mutava di fatto i termini della tensione e del latente contrasto tra Vittorio Emanuele 3 e Mussolini, di cui tanto si sussurrava e si parlava in Italia e all’estero da anni. Sino allora, quello dei due uomini che si pensava potesse avere la possibilità di risolvere a proprio vantaggio una crisi vera e propria era stato – nonostante tutto – il re; ora, la passività con la quale il re aveva subito una così sostanziale diminuzione del proprio prestigio e delle proprie prerogative sovrane capovolgeva la situazione e stava ad indicare che oggettivamente il più forte era Mussolini. Da qui – appunto – la conclusione, per alcuni, che per abbattere il fascismo non si potesse fare alcun affidamento su Vittorio Emanuele 3 e, anzi, che il re avesse ormai legato le sue sorti a quelle del fascismo; e, per altri, che l’unico modo per salvaguardare la monarchia (per il momento come elemento moderatore e di freno per il futuro – quando Mussolini fosse scomparso dalla scena politica – come unica forza di mediazione tra fascisti e antifascisti) fosse quello di evitare nuove crisi tra essa e il fascismo e, quindi, di riconoscere di fatto la “diarchia”.
P. 311

Citazione da Aquarone:
Con la costituzionalizzazione del Gran Consiglio e la sua trasformazione in vero e proprio organo dello Stato, venne data sanzione giuridica al superamento di quel dualismo fra partito e governo, fra partito e Stato, che nella realtà dell’azione quotidiana, dal 3 gennaio 1925 in poi, era stato già ottenuto attraverso l’ormai definitivamente consacrata subordinazione del partito agli organi statuali del governo.
P. 313

A questo punto una domanda può venire naturale: per sanzionare definitivamente un rapporto, una situazione in gran parte già realizzati di fatto, Mussolini non contraddiceva in ultima analisi se stesso, valorizzando un organo, il Gran Consiglio, che avrebbe potuto costituire un centro di potere antagonistico al governo e alla sua stessa politica e farsi portavoce del partito? La domanda è tutt’altro che oziosa, specie se si pensa al ruolo che il Gran Consiglio avrebbe avuto nel 1943.
P. 313

Concludendo ci pare chiaro che, venuto il momento per Mussolini di dare una concreta strutturazione al regime, uno dei problemi più importante che egli volle risolvere fu quello del definitivo inserimento del PNF nel regime. Sotto questo profilo la circolare ai prefetti del 5 gennaio ’27, al “costituzionalizzazione” del Gran Consiglio nel ’28 (anche se questa legge – lo ripetiamo – rispondeva pure ad altre esigenze) e il nuovo statuto del PNF nel ’29 (il terzo dopo quelli del ’21 e del ’26) sono legati fra loro da un unico filo rosso e corrisposero ad un’unica esigenza politica pienamente realizzata: togliere al PNF ogni effettiva autonomia ed iniziativa politiche e farne una cinghia di trasmissione a senso unico, dal centro alla periferia, del potere politico mussoliniano.
P. 314

Il disegno di legge prevedeva un unico collegio nazionale e riduceva il numero dei deputati a quattrocento. Il diritto di proporre i candidati era riservato alle confederazioni nazionali sindacali legalmente riconosciute e ad alcuni enti morali ed associazioni di importanza nazionale stabiliti da un’apposita commissione parlamentare. Le confederazioni proponevano ottocento nomi, gli altri enti ed associazioni duecento. In basa a queste mille designazioni e, se lo riteneva necessario, attingendo liberamente anche ad altri nominativi di “persone di chiara fama nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, nella politica e nelle armi” il Gran Consiglio provvedeva a sua volta a formare la lista definitiva dei quattrocento candidati designati. Se la lista riceveva la metà più uno dei voti validi espressi dagli elettori risultava approvata nella sua interezza. La votazione aveva luogo mediante schede nelle quali, oltre al simbolo del fascio littorio, era riprodotta la domanda “approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio nazionale del fascismo?” e ad essa l’elettore doveva rispondere in calce con un “si” o un “no”.
P. 324

Citazione da Mussolini:

E vengo allo statuto… – disse – siamo sul terreno dell’archeologia o della politica? O, se volere, siamo sul terreno dell’immanenza o su quello della contingenza? S’è mai pensato che una costituzione od uno statuto possono essere eterni e non invece temporanei? Immobili e non invece mutevoli? Ma richiamiamoci agli immortali, ai troppo immortali principi immortali da cui tutto discende. Che cosa dice l’articolo 27 della dichiarazione des droits de l’homme? “Tutte le costituzioni sono rivedibili, perché nessuna generazione ha il diritto di assoggettare alle sue leggi le generazioni che seguiranno”.
Vi richiamo agli immortali principi. Di imanente, onorevoli senatori, di eterno, non vi sono che le leggi religiose….. Le costituzioni non sono che degli organi strumentali, risultati di determinate circostanze storiche, delle qual seguono lo sviluppo, la nascita, il declino.
Ma poi, onorevoli signori, questo Statuto è stato forse fatto da un’accolta di profeti? Ma niente affatto! Lo Statuto è stato fatto da alcuni signori che si sono raccolti attorno ad un tavolo… Ma già allora si cominciò a discutere su questo Statuto ed i pareri furono divisi…. Fin da allora, secondo la dottrina costituzionale che fu sempre di poi accettata, si ammetteva che lo Statuto fosse rivedibile, se le circostanze lo imponessero. E’ quindi fatica, a mio avviso, superflua, e tuttavia commovente, fare la guardia al Santo Sepolcro. Il Santo Sepolcro è vuoto. Lo Statuto non c’è più, non perché sia rinnegato, ma perché l’Italia d’oggi è profondamente diversa dall’Italia del 1848…..
P. 326
Ogni commento riferentesi al tempo presente lo ritengo superfluo

In questa costruzione, poiché i sindacati erano tutti – padronali e dei lavoratori – più o meno impregnati ancora di suggestioni classiste, “l’interesse supremo della Nazione” voleva che gli interessi particolari fossero soffocati e mediati, coordinati dal Ministero delle Corporazioni. In caso contrario, invece di “fare le Corporazioni per lo Stato”, si sarebbe consegnato lo Stato “in mano ai sindacati” e ciò avrebbe portato non solo al fallimento dell’ordinamento corporativo ma avrebbe messo lo Stato alla mercé dei sindacati e dei loro interessi particolari, sarebbe andato a tutto scapito della produzione e avrebbe snaturato il valore essenzialmente economico della Carta del lavoro. Quanto in particolare al sindacalismo rossoniano, esso non poteva avere per Bottai sostanzialmente cittadinanza se si voleva veramente creare lo Stato corporativo, poiché la sua origine sindacalista rivoluzionaria lo rendeva inidoneo a comprendere l’essenza di tale Stato.
P. 331

Ma ogni resistenza fu inutile. Il 9 settembre il comitato intersindacale approvava infatti una mozione Turati-Bottai che respingeva inesorabilmente 2il principio e l’attuazione dell’istituto dei fiduciari di fabbrica”. Con questa decisione, alla quale ovviamente i sindacalisti fascisti non erano in grado di opporsi – avevano termine sia l’esperimento dei fiduciari di fabbrica sia la polemica attorno ad esso; e, ciò che più conta, con questa decisione il sindacalismo fascista – già gravissimamente menomato dallo “sbloccamento” della confederazione rossoniana – perdeva praticamente la sua ultima battaglia politica e quel po’ di autonomia che i suoi leader avevano bene o male cercato di conservargli, sia pure tra errori e capitolazioni: da quel momento in poi anchei sindacati dei lavoratori diventavano a tutti gli effetti un “organo” del regime.
P. 341

Ma esso era andato al potere in virtù di un compromesso e – anche se col passare del tempo e col rafforzarsi del meccanismo dittatoriale il suo potere tendeva naturalmente ad acquistare una notevole autonomia rispetto alle forze che avevano favorito o anche solo accettato il suo successo – questo compromesso rimaneva pur tuttavia l’elemento decisivo di un equilibrio che Mussolini e il fascismo stesso potevano cercare di modificare col tempo e in grado di alterare radicalmente e di distruggere.
P. 343

In questo clima, come notava a sua volta “Critica fascista, non solo la “rivoluzione fascista” non riusciva a giungere “in pieno al cuore della struttura amministrativa dello Stato”, ma si assisteva al paradosso di un regime autoritario e, a parole, “estremamente volitivo, energico, sprezzante dinanzi agli ostacoli” che spesso finiva per trovarsi “prigioniero di congegni amministrativi creati da un altro regime” e in contrasto con i suoi fini. Veramente tipico è il caso – studiato dall’Aquarone (L’organizzazione dello stato totalitario) – delle lunghe resistenze che la burocrazia ministeriale frappose per anni all’applicazione della legge 31 gennaio 1926, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche e in particolare a quella parte di essa che tendeva a realizzare un più rigoroso controllo sugli innumerevoli provvedimenti legislativi minori che erano in larga parte feudo appunto della burocrazia ministeriale e che questa preferiva tradizionalmente emanare sotto forma di decreti legge piuttosto che di decreti reali, poiché il controllo del Consiglio di Stato  era in genere molto più effettivo del superficiale vaglio parlamentare: nonostante tutti gli sforzi e i ripetuti interventi governativi, la burocrazia continuò tranquillamente a non osservare lo spirito e la lettera della nuova legge e alla fine, nel 1940, a piegarsi sarebbe stato lo Stato fascista riconoscendo la pratica inapplicabilità di una parte della legge 31 gennaio 1926, n, 100, quella appunto così sistematicamente boicottata per un quindicennio dalla burocrazia. E volendo gli esempi si potrebbero moltiplicare, specie attingendo al vasto campo della legislazione e dei regolamenti corporativi e della loro applicazione.
P. 346-347

Per cui i veri risultati di questo stato di cose furono due, assai importanti per tutta la successiva storia del fascismo e dei suoi rapporti con Mussolini: l’affermarsi più nettamente del sistema – non riuscendo ad impedirle e a dirimerle veramente – di mettere il più possibile a tacere le beghe e i contrasti tra gerarchi e gerarchetti (da qui il diffondersi, da un alto, di una sorta di omertà che teneva insieme uomini e gruppi per altro in contrasto tra loro e, da un altro laro, di un montante discredito del PNF nell’opinione pubblica); e il rafforzarsi in Mussolini della tendenza – in lui, del resto, innata – al sospetto e ad una sostanziale disistima verso la stragrande maggioranza dei suoi collaboratori e dello stesso partito. Sospetto e disistima che lo portavano ad accentrare sempre più ogni decisione ed ogni potere nella sua persona, a diffidare sempre più pressoché di tutti (anche di chi invece avrebbe meritato la sua fiducia) e, quindi, a sentire sempre di puù il bisogno  di essere il più possibile informato di cosa pensassero e facessero (sin nella loto vita privata) tutti coloro che nel regime avevano qualche responsabilità, in maniera da poter sempre neutralizzare gli uni con gli altri e di avere verso ognuno sufficienti elementi deterrenti di contestazione personale per tenerli in pugno. E questo spiega anche perché egli, violando esplicitamente lo spirito e la lettera sull’ordinamento e le attribuzioni del Gran Consiglio e nonostante le sollecitazioni di Turati e di altri gerarchi, non permise mai al Gran Consiglio di redigere la lista dei nomi da sottoporre alla Corona nella eventualità di una scomparsa o di un suo ritiro dalla politica attiva. Una simile lista era per  Mussolini inconcepibile: a parte che probabilmente per lui nessuno era degno e in grado di raccogliere la successione, la formazione della lista da parte del Gran Consiglio avrebbe indubbiamente scatenato una infinità di gelosie e di rancori difficilmente controllabili e avrebbe molto probabilmente portato alla costituzione di un pericolosissimo centro di potere attorno al designato o, peggio ancora, ai designati, a tutto scapito della solidità del regime e della stessa sua autorità personale.
P. 349

Era quello il fascismo, era quella l’Italia che i fascisti avevano pensato di edificare? Pochi lo credevano: i più erano già dei delusi, che in mancanza di un’alternativa reale si accontentavano di sperare in un mutamento futuro, in una nuova “ondata”, e intanto si contendevano le briciole di potere e di benessere personale che il regime concedeva loro. Dei delusi, per altro, che molto spesso non rinunciavano a cercare di sfogare e di dare un senso alla propria delusione criticando più o meno sommessamente i capi e persino lo stesso Mussolini. Due esempi possono servire a rendere questa situazione e questo stato d’animo: il prendere corpo in questo periodo tra certi gruppi fascisti del convincimento che Mussolini fosse “prigioniero” del suo entourage, che lo avrebbe isolato dai veri fascisti e lo avrebbe tenuto nell’ignoranza dell’effettiva situazione; e gli sforzi che periodicamente le varie componenti “storiche” del fascismo (sindacalisti, futuristi, nazionalisti, ecc.) facevano per valorizzare le rispettive “primogeniture” e insinuare in tal modo indirettamente l’idea del confronto tra il “proprio” fascismo e quello realizzato.
P. 353

Ciò nonostante l’intuizione del Mosse opportunamente sviluppata (rifarsi e Sorel e a Le Bon per trovare nella loro concezione della natura umana la suggestione culturale di fondo che concorse a indurre Mussolini a realizzare il consenso nazionale attorno, in primo luogo, ad una serie di valori che con le aspirazioni originarie più genuine del fascismo ben poco avevano in comune e tendevano a ricostituire e a rinsaldare, sotto l’orpello rivoluzionario, una mentalità e un abito conservatori) ci pare non solo particolarmente felice e convincente in linea generale, come ipotesi interpretativa, ma pienamente corrispondente alla formazione, alle convinzioni e allo stato d’animo di Mussolini e tale da trovare anche conferma – oltre che nella sua azione – in alcune sue prese pubbliche di posizione. Con ciò – sia ben chiaro – non vogliamo menomamente pretendere di spiegare tutto un aspetto – e tra i più decisivi – della politica mussoliniana successiva all’instaurazione del regime come una sorta di pedissequa traduzione in pratica della lettura di Sorel e di Le Bon (e più specificamente, del quarto capitolo delle Réflexions sur la violence e della Psychologie des foules). Anche se le corrispondenze sono talvolta veramente impressionanti, una simile spiegazione sarebbe assurda.
P. 367

