Citazioni

La fase Orlando-Sonnino della questione adriatica, inconcludente per la questione in se, pregiudizievole per l’intesa fra le tre potenze europee, riuscì disastrosa per il clima politico italiano. La demagogia nazionalfascista non avrebbe fatto presa così larga e profonda nel popolo italiano – particolarmente nella piccola e media borghesia impiegatizia, professionale e intellettuale – se i tre di Parigi non le avessero fornito il più caloroso alimento con i loro errori di condotta interpretati, inevitabilmente, come effetti di una determinata avversione all’Italia. Né, senza i fatti e le apparenze (le seconde contano, in momenti di sobbollimento popolare, quanto e più dei primi) da cui in Italia si trasse motivo a credersi svalutati e svillaneggiati, avrebbe tanto prosperato e sarebbe divenuto gigante il fungo velenoso della “vittoria mutilata”. Fatto e parvenze che favorirono  l’ignoranza da parte dei più – accanto al deliberato nascondimento da part dei pochi mestatori – del fatto che “mutilazioni” del genere c’erano state anche nella vittoria di quella Francia, che era presa adesso particolarmente di mira dalla demagogia nazionalista italiana; mentre anche l’Italia, non meno, o forse più, della Francia, aveva conseguito il nucleo essenziale dei suoi ragionevoli “scopi di guerra”.
Pp. 74-75

Due leggende, compenetrate fra di loro così strettamente da farne una sola, si affermarono circa le fortune del fascismo e ancora oggi non sono scomparse. La prima è che il fascismo sia stato l’autore principale, e diciamo così indispensabile, della salvezza dell’Italia dal bolscevismo. L’altra che il fascismo si sia sviluppato fino al trionfo della marcia su Roma, con organica continuità, man mano che si intensificava e aveva successo codesta sua lotta antibolscevica nazionale.
Le due leggende sono entrambe frutto di falsificazione o ignoranza dei fatti fondamentali.
P. 159

Molti borghesi, specialmente giovani e reduci di guerra, che avevano condiviso in un primo tempo le speranze di intesa tra i partiti borghesi più avanzati e un socialismo riformista, ritenevano adesso la neutralità del governo nella lotta di classe, così come era intesa e praticata da Giolitti, fosse oramai incapace di garantire il rispetto delle legge e dell’ordine costituito e si rivolgevano al fascismo.
P. 168

Tuttavia, quando aveva, al principio del discorso, tracciato “il panorama generale della nazione”, questo si era ridotto sostanzialmente alle opere pubbliche: cose importanti, certo, ma non nuove e per cui non sarebbero occorsi sovvertimenti anticostituzionali e liberticidi, isole di confino, tribunali speciali con decine di anni di galera e fucilazioni.
Tutte cose che del trinomio più sotto vantato (come sosituzione fascista a quello dell’89): “autorità, ordine e giustizia”, facevano mettere seriamente in dubbio per lo meno l’ultimo termine. E non era se non scherzo e scherno grossolano l’affermare: “La libertà di cui parlano le democrazie non è che una illusione verbale”. Perché allora temerla tanto?
pp. 481-482

Così, quando Mussolini si presentò puntualmente alle 17 al re, era già un privato qualsiasi. Si sforzò di persuadere il re che il voto del gran Consiglio non aveva nessun valore deliberativo: il re invece gli disse che esso rispondeva alla volontà del paese e che era già stato nominato Badoglio al suo posto. Mussolini (secondo il racconto del re) mormorò per tre volte: “Allora tutto è finito”. E aggiunse: “E che sarà di me? E della mia famiglia?”. Il re lo rassicurò che avrebbe preso a cuore al sua incolumità personale e quella dei suoi.
P. 1049