Bisanzio e l’Occidente medievale di Giorgio Ravegnani
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Bisanzio e l’Occidente medievale di Giorgio Ravegnani
Premessa
La storia di Bisanzio a tutt’oggi non ha il posto di rilievo che meriterebbe nella vicenda del Medioevo.
I bizantini e l’Impero bizantino in realtà non sono mai esistiti se non come categoria storiografica: si trattava infatti della metà orientale dell’Impero romano, che di questo fu parte inscindibile fino a quando i destini delle due parti non iniziarono a separarsi, con un Occidente destinato a crollare sotto i barbari e un Oriente che al contrario sopravvisse per molti secoli ancora.
Bisanzio non fu una realtà astratta e un cosmo a sé stante, inseritosi chi sa come nella storia; ereditò al contrario tutto quanto era romano, senza soluzione di continuità, e lo conservò gelosamente nel corso del tempo, sia pure con gli adattamenti che il trascorrere di questo talvolta richiedeva.
I suoi sovrani si definivano imperatori romani e romani erano chiamati i loro sudditi, che rifuggivano altre designazioni, come greci o elleni, considerate dispregiative, e men che mai utilizzarono quella per loro inesistente di bizantini, valida al massimo per gli abitanti di Bisanzio, l’antica città greca che dal tempo di Costantino 1. prese il nome di Costantinopoli.
Altro pregiudizio da sfatare è che Bisanzio sia stato un mondo chiuso, anche nella ripetitiva ritualità delle sue cerimonie, lontano dall’Occidente e refrattario a qualsiasi contatto con questo.
In realtà la più che millenaria storia dell’Impero di Bisanzio ha continui punti di contatto con quella dell’Occidente, di cui molto spesso è parte integrante.
I bizantini furono presenti come dominatori soprattutto in Italia, dove restarono per più di cinque secoli, dapprima in possesso dell’intera regione, poi di parte di questa a seguito dell’invasione longobarda della penisola e infine del Meridione, in cui diedero vita a una brillante civiltà, fino a quando nell’11. secolo i normanni li cacciarono.
La memoria della loro presenza in Italia non è certo ampia come quella di Roma; non mancano tuttavia testimonianze dirette o indirette, visibili soprattutto in campo artistico, come per esempio nei celebri mosaici di Ravenna, che ne sono l’attestazione più alta.
Una volta terminato il dominio diretto, i rapporti con l’Occidente non vennero mai meno, anche se furono per lo più di natura conflittuale, come i ripetuti attacchi normanni all’impero o le crociate, che ebbero come corollario una sorda ostilità dell’Occidente nei confronti di Bisanzio.
Diverso fu almeno in parte il caso di Venezia, città nata sotto il dominio di Costantinopoli e che con questa mantenne un rapporto particolare, per lo più di collaborazione, fino almeno al 12. secolo, subendone fortemente l’influsso in diversi campi.
Nel 1204, con la quarta crociata, si raggiunse l’apice dell’ostilità occidentale all’Impero di Oriente: veneziani e cavalieri crociati, anziché dirigersi in Terra Santa, si impossessarono infatti di Costantinopoli, che fu messa a sacco, e di parte del territorio da questa dipendente.
Si formò così un Impero latino con sede nella capitale e sorsero nello stesso tempo, in Grecia e altrove, altri Stati latini che sostituirono la precedente dominazione; a questi si affiancò un dominio marittimo veneziano destinato almeno in parte a durare per parecchio tempo.
Si trattò innegabilmente di un atto di dubbia moralità, poiché Bisanzio, ancorché scismatica, era pur sempre una città cristiana; ma era discutibile anche sotto il profilo politico, perché la spedizione crociata, benedetta dal papa per andare a liberare i luoghi santi, si rovesciò al contrario su uno Stato che con gli infedeli nulla aveva a che fare.
La città imperiale venne riconquistata nel 1261 dagli esuli bizantini, che ricostruiscono così il loro impero sia pure fortemente diminuito nel territorio e minacciato dalle potenze occidentali in cerca di rivincita.
Le due vicende storiche di Oriente e Occidente continuarono, come era avvenuto in precedenza, a interferire una con l’altra, mostrandosi una volta in più come inscindibili.
Particolarmente attive in Levante divennero le repubbliche marinare di Genova e Venezia, che perseguivano le loro ambizioni di dominio per lo più ai danni di Costantinopoli, con cui erano sia alleate sia nemiche, a seconda delle contingenze del momento.
L’atteggiamento ostile dimostrato a più riprese andò però esaurendosi nel Trecento quando l’Occidente, e soprattutto Venezia, divennero più accondiscendenti nei confronti di Costantinopoli, considerata un avamposto della cristianità contro la montante marea dei turchi ottomani.