Primo. I consensi, i riconoscimenti che il fascismo e Mussolini in particolare raccoglievano all’estero e che la propaganda, la stampa divulgavano con dovizia di particolari e spesso incoraggiavano e sollecitavano con notevole abilità. Per secondario che a prima vista possa sembrare, questo fattore non deve essere sottovalutato. Col ’25-26 e soprattutto col ’29 questi consensi questi consensi e riconoscimenti presero a farsi sempre più numerosi e autorevoli e contribuirono non poco a rinsaldare il prestigio del fascismo tra gli italiani (soprattutto fra la borghesia, ma non va neppure sottovalutata l’influenza che ebbe tra i ceti popolari la simpatia, spesso l’entusiasmo che per il fascismo mostrava gran parte dell’emigrazione italiana di lavoro, soprattutto quella oltre oceano) e a diffondere la convinzione di essere protagonisti di avvenimenti che destavano ammirazione in tutto il mondo e mettevano l’Italia all’avanguardia e nella lotta contro il comunismo e nell’edificazione di un nuovo  ordine politico-sociale che avrebbe finalmente aperto una nuova era nella storia dei popoli. In sede storiografica chi meglio ha posto l’accento su questo fenomeno è stato F. Chabod nella sua Italia contemporanea:
“All’estero, conviene ricordarlo – egli ha scritto a proposito del periodo di cui stiamo trattando – si levano voci, talvolta assai importanti e autorevoli, in lode del fascismo. Certo non dagli ambienti di sinistra, soprattutto francesi, ma da parte dei conservatori europei. Vi sarebbe materia per un grosso volume a voler raccogliere tutte le dichiarazioni in favore del fascismo, in particolare nel mondo anglosassone; in Italia, ora, regna l’ordine, i treni arrivano in orario e sono cessati i fastidiosi scioperi. Si loda, si adula il fascismo, il quale, agli occhi di certi movimenti stranieri, apparirà malefico e degno di condanna soltanto quando porrà alcuni problemi di politica estera, cioè nel 1935 e dopo il 1935. Fino al quel momento, il fascismo era stato un gran bene per l’Italia…
Con l’andar del tempo queste lodi finiscono per impressionare molti italiani; coloro che tengono al “prestigio” della patria, sono rafforzati nei loro convincimenti fascisti, o, almeno, sono spinti a non discutere più sul fatto compiuto”.
Secondo, se il PNF godeva di poco credito e non molto più alto era quello del fascismo come ideologia, grande era invece il prestigio personale di Mussolini. In un certo senso, si può dire che esso era andato negli ultimi anni aumentando in senso inversamente proporzionale a quello del partito e del fascismo e per molti italiani aveva costituito una sorpresa di compensazione psicologica e politica: a mano a mano che l’esperimento fascista aveva mostrato i suoi limiti e i suoi lati negativi, essi si erano aggrappati alla fiducia, alla speranza nell’uomo, nel “capo” superiore a tutte le parti, anche alla propria, unico in grado di intendere le “vere” aspirazioni del paese, di porsi come arbitro e mediatore dei conflitti e dei contrasti interni e di imporre la propria volontà su tutti.
Terzo, a tutti i livelli della società italiana (così come, del resto, in tutta Europa) lo spirito di rivolta e il desiderio di spezzare il “sistema” che aveva caratterizzato il periodo a cavallo della guerra e dai quali erano nati i vari movimenti rivoluzionari sia politici sia culturali (bolscevismo, fascismo, espressionismo, futurismo, ecc.) andavano ormai cedendo il campo ad una sorta di conservatorismo caratterizzato – come abbiamo visto indicare dal Mosse – da un ritorno ad alcuni valori e ad alcune istituzioni tradizionali, quali soprattutto la  “Nazione”, la “Famiglia”, la “Fede”, la Terra”.
P. 370-373

Passata la bufera del “biennio rosso”, questo patriottismo (e soprattutto le sue manifestazioni più esasperate e non solo quelle di stampo nazionalista, ma anche quelle che rifiutavano il socialismo e il popolarismo come espressioni dell’antirisorgimento) aveva costituito un momento assai importante dell’affermazione e del successo fascisti. A ben vedere, esso non aveva però completamente trionfato. Perché ciò avvenisse occorsero infatti ancora alcuni anni, , fu necessario che la società italiana si ripiegasse ancor di più su se stessa in quel processo di “reintegrazione” conservatrice e tradizionale di cui abbiamo già parlato. Solo in questo nuovo clima, infatti, si venne veramente realizzando quella sorta di identificazione di massa (alla quale non sarebbe col tempo sfuggita neppure una parte del proletariato) del Regime con la Patria che fu una delle peculiarità dell’Italia degli anni Trenta (con la conseguenza che per gran parte degli italiani l’opposizione al regime si configurò psicologicamente e moralmente come un delitto di lesa patria) e che passò attraverso due fai estremamente significative e ricche di implicazioni sulle quali dovremo tornare nel prossimo volume: la prima a carattere “risorgimentale” (il fascismo come sviluppo e compimento del Risorgimento e in special modo della sua componente popolare, garibaldino-crispina), la seconda – invece – a carattere imperiale (l’Italia come erede della potenza e della funzione civilizzatrice e, a suo modo, unificatrice dell’antica Roma).
P. 375-376

Citazione da Nolte:
“In effetti il fascismo non vuole dire soltanto manganello e olio di ricino: dopo la sua vittoria esso è anche entusiasmo di costruzione, è una passione di mettersi al lavoro, in cui trovano posto molte delle migliori forze dinamiche dei giovani. Si era ripetuto molto spesso per trent’anni che la vita italiana aveva bisogno di essere rinnovata dal profondo, che era ora che l’Italia diventasse uno Stato moderno, che bisognava finirla con le lentezze burocratiche: era chiaro che questo stato d’animo non poteva non tornare di incoraggiamento anche al fascismo.
Le parole ardite non rimangono senza eco nell’animo dei giovani: e non era davvero ardita la promessa di Mussolini: “fra dieci anni, o camerati, l’Italia sarà irriconoscibile”? L’entusiasmo che si riversava sull’uomo il quale, sulla trebbiatrice, prendeva nelle sue mani i covoni strappati alla palude, non era solo fabbricato artificialmente con un’abile regia, e tanto meno strappato col terrore. Gli avversari di Mussolini avevano ragione quando facevano presente che l’Italia era stata sempre patria di straordinarie “bonifiche2, che la coltivazione delle paludi pontine era ben poco a petto della conquista del delta padano compiutasi nel secolo scorso: e tuttavia queste opere necessarie non erano mai entrate tanto nella coscienza della nazione, non erano mai state così strettamente legate con le altre opere dell’entusiasmo nazionale (ad esempio la costruzione delle strade, lo sviluppo della navigazione aerea, dell’automobilismo e così via, e mai lo Stato – nella persona del suo capo -  si era identificato con esso. Ogni dittatura totalitaria deve avere una sua base di necessità e di inattaccabilità, forse usurpata, forse portata pericolosamente al di là delle intenzioni, e che tuttavia in un primo tempo toglie forza alle obbiezioni degli avversari e strappa il consenso della massa del popolo. Questo dato di necessità, da tutti avvertito, fu in Russia alla fine del 1917 la pace e la rivoluzione agraria, nel 1933 in Germania la revisione del trattato di pace: in Italia fu la bonifica delle terre incolte, l’accessibilità di zone arretrate ottenuta con la costruzione di strade e acquedotti, e così via. Mussolini poteva essere sicuro di non trovar obiezioni quando diceva: “In un’Italia tutta bonificata, coltivata, irrigata, disciplinata, cioè fascista, c’è posto e pane ancora per dieci milioni di uomini” (1928). Chi aveva le orecchie per sentire poteva avvertire in queste parole una risonanza delle idee del giovane Mussolini socialista quando faceva sogni nazionalistici a proposito della colonia libica, di quella Libia dove a distanza di quindici anni non avevano trovato posto nemmeno mille famiglie di contadini. C’eran buone ragioni per credere che la realizzazione pratica Mussolini si trovasse ancora piuttosto “a sinistra” rispetto all’imperiale gioia bellicista dei nazionalisti: non disse forse in occasione della inaugurazione di Littoria “è questa la guerra che noi preferiamo!”? E la stessa “dittatura di sviluppo” con al sua spinta verso il futuro, la sua irriverenza per il passato e la sua pronta attenzione verso i problemi concreti, non sta in un certo senso “a sinistra”?
Il modo come Mussolini interpreta la propria opera e la situazione italiana sembra confermare abbastanza spesso questa idea”.
Se si limita il discorso al significato politico generale e alla genesi del mito del “duce”, quanto siamo venuti dicendo ci pare possa bastare. Ai fini immediati della comprensione della politica mussoliniana e, più in genere, della situazione sullo scorcio degli anni venti, vedere come questo mito si sviluppò e che conseguenze ebbe è infatti secondario. Ciò che è importante cogliere sono piuttosto gli effetto della caratterizzazione del regime fascista e le sue componenti principali, sua quelle che si potrebbero definire oggettive (connesse cioè al particolare momento morale e psicologico che attraversava l’Italia) sia quelle politiche favorite e sollecitate cioè dal fascismo attraverso una accorta adeguazione (nella sostanza conservatrice, nella prassi riformista, ma nelle manifestazioni esterne – della mobilitazione delle masse - rivoluzionaria)  della propria azione politica ad alcuni ben precisi stati d’animo più diffusi e ad alcune aspirazioni più vive delle masse e attraverso – ancora – una sua massiccia valorizzazione propagandistica (al servizio della quale – altro fatto da non sottovalutare – si cominciarono a mettere per la prima volta tutti i nuovi moderni mezzi di comunicazione di massa, dalla radio al cinematografo). Colto questo, anche il mito acquista razionalità e quindi un significato non diverso da quello di altre scelte politiche operate in questo periodo da Mussolini.
P. 380-381

Cap. 5. La Conciliazione

Con i patti del Laterano Mussolini conseguì un successo – forse il più vero e importante di tutta la sua carriera politica – che da un giorno all’altro ne aumentò il prestigio in tutto il mondo. Un successo che ne aumentò enormemente la posizione e all’estero (dove la Conciliazione suonò come il più autorevole riconoscimento che la sua politica potesse avere e valse a convincere anche i più scettici che il suo potere aveva basi reali e sarebbe durato a lungo) e all’interno: dopo tanti successi solo parziali, che avrebbero dovuto dare i loro frutti solo nel futuro, che lasciavano molti in dubbio, che erano tali solo da un punto di vista strettamente di partito o, addirittura, solo per la propaganda fascista, la Conciliazione fu un successo reale che – anche per come fu improvvisamente resa nota la sua stipulazione – lasciò pochissimo spazio – almeno nell’opinione pubblica italiana – a considerazioni sul significato politico degli impegni che con essa lo Stato italiano si era assunto, fede pressoché dimenticare che la soluzione della questione romana era ormai da tempo nell’aria ed era già stata avviata dai governi prefascisti, a cominciare da quello Orlando, e fece di Mussolini l’uomo della provvidenza che era stato capace di tagliare il nodo fi Gordio che da sessant’anni impediva la completa realizzazione anche sul terreno morale dell’unità nazionale. Grazie alla Conciliazione Mussolini riuscì altresì a realizzare altri tre obiettivi molto importanti: ridusse al minimo la possibilità di manovra di quella parte delle gerarchi ecclesiastiche e del clero che erano ostili alla sua politica, mise in estrema difficoltà gran parte dei superstiti ex popolari e, soprattutto, dissipò quasi completamente le incertezze e le remore verso il regime che ancora erano nutrite da quei cattolici – ed erano molti – che, pur non facendo direttamente capo alle organizzazioni dell’Azione cattolica, sentivano tuttavia in qualche misura l’influenza dell’atteggiamento generale della Chiesa e che, pertanto, avevano sino allora aderito al nuovo regime con una certa cautela e con qualche riserva, mentre ora – dopo la Conciliazione – si sentirono in grandissima maggioranza liberi e giustificati ad un’adesione più sostanziale. Né – infine – si può dimenticare un’altra conseguenza ancora dei patti del Laterano: l’allargamento della base e del consenso che essi portarono al regime rafforzò notevolmente il carattere nazionale, cioè moderato e nazionale, del regime stesso a tutto danno delle posizioni intransigenti (e in parte anche di quelle liberali) del fascismo stesso che dalla Conciliazione uscirono politicamente battute e diminuite di peso, in quanto sempre meno decisive ai fini della difess della rivoluzione fascista (o, nel caso di quelle liberali, di una mediazione tra forze opposte).
P. 382-83

Nella prospettiva dei tempi lunghi si può dire che con la Conciliazione la Santa Sede avallò autorevolmente il regime mussoliniano e contribuì a rafforzarlo e si espose quindi - sia prima ma soprattutto dopo la caduta del fascismo – a tutta una serie di critiche, spesso pesanti. Se ciò è indubbiamente vero, è però da tenere presente anche un altro aspetto del problema. Se la Santa Sede fosse passata all’opposizione del fascismo, sfidando e subendo i rischi connessi ad una simile posizione, sarebbe riuscita a trovare veramente un modus vivendi con le forze antifasciste italiane, con quelle, almeno, che politicamente contavano? Non fu proprio attraverso la Conciliazione che la Santa Sede riuscì, invece, da un lato, ad assicurarsi la salvaguardia – sia pure difficile, ma proprio per questo più fertile e selettiva – di quei canali e di quelle organizzazioni per mezzo dei quali poté garantirsi la possibilità di formare  - sia pure con qualche compromesso e qualche momentaneo sbandamento – quella classe dirigente cattolica che, caduto il fascismo, sarebbe riuscita a raccogliere in larga misura nelle proprie mani il potere, e, da un altro lato, a rendere possibile quell’effettivo inserimento dei cattolici nella vita del paese che si verificò appunto dopo il ’29 e che rese, a sua volta, possibile quel dialogo, quella collaborazione tra cattolici e fascisti moderati che, sviluppatasi soprattutto sullo scorcio degli anni trenta e nei primissimi ani quaranta, furono la premessa della non ricostituzione, dopo la caduta del fascismo, di un forte centrodestra laico e probabilmente addirittura anticlericale? Ai fini di un giudizio veramente storico, che non sia cioè moralistico o che non anticipi problematiche o evoluzioni che non sono già nei tempi ai quali ci si riferisce, questi elementi non possono non essere tenuti presenti e, pertanto, è nostra convinzione che anche sui tempi lungi la scelta operata alla Santa Sede con la Conciliazione non possa essere valutata negativamente.
P. 416-17

Cap. 6. Il “plebiscito” del 24 marzo 1929

Per importanti che siano, questa “cause” non bastano però a spiegare da sole l’ampiezza del successo fascista del 24 marzo. Soprattutto non bastano e in buona parte non servono a spiegare come a determinare tale successo concorsero in misura notevole i voti dei ceti proletari delle città e delle campagne. Gli argomenti che abbiamo sinora addotti, infatti, possono avere ed ebbero un valore per la borghesia e soprattutto per i ceti medi in genere, molto meno – certo – ne poterono avere per i ceti popolari, sui quali i mitivi patriottici e nazionalistici e, al limite, la stessa Conciliazione non esercitavano sicuramente una suggestione notevole, specie in questo periodo. Per questi ceti si devono, a nostro avviso, tenere presenti altri argomenti, quelli generali dei quali abbiamo parlato nella seconda parte del quarto capitolo e sui quali, dunque, non ritorniamo, e ancora altri di tipo economico e politico.
P. 447

Dopo anni di battaglie perdute, di persecuzioni e violenze, anche la maggioranza del proletariato era però sfiduciata e stanca, preoccupata di salvare il salvabile, convinta o, almeno, rassegnata che, per il momento, il fascismo avesse vinto. In questa situazione – specie almeno le sue condizioni di vita e di lavoro si erano fatte meno precarie e alcuni episodi avevano fatto sperare che i sindacati fascisti e lo stesso governo ritenessero ormai giunta la situazione stessa ad un punto in cui non si potevano più chiedere altri sacrifici ai lavoratori – la maggioranza del proletariato, più che a correre il rischio di nuovi giri di vite, era orientata a non perdere ciò che aveva potuto salvare e a non pregiudicarsi la possibilità di fruire di quei benefici normativi e soprattutto assistenziali che la politica “sociale” del regime poteva assicurarle; poco, certo, rispetto alle sue necessità e soprattutto a quanto non molti anni prima era sembrata sul punto di conquistare, ma pur sempre qualche cosa a cui i più non si sentivano di rinunciare per correre dietro all’alea di una opposizione che non avrebbe potuto capovolgere la situazione e avrebbe procurato loro solo sacrifici, disoccupazione, persecuzioni, prigione.
P. 453

Su un piano più generale e più concretamente politico, molto più importante è però vedere lo stato d’animo che il 2plebiscito” suscitò in molti ambienti, soprattutto fascisti e fascistizzati e persino anche di opposizione. Uno stato d’animo che con due parole si potrebbe definire di speranzosa attesa e che bene contribuisce a spiegare perché il ’29 costituì un momento importante, periodizzante si può dire, della storia del fascismo.
P. 477

Negare ogni validità a questa valutazione delle difficoltà economiche alle quali inevitabilmente Mussolini sarebbe dovuto andare incontro se veramente si fosse voluto spingere sulla strada di una “liberalizzazione” del regime fascista e di un recupero ad esso di una parte almeno delle posizioni democratiche e socialiste è impossibile e ancora di più lo è  se si pensa (ma lo “Stato operaio in quel momento non poteva prevederlo) che di lì a qualche mese Wall Street avrebbe conosciuto la crisi più drammatica di tutta la sua storia e che dall’America la crisi  sarebbe tosto passata anche in Europa. Pur senza negare ciò,  se si vuole dare una spiegazione storicamente valida – nei fatti più che nelle ipotesi, alle quali, del resto se ne potrebbero contrapporre altre sugli strumenti, sulle possibilità che Mussolini poteva ritenere di avere a propria disposizione per affrontare la situazione economica – del perché i propositi mussoliniani di “liberalizzare” il regime fascista abortirono miseramente sul nascere, ci pare si debba dire che questo avvenne soprattutto perché l’antifascismo democratico, quello in esilio e quello all’interno, seppe reagire alla propria momentanea sconfitta, rifiutò – contrariamente a quanto sostanzialmente prevedevano i comunisti – la strada apparentemente più facile e – forte della consapevolezza della giustezza delle proprie idee – respinse le avances fasciste. E con questo l’antifascismo democratico, da Buozzi a Croce, non solo salvò la propria anima e i propri diritti, caduto il fascismo, di rivendicare la guida del paese, ma dimostrò quanto il suo attaccamento alla libertà fosse concreto e non strumentale e impedì al fascismo di poter dire di avere un solo avversario, il comunismo.
In questa prospettiva ci pare di debbano vedere e valutare le voci di una prossima liberalizzazione del regime che per vari mesi circolarono dopo il “plebiscito” in Italia e all’estero. Voci alle quali non seguì alcun fatto concreto ma che bene dimostrarono come, nonostante il successo del “plebiscito”, le acque del regime fascista fossero tutt’altro che calme e come sotto la loro superficie si agitassero ancora scontenti ed insofferenze che non trovavano sfogo o catalizzazione, ma che non per questo erano meno significative di una realtà tutt’altro che assestata e assestabile e che anzi – fatto ancora più importante – si sperava potesse trovare un assestamento non nel senso di una accentuazione del carattere fascista del regime, ma, al contrario, in una sorta di sua liberalizzazione e democratizzazione e in una conciliazione con una parte almeno della tanto bistrattata Italia prefascista. Ilc he dimostrava che, pur con tutti i suoi limiti e i suoi errori, questa Italia non solo era morta nel cuore degli italiani ma presentava ad essi tutta una serie di aspetti positivi che sette anni di fascismo non erano riusciti né a cancellare né a sostituire con altri più validi.

FINE

Citazioni

La fase Orlando-Sonnino della questione adriatica, inconcludente per la questione in se, pregiudizievole per l’intesa fra le tre potenze europee, riuscì disastrosa per il clima politico italiano. La demagogia nazionalfascista non avrebbe fatto presa così larga e profonda nel popolo italiano – particolarmente nella piccola e media borghesia impiegatizia, professionale e intellettuale – se i tre di Parigi non le avessero fornito il più caloroso alimento con i loro errori di condotta interpretati, inevitabilmente, come effetti di una determinata avversione all’Italia. Né, senza i fatti e le apparenze (le seconde contano, in momenti di sobbollimento popolare, quanto e più dei primi) da cui in Italia si trasse motivo a credersi svalutati e svillaneggiati, avrebbe tanto prosperato e sarebbe divenuto gigante il fungo velenoso della “vittoria mutilata”. Fatto e parvenze che favorirono  l’ignoranza da parte dei più – accanto al deliberato nascondimento da part dei pochi mestatori – del fatto che “mutilazioni” del genere c’erano state anche nella vittoria di quella Francia, che era presa adesso particolarmente di mira dalla demagogia nazionalista italiana; mentre anche l’Italia, non meno, o forse più, della Francia, aveva conseguito il nucleo essenziale dei suoi ragionevoli “scopi di guerra”.
Pp. 74-75

Due leggende, compenetrate fra di loro così strettamente da farne una sola, si affermarono circa le fortune del fascismo e ancora oggi non sono scomparse. La prima è che il fascismo sia stato l’autore principale, e diciamo così indispensabile, della salvezza dell’Italia dal bolscevismo. L’altra che il fascismo si sia sviluppato fino al trionfo della marcia su Roma, con organica continuità, man mano che si intensificava e aveva successo codesta sua lotta antibolscevica nazionale.
Le due leggende sono entrambe frutto di falsificazione o ignoranza dei fatti fondamentali.
P. 159

Molti borghesi, specialmente giovani e reduci di guerra, che avevano condiviso in un primo tempo le speranze di intesa tra i partiti borghesi più avanzati e un socialismo riformista, ritenevano adesso la neutralità del governo nella lotta di classe, così come era intesa e praticata da Giolitti, fosse oramai incapace di garantire il rispetto delle legge e dell’ordine costituito e si rivolgevano al fascismo.
P. 168

Tuttavia, quando aveva, al principio del discorso, tracciato “il panorama generale della nazione”, questo si era ridotto sostanzialmente alle opere pubbliche: cose importanti, certo, ma non nuove e per cui non sarebbero occorsi sovvertimenti anticostituzionali e liberticidi, isole di confino, tribunali speciali con decine di anni di galera e fucilazioni.
Tutte cose che del trinomio più sotto vantato (come sosituzione fascista a quello dell’89): “autorità, ordine e giustizia”, facevano mettere seriamente in dubbio per lo meno l’ultimo termine. E non era se non scherzo e scherno grossolano l’affermare: “La libertà di cui parlano le democrazie non è che una illusione verbale”. Perché allora temerla tanto?
pp. 481-482

Così, quando Mussolini si presentò puntualmente alle 17 al re, era già un privato qualsiasi. Si sforzò di persuadere il re che il voto del gran Consiglio non aveva nessun valore deliberativo: il re invece gli disse che esso rispondeva alla volontà del paese e che era già stato nominato Badoglio al suo posto. Mussolini (secondo il racconto del re) mormorò per tre volte: “Allora tutto è finito”. E aggiunse: “E che sarà di me? E della mia famiglia?”. Il re lo rassicurò che avrebbe preso a cuore al sua incolumità personale e quella dei suoi.
P. 1049

 

 

Citazioni

Cap. 2. L’esperienza svizzera
Nelle ore libere riprese a studiare e cominciò a frequentare gli ambienti degli esuli russi e slavi in genere sia di Losanna sia di Ginevra.
P. 32
Commento: avvalora l’ipotesi che abbia conosciuto in quegli ambienti Lenin

Cap. 5. Capo del socialismo romagnolo: “La lotta di classe”.
… appare altrettanto chiaramente come, per raggiungere il suo scopo, egli non puntasse sugli strumenti tradizionali classici, della propaganda socialista del tempo, sulle varie “dottrinette razionaliste”, sui vari compendi del Capitale e sulle varie volgarizzazioni più o meno positvisteggianti del marxismo, ma – il suo distacco sotto questo profilo dalle posizioni di pochi anni prima era ormai nettissimo-sulla suggestione idealistica e volontaristica di autori e di pubblicazioni che trovavano la loro origine e la loro collocazione ai margini o addirittura fuori della sfera socialista ufficiale: tra i sindacalisti rivoluzionari, gli anarco-sindacalisti, i vociani.
P. 86
Essenziale fu però la componente politica, il conflitto cioè tra repubblicani e socialisti, che informò di sé tutta la vertenza, esasperandola e che ebbe la meglio anche sugli aspetti più tipicamente di classe di tutta la questione: alla prova dei fatti i braccianti repubblicani si staccarono da quelli socialisti, preferendo accordarsi con i mezzadri della loro stessa fede politica. Da qui la scissione sindacale e la nascita di nuove camere del lavoro repubblicane (dette gialle dai socialisti) in contrapposizione a quelle vecchie controllate dal Partito socialista.
P. 93

Cap. 7. Direttore dell’Avanti!
Non vi è dubbio però che il “socialismo” rivoluzionario di Mussolini, anche se ben poco aveva a spartire col vero marxismo, non solo diede corpo in breve alla più concreta e viva speranza della frazione rivoluzionaria e delle masse che la seguivano e contribuì non indifferentemente all’estendersi e all’approfondirsi delle tendenze più decisamente rivoluzionarie, ma, col supporto e la mediazione culturale dei sindacalisti rivoluzionari, dei meridionalisti, degli “unitari” e dei “vociani” da lui immessi nel “giro” socialista, favorì non poco quella elaborazione culturale ed ideologica dalla quale, soprattutto negli anni della prima guerra mondiale, avrebbe preso le mosse il rinnovamento del nostro socialismo.

Non è certo un caso che quasi tutti i quadri migliori della generazione socialista del primo dopoguerra, che più contribuì al rinnovamento ideologico e politico del socialismo italiano e cooperò in misura determinante prima alla elaborazione teorica dei due gruppi più significativi sul piano culturale, quello torinese dell’Ordine nuovo e quello napoletano del Soviet, e poi alla costituzione del Partito comunista, siano stati nel 1912-14 mussoliniani.
P. 142

Cap. 8. Il congresso di Ancona e la settimana rossa
Incapace di elaborare e di realizzare una nuova politica rivoluzionaria e sotto l’influenza di alcuni teorici del sindacalismo rivoluzionario, Mussolini, illudendosi che le masse rivoluzionarie lo avrebbero seguito, credette che la congiuntura rivoluzionaria tanto attesa e cercata potesse essere offerta dalla guerra: e non già dalla opposizione alla guerra, come pensavano i suoi compagni di frazione, ma dalla guerra rivoluzionaria. In questa prospettiva, a nostro avviso, va vista l’azione di Mussolini in preparazione del congresso di Ancona e nei mesi immediatamente successivi e soprattutto va visto il suo sempre maggior impegno in questo periodo sul piano ideologico, dalle colonne dell’Avanti, in una ricca serie di conferenze e soprattutto con la fondazione, nel novembre del 1913, dell’Utopia.
P. 182
Dopo anni di tensione e di compressione, mentre la situazione economica si faceva sempre più precaria, aggravata dalle conseguenze della guerra di Libia e sotto il pericolo sempre più reale di nuove avventure militari, e quando la “settimana rossa” aveva sancito, dopo il fallimento del riformismo, l’incapacità dell’intransigentismo rivoluzionario a dare una prospettiva politica concreta alla fame di riscatto delle masse più arretrate del proletariato agricolo e alle  nuove istanze rivoluzionarie delle avanguardia proletarie dei grandi centri industriali era proprio da escludere che quello che più tardi sarà chiamato il mussolinismo non potesse diventare – per opposti motivi – la bandiera di queste stesse masse?
P. 215
Da un punto di vista riformista la diagnosi di Zibordi era ineccepibile alcune affermazioni, alcune intuizioni tenute in essa – specie quelle relative all’uomo Mussolini e alla sua incapacità di parlare alle masse di certe parti del paese – possono essere accolte anche dallo storico che voglia dare una valutazione complessiva del posto di Mussolini nel socialismo italiano all’immediata vigilia della crisi della prima guerra mondale, che stravolse e mutò tutti i termini della questione. In una prospettiva più vasta e soprattutto sotto il profilo politico del momento la valutazione dello Zibordi e in genere dei riformisti perde però buona parte del suo valore e appare chiaro come avesse ragione il Croce quando scrisse che nella loro polemica contro Mussolini questi non riuscirono ad avere al meglio anche perché non capivano la sostanza della posizione del direttore dell’Avanti.
P. 217
Solo Mussolini si rendeva conto che una nuova era stava cominciando e che il socialismo non doveva continuare a perdere il passo con i tempi.
P. 218

Cap. 9 La crisi della guerra
Come ha giustamente osservato il Romeo (da Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale):
“Davanti all’azione socialista, con la sua radicale negazione di tutti i valori consacrati in quella tradizione [liberale], dalla monarchia alla nazionalità all’esercito alla proprietà e alla stessa legalità costituzionale, l’avversione delle forze liberali fu decisa e crescente: e anche più recisa nell’opinione media che negli uomini di governo. Erano negazioni di vecchia data, queste, da parte del socialismo italiano: ma, nell’atmosfera del dopoguerra, con la messa sotto accusa della borghesia, colpevole, a giudizio del socialismo, di aver portato il paese a quel conflitto che invece rappresentava, per molta parte della classe dirigente liberale, il coronamento dei supremi valori nazionali; e con la gravità che la minaccia della rivoluzione socialista sembrava assumere, la reazione di molti liberali assunse un nuovo carattere di asprezza: mentre, sa pure su un diverso piano, restava incolmabile la frattura verso il nuovo partito cattolico. Fu allora che cominciò ad operarsi, nello spirito di una larga sfera della classe dirigente, quella conversione nella quale il fascismo trovò un’atmosfera di sostanziale simpatia, non solo nei più alti esponenti del ceto politico liberale, ma anche in molta parte della borghesia, di per sé non incline né avvezza alla lotta violenta e alla dittatura, che era finora vissuta nel quadro politico tradizionale.”
Se si accetta questa visione della guerra e dei problemi da essa aperti, può sembrare una ironia, una tragica ironia della storia che colui che più nettamente cercò nel 1914 di fare uscire il Partito socialista dalla neutralità assoluta sia stato proprio Mussolini, colui che, in un certo senso, alla distanza raccolse i frutti del tragico errore commesso allora dai suoi compagni di partito e fu l’artefice della reazione fascista. Allo storico non resta per altro che registrare il fatto e andare oltre: capire cioè quali fossero i limiti del socialismo italiano nel 1914 e perché, nonostante la sua evoluzione-involuzione successiva, proprio Mussolini avesse la ventura il quel momento di impersonare l’ala marciante del socialismo italiano. L’ala che era riuscita, almeno psicologicamente, a spezzare i confini del sovversivismo tradizionale, del socialismo ottocentesco, che si era, sia pur confusamente, resa conto della necessità per il socialismo di “nazionalizzarsi” pur rimanendo se stesso, di dimostrare la sua maturità non solo come partito di opposizione ma come partito di responsabilità e di potere.
Pp. 261-262