Vennero di conseguenza forniti aiuti militari, sia pure insufficienti e sporadici, ma le discordie degli Stati europei e la potenza dei turchi condussero fatalmente alla caduta dell’Impero, nonostante i disperati tentativi fatti dagli ultimi sovrani per tenerlo in vita, e questo alla fine cadde nel 1453 quando il sultano Maometto 2. si impossessò di Costantinopoli, mettendo così fine alla secolare successione di governanti romani.
Cap. 1 L’età di Giustiniano
La fine dell’Occidente romano
La caduta dell’Impero romano di Occidente, convenzionalmente datata al 476, è un avvenimento che ha impressionato più gli storici moderni di chi lo visse di persona.
Non ne sappiamo in realtà molto, perché le fonti per l’epoca sono assenti o reticenti, ma vi sono buoni motivi per credere che l’evento abbia lasciato abbastanza indifferenti i contemporanei.
Di quello che era stato l’Impero di Roma era infatti rimasta la sola penisola italiana, insieme a qualche altro frammento di territorio e da un ventennio i sovrani si succedevano senza di fatto governare quasi più nulla.
Morto Valentiniano 3. nel 455, l’ultimo esponente della dinastia teodosiana, il trono era stato conteso infatti da avventurieri di varia origine, non all’altezza del ruolo e per di più condizionati dai reali detentori del potere, ossia i generali barbari.
Subito dopo Valentiniano divenne imperatore un losco personaggio di nome Petronio Massimo, un senatore romano, che riuscì a comprare il favore dei soldati di stanza a Roma.
Insediatosi il 17 marzo del 455, finì ingloriosamente la sua esistenza un mese e mezzo più tardi quando i vandali provenienti dall’Africa, approfittando del vuoto di potere che si era creato, andarono ad assediare Roma.
Di fronte al pericolo incombente, l’imperatore non seppe pensare di meglio che fuggire: salì a cavallo e tentò di allontanarsi, ma gli andò male perché fu riconosciuto e ucciso dalla folla inferocita, che ne fece a pezzi il cadavere gettandolo nel Tevere.
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La deposizione di Romolo Augustolo è comunemente ritenuta la fine dell’Impero d’Occidente, anche se questa da alcuni è posticipata al 480, quando Giulio Nepote venne assassinato in Dalmazia.
Ma a ben guardare significò soltanto l’interruzione della successione imperiale: Odoacre, salito al potere con la forza come altri suoi predecessori, avrebbe potuto nominare un sovrano prestanome ma non lo fece, forse perché riteneva conclusa la vicenda imperiale o, perché la presenza di un sovrano poteva suscitare come in passato guerre civili pericolose per il proprio personale potere.
Per quanto a noi possa sembrare strano, inoltre, nella mentalità dei contemporanei l’impero continuava a esistere nella persona di Zenone, all’ombra della cui autorità il generale barbaro si limitava a esercitare un’autorità delegata.
Gli stessi contemporanei non avvertirono la frattura e il cambio di governo passò sotto silenzio fino al secolo successivo quando, sull’onda della riconquista giustinianea, gli storici iniziarono a rimarcarla.
Il comes Marcellino, autore di un Chronicon che giunge fino al 354, è per esempio molto preciso in merito: “l’impero romano – egli scrive infatti – perì con questo Augustolo e da quel momento in poi Roma sarebbe stata governata dai goti”.
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Teodorico governò l’Italia come re degli ostrogoti e questa sua qualifica fu riconosciuta da Costantinopoli: l’imperatore Anastasio 1. nel 497 gli trasmise le insegne imperiali che Odoacre aveva inviato a Zenone, ma ciò nonostante egli non pensò a fregiarsi del titolo di Augusto.
Il suo lungo governo fu, a giudizio di molti storici, un periodo felice per l’Italia: si mantenne nei principi stabiliti da Odoacre di rispetto della romanità e attuò nello stesso tempo una proficua collaborazione con l’aristocrazia senatoria.
Promosse inoltre importanti opere pubbliche, come il palazzo o al basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e numerose altre ancora, che diedero lustro al suo governo.
Ma l’idillio con i romani era destinato a interrompersi bruscamente quando, dopo la morte di Anastasio 1., nel 518 salì al trono Giustino 1., un anziano generale illirico sotto il quale cominciò ad avvertirsi un nuovo orientamento politico.
La conduzione della cosa pubblica, sotto Giustino 1., di fatto faceva capo al nipote Flaviano Sabbazio, che aveva assunto il nome di Giustiniano dopo essere stato adottato dallo zio.
Giustino 1, che a differenza del predecessore era un cristiano di fede ortodossa, prese provvedimenti contro il culto ariano professato da Teodorico e dai suoi goti, come dalla maggior parte dei popoli germanici.
Teodorico, già sospettoso dell’attivismo di Giustiniano e dell’aristocrazia senatoria, in cui vedeva potenziali alleati di Costantinopoli, perse letteralmente la testa, a causa forse anche dell’età ormai avanzata, e rovinò con errori madornali la politica di sostanziale moderazione seguita fino a quel momento.