Nel giro di pochi giorni Mussolini si trovò a pagare un duplice scotto: quello, appunto, del suo equivoco comportamento nei mesi immediatamente precedenti, per cui ai suoi avversari era facile farlo passare per un interventista tout-court e respingere la sua tesi della neutralità “attiva ed operante” come mirante a portare il partito e il paese alla guerra; e quello di essersi sempre disinteressato, forte del prestigio e della possibilità, che gli dava l’Avanti, di parlare ogni giorno a tutto il partito, all’aspetto organizzativo dell’attività di partito, sicché ora, privato dell’Avanti, era praticamente nelle impossibilità di battersi, la sua influenza non andava oltre la sezione di Milano e se voleva far giungere la sua voce più in là doveva chiedere l’ospitalità dei giornali borghesi, che avevano scarsa diffusione negli ambienti socialisti e che in ogni caso era assurdo pensare potessero offrirgli quella tribuna che gli sarebbe occorsa.
P. 269

Ripercorrendo oggi gli avvenimenti di quelle turbinose settimane ci pare si possa senz’altro affermare che, se Mussolini si propose ci conquistare alle sue tesi il partito con il Popolo d’Italia, egli commise uno dei più gravi errori di tutta la sua lunga carriera politica, un errore che dimostra chiaramente come dalla tribuna dell’Avanti egli non avesse, pur dominandolo, saputo stabilire un vero contatto con il partito, lo avesse guidato, cogliendo e interpretando, come nessun altro, alcune sue esigenze più vive (specie nelle élites) ma, in ultima analisi, non ne fosse riuscito a comprendere, dall’alto del suo idealismo, la psicologia più intima ed elementare, quella che, per altro, è la forza e la debolezza dei partiti di massa.
P. 270

Con la pubblicazione del suo giornale personale e con l’espulsione dal partito Mussolini aveva praticamente perduto la possibilità di svolgere una concreta azione in senso filo-interventista nel partito socialista.

Si può dire che con il “caso Mussolini” iniziò un lento processo di allontanamento dal partito socialista di quadri intermedi e di militanti di base che, alla spicciolata e in piccoli gruppi, si staccarono tra il novembre 1914 e il maggio 1915 dal partito e defluirono verso i fasci interventisti.

A questo punto prima di concludere la narrazione delle vicende di Mussolini nel Partito socialista, ci pare necessario porci una domanda: che peso, che valore nella vita di Mussolini, meglio nella sua evoluzione politica, ebbe la sua decisione di fondare Il popolo d’Italia e – una volta delineatasi l’alternativa: sospendere Il popolo d’Italia e rientrare nei ranghi o affrontare le conseguenze dell’espulsione – di rompere con il partito?
P. 283

Cap. 11. Caporetto

La guerra italiana si decise militarmente sul Piave, ma dopo Caporetto si decise il dopoguerra. La crisi di Caporetto sembrò per un momento far prevalere l’impostazione bissolatiano-salveminiana della guerra democratica e della liberazione delle nazionalità: in realtà essa segnò la vittoria del nazionalismo, per cui l’”onta” di Caporetto doveva essere lavata con l’affermazione della “potenza” italiana sui nemici esterni ed interni. “Resistere”, “vincere ad ogni costo”. Su queste due parole d’ordine il nazionalismo (non i nazionalisti si badi bene) riuscì a far breccia anche laddove non era stato sino allora di casa. Il Partito socialista, a sua volta, non fu – ancora – all’altezza della situazione e si lasciò sfuggire per la seconda volta (e ultima volta) l’occasione storica: nel 1914-15 si era lasciata sfuggire l’occasione di “nazionalizzarsi”, nel 1917 questa possibilità gli si presentò per la seconda volta, insieme all’altra di fare la rivoluzione, ed esso se le lasciò sfuggire entrambe. Come scriverà acutamente nel 1926 “Il quarto stato”, la bella rivista di P. Nenni e di C. Rosselli dalla quale prese le mosse il primo tentativo di rinnovamento del nostro socialismo:
“Dopo Caporetto un neutralismo marca Lazzari non aveva significato ed era profondamente impolitico; dopo Caporetto bisognava tentare la lotta aperta contro la guerra, cioè l’insurrezione, o bisognava aderire, come fecero Turati e Treves in un memorabile scritto, alla dolorosa realtà nazionale. Vi edi mezzo in quell’ora non erano concepibili”.
P. 365
Lasciatisi sfuggire l’occasione per tentare una nuova prova di forza rivoluzionaria, i socialisti da un lato ridussero il loro partito a due tronconi che stavano insieme solo in virtù del “patriottismo di partito” e della particolare situazione, ma che erano destinati inevitabilmente a separarsi, da un altro lato finirono per isolarsi completamente nel paese, ignorandone i più gravi problemi del momento e attirandosi gli odi di una parte notevole di esso e soprattutto della parte più impegnata materialmente e psicologicamente nella guerra. Certo, nell’immediato dopoguerra questa opposizione intransigente avrebbe convogliato verso di loro – come verso i cattolici che, seppur in diverso modo, non avevano voluto la guerra – vasti consensi popolari, che tuttavia, a causa di una serie di gravissimi errori tattici (connessi in gran parte proprio al modo con cui i socialisti avevano vissuto la guerra) e di una concezione elementarmente mitica della rivoluzione, non avrebbero saputo guidare, sicché l’errore commesso nel 1914-15 e ribadito nel 1917 di ridurre tutto i problemi a “rosso” contro “tricolore” si sarebbe dimostrato fatale e sarebbe stato il primo fattore della loro sconfitta.
P. 369
Avevano un bell’affermare i protagonisti del fascio parlamentare che questo non voleva essere un partito e che era composto di elementi eterogenei (vi erano, specificava, Pantaleoni, democratici e imperialisti), uniti solo dalla volontà di raggiungere la “vittoria integrale” e che non aspiravano a nessun incarico governativo. In realtà il timone del fascio parlamentare (presidente fu nominato il senatore Scialoja) rimase quasi completamente nelle mani della destra nazionalista che ne fece per alcuni mesi un potente strumento per orientare tutte le forze “nazionali” nel senso da essa voluto, sicché anche buona parte degli interventisti democratici e rivoluzionari che vi aderì o ne fiancheggiò l’opera finì per esserne influenzata o, almeno, per esserne indotta a modificare alcune sue precedenti posizioni o a sostenerle, per amor di concordia, con minor chiarezza ed asprezza; soprattutto, nell’opinione pubblica meno qualificata si diffuse l’impressione che la posizione del fascio parlamentare contribuì notevolmente ad accelerare e a rendere più netto il processo di differenziazione interna dell’interventismo, già in atto – come si è visto – prima di Caporetto e che dalla sconfitta militare aveva ricevuto una nuova spinta centrifuga.
Accennando alle grandi linee di questo processo, il Bonomi ha scritto:
“Mentre le ali estreme dell’interventismo chiedevano qualche cosa come la Convenzione e il Terrore, che salvarono la Francia del 1792 dalla rivolta interna e dalla invasione straniera, gli elementi più misurati delle stesse correnti interventiste riconoscevano che interesse dell’Italia era di ricostituire, in quell’ora, l’unità degli italiani”.
Che questo fosse il desiderio della parte migliore dell’interventismo è incontestabile. E’ però un fatto che su questo punto l’interventismo fallì completamente. L’irrigidimento patriottico del paese fu sostanzialmente un fenomeno spontaneo, su cui l’interventismo di sinistra influì in misura molto scarsa e non seppe impedire che i frutti politici di esso fossero raccolti soprattutto dalla destra, sicché in pratica Caporetto significò un ulteriore spostamento a destra dell’asse politico italiano, un prevalere dei liberali nazionali e nazionalisti: nonostante alcuni apparenti successi, l’interventismo di sinistra giunse al novembre 1918, alla vittoria, notevolmente indebolito, più isolato, sfaldato e pericolosamente inquinato da tutta una serie di germi involutivi che nella crisi dell’immediato dopoguerra ne avrebbero rapidissimamente determinato la trasformazione e, di fatto, la morte.

Dal tronco del Partito socialista nacque il Partito comunista, da quello dell’interventismo di sinistra i Fasci di combattimento, due movimenti profondamente diversi e che si svilupparono in ambienti sociali opposti, ma che trovarono origine nella stessa congiuntura storica e in una situazione psicologica molto simile.
P. 372-371
Abbiamo parlato del fascio parlamentare. Attorno ad esso e alle preesistenti organizzazioni per la resistenza e la difesa del fronte interno, tra la fine del 1917 e i primi mesi del 1918 si venne costituendo (probabilmente anche con il concorso dei vari uffici di controspionaggio, contropropaganda, ecc.) un gran numero di altre organizzazioni maggiori e minori, pubbliche e segrete, sulle quali oggi – sia pure col sussidio degli archivi di polizia – è difficile fare luce, definendone chiaramente, una per una, la fisionomia particolare e, più difficile che mai, stabilendo con precisione i confini tra l’una e l’altra. Molto spesso i quadri di queste organizzazioni erano composti dia medesimi elementi e la loro attività si intersecava e si esplicava, a seconda delle località, dei momenti e dei punti d’applicazione, in una infinità di rivoletti dei quali quasi mai è possibile individuare con certezza la sorgente e lo sbocco. Nate con lo scopo di sostenere la resistenza e di vigilare sul fronte interno, la grande maggioranza di queste organizzazioni – attorno alle quali finivano per gravitare altre dal passato serio e talvolta glorioso, come la Trento e Trieste e la Dante Alighieri – giovò ben poco a rianimare la gente: invece di aiutare la distensione degli animi e l’unione delle energie in funzione della vittoria, esasperò i contrasti esistenti e ne produsse di nuovi, ammorbando l’atmosfera nazionale di odio, d’isterismo, di violenza repressa, sicché non crediamo di esagerare affermando che proprio a questo submondo politico – nonostante alcune (molto rare) eccezioni – si deve fare in gran parte risalire la responsabilità del clima di tensione e di insanabile frattura psicologica, ancor più che politica, in cui si venne a trovare l’Italia nel dopoguerra e della involuzione nazionalista di gran parte dell’interventismo e della stessa opinione pubblica “nazionale”.
Pp. 386-387
L’ultimo anno della guerra europea, apertosi con Caporetto, fu l’anni decisivo della guerra italiana, poiché ne portò a compimento il ciclo, non solo militarmente ma anche, per quello che qui più ci interessa, politicamente, e segnò in effetti la subordinazione dell’interventismo democratico e rivoluzionario ai nazionalisti e alla destra “interventista”, sia sul piano dell’effettiva direzione politica del paese sia su quello della concreta adesione della maggioranza borghese alle tesi nazionaliste. Esso fu anche un anno decisivo della vita di Mussolini, paragonabile forse solo al 1914, col quale – del resto – ha più di un punto in comune. Tra la fine del ’17 e la fine del ’18, tra Caporetto e la vittoria, nella posizione politica di Mussolini ebbe infatti inizio un’evoluzione, a nostro avviso, di estrema importanza, la più determinante di tutta la sua vita.
Un’evoluzione che nel giro di tre anni lo avrebbe portato dal socialismo al fascismo (nel senso completo che questo termine ha storicamente per noi) e nel giro di altri quattro allo stabilimento della dittatura in Italia. Ci pare si possa infatti correttamente parlare di un unico ciclo evolutivo che va da Caporetto al 3 gennaio 1925 attraverso due fasi o semicicli che trovano il loro punto di congiunzione e di divisione al tempo stesso negli ultimi mesi del 1920, allorché, con l’affermarsi del fascismo agrario e con l’accordo Mussolni-Giolitti nacque – come ha scritto molti anni orsono un acuto osservatore portoghese della realtà italiana [Homem Christo] – il fascismo vero e proprio. In questa prospettiva, siamo convinti che la crisi del 1914 fu per Mussolini sostanzialmente meno determinante della crisi di Caporetto.
Pp. 391-392
Due anni e mezzo di partecipazione italiana alla guerra e soprattutto la crisi di Caporetto…lo avevano portato a rendersi progressivamente conto, forse come nessun altro, della necessità di cercare nuove formule politiche (e quindi nuove alleanze) più aderenti alla nuova realtà che capiva si andava delineando, anche se, per il momento, egli non era ancora in grado di stabilire bene quali caratteristiche essa avrebbe avuto.

Da qui il suo progressivo allontanarsi dal socialismo, il suo “superarlo” – sia pure confusamente – nel trincerismo e nella formula di una nuova società dei combattenti e dei produttori

Persa irrimediabilmente così la possibilità di agire sulle masse proletarie, l’unica forza per realizzare una politica nuova erano i trinceristi, i combattenti.

A farli pervenire al successo nel ’21 e nel ’22 saranno tre fattori. La miopia e il settarismo dei socialisti; la volontà di rivincita e di reazione della nostra borghesia industriale e soprattutto agraria che seppe trasformare e canalizzare il fascismo delle origini sino a farne un’altra cosa: lo strumento del suo potere di classe, aiutata in ciò dall’inadeguatezza di una classe politica incapace di rendersi veramente conto delle profonde trasformazioni economiche, sociali e morali prodotte dalla guerra; e l’estrema duttilità politica – da grande politico, sua pure nel senso deteriore della parola – di un uomo, Mussolini, che a sua volta seppe accantonare e in pratica a rinunciare progressivamente a tutta una serie di principi e di idee sull’altare della manovra e del successo politico, ma che, al tempo stesso, aveva saputo al momento giusto capire, al contrario degli altri uomini politici del momento, che perciò si bruciarono o furono sconfitti, che la guerra aveva creato una nuova massa, con proprie aspirazioni sociali e morali, i trinceristi, che, finita la guerra, non si sarebbe dissolta per il solo fatto di essere smobilitata e che per un certo periodo almeno, avrebbe costituito – se compresa – una forza di manovra formidabile.
Pp. 594-595
Scritto di Mussolini sull’abbandono del socialismo:
“Oggi, dopo quattro anni, dalla testata di questo giornale scompare il sottotitolo di socialista. Un altro lo sostituisce che mi piace di più e che i lettori – io credo – apprezzeranno di più. D’ora innanzi questo giornale sarà il giornale dei combattenti e dei produttori…. Quel “socialista” che figurava in testa del giornale aveva senso nel 1914 e voleva dire che nel 1914 si poteva essere socialisti – nel vecchio senso della parola – e nello stesso tempo favorevoli alla guerra. Ma in seguito la parola “socialista” era diventata anacronistica. Non mi diceva più niente. Offriva, anzi, tutti gli inconvenienti della possibile confusione cogli “altri”…. Quell’affermare che il vero, autentico, il genuino socialismo – in base ai testi, alla tradizione, agli apostoli – era il nostro, soltanto il nostro, in antitesi cogli altri che rivendicavano altrettanta verità e autenticità per il loro socialismo, era, alla fine, grottesco e burlesco come la concorrenza di due botteghe. Questa che non è una bottega, non è mai stata, non sarà mai una bottega, cambia insegna e lascia all’altra il monopolio del mercato. In realtà deve essere difficile per quei signori collocare la loro merce. La merce è di qualità scadente. E’ ancora rigatteria dell’anteguerra… Combattenti e produttori. Mi propongo di sostenere i diritti e gli interessi degli uni e degli altri. Combattenti e produttori, il che è profondamente diverso dal dire operai e soldati. Non tutti i soldati sono combattenti e non tutti i combattenti sono soldati. I combattenti vanno da Diaz all’ultimo fantaccino. Produttori, cioè quelli che producono, che lavorano, ma non soltanto colle braccia... Difendere i produttori vuol dire combattere i parassiti. I parassiti del sangue, fra i quali tengono il posto in prima fila i socialisti, e i parassiti del lavoro che possono essere borghesi e socialisti… Difendere i produttori significa permettere alla borghesia di  compiere la sua funzione storica – ci sono ancora due continenti quasi intatti che attendono di essere travolti nel turbine della civiltà moderna capitalistica – e significa anche agevolare agli operai il conseguimento del maggior benessere per il maggior numero e lo sviluppo di quelle capacità che possono a un dato momento sprigionare dalla massa lavoratrice le nuove aristocrazie dirigenti delle nazioni. Nel sindacalismo operaio, quando sia rimasto immune dall’infezione del socialismo politico, nel sindacalismo che combatte e lavora, c’è un elemento e una ragione profonda di vita”.
P. 406
Alla base di queste affermazioni di Mussolini sono, a nostro avviso, almeno tre ordini di problemi e di suggestioni, di diversa portata ed importanza, ma da cui non ci pare si possa prescindere. Primo elemento base è un certa atmosfera, un certo fermento generale che, con l’avvicinarsi della fine della guerra, era diffuso in vari ambienti socialisti europei, francesi soprattutto, che non si erano lasciati suggestionare dall’entusiasmo indiscriminato per la rivoluzione bolscevica e che, anzi, lo avevano molto spesso respinto. La guerra aveva prodotto in molti paesi belligeranti un enorme sviluppo della produzione, sia nei settori più propriamente connessi all’industria bellica sia in quelli ad essa collaterali, nonché un notevole progresso tecnico e un forte incremento della occupazione operaia (maschile e soprattutto femminile) dal quale, infine, non era andato disgiunto – almeno in alcuni paesi – anche un certo aumento (anche proporzionalmente molto inferiore) de salari e delle mercedi.
Il dopoguerra si presentava profondamente ipotecato dal problema della riconversione e spesso della conversione tout court dell’apparato industriale bellico alla produzione di pace. Solo così si sarebbe potuto mantenere alto il livello produttivo, si sarebbero evitati la disoccupazione e il crollo dei salari e si sarebbero potute assorbire le masse di mano d’opera rese disponibili dalla smobilitazione. In questa prospettiva, una ripresa pure e semplice dei vecchi indirizzi e dei vecchi metodi della lotta operaia sembrava ad alcuni impossibile, perché avrebbe aggravato, in ultima analisi, la crisi generale e il primo a farne le spese sarebbe stato proprio il proletariato. Il trinomio lavoro-produzione-scambio appariva il punto fermo di una politica operaia nuova: il progresso sociale poteva essere realizzato solo attraverso il massimo aumento del reddito assicurato da un potente sviluppo dell’economia capitalistica, opportunamente corretta in alcuni suoi aspetti. Dunque, gli interessi del proletariato e, più in genere, dei produttori si identificavano con l’interesse nazionale.
P. 408
In conclusione, sula base di questo complesso di documenti ci pare si posa ritenere che il “superamento” del socialismo fu per Mussolini la conseguenza di un suo autonomo processo di evoluzione-involuzione, ad esso concorsero anche motivi di altro genere, come il desiderio di assicurare una nuova e più sicura fonte di finanziamento al suo giornale. Si può dire – certo – che, ancora una volta, gli interessi e i fini di Mussolini e dell’Ansaldo erano convergenti e che, pertanto, nell’accordo Mussolini non veniva meno ai suoi principi. Tuttavia, l’episodio dei veri motivi della soppressione dell’edizione romana del Popolo d’Italia – se vero, ma non si vede come potrebbe non esserlo, data anche la ricchezza dei particolari – dimostra fino a che punto fosse già arrivato a quest’epoca la spregiudicatezza di Mussolini e quanta strada egli avesse fatto sulla via del compromesso e del cedimento su un piano che se non era di principi politici era certo di principi morali ben precisi.
P. 417-418

Cap. 12. La crisi dell’immediato dopoguerra: i fasci di combattimento
La conclusione della guerra, più o meno prossima che fosse, riportava infatti in primo piano per gli interventisti il problema di questi partiti. Salvo rare eccezioni e ripensamenti, il solco che la guerra aveva scavato tra interventisti e neutralisti non era destinato a colmarsi con la fine della guerra. In molti casi esso sarebbe sopravvissuto ancora per molti anni, anche dopo che l’affermarsi del fascismo, prima come partito e poi come regime, avrebbe provocato un riavvicinamento e un accordo in funzione antifascista tra alcuni settori del “neutralismo” e alcuni gruppi dell’”interventismo”. Tanto più insanabile doveva apparire il contrasto alla fine del ’18. La pace sotto questo profilo non poteva non essere che un prolungamento della guerra: nel nuovo clima di progressiva liberalizzazione della vita politica e di fronte allo scatenarsi senza più alcun freno dei reciproci odi e dei reciproci settarismi, il solco tra i due blocchi era inevitabilmente destinato ad approfondirsi e non a colmarsi.
P. 421
Discorso di Buozzi:
“Noi – aveva detto – siamo risolutamente contrari alla teoria che l’organizzazione e l’organizzatore debbono sempre seguire la massa, anche se disorganizzata e volubile. Tale teoria rende inutile l’organizzazione. Serve a formare dei ribelli di un’ora, ma non mai delle coscienze rivoluzionarie, serve a radunare improvvisamente delle migliaia di operai, facili da condurre al macello, ma che se ne andranno immediatamente appena finita l’agitazione per la quale si sono associati. La coscienza delle masse si sviluppa e si dimostra con l’opera perfezionata, illuminata e disciplinata, la quale – anche attraverso qualche rinuncia che spesso è segno di forza- sa conquistare e, poi, difendere e conservare per prepararsi a nuove conquiste”
P. 423
Il Partito socialista – nonostante annoverasse uomini come Turati, come Buozzi, come lo stesso Serrati e, su un’altra sponda, come Gramsci – non seppe cogliere il valore di questa nuova situazione e persistette nel suo rivoluzionarismo prebellico, reso ancora più sterile dal sistematico affrontare tutti i problemi sull’esempio russo, sull’esempio cioè  di una realtà completamente diversa da quella italiana. Sopraggiunta la pace il Partito socialista non seppe lanciare che due parole d’ordine, quella dell’istituzione di una repubblica socialista e quella della dittatura del proletariato, con il solo risultato di isolarsi dalle forze che avevano il potere e di dare inizio a una sempre più grave crisi dei suoi rapporti con la CGL.
Questa, rendendosi interprete di un sentimento largamente diffuso nel paese, si pronunciò, tra l0altro, per la convocazione di una Costituente; la direzione socialista la respinse come “una rivendicazione borghese e propria di coloro che avevano voluto la guerra”. In questa motivazione negativa è tutto il dramma del socialismo italiano nell’immediato dopoguerra.
P. 425
Si racconta spesso che Lenin abbia detto ad alcuni delegati socialisti a Mosca che i socialisti italiani si erano lasciati sfuggire l’unico uomo che sarebbe stato capace di fare la rivoluzione in Italia: Mussolini.
P. 427
Scritto di Nenni:
“Un’ortodossia puramente formale, un rivoluzionarismo puramente verbale, l’assenza di senso politico e cioè di piani concreti e precisi, il distacco fra Partito e Paese, l’aver sacrificato il valore universalmente umano del socialismo facendone un affare interessante esclusivamente talune categorie operaie, ecco ciò che ha portato al disastro del 1922 il movimento socialista, proprio nell’ora in cui la via gli si presentava libera per definitive realizzazioni. Ma i progressi che si potevano compiere furono giudicati disprezzabili, quelli che si diceva di voler conseguire erano così sproporzionati al rapporto delle forze che rimasero come una aspirazione del tutto utopistica”.
P. 428
Tale massiccio aumento del costo della vita (al quale le classi più umili non potevano sottrarsi neppure col tradizionale sistema dell’emigrazione – che negli anni prebellici aveva avuto un ritmo medio di 650 mila unità annue – dato che una serie di norme restrittive imposte dai paesi classici d’immigrazione aveva ridotto molto il flusso migratorio) ebbe, ovviamente, immediate ripercussioni sociali e politiche, i cui frutti furono raccolti, altrettanto ovviamente, non dai partiti della sinistra interventista, ma da quelli socialista e popolare e di destra.
P. 434-435
Scritto di Alfredo Rocco:
“Oggi, se si vuol salvare l’economia italiana dal disastro, e renderle possibile la ripresa del lavoro, con l’energia e la preparazione raddoppiate dalla guerra, occorre che si concluda rapidamente la pace, e che nel trattato di pace siano assicurate all’Italia le condizioni indispensabili della sua restaurazione economica. E’ necessario pertanto: 1) che l’Italia si totalmente sgravata dal suo debito estero, sia mediante remissione, sia mediante trapasso id accollo agli stati nemici, a scomputo della indennità di guerra dovutaci…; 2) che sia assegnata all’Italia una congrua indennità di guerra…. ; 3) che siano date all’Italia colonie non solo capaci di assorbire parte importante della sua emigrazione, ma anche che possano rifornirla di materie prime, carbone, petrolio, cotone.”
P.441
Gli Stati Uniti non avevano sottoscritto il patto di Londra, non lo avevano mai riconosciuto o accettato e lo spirito del patto era nettamente in contrasto con l’impostazione che Wilson aveva ritenuto di dover dare alla guerra e ai suoi famosi quattordici punti. Francesi ed inglesi avrebbero rispettato il patto di Londra e in ultima analisi si sarebbe potuto trovare il modo per ottenere che Wilson non sollevasse obiezioni. Bisognava però – come era nella linea di Sonnino – pretendere il rispetto del patto di Londra in nome di una concezione meramente politica e di potenza dei rapporti internazionali e della santità degli impegni sottoscritti e poi pretendere, come volevano i nazionalisti, parte della destra e persino parte dell’interventismo di sinistra, Fiume in nome del principio di nazionalità e di autodecisione dei popoli era evidentemente un assurdo. La politica delle nazionalità doveva essere accettata o respinta, con tutte le responsabilità e le implicazioni che questi due atteggiamenti comportavano. Due concezioni antitetiche erano a confronto.
P. 445

Qualcuno potrebbe dire che l’interventismo democratico aveva già perduto la sua battaglia almeno nel momento in cui – nell’estate del 1918 – Bissolati non era riuscito, neppure con la minaccia di dimettersi, a far mutare rotta al governo e si era dovuto accontentare della vaga e per nulla impegnativa deliberazione del Consiglio dei ministri dell’8 settembre circa l’indipendenza jugoslava. In realtà le critiche che qualcuno muove alla “debolezza” mostrata in quell’occasione dal leader riformista non ci sembrano giustificate. Nel momento in cui si tornava, e con più concretezza, a parlare di trattative di pace negoziata tra gli alleati e gli imperi centrali, il posto di Bissolati non poteva essere che al governo per cercare di sventare il pericolo di una simile soluzione: una pace negoziata, di compromesso, avrebbe infatti significato l’affossamento della politica delle nazionalità che si fondava innanzi tutto sul principio della distruzione dell’Impero austro-ungarico, distruzione che una pace negoziata escludeva a priori. L’interventismo democratico – a nostro avviso – perse la sua battaglia invece tra la fine del dicembre 1918 e la metà del gennaio 1919, con le dimissioni di Bissolati dal governo e con il suo famoso discorso alla Scala. La perse quando non riuscì a far accettare in sede governativa la formula ”Wilson o Lenin” prima e poi quando in pratica non tentò neppure di rilanciarla chiaramente nel paese, lasciando che ad essa ne fosse preferita invece un’altra che si potrebbe così sintetizzare: “nazionalismo o Lenin”.
P. 449
Citazione da Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, 1919-1920
“Alla stregua dei documenti risulta infondata la versione della intransigenza italiana e particolarmente sonniniana, pur essendo pienamente confermato il difetto di preveggenza e di preparazione da parte nostra. Fin dai primi scontri “ad altissimo livello” Orlando e Sonnino accettarono di fatto la transazione o scambio Fiume-Dalmazia; in secondo tempo ammisero, al posto dell’annessione italiana, l’ipotesi dello stato libero di Fiume, pur rimanendo fermi nel non sacrificare a questo l’Istria orientale”.
P. 452
Contro il pericolo bolscevico il Presidente del consiglio ritenne opportuno – come Sonnino – non scoraggiare il nazionalismo, anche se in pratica si accingeva a trattare a Parigi su basi che non possono essere considerate nazionaliste. Così facendo Orlando si assunse certo delle gravi responsabilità, annaffiò – se così si può dire – una pianticella che, grazie anche a lui, sarebbe diventata sempre più grande e robusta e avrebbe invaso tutto il campo italiano soffocando o quasi tutte le altre e ammorbandone l’atmosfera. Bissolati dal canto suo aggravò ulteriormente i termini della situazione.
P. 453
Una errata politica di governo – ha scritto lo Chabod – che aveva voluto applicare a un periodo di crisi profonda della storia europea criteri politici e diplomatici ormai sorpassati, portò così a quella che si può chiamare “la crisi della vittoria”. Certo, alla conferenza della pace furono commessi errori anche da parte delle potenze alleate, e soprattutto da Wilson, che a un certo punto parve voler applicare solo nei confronti dell’Italia i suoi famosi “principi”. Tirate le somme, molti italiani ebbero l’impressione che tutti gli sforzi compiuti durante la guerra fossero misconosciuti. Cominciò a circolare una espressione molto significativa: “la vittoria mutilata”. La ritroviamo sulla bocca degli studenti e degli ufficiali appena tornati dal fronte. Il sentimento nazionale s'esaspera sempre più. La propaganda nazionalista dei Federzoni, dei Corradini, ecc., ha quindi buon gioco ad eccitare il sentimento nazionale.
P. 457
Di qui il risultato delle elezioni di novembre, le prime del dopoguerra e dal 1913, le prime con la proporzionale nella storia d’Italia, che fecero il bilancio della crisi dell’immediato dopoguerra: spazzati via i partiti dell’interventismo di sinistra, i grandi trionfatori furono i socialisti e i popolari, mentre la destra – ancora priva di un punto di forza – andava organizzandosi; i partiti del vecchio stato liberale perdevano la maggioranza in parlamento e, quel che è peggio, perdevano la loro omogeneità interna, parecchi degli eletti nelle liste di centro, specialmente in quella liberale, erano in realtà conservatori, nazionalisti. Giustamente l’Unità, commentando i risultati delle elezioni e il peso che in essi avevano avuto le inquietudini nazionalistiche e antisocialiste, osservava che “dei 250 deputati che formano la massa intermedia, moltissimi sono stati letti solo in quanto riconosciuto la legittimità di quelle inquietudini e si sono impegnati a combatterne le cause.
458-459
Chi ripercorra oggi gli avvenimenti che portarono Mussolini alla fondazione dei fasci di combattimento e, più in qua ancora, al suo accordo con Giolitti dell’autunno 1920 non può non rilevare due fatti fondamentali. Primo, nei due anni che intercorsero tra la fine della guerra e l’accordo con Giolitti Mussolini si mosse in una direzione sostanzialmente univoca, ma altrettanto sostanzialmente tracciata giorno per giorno, frutto non già da un piano e di una consapevolezza precisi, ma – al contrario – determinati da un successivo adeguamento e inserimento nella situazione in atto. Secondo, quando diede vita ai fasci di combattimento Mussolini non aveva la più pallida idea di dove essi lo avrebbero portato.
P. 460
Da qui la vera grande, definitiva svolta mussoliniana della fine del 1920, quella svolta che, dopo un nuovo tentativo di “farsi una cuccia”, comoda sin che si vuole ma sempre “cuccia”, nel sistema, lo avrebbe portato al 3 gennaio 1925.