Il re adottò provvedimenti contro il culto cattolico e molti romani eminenti vennero arrestati o uccisi.
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La riconquista giustinianea
Giustino 1. morì il 1. agosto del 527, quattro mesi dopo aver associato al trono Giustiniano il quale, investito da lui del rango di augusto, gli subentrò quindi automaticamente secondo la prassi costituzionale del tempo.
Giustiniano come lo zio proveniva da una modesta famiglia dell’Illirico, ma diversamente da lui, che era analfabeta, aveva studiato, soprattutto diritto e religione, per prepararsi al governo dello Stato.
Era allora un uomo brillante di quarantacinque anni, già sposato con la famosa Teodora, nonostante lo scandalo che aveva suscitato a corte l’unione del principe ereditario con un’autrice.
La figura di questo sovrano è una delle più controverse della storia e l’attività che esercitò al servizio dell’impero ebbe sicuramente del prodigioso.
Giustiniano cercò di rinnovare e, nello stesso tempo, di rafforzare lo Stato con una serie di provvedimenti e di riforme che datano per lo più ai primi anni del regno.
Si impegnò inoltre in un ambizioso programma di riconquista dei territori appartenuti all’ex Impero di Occidente, recuperandone circa un terzo con lunghi anni di guerre: portò così Bisanzio a un’estensione in seguito mai più raggiunta.
A tale programma di restaurazione della potenza romana Giustiniano fu spinto dalla necessità di ricostruire l’unità del bacino mediterraneo, in parte sfuggito al controllo imperiale, ma anche da forti convinzioni ideologiche: nonostante le sue umili origini, si sentiva profondamente romano e considerava suo dovere la riconquista dei territori imperiali perché, secondo le concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinta che tale compito gli fosse stato affidato da Dio, dal quale riteneva come ogni sovrano di Bisanzio di aver ricevuto il potere.
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Al di là delle apparenze, la conquista di Ravenna non rappresentò la fine della guerra e i goti rimasti in armi nell’Italia del Nord non occupata dai bizantini elessero un nuovo re a Pavia, apprestandosi a proseguire la lotta.
Nel corso del 540 i bizantini subirono una grave sconfitta presso Treviso e l’anno successivo, quando fu eletto re Totila dopo i brevi regni di Ildibado ed Erarico, le fortune dei goti cambiarono radicalmente.
A differenza di Vitige, Totila si dimostrò infatti un generale capace e un politico accorto.
Rinunciò all’ostinazione mostrata dal predecessore nell’assalire le città fortificate, con cui aveva inutilmente logorato le forze dei suoi, e preferì ottenerne la resa con trattative; una volta conquistata la piazzaforte, ne abbatteva le mura per evitare che gli imperiali potessero nuovamente servirsene.
Cercò inoltre di ovviare a un altro punto debole dei goti, che aveva ugualmente favorito il successo di Bisanzio, e mise in campo una flotta in grado di intercettare le navi nemiche e di condurre azioni di pirateria nelle zone costiere dell’impero: nella prima fase del conflitto, a parte un intervento in Dalmazia, la flotta ostrogota era stata infatti assente dal teatro operativo, consentendo a Bisanzio il dominio del mare e la conseguente sicurezza dei rifornimenti.
Come politico, Totila si adoperò per dare un volto più rispettabile ai suoi e per dividere il campo avversario.
Evitò il più possibile la brutalità, che di norma si accompagnava alle operazioni militari, e al contrario si sforzò di alleviare i disagi delle popolazioni civili.
Rendendosi conto, inoltre, che i peggiori nemici dei goti erano gli aristocratici romani, naturali alleati di Bisanzio, concepì un progetto per stroncarne il potere con uan nuova politica agraria volta all’esproprio dei latifondi, che costituivano al principale base economica dell’aristocrazia.
Nei territori riconquistati dai goti, infatti, passarono al fisco regio non solo le imposte ordinarie ma anche le rendite dei latifondi e, per di più, i servi vennero sistematicamente affrancati per entrare nell’esercito ostrogoto.
Non furono, come spesso idealisticamente si è voluto credere, provvedimenti rivoluzionari sotto il profilo sociale, ma più probabilmente si trattò di un calcolo utilitaristico per rafforzare il suo esercito dissanguato.
Pag. 23-24
Narsete ebbe i pieni poteri di generalissimo e un’ampia italiana: disponibilità di denaro, utile per approntare un esercito e per saldare gli arretrati della paga all’armata italiana; partì quindi da Salona nella primavera del 552, con circa trentamila uomini, dei quali una buona parte erano ausiliari barbarici.
La condotta delle operazioni fu del tutto opposta a quella di Belisario, che si muoveva con grande prudenza, poiché Narsete puntò allo scontro risolutore con l’avversario.
Raggiunse l’Italia via terra, non avendo una flotta sufficiente per le sue truppe, passò lungo la costa veneta e arrivò a Ravenna all’inizio di giugno; di qui, senza curarsi di assediare Rimini e altre piazze in mano ai goti, proseguì incontro a Totila.
Il re goto si mosse da Roma verso il nemico e lo scontro ebbe luogo a Busta Gallorum (o Tagina), in prossimità di Gualdo Tadino, terminando con la completa disfatta dei goti.
I barbari furono messi in fuga, con il loro stesso re, che venne raggiunto e ucciso da un ufficiale bizantino.
La vittoria imperiale non comportò tuttavia la resa dei goti, e i superstiti elessero a Pavia un altro re nella persona di Teia, il quale scese a sud per combattere Narsete, che nel frattempo aveva ripreso Roma, ma venen sconfitto e ucciso nel corso dello stesso anno ai monti Lattari; con la sua morte ebbe fine il regno ostrogoto.
Gli sconfitti si sottomisero e, a quanto pare, ebbero dai vincitori il permesso di tornare nelle loro sedi.
Pag. 26-27
Il collasso demografico, a seguito della guerra, carestie ed epidemie, doveva infine avere assunto una dimensione massiccia e gli stessi ostrogoti avevano subito un ridimensionamento tale che nell’arco di pochi anni scomparvero come componente demica.
Il volto dell’Italia romana, mantenutosi brillante fino all’inizio della guerra soprattutto grazie all’opera di Teodorico, si era modificato irreparabilmente, annunciando i secoli bui che sarebbero seguiti fino alla ripresa in età comunale.
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Cap. 2 L’Italia esarcale
L’invasione longobarda
Giustiniano morì nel 565.
Fu sicuramente un uomo straordinario, di quelli che, come Cesare, Napoleone o altri, hanno lasciato un’impronta duratura delle propria attività.
Ancora oggi il Corpus Iuris Civilis resta alla base della nostra cultura giuridica e allo stesso modo la chiesa di Santa Sofia a Istanbul, anche se danneggiata dal tempo e dagli uomini, è un monumento imperituro alla sua grandezza.
Ma per chi dovette subentrargli al governo le cose furono meno semplici.
I suoi sogni di gloria avevano si portato alla riconquista più o meno di un terzo dell’ex Impero di Occidente, ma le devastazioni nei paesi riportati all’Impero erano state imponenti e, soprattutto, la forza militare di Bisanzio, perennemente in crisi, si rivelava insufficiente a coprire un territorio così ampliato.
I nemici erano in agguato e gli attacchi all’impero furono concentrici.
La prima grande guerra si accese con i persiani a causa della politica sconsiderata del successore di Giustiniano, il nipote Giustino 2., che nel 572 li attaccò infrangendo la pace faticosamente stipulata dieci anni prima.
L’esito, dopo qualche successo iniziale, fu disastroso e il conflitto si trascinò per un ventennio, sottraendo da altri fronti le migliori energie dell’Impero.
Altrove furono invece i bizantini a essere attaccati e a doversi difendere.
In Spagna la controffensiva visigota mise in difficoltà l’Impero, che continuò a perdere terreno finché negli anni Venti del 7. secolo dovette abbandonare la regione.
L’Africa, cronicamente agitata da rivolte indigene, andò interamente perduta con l’irruzione degli arabi e la conquista islamica di Cartagine nel 698.
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I rapporti con Narsete e la coincidenza fra la sua rimozione e l’invasione longobarda hanno fatto sorgere nel Medioevo la cosiddetta “leggenda di Narsete”, secondo la quale gli invasori sarebbero stati chiamati in Italia dall’eunuco che voleva così vendicarsi dei torti subiti da Costantinopoli.
La leggenda, peraltro assai tarda rispetto agli avvenimenti, potrebbe tra l’altro spiegare la mancata reazione degli imperiali che, almeno apparentemente, vennero travolti dai longobardi senza opporre resistenza.
In realtà l’inerzia dei bizantini, malgrado la scarsità di fonti storiche, può essere spiegata diversamente e attribuita a cause concomitanti, come lo spopolamento dovuto a una pestilenza che aveva imperversato in alta Italia poco prima dell’invasione longobarda, l’impegno delle truppe mobili di Bisanzio su altri fronti, l’assenza di un comando militare centralizzato a seguito della rimozione di Narsete, che potrebbe aver paralizzato la risposta degli imperiali, o anche un possibile accordo iniziale con le autorità bizantine per utilizzar ei nuovi arrivati contro i franchi, accordo reso poi nullo dall’aggressività longobarda.
Non va infine sottovalutata la tradizionale strategia difensiva dei bizantini per cui, data la scarsità di soldati normalmente disponibili, si preferiva evitare lo scontro campale con gli invasori, attendendo che si ritirassero spontaneamente dal territorio imperiale o che fosse possibile allontanarli in altro modo.