I fasci di combattimento nacquero in un clima confuso e contraddittorio, nacquero essi  pieni di confusioni e contraddizioni, nacquero contro il partito socialista e inquinati di nazionalismo. Nacquero però indubbiamente su un terreno e con una prospettiva di sinistra.

Ciò che importa è non spostarne l’origine su un terreno diverso, frutto del senno del poi, che ne sviserebbe il significato storico, ne renderebbe incomprensibili le vicende e soprattutto renderebbe impossibile una giusta ricostruzione dell’azione politica di Mussolini in questo periodo.
P. 461
Al primo fascismo i futuristi avrebbero però anche portato un fervore a suo modo morale, che mancherà completamente al successivo fascismo, che in quel momento varrà a conciliargli le simpatie di alcuni intellettuali, e un tipo particolare di “nazionalismo cosmopoliteggiante” e democratico, che nulla aveva a che vedere con quello bolso, retorico, “romano”, clericaleggiante e grettamente imperialista dei vari Corradini, Coppola e Federsoni.
P. 475
Alla luce di queste due nuove prese di posizione, ci pare evidente che fra la fine del ’18 e i primi mesi del ’19 il produttivismo mussoliniano venisse prefigurandosi sostanzialmente come un nuovo riformismo, che trovava il suo fondamento e la sua ragion d’essere nel parallelo interesse del capitalismo (un capitalismo per altro sempre più anonimo e collettivo) e del proletariato al mantenimento e all’incremento incessante della produzione, unica vera fonte per tutti di benessere e di sviluppo sociale e per un’elevazione dei lavoratori a produttori anch’essi e quindi a cittadini nel senso più pieno del termine; questo produttivismo si distingueva dal vecchio riformismo, dato che a realizzarlo dovevano essere i sindacati.
P.494
Ugualmente, alla luce di queste due prese di posizione più generali, “teoriche”, non solo appare chiaro il significato e il valore di tutta un’altra serie di prese di posizione mussoliniane dello stesso periodo, favorevoli alla CGL e in particolare ai suoi esponenti riformisti più insofferenti alle inframmettenze del Partito socialista nella politica confederale, ma è possibile capire le motivazioni, non solo tattiche, che a lungo - si–o alla marcia su Roma e ancora dopo sino alla crisi Matteotti – indurranno Mussolini a distinguere tra CGL e Partito socialista, a ricercare un accordo con la prima e a combattere violentemente il secondo.
P. 495
L’affermazione finale di Mussolini è per noi del più vivo interesse. Non solo, infatti, dimostra, come Mussolini contasse su una crisi del Partito socialista, con relativa scissione tra massimalisti e riformisti; ma – quel che più qui importa – partendo da questa premessa d’ordine politico generale ci permette di gettare un po’ di luce su un episodio tra i meno chiari e più scarsi di elementi precisi di documentazione della vita di Mussolini, che deve essersi verificato appunto nella prima metà di aprile. Ci riferiamo ai sondaggi che in questo periodo Mussolini fece per un eventuale suo rientro nel Partito socialista. La cosa può sembrare a prima vista strana, incredibile addirittura; a ben vedere essa risponde però ad una logica tutt’altro che assurda. Sino ad ora sull’episodio si aveva solo un vaghissimo accenno nei ricordi di Mario Montagnana. Parlando delle origini del movimento fascista e della posizione di Mussolini, il Montagnana ha scritto:
“Finita la guerra erano pure finiti, per Mussolini, i sussidi straordinari e l’appoggio delle forze che, in Italia, avevano voluto l’intervento… Su chi puntare? Ritornare nelle file socialiste non era possibile. Qualche approccio in questo senso era stato fatto; ma il socialismo italiano, che aveva vomitato dal suo seno il fondatore del Popolo d’Italia, non aveva nessuna intenzione di accoglierlo un’altra volta.”
Pp. 497-498

La riunione di Piazza San Sepolcro fu insomma, più che un vero e proprio convegno costitutivo di un movimento politico muovo, una adunata di persone politicamente affini che stabilirono in quell’occasione di rendere più stabili i loro reciproci rapporti e, all’atto pratico, si trovarono d’accordo su un programma negativo, genericamente orientato a sinistra e ancor più genericamente orientato nel senso di un “nuovo ordine” che neppure essi sapevano bene prefigurarsi. Sul piano positivo dalla riunione del 23 marzo non uscì praticamente nulla, nulla, almeno che non fosse comune alla gran maggioranza del rivoluzionarismo non inquadrato nel Partito socialista. E – ciò che è più significativo – non emerse neppure una chiara volontà, uno sforzo sia pure velleitario, della maggioranza a darsi un programma positivo. Se qualcosa in questo senso fu fatto, nei mesi immediatamente successivi, lo fu ad opera esclusivamente del gruppo milanese, che, di fatto, non solo costituì il vertice del movimento ma – almeno per un certo periodo – costituì in realtà tutto il movimento o quasi.
P. 509

Se all’atto pratico l’accantonamento non si verificò e Mussolini finì anzi per puntare tutte le sue carte sui fasci, non fu perché si fosse reso conto in un successivo momento che i fasci potevano diventare un potente strumento politico – ché di questo crediamo non se ne rese conto se non verso la  fine del 1920 e i primi del 1921 quando essi in pratica stavano diventando tutt’altra cosa di ciò che erano stati nel 1919 ed egli non fece che adeguarsi a questa trasformazione in atto – ma piuttosto perché, prima il fallimento dei sui progetti di dar vita ad un blocco delle sinistre interventiste, e poi quello delle sue ambizioni elettorali, lo costrinsero ad aggrapparsi all’unica sia pur modestissima base politica sulla quale potesse contare e colla quale potesse giustificare la sua permanenza sulla scena politica.
P. 513

Citazione di D’Annunzio
“Io personalmente non sono iscritto nei fasci di combattimento ma ci tengo a far sapere che ciò è dovuto soltanto alla mia particolare posizione di segretario dell’Unione Italiana del lavoro, che m’impone il dovere di non vincolarmi ad alcun altro movimento. Se non fosse per questo farei parte dei fasci, non già perché trovi in tutto e per tutto accettabile l’azione di essi; ma perché – con tutte le loro manchevolezze – rappresentano oggi l’unico movimento politico italiano che contrasti con efficacia e con energia la gretta incapacità delle classi dirigenti e il demagogismo socialneutralista”
P. 516

Sicché il risultato politico [dello sciopero] fu sostanzialmente controproducente: invece di dimostrare la forza del movimento operaio socialista esso ne mise in luce l’intima debolezza e invece di mettere paura al governo e alla borghesia li rianimò, tanto che quest’ultima, finalmente liberata dall’incubo, cominciò ad accarezzare propositi, sin lì covati in segreto e frenati dalla paura, di rivalsa. Sotto questo profilo si può anzi dire che con lo “scioperissimo” dal luglio 1919 incominciò in Italia il declino dell’”ondata rossa”, quel declino che, attraverso il fallimento dello sciopero torinese dell’aprile ’20, sarà irrimediabilmente consacrato di lì a poco più di un anno dal fallimento dell’occupazione delle fabbriche.
P. 537

 

Due giorni dopo il congresso fascista di Firenze (di cui avremo l’occasione di parlare nel prossimo capitolo) si dimostrò però più duttile: l’o.d.g. da esso approvato in vista delle ormai prossime elezioni ribadì infatti il concetto che “il blocco preferibile per i fascisti è quello che comprende i volontari di guerra, gli arditi, gli smobilitati, i combattenti, i repubblicani, i socialisti interventisti, i futuristi”.
P. 542

Con il definitivo fallimento delle trattative per la costituzione, almeno a Milano, di un blocco dei partiti e delle organizzazioni dell’interventismo di sinistra si può considerare concluso il primo periodo della storia dei fasci di combattimento e, più in genere, un’epoca ben precisa della vita di Mussolini. La parola fine, in verità, l’avrebbero messa le elezioni politiche del novembre successivo, sancendo la clamorosa sconfitta dei fasci di combattimento e di Mussolini, rimasti praticamente isolati nel fronte interventista e avversati da tutto gli altri gruppi politici, di estrema sinistra come di centro e di destra; la forzata decisione di affrontare le elezioni col solo appoggio degli arditi, dei futuristi e dei volontari di guerra aveva in realtà però già sancito questa sconfitta che il verdetto delle urne non fece che confermare. Per anni, prima nel Partito socialista e poi nell’interventismo, Mussolini aveva cercato di portare avanti una politica “unitaria”. Ora, questa politica, dopo una serie di insuccessi parziali, toccava il suo fondo. Mussolini ed i fasci non costituivano ormai che una infima minoranza, isolata politicamente e sostanzialmente combattuta da tutte le forze politiche. Neppure la loro partecipazione attiva e decisa all’impresa fiumana di D’Annunzio sarebbe riuscita – come pure era sembrato e Mussolini aveva sperato – a controbilanciare lo scacco subito col fallimento dei tentativi bloccardi. Scattata l’operazione di Fiume e dimostratosi il governo Nitti impotente a soffocarla, anche il ruolo dei fascisti all’interno del movimento fiumano avrebbe rapidamente perduto l’importanza, sia per la dimostrazione della sua debolezza sancita dalle elezioni, sia per lo svuotamento dei fasci in seguito all’andata a Fiume di buona parte dei loro iscritti, sia infine per l’affermarsi a Fiume, attorno a D’Annunzio, dei nazionalisti decisamente contrari a Mussolini. Nel corso del ’20 ai nazionalisti si avvicenderanno – come è noto – attorno a D’Annunzio alcuni elementi della sinistra interventista, in primo luogo De Ambris che del “comandante” sarebbe divenuto il più stretto ed influente collaboratore. Ma quando questa svolta si verificò, i rapporti D’Annunzio-Mussolini e De Ambris-Mussolini si erano nel frattempo così deteriorati che Mussolini e i fasci di combattimento non se ne poterono giovare per nulla e, anzi, ne risultarono vieppiù isolati. Ciononostante, il ’20 fu l’anno dell’inizio della progressiva affermazione fascista. Come vedremo nei prossimi capitoli, nel 1920 Mussolini, resosi conto infatti della gravità del suo sempre più completo isolamento, compì – da politico – la sua scelta: la sinistra lo respingeva; dunque, il suo spazio non poteva che essere a destra. A destra, i fasci di combattimento potevano realizzare quell’”unità” che Mussolini invano aveva inseguito per sette anni a sinistra. Ciò che importava era non farsi fagocitare dalla destra, non esserne uno degli strumenti – come la varie associazioni antibolsceviche – destinati, dopo l’uso, a essere lasciati cadere come qualcosa di ormai inutile e compromettente, ma – al contrario – diventarne il fulcro, facendo degli altri il proprio strumento; cavalcare insomma, come si suol dire, la tigre e non esserne solo uno dei tanti denti di cui si può benissimo fare anche a meno al momento opportuno. E in questa lotta per la sopravvivenza Mussolni fu veramente maestro; nessuno riuscì a stargli alla pari, né i nazionalisti e la destra che credettero di aver trovato in lui l’esecutore dei loro piani, né l’abilissimo Giolitti che gli diede cittadinanza nella politica italiana sicuro anch’egli di poterlo trasformare cammin facendo e di travasarlo s svuotandolo nel sistema, né gli industriali che credettero di potersene servire come una “guardia bianca” da licenziare a lavoro finito.
P. 543-544

 

 

 

 

Cap. 13. Tra d’Annunzio e Nitti

Citazione da Vivarelli:
La ostilità degli ambienti militare verso Nitti, la irritazione di molti ufficiali, superiori e inferiori, per la minaccia di disoccupazione conseguente una politica di smobilitazione, come pure i propositi di vera e propria sedizione dei nazionalisti e di alcuni generali e ufficiali superiori, tutte queste cose sono note e fuori discussione. Ma l’impresa di Fiume fu qualcosa di più che il prodotto di queste sole circostanze. Se la spedizione poté attuarsi con tanta facilità, incontrando in tutta la zona di armistizio tolleranza e favore, ciò si dovette al fatto che essa rispondeva ai sentimenti della stragrande maggioranza degli uomini che si trovavano allora sotto le armi; e anche in coloro che personalmente non sarebbero mai venuti meno agli obblighi della disciplina e che nulla avevano a che vedere con le mene del nazionalismo era profonda la convinzione che la causa di Fiume fosse una causa giusta. Fu questa convergenza di elementi disinteressati e di nazionalisti privi di ogni scrupolo che fu alla base del successo dell’impresa.
P. 546-547