Pag. 34
La riforma amministrativa fu attuata attraverso l’introduzione di un nuovo funzionario, con sede a Ravenna, che aveva il titolo di esarca.
Su questa innovazione, tradizionalmente attribuita a Maurizio, a dire il vero i pareri degli storici non sono concordi: è vista infatti sia come una intenzionale come una semplice riproposizione del “generalissimo con pieni poteri, già esistente con un nome diverso”.
L’esarca ripristinava infatti la figura dello strategos autokrator (così definito nelle fonti erudite) creata nel 535 da Giustiniano al fine di conferire a Belisario la suprema autorità per la riconquista dell’Italia; la novità consisteva semmai nel fatto che la critica diveniva permanente, da provvisoria quale era nata, e che l’esarca si trovava ora in uan situazione ben diversa, con i nemici insediati stabilmente in Italia e l’impossibilità già ampiamente provata di cacciarli.
L’esarca era essenzialmente un governatore militare che esercitava nello stesso tempo un potere molto ampio anche nelle competenze civili, per cui si disse di lui che aveva il regno e il principato dell’Italia intera (regnum et principatus totius Italiae).
Coem già nell’epoca precedente, l’autorità civile non fu abolita, ma nella pratica quanto ne restava assunse un ruolo sempre più secondario di fronte all’elemento militare, la cui importanza andò crescendo nel corso del tempo fino a divenire predominante.
Il prefetto d’Italia, in particolare, si mantenne fino almeno alla metà del 7. secolo e, accanto a lui, si hanno isolate testimonianze sul funzionamento delle vecchie strutture dell’amministrazione civile.
La preminenza delle necessità difensive, in un’Italia che di fatto si era trasformata in una cittadella assediata, rovesciò tuttavia le tradizionali divisioni di competenze, in linea d’altronde con un generale processo di militarizzazione che in seguito si sarebbe esteso a tutto l’impero, ma che per il momento trovò espressione nell’esarcato d’Italia e in quello costituito negli stessi anni in Africa.
Le autorità civili si trovarono in una posizione subordinata rispetto ai capi militari, che esercitavano il loro potere più o meno legittimo in tutti i rami dell’amministrazione pubblica.
Pag. 44-45
Dopo la disastrosa spedizione di Baduario, i bizantini non affrontarono più i loro nemici in campo aperto.
Lo stato di guerra fu pressoché continuo, salvo occasionali remissioni, ma sembra più che altro essersi risolto in operazioni locali di non grande respiro; sta di fatto comunque che, con una lenta azione di logoramento, i longobardi sottrassero all’Impero sempre più territori fino a portarlo al collasso nell’8. secolo.
Alle carenze dell’apparato militare supplivano un’attività diplomatica efficace, spesso coronata da successo, volta a cercare alleanze esterne o a corrompere i duchi longobardi, nonché la militarizzazione delle strutture amministrative, che bene o male permise la sopravvivenza dell’esarcato per più di un secolo e mezzo.
I longobardi, per parte loro, attuarono per lo più una guerra per bande, volta a conquistare singoli punti e a praticare un saccheggio sfrenato.
Pag. 49
Il 590 e il successivo furono anni di svolta per la storia dell’Italia bizantina.
L’Impero rinunciò alle velleità aggressive, mentre il re Autari, morto il 3 settembre del 590, venne sostituito dal duca di Torino Agilulfo, che ne sposò la vedova Teodolinda e ottenne nel maggio del 591 l’investitura dai capi longobardi.
Morì anche papa Pelagio 2. e il papato passò al più energico Gregorio 1. (3 settembre 590), destinato a lasciare una forte impronta di sé.
I grandi ducati longobardi di Spoleto e di Benevento infine passarono in mano a forti personalità: Ariulfo a Spoleto e, probabilmente nel 591, Arichis a Benevento.
Pag. 54
San Gregorio magno si rendeva conto dell’impossibilità di contenere la guerra per bande de i longobardi con le esigue forze dell’Impero e aspirava a concludere uan pace duratura con i nemici.
Di tutt’altra opinione era l’esarca Romano, per il quale il papa aveva una decisa antipatia, che ragionava come un militare era intenzionato a mantenere le posizioni strategiche in Italia.
Verso la fine del 592, senza avvertire il papa, Romano partì da Ravenna con le sue forze, raggiunse via mare Roma e di qui, prelevando i soldati che vi trovò, andò a sbloccare il corridoio viario interrotto dai longobardi di Spoleto.
Il suo intervento sospese le trattative avviate da Gregorio 1. e provocò a tal punto i nemici che nel 593 il re Agilulfo in persona si mosse da Pavia per riprendere Perugia, il cui duca era passato dalla parte dell’Impero, e andare ad assediare Roma.