Da questo breve panorama degli aspetti più propriamente politici dell’impresa fiumana un fatto ci pare emerga con chiarezza. L’impresa dannunziana ebbe un significato politico preciso solo nel suo momento iniziale. Passato questo momento e fallito praticamente l’obbiettivo di provocare la caduta del governo Nitti e una sollevazione dell’opinione pubblica in senso filodannunziano, l’impresa di Fiume perse rapidamente ogni vero valore politico. Senza effetto rimasero i tentativi, di Giuriati prima e di De Ambris poi, di ridarle un respiro politico. D’Annunzio a sua volta, con i suoi tentennamenti, le sue impennate, i suoi ripensamenti e il suo abbandonarsi a questa o a quella influenza, si dimostrò quello che era: un letterato della politica, incapace non solo di dominare la situazione, ma persino di orientarsi politicamente in essa con un minimo di coerenza. Pago del suo successo, del suo eroismo, del suo nuovo ruolo di “duce”, egli si abbandonò agli eventi, interessato forse solo di tener fede al personaggio che interpretava e che tutti, amici e nemici, se proprio non ammiravano certo guardavano con meraviglia per la sua bravura.
P. 557

Le cause di questa conversione a destra furono molteplici: esse possono però essere così riassunte. Primo: il clamoroso insuccesso elettorale dei faci e in definitiva di tutta la sinistra interventista, se, sul primo momento, provocò in alcuni fasci una reazione a sinistra, alla lunga – di fronte all’estendersi delle agitazioni socialiste e operaie in genere – orientò la maggioranza fascista verso l’unica parte politica che, in qualche modo, sembrava più in grado di resistere al fermento popolare e di essere in grado di tentare una riscossa; la destra, appunto. Secondo: i contrasti e le divergenze, in politica interna come in politica estera, con la sinistra interventista provocarono a loro volta un fenomeno eguale e contrario. Come ha scritto il Mecheri “l’incomprensione e l’ostilità più o meno larvata verso la personalità di Mussolini, non potevano non provocare fermenti di viva reazione negli ultimi dei primi fascisti sospingendo i più proclivi al risentimento verso forze che fino ad allora erano state apertamente ripudiate”. A mano a mano che questa incomprensione e questa ostilità si facevano meno larvate, la reazione dei fascisti si faceva a sua volta sempre più viva, sino a creare una divisione che non sarebbe più stata colmata. Terzo: dopo le defezioni e gli allontanamenti seguiti all’insuccesso elettorale di metà novembre molti fasci persero gran parte dei loro primitivi membri che, come si è detto, erano quasi tutti di origine socialista, sindacalista, anarchica, repubblicana e che, quindi, bene o male, conservavano una certa posizione ideale e un certo orientamento politico-sociale; nel 1920, al posto di questi elementi di sinistra (tipico il caso di Bologna dal cui fascio si dimisero quasi tutti gli elementi di origine repubblicana, alcuni dei quali – Nenni, Bergamo etc. – sarebbero presto divenuti strenui avversari del fascismo), incominciarono ad affluire elementi nuovi, di diversa origine sociale e di diverso orientamento politico, che vedevano nel movimento fascista soprattutto uno strumento di azione antisocialista e antipopolare; studenti, piccolo borghesi, ex combattenti delle classi più giovani ce erano andati in guerra senza alcuna preparazione morale e politica vivendola in maniera meramente attivistica, e che l’impresa fiumana aveva ulteriormente eccitati in senso nazionalistico, anti governativo, anti socialista, anti popolare, completando così la loro formazione di spostati, desiderosi di comandare e di rifarsi delle umiliazioni, vere od immaginarie subite ad opera del governo e dei partiti tradizionali e pronti – per realizzare le loro aspirazioni, , quelle più nobili come quelle più basse – ad ogni avventura, ad ogni violenza, ad ogni compromesso.
P. 590-91

Fallita la primissima fase dei fasci di combattimento, quando cioè Mussolini di fronte al misero esordio dei fasci aveva par alcuni mesi considerato il suo movimento come qualcosa di meramente strumentale e provvisorio e aveva puntato alla realizzazione di un più vasto schieramento interventista di sinistra, fallita questa primissima fase, Mussolini si era visto costretto ad impegnarsi a fondo nei fasci, che, per deboli che fossero, erano l’unica vera freccia al suo arco e gli davano una sorta di cittadinanza, presuntiva almeno, nella “grande politica”. In questa seconda fase egli era stato padrone assoluto dei fasci, ai quali aveva imposto senza eccessivo sforzo le sue particolari vedute e la sua politica personale. La ripresa fascista della primavera-estate 1920 (dopo il disfacimento seguito alle elezioni), della quale il congresso di Milano permise un primo parziale bilancio, aveva però, se non mutato, certo scosso questa sua posizione personale. Questa ripresa si era verificata in buona parte al di fuori del controllo e della direzione del gruppo fascista milanese, ad opera di elementi che spesso non avevano nessun precedente legame con Mussolini. Ugualmente la ripresa periferica del fascismo da un lato e la crisi del nucleo dirigente milanese originario dall’altro avevano messo in moto un processo di differenziazione e di liberalizzazione in seno allo stesso vertice fascista.
P. 593

Cap. 14. Mussolini e Giolitti: tra rivoluzione e reazione nasce il fascismo

I popolari accettarono di far parte del governo; quanto ai socialisti, l’ala riformista non sarebbe stata contraria ad una sua collaborazione, ma Turati fu costretto a declinare le offerte di Giolitti, dato che sapeva bene che la maggioranza massimalista non l’avrebbe seguito; ciononostante sino al congresso di Livorno Giolitti sperò di poter allargare la maggioranza almeno ad una parte dei socialisti
P. 599

Giolitti e i suoi più stretti collaboratori (Bonomi, Corradini) si sarebbero nel 1920 rivolti decisamente a destra e avrebbero sostenuto politicamente e addirittura armato materialmente in funzione antisocialista, la reazione in genere e il fascismo in particolare, dando così a quest’ultimo cittadinanza politica e aiutandolo ad affermarsi. Prove ne sarebbero i casi di collusione fra le forze di polizia e fascisti, tra esercito e fascisti, la costituzione, nell’autunno del 1920, di numerosi blocchi locali per le elezioni amministrative ai quali partecipavano anche i fascisti e, l’anno dopo, quella dei blocchi nazionali in occasione delle elezioni politiche, grazia ai quali entrarono a Montecitorio 35 deputati fascisti,  l’accordo Giolitti-Mussolini in occasione della liquidazione dell’avventura fiumana e, in genere, il grande sviluppo che il fascismo ebbe proprio durante l’ultimo governo Giolitti.
P. 602

Questo processo di ripresa borghese aveva avuto – come si è detto – le sue prime manifestazioni dopo il pratico fallimento dello scioperissimo del luglio 1919. I risultati delle elezioni del novembre successivo lo avevano per un momento costretto ad una battuta d’arresto, ma ben presto era ripreso vieppiù vigoroso. Sintomi eloquenti ne erano stati sin dal gennaio 1920, in occasione dello sciopero dei postelegrafonici e dei ferrovieri, la costituzione di squadre di privati cittadini che avevano volontariamente sostituito i lavoratori in sciopero. Nel febbraio successivo a Milano si era costituito, d’accordo con la prefettura, una specie di corpo volontario ausiliario per coadiuvare la forza pubblica nel mantenimento dell’ordine. E nei mesi successivi analoghi erano stati sempre più numerosi, mentre le organizzazioni padronali (come la Confederazione generale dell’industria in un convegno tenuto a Milano l’8 marzo 1920) reclamavano ormai esplicitamente un governo forte che assicurasse l’ordine e la libertà di lavoro e singoli industriali cominciavano a finanziare nei rispettivi centri organizzazioni di difesa civile. Il fallimento dello sciopero torinese dell’aprile 1920 contro l’introduzione dell’ora legale nel settembre successivo, quello dell’occupazione delle fabbriche portarono – se così si può dire – a compimento questo duplice processo.
Particolarmente grave fu lo scacco subito dal movimento operaio con l’occupazione delle fabbriche. In primo luogo, come ha notato Spriano, in questa occasione risultò evidente l’isolamento del proletariato urbano dagli strati intermedi della popolazione e dal movimento contadino, In secondo luogo l’occupazione delle fabbriche rese altrettanto evidente il contrasto di fondo esistente fra il gruppo torinese dell’Ordine nuovo, che controllava gran parte del proletariato industriale torinese, e il resto del movimento. In terzo luogo, l’abilità dispiegata da Giolitti in questa occasione, rifiutando di compiere ogni repressione, lasciando che il movimento si spegnesse da sé e, alla fine, intervenendo per convincere gli industriali ad accettare il concordato, trasformò in pratica il mezzo successo del movimento in una vera e completa sconfitta politica per i socialisti, che si troveranno a dovere ciò che avevano ottenuto dal governo.
P. 609-10

Citazione da L. Preti:
Giudicati a posteriori, gli eccessi delle leghe contadine della bassa pianura padana possono parere quasi incredibili e generare il rischio di un giudizio sproporzionalmente severo. Tutti i fatti vanno però collocati nel loro tempo, e non si può quindi giudicare l’azione delle leghe, ignorando quale crisi morale ha significato la guerra mondiale per la pacifica Italietta. La psicologa bellica tarda a spegnersi: il senso della legalità si è indebolito, gli uomini che tornano dal fronte si sono abituati a dare all’incolumità e alla stessa vita del prossimo un valore relativo, e troppa gente è convinta in conclusione che la forza sia il metodo migliore per risolvere i problemi. Questa crisi morale, che investe tanta parte della borghesia, cui l’educazione e la consuetudine dovrebbero avere assicurato sufficienti poteri inibitori, tanto meno può risparmiare dei poveri braccianti privi di cultura, che hanno dietro di se una vita di sofferenze e di rinunzie.
P. 612

Citazione da A. Tasca:
chi non passa attraverso la lega contadina e, accettando un salario più basso, lavora tutto l’anno, riduce la porzione vitale degli altri, che lo vessano senza pietà. Il giallo è boicottato; il fornaio gli deve rifiutare il pane; egli è trattato come un lebbroso, come pure sua moglie e i suoi bambini: intorno a lui si fa il vuoto, sicché egli deve piegarsi o abbandonare il paese. Multe e taglie sono imposte ai proprietari che l’hanno impiegato e che hanno violato il contratto di lavoro. Il sistema, per funzionare, deve essere totalitario, perché ogni breccia che si apre può ridurre gli altri lavoratori alla fame. Si diffida allo stesso tempo della piccola proprietà, e ci si sforza di impedirne lo sviluppo…. Certe Camere del lavoro, come quelle di Bologna, di Reggio Emilia, di Ravenna, controllano quasi tutta la vita economica della loro provincia. Hanno organizzato i salariati, i piccoli coltivatori, i coloni; decidono il prezzo delle derrate che distribuiscono in un gran numero di comuni attraverso la rete delle cooperative. Proprietari, commercianti, intermediari di ogni specie vedono, giorno per giorno, ridotto il loro spazio vitale dallo sviluppo delle cooperative e del socialismo municipale… Queste istituzioni, sviluppandosi e collegandosi fra loro, assorbono a poco a poco nel loro ambito tutta la vita politica ed economica della regione.

Citazione da L. Preti:
In periodo di sciopero gli incendi dei fienili, la distruzione dei raccolti, l’uccisione dei capi di bestiame, le violenze ai proprietari e ai contadini coltivatori, i blocchi stradali, i saccheggi diventano frequentissimi. Squadre di leghisti si spostano da un paese all’altro e impongono ovunque con metodi violenti e perentori, la cessazione del lavoro. I dirigenti più responsabili non riescono a controllare le masse suggestionate dai numerosi capilega estremisti. Sovente nelle campagne i padroni e in genere gli avversari delle leghe, sono letteralmente terrorizzati par la situazione. I ferimenti e le uccisioni – rarissime peraltro queste ultime – non possono certo imputarsi alle leghe e ai loro dirigenti, tranne casi eccezionalissimi; ma sono possibili appunto in quanto le leghe rosse in molti luoghi hanno creato un’atmosfera confusa di prerivoluzione, nella quale la legge dello Stato è ignorata e molta gente perde il senso del limite e la nozione del lecito
P. 613

Con la fine dell’anno e soprattutto con il 1921 la reazione degli agrari scoppiò in tutta la sua violenza e il movimento contadino socialista si trovò a doverla affrontare da solo, poiché apparve subito chiaro che gli errori politici e tattici commessi nei due anni antecedenti lo avevano completamente isolato. Anziché cercare nei piccoli proprietari e negli altri ceri rurali vicini degli alleati, il proletariato agricolo aveva combattuto anche costoro; ora essi assieme ai vessatissimi gialli e almeno in un primo periodo, a parte dei cattolici, furono i primi a passare dall’altra parte.
P. 615

Dalle zone agricole e da un elementare quanto molto spesso sincero patriottismo, tra la fine del ’20 e i primi del ’21 nacque il vero fascismo, lo squadrismo. Un fascismo che si ricollegava idealmente e, sia pure con molta autonomia, organizzativamente al fascismo di Mussolini e dei fasci di combattimento e alle prime imprese degli arditi fascisti milanesi, ma che in realtà poco aveva a che vedere con esso.
P. 617

Un fenomeno che nato dalla particolare situazione dell’Italia del ’20 acquistò rilevanza e significato politico dalla capacità politica di Mussolini di farne, sia pure al prezzo del progressivo abbandono di tutti i suoi principali ideali, un fatto politico nazionale che il fascismo agrario non sarebbe mai stato capace da dolo di diventare e quasi tutta la classe politica italiana era convinta non sarebbe dovuto diventare, cosicché o non lo contrastò abbastanza o addirittura lo favorì, sicura di potersene servire nel momento del bisogno e poi di potersene liberare come di un sicario ai cui servigi si è costretti a ricorrere ma poi ci si affretta a fare sparire dalla circolazione e si nega di aver mai conosciuto.
P. 618

Un momentaneo e parziale attenuamento di questo processo di involuzione a destra si ebbe solo in occasione dell’occupazione delle fabbriche. Secondo Salvemini Mussolini in questa occasione volle probabilmente tenere i piedi in due staffe. Il giudizio è indubbiamente molto vicino alla realtà. Di fronte all’impotenza del movimento per l’occupazione delle fabbriche Mussolini dovette almeno in un primo momento domandarsi dove esso potesse sboccare.
P. 627

Sul governo di Roma ricade il sangue versato scrisse a tutta pagina il 28, dopo il Natale di sangue, Il popolo d’Italia; Il delitto! Intitolò a sua volta Mussolini il suo articolo di fondo di quel giorno; questa fu tutta la risposta di Mussolini all’occupazione di Fiume e all’abbattimento, manu militari, della Reggenza del Quarnaro. Il politico aveva deciso la morte del rivoluzionario; non sarebbero trascorsi cinque mesi che Mussolini avrebbe salito le scale di Montecitorio eletto in due circoscrizioni e forte di 35 deputati.
P. 655

Qui a impegnarsi col fascismo furono i singoli industriali, a titolo personale, per assicurarsene i servizi caso per caso, in occasione di agitazioni, scioperi, consultazioni amministrative ecc. Molti industriali – come ha ricordato Cesare Rossi – erano condizionati nel loro atteggiamento verso il fascismo da due considerazioni di tipi aziendale che non vanno trascurate: la preoccupazione che lo squadrismo provocasse reazioni nelle officine che potessero costituire un nuovo intralcio alla produzione e il fatto che il fascismo non disponesse nei luoghi di lavoro di propri nuclei operai sui quali essi potessero contare. Alcuni industriali, in base a queste due considerazioni, preferirono non avere rapporti con i fascisti, altri diedero ai loro rapporti un carattere particolare: cercarono e pagarono talvolta l’amicizia dei fascisti per assicurarsi la loro non ingerenza nei propri stabilimenti e nelle proprie officine. Lungi dalle intenzioni della maggioranza degli industriali fu – infine – fare del fascismo un effettivo strumento di governo: per essa i fasci furono a lungo solo una guardia bianca da manovrare contro le organizzazioni operaie e i partiti di sinistra in genere o una forza con la quale era opportuno avere buoni rapporti per non subirne la violenza. Significativo è – come ha notato il Guarneri – che, al contrario di quella agricola, la borghesia industriale non diede al fascismo quasi nessuno dei suoi uomini.
P. 659

L’evoluzione, alla fine del 1920, dell’atteggiamento del Corriere della Sera – ma gli esempi si potrebbero moltiplicare – verso il fascismo è a questo proposito veramente tipico e illuminante. Del fascismo, ai suoi inizi, il grande quotidiano milanese era stato un avversario. Con la spedizione fiumana di D’Annunzio questa avversione si era vieppiù accentuata. In vista delle elezioni politiche del 1919 il giornale degli Albertini aveva avuto una parte notevole nel far naufragare il blocco delle sinistre interventiste su cui Mussolini aveva tanto puntato. Anche in occasione delle elezioni amministrative del 1920 il Corriere della sera era stato ostile ad ogni accordo con Mussolini, In ottobre Albertini si era detto pronto a una campagna a fondo contro il fascismo e ancora il 7 novembre Albertini ed Amendola si erano trovati d’accordo nel ritenere necessario adoperarsi per persuadere il ceto industriale a non amalgamarsi col fascismo. Poi, improvvisamente, nelle ultime settimane di novembre, anche il Corriere della sera mutò rotta: il 19 novembre (Un servizio al governo) Albertini definì “santa” la violenta reazione antibolscevica della borghesia e il 23 novembre il Corriere della sera commentando l’eccidio di palazzo D’Accursio, rese anche più esplicito il significato di questa “santa reazione”.
“Di chi è la colpa? Chi se non il Partito socialista aspira in Italia alla guerra civile? Chi se non il Partito socialista crea e vuole questo ambiente di battaglia selvaggia? La battaglia trova necessariamente i suoi combattimenti anche dall’altra parte e nessuno meno dei socialisti ha il diritto di lagnarsi se nella lotta scatenata non c’è soltanto un attivo di colpi dati, ma anche un passivo di colpi ricevuti”.
Nel suo già citato esame della situazione politica milanese in data 18 giugno 1920 il prefetto Flores aveva osservato:
“Il Corriere della Sera cerca di trasformarsi secondo i tempi nuovi, ma non dimentica il suo carattere primitivo, che deriva dal quel liberalismo che si spiegava nei primi anni del Risorgimento, ma che ha ormai perduto forza ed efficacia nei tempi che corrono. Il giornale si atteggia a democratico, per convenienza industriale più che per convinzione, e conserva nell’animo quello spirito di reazione che vorrebbe lo stato d’assedio e la repressione delle pubbliche libertà”.
Non si può certo dire che così scrivendo il Flores non avesse colto nel segno: al momento in cui la reazione fu attuabile, anche il Corriere della sera fu subito per essa e quindi per il fascismo che ne era l’esecutore.
Mentre Mussolini realizzava attorno all’epilogo dell’avventura dannunziana il suo inserimento nel gioco politico—parlamentare a livello nazionale, i primi colpi del fascismo agrario provocavano così la costituzione di un fronte unico conservatore-reazionario della borghesia agricola,  di quella commerciale e di quella industriale. Trionfava così, dopo il biennio rosso, la reazione e nasceva il vero fascismo.
P. 661-62

 

 

Un’intima contraddizione storica stava per essere risolta: la liquidazione con la forza delle conseguenze della “marcia su Roma”, il ritorno della legalità dopo venti anni di regime fascista. La ritirata da Roma non poteva finire cortesemente intorno ad un tavolo di trattative: gli uomini percossi, umiliati, schiacciati da Mussolini quando era salito al potere, e poi ridotti alla clandestinità o all’esilio, attendevano ora alla porta: erano i vincitori della guerra civile iniziata dal fascismo stesso nel 1920.
I partigiani del 1945 rappresentavano in un certo senso i vinti del 1922 e l’opposizione degli anni successivi. Qualsiasi parte e qualsiasi capacità di manovra potessero avere gli elementi “moderati” delle due parti e quali che fossero le pressioni che le invadenti autorità alleate potevano cercare di esercitare, ora ora stavano per affrontarsi gli estremisti delle due parti. Gli eventi erano guidati da un brutale ricordo storico: un colpo di Sato, effettuato circa venti anni prima da uomini che ora erano di fronte alla morte politica, militare e morale, stava per essere liquidato. In questa atmosfera non c’era posto per trattative cortesi”.
P. 774

Bibliografia

Palazzo Venezia: storia di un regime / Yvon de Begnac. – La Rocca, 1950
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano - MI

Hitler: studio sulla tirannide / A.L.C. Bullock. – Mondadori, 1955
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

La guerra italiana / E. Canevari. – Tosi, 1949
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

La seconda guerra mondiale / W.S. Churchill. – Mondadori, 1948-53. – 6 v.
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteche pubbliche rionali - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

L’Italia nella seconda guerra mondiale: revisione di giudizi / E. Faldella. – Cappelli, 1960
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

La seconda guerra mondiale, 1939-1945 / G. Gigli. – Laterza, 1951
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Vent’anni di storia, 1922-1943 / A. Tamaro. – Tiber, 1953
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano - MI

Storia d’Italia nel periodo fascista / Salvatorelli-Mira. – Einaudi, 1962

Gli ultimi giorni di Hitler / H.R. Trever-Roper. – Milano, 1947
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

La nemesi del potere / J.W. Wheeler-Bennet. – Feltrinelli ,1957
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI

L’asse Roma-Berlino: storia dei rapporti tra Mussolini e Hitler / W. Wiskemann. – La Nuova Italia, 1955
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea - Pavia - PV

Due dittatori di fronte / D. Alfieri. – Rizzoli, 1948
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI

Guerra segreta in Italia, 1940-1943 / C. Amé. – Casini, 1954
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI

I seicento giorni di Mussolini / E. Amicucci. – Faro, 1948
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI

Da Palazzo Venezia al lago di Garda / F. Anfuso. – Faro, 1948
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

L’Italia nella seconda guerra mondiale: memorie e documenti / P. Badoglio. – Mondadori, 1946

Le ultime 95 ore di Mussolini / F. Bandini. – Sugar, 1959
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea - Pavia – PV
Biblioteca comunale centrale - Milano - MI

Uomini, cose, fatti / G. Bastianini. – Vitagliano, 1959
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Occasioni mancate: Roma in un diario segreto, 1943-1944 / Jo Di Benigno. – SEI, 1945
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Vigilia a Verona / Z. Benini. – Garzanti, 1949
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI

Il segreto di due re / N. Bolla. – Rizzoli, 1949
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Studi Umanistici Francesco Petrarca dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Diario di un anno: 2 giugno 1943 – 10 giugno 1944 / I. Bonomi. – Garzanti, 1947
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia – PV
Biblioteca dell'Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea - Pavia – PV
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano - MI

Vent’anni e  un giorno / G. Bottai. – Garzanti, 1949
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca del Collegio Ghislieri - Pavia - PV

Colloqui con due dittatori / R. Bova Scoppa. – Ruffolo. 1949
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

La fine del maresciallo Cavallero / E. Canevari. – Latinità, 1947
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Graziani mi ha detto  / E. Canevari. – Magi-Spinetti, 1947
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Più che il dovere / G. Carboni. – Parenti, 1955
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Come firmai l’armistizio di Cassibile / G. Castellano. – Mondadori, 1945
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia – PV
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Storia del CLNAI / F. Catalano. – Laterza, 1956
Biblioteche pubbliche rionali - Milano – MI
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano - MI

Comando supremo: diario 1940-1943 / U. Cavallero. – Cappelli, 1948
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Diario, 1925-1945 / E. Caviglia. – Casini, 1952
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano - MI

Dall’istruttoria alla fucilazione: storia del processo di Verona / V. Cersosimo. – Garzanti, 1961
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Storia della repubblica sociale italiana / E. Cione. – Latinità, 1950
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Studi Umanistici Francesco Petrarca dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Non volevamo perdere / A. Cucco. – Cappelli, 1950
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca e archivio. Civiche raccolte storiche - Milano - MI

Con Mussolini nella tragedia / G. Dolfin. – Garzanti, 1950
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Roma nazista / E. Dollmann. – Longanesi, 1951
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca del Collegio Ghislieri - Pavia - PV

Trieste e la sua odissea / G. Esposito. – Roma, 1952
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Perché perdemmo la guerra / C. Favagrossa. – Rizzoli, 1947
Biblioteca di scienze politiche Enrica Collotti Pischel dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano - MI

Socializzazione e sindacalismo nella RSI / F. Galanti. – Magi-Spinetti, 1949
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano - MI

Il 25 luglio e la MVSN / E. Galbiati. – Bernabò, 1950
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

L’Italia nella seconda guerra mondiale / G. Gorla. – Baldini e Castoldi, 1959
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Ho difeso la patria / R. Graziani. – Garzanti, 1948
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca della Fondazione Memoria della deportazione - Milano - MI

Ricordi, 1922-1946 / R. Guariglia. – ESI, 1950
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Memorie di guerra / A. Kesselring. – Garzanti, 1954
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

La resa degli ottocentomila / F. Lanfranchi. – Rizzoli, 1948
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di scienze politiche Enrica Collotti Pischel dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

OVRA / G. Leto. – Cappelli, 1951
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano - MI

La caduta degli angeli: storia intima della RSI. – Az. Edit. Italiana, 1950
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca e archivio. Civiche raccolte storiche - Milano - MI

Marzo 1934, ore dieci / U Massola. – Ed. di cultura sociale, 1950
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano - MI

Guerra diplomatica a Salò / A. Mellini. – Cappelli, 1950
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

La guerra al fronte russo / G. Messe. – Rizzoli, 1947
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano - MI

La mia armata in Tunisia / G. Messe. – Rizzoli, 1960
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Roma 1943 / P. Monelli. – Migliaresi, 1946
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca del Collegio Ghislieri - Pavia – PV
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Mussolini e il processo di Verona / R. Montagna. – E. Omnia, 1949
Biblioteca civica Ricottiana - Voghera – PV
Biblioteca di Studi Umanistici Francesco Petrarca dell'Università di Pavia - Pavia - PV

La mia vita con Benito / R. Mussolini. – Mondadori, 1948
Biblioteca comunale Lucio Mastronardi - Vigevano – PV
Biblioteca comunale centrale - Milano - MI

25 luglio / V. Napolitano. – Vega, 1944
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Marcello Soleri / R. Pansa. – Garzanti, 1948
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca di Studi Umanistici Francesco Petrarca dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Itinerario tragico / G. Pini. – Omnia, 1950
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca di scienze politiche Enrica Collotti Pischel dell'Università degli studi di Milano - Milano - MI

Mussolini, l’uomo e l’opera / G. Pini, D. Susmel. – ça Fenice, 1953-55
Biblioteca nazionale Braidense - Milano - MI

Come li ho visti io / A. Pozzi. – Mondadori, 1947
Biblioteca comunale centrale - Milano - MI

Parla Vittorio Emanuele 3. / P. Puntoni. – Palazzi, 1958
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Ambasciatore di Hitler a Vichy e a Salò / R. Rahn. – Garzanti, 1950
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Fra Londra e Mosca / J. Von Ribbentrop. – Bocca, 1954
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Mussolini l’alleato / E. von Rintelen. – Coros, 1952
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca di Studi Umanistici Francesco Petrarca dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Otto milioni di baionette / M. Roatta. – Mondadori, 1946
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Come arrivammo all’armistizio / F. Rossi. – Garzanti, 1946
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Pioggia sulla repubblica / S. Ruinas. – Corso, 1946
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI

Skorzeny: missioni segrete / P. Schmidt. – Garzanti, 1951
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Gli ultimi tempi di un regime / I Schuster. – Daverio, 1960
Biblioteca del Seminario vescovile di Pavia - Pavia – PV
Biblioteca comunale centrale - Milano - MI

Io difendo la monarchia / P. Silva. – De Fonseca, 1946
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Albergo agli Scalzi / C. Silvestri. – Garzanti, 1946
Biblioteca dell'Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea - Pavia – PV
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano - MI

Mussolini, Graziani e  l’antifascismo / C. Silvestri. – Longanesi, 1949
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca e archivio. Civiche raccolte storiche - Milano - MI

Berlino: ambasciata d’Italia,1939-1943 / L. Simoni. – Migliaresi, 1946
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Memorie / M. Soleri. – Einaudi, 1949
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca della Fondazione Istituto per la storia dell'età contemporanea - Sesto San Giovanni – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Contromemoriale / B. Spampanato. – Illustratato, 1952
Biblioteca della Fondazione Istituto per la storia dell'età contemporanea - Sesto San Giovanni – MI
Biblioteca dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri - Milano - MI

Vita sbagliata di Galeazzo Ciano / D. Susmel. – Palazzi, 1962
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Due anni di storia, 1943-45 / A. Tamaro. – Tosi, 1948. – 3 v.
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano - MI

Badoglio racconta / V. Vailati. – ILTE, 1956
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV

Badoglio risponde / V. Vailati. – Rizzoli, 1958
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca di Studi Umanistici Francesco Petrarca dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Tutte le strade conducono a Roma / L. Valiani. – La Nuova Italia, 1947
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca nazionale Braidense - Milano – MI
Biblioteca della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pavia - Pavia - PV

Affari esteri, 1943-45 / L. Villari. – Magi-Spinetti, 1949
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca di Scienze della storia e della documentazione storica dell'Università degli studi di Milano - Milano - MI

Mussolini si confessa / G. Zachariae. – Garzanti, 1948
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca comunale centrale - Milano – MI
Biblioteca Universitaria - Pavia - PV