Romano non si mosse da Ravenna e la città fu difesa alla meglio dalle poche forze presenti; ancora una volta però l’onere maggiore ricadde sul papa, che convinse il re a ritirarsi al prezzo di cinquecento libbre d’oro per mettere fine alle devastazioni.
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Nel 744 Liutprando si sentì abbastanza forte per dare il colpo definitivo all’esarcato: ne superò i confini occupando Cesena e apprestandosi ad assediare Ravenna.
Eutichio, imponente a fermarlo, chiese aiuto al papa e Zaccaria, dopo il fallimento della delegazione inviata, andò personalmente a incontrare il re a Pavia, ottenendo di far cessare le ostilità in attesa che l’intera questione fosse trattata a Costantinopoli.
Ma era solo uan breve tregua: il successore di Liutprando, Ratchis, nonostante la pace conclusa con il papa, nel 749 attaccò la Pentapoli.
Il papa intervenne e Ratchis, che era un buon cristiano, lo ascoltò; il fratello e successore Astolfo ebbe però meno scrupoli e nel 750 si impadronì di Ferrara, di Comacchio e dell’Istria.
Nell’estate del 751, se non prima, si ebbe l’epilogo, anche se non si sa in che modo avvenne.
Sappiamo soltanto che il 4 luglio di quell’anno nel palazzo di Ravenna, che già era stato dell’esarca, il re vincitore emise un diploma a favore dell’abbazia laziale di Farfa.
Era così finito in sordina l’esarcato d’Italia e neppure si sa che fine abbia fatto Eutichio, di cui le fonti non fanno più menzione.
Pag. 62
L’antagonismo fra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, e di conseguenza gli imperatori, che della loro chiesa erano il braccio armato, aveva radici profonde e si manifestò in tutta la sua virulenza durante il dominio bizantino.
Nelle grandi controversie teologiche del quinto secolo Roma si era schierata con Costantinopoli sulla questione del nestorianesimo, la dottrina secondo cui in Cristo vi sarebbe stata solo la natura umana, e lo stesso fece poco più tardi sul monofisismo, per cui al contrario in Cristo sarebbe esistita soltanto la natura divina.
Nestorianesimo e monofisismo vennero sconfitti rispettivamente al Concilio di Efeso nel 431 e a quello di Calcedonia del 451 e la cosa per il momento finì lì.
Si trattava comunque di contrasti dottrinali, mentre nel 484 la situazione assunse una piega più preoccupante.
L’imperatore Zenone pubblicò l’Henotikon, un editto in materia di fede, che cercava una conciliazione fra ortodossi ed eretici, ma Roma si oppose e si arrivò a uno scisma fra le due sedi episcopali che fu detto scisma di Acacio, dal nome del patriarca di Costantinopoli, e che durò fino al 519, quando venne ricomposto da Giustino 1.; ma con l’arrivo dei bizantini in Italia le cose andarono ancora peggio.
Pag. 62-63
Il potere effettivo era ormai passato alla sede romana e, una volta scomparso il dominio bizantino a Ravenna, papa Stefano 2. con grande spregiudicatezza ricorse all’alleanza con i franchi contro i longobardi che minacciavano i suoi domini.
Nel 752 arrivò a Roma una ambasceria imperiale al papa e al re Astolfo di restituire i territori usurpati.
Stefano 2., forse stupito di tanta mancanza di realismo, fece proseguire l’ambasciatore fino a Ravenna.
Astolfo a sua volta non aderì, come è ovvio, alla sua richiesta e lo rimandò a Costantinopoli insieme a un proprio inviato, cui si aggiunsero poi messi papali, per portare proposte di cui ignoriamo il contenuto.
Il papa supplicò Costantino 5. di liberare Roma e l’Italia, ma di fronte all’inerzia di Costantinopoli maturò un progetto rivoluzionario, prendendo contatto con il re dei franchi Pipino il Breve e chiedendo il suo aiuto contro i longobardi che premevano su Roma.
La sua determinazione fu rafforzata dal ritorno dell’ambasceria di Costantinopoli con l’ordine per il papa di recarsi presso il re longobardo e ottenere la restituzione di Ravenna e delle città da questa dipendenti.
Il papa si prestò a eseguire la richiesta alquanto bizzarra del sovrano ma, dopo il fallimento dell’incontro con Astolfo, proseguì per la Francia, dove all’inizio del 754 ebbe con Pipino il famoso incontro di Ponthion, in cui riconobbe il regno da lui stabilito in Francia in cambio dell’impegno del re a intervenire in Italia e a consegnare ampi territori alla sede romana.
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Cap. 3. Bisanzio nell’Italia imperiale
La fine dell’esarcato ebbe come conseguenza la dissoluzione di gran parte dei domini bizantini in Italia, anche se il tracollo non fu immediato.
Nel Nord l’Impero manteneva almeno nominalmente il controllo su Venezia, mentre l’Istria caduta in mano longobarda fu recuperata nel 774 per poi essere perduta di nuovo a vantaggio dei franchi alcuni anni dopo.
Scendendo al Centro-Sud, il ducato di Roma di fatto già da tempo era passato sotto il dominio dei papi, a differenza di quello di Napoli che restò ancora a lungo nell’orbita dell’Impero.
Al momento della caduta di Ravenna era al potere un duca lealista e tali furono anche i suoi immediati successori.
Il processo di diversificazione da Costantinopoli era comunque in atto e anche qui, come sarebbe accaduto a Venezia, il distacco fu graduale e senza scosse violente.
Dopo l’827, quando gli arabi invasero la Sicilia, e di conseguenza il governatore dell’isola non ebbe più la possibilità di intervenire negli affari locali, la città si emancipò sempre più adottando anche una propria politica estera, talvolta in contrasto con l’Impero.
In quegli stessi anni, inoltre, si svincolarono progressivamente dal ducato napoletano, di cui erano stati parte integrante, i centri di Amalfi e di Gaeta, che si diedero governi autonomi.
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L’epilogo della vicenda, di cui ormai i bizantini erano divenuti spettatori, si ebbe nel 774 allorché Carlo Magno, rispondendo all’appello del papa Adriano, scese in Italia per combattere i longobardi che di nuovo si erano fatti minacciosi in spregio ai trattati sottoscritti.
I longobardi furono sconfitti e il re Desiderio fu fatto prigioniero, mentre il figlio Adelchi fuggiva a Costantinopoli.
Finiva così il loro regno, che venne aggregato a quello franco.
Nel 774, a Roma, Carlo Magno depose solennemente sulla tomba di San Pietro un diploma di donazione di località italiane, che ampliava quella già fatta da suo padre Pipino: anche se nella pratica parte dei territori concessi non finì sotto il dominio dei papi, ciò che era stato bizantino nel centro e nel nord della penisola passava definitivamente sotto il controllo della chiesa romana.
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La Sicilia imperiale non ebbe particolari problemi per parecchi anni; nell’827 però entrò nell’occhio del ciclone quando gli arabi provenienti dalla Tunisia sbarcarono in giugno a Mazara.
L’isola a partire dalla metà del 7. secolo aveva già subito incursioni islamiche, ma questa volta si trattava di un’invasione vera e propria.
L’emiro Ziyadat Allah aveva dato seguito alle richieste di un losco ufficiale, il turmarca Eufemio, che mirava a costituirsi un dominio personale con l’appoggio degli arabi, e aveva inviato un corpo di spedizione di circa diecimila uomini nonostante i trattati di pace che legavano gli aghhlabiti a Bisanzio.
Un mese più tardi gli invasori si scontrarono con i bizantini probabilmente a ovest di Corleone e li misero in fuga.
Nonostante questo successo, tuttavia, la loro conquista si rivelò molto lenta e difficile.
Dopo un fallito assedio a Siracusa, gli arabi si riversarono all’interno conquistando numerosi centri; andarono poi ad assediare Palermo che capitolò nel settembre dell’831 e divenne la loro capitale.
Dopo alcuni anni di relativa inattività, ripresero l’offensiva in grande stile, arrivando nell’839 a dominare l’intera parte occidentale dell’isola.
Le operazioni proseguirono quindi con l’assedio e la conquista di Messina, fra 842 e 843, di Modica nell’845, l’anno successivo di Lentini, i cui difensori vennero sterminati, e di Ragusa che si arrese senza combattere nell’848.
Fu quindi la volta di Enna che fu presa nell’859 dopo più di venticinque anni di tentativi andati a vuoto.
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Una volta liquidato il regno longobardo, le ambizioni di Carlo Magno si estesero anche al ducato di Benevento sino ad allora rimasto indenne.
Il duca Arechi 2., che dopo la caduta del regno longobardo aveva assunto il titolo di principe, cercò di destreggiarsi fra i bizantini, i franchi e la chiesa: così, quando Carlo Magno gli impose la propria sovranità, si rivolse a Bisanzio in cerca di aiuto.
A Costantinopoli regnava allora il giovane Costantino 6., ma di fatto il governo reale era nelle mani della madre Irene, che alcuni anni più tardi si sarebbe sbarazzata del figlio facendolo accecare e diventando così la prima delle tre imperatrici bizantine.
Irene aveva seguito inizialmente una politica di amicizia con i franchi acconsentendo al fidanzamento di Costantino 6. con Rotrude, figlia di Carlo Magno, ma in seguito si risolse a intervenire in favore di Arechi 2. avviando le trattative per un accordo che prevedeva di riportare con le armi sul trono di Pavia Adelchi, figlio di Desiderio e cognato dello stesso Arechi, in cambio del riconoscimento della sovranità imperiale: per parte sua Arechi avrebbe ottenuto la dignità di patrizio e il ducato di Napoli, verso il quale da tempo i longobardi avevano mire espansionistiche.
Quando però nel 787 giunse a Benevento un’ambasceria imperiale per consegnargli le insegne della dignità, Arechi 2. era già morto e, malgrado la tendenza filoimperiale della vedova Adelperga, il figlio e successore Grimoaldo 3. dovette adeguarsi alla politica di Carlo Magno, del quale era stato ostaggio.
Di conseguenza la spedizione promessa da Irene, arrivata troppo tardi in Calabria, non poté più contare sull’appoggio dei longobardi di Benevento.
Le forze imperiali, al comando del sacellario e logoteta dello stratiotikon Giovanni e di Adelchi, che a Bisanzio aveva assunto il nome greco di Teodoto, pur rinforzate dai contingenti messi a disposizione dallo stratego di Sicilia, furono affrontate nel 788 da longobardi e franchi coalizzati e subirono una grave sconfitta perdendo in battaglia anche il loro comandante.
Sebbene fosse stato costretto al vincolo di vassallaggio, Grimoaldo 3. si affrancò presto dalla soggezione a Carlo magno riuscendo a mantenere l’indipendenza del principato, malgrado i tentativi del figlio di Carlo per sottometterlo.
I bizantini furono invece paralizzati dalla sconfitta subita e non ebbero la forza di riprendere l’iniziativa.
Carlo Magno, nell’802, tentò un’impossibile riconciliazione con Bisanzio chiedendo in sposa l’imperatrice Irene, ma le trattative si arenarono per l’improvvisa destituzione di questa e il successore Niceforo 1. adottò una linea politica di chiusura ai franchi, il cui esito fu il conflitto combattuto nelle lagune veneziane.
La pace di Aquisgrana, conclusa nell’812 durante il regno di Michele 1., e il riconoscimento sia pure parziale del nuovo impero franco allentarono tuttavia le tensioni e le conseguenze si fecero avvertire anche in Meridione con un breve periodo di stabilità.
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La controffensiva iniziò nell’976, quando il governatore imperiale di Otranto si impossessò di Bari, e proseguì decisamente nell’880 quando i bizantini sbarcarono in Calabria un consistente esercito.
L’armata imperiale, muovendosi di conserva con la flotta, che sconfisse in prossimità di Punta Stilo le navi saracene, marciò lungo la costa della Calabria orientale per raggiungere la valle dei Crati e proseguire alla volta di Taranto, riconquistando quasi tutte le fortezze in mano al nemico in Calabria e nella Puglia meridionale.
Si scontrò poi con gli arabi vicino a Taranto, subendo una parziale sconfitta con la morte di uno dei generali, ma ciò non impedì la conquista della città e la cattura della guarnigione musulmana.
L’offensiva riprese nell’882 o 883 con l’invio di un nuovo esercito dall’Oriente, che non ottenne grandi risultati, e ancora nell’885 facendo affluire altri rinforzi.
Il comando dell’esercito imperiale in questa circostanza fu assunto da Niceforo Foca, esponente dell’aristocrazia militare che si andava affermando a quell’epoca e uno dei più valenti generali del tempo.
Niceforo Foca eliminò le ultime sacche di resistenza araba in Calabria e, più con la diplomazia che con la forza, arrivò anche all’obiettivo di ricongiungere i domini in Calabria alle conquiste pugliesi sottomettendo i longobardi che vi erano stanziati.
L’accorta politica del generale imperiale e la moderazione da lui dimostrata gli valsero la riconoscenza delle popolazioni locali, da lui liberate dal dominio arabo, al punto che edificarono una chiesa dedicata a san Foca in ricordi dei suoi meriti.
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I bizantini davano grande importanza al dominio sull’Italia meridionale; l’impegno militare messo in campo fino a quel momento iniziò tuttavia ad affievolirsi sotto i successori di Basilio 1., a causa soprattutto dell’impegno bellico preminente su altri fronti.
Le regioni del Sud dovettero così per lo più contare sulle forze militari locali e andarono soggette a nuove e ripetute incursioni arabe e a ribellioni dei longobardi riottosi alla sottomissione.
Ai nemici tradizionali si aggiunsero poi i pirati slavi che nel 926 saccheggiarono Siponto, disperdendo in prossimità di Termoli una flottiglia imperiale, e, nel 947, una scorreria degli ungari, che già qualche anno prima avevano devastato la Campania.
I territori del meridione in sostanza furono come una cittadella assediata da più parti: nonostante le numerose sconfitte subite da arabi o da longobardi, i bizantini riuscirono però a mantenere intatto il proprio dominio.
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La disfatta di Ottone 2. avvantaggiò il governo bizantino nel secolare confronto con gli arabi.
La morte dell’emiro nella stessa battaglia in cui su sconfitto l’imperatore germanico, e il conseguente ritiro in Sicilia delle forze arabe, concessero infatti qualche anno di respiro ai temi italiani.
Fu comunque una tregua di breve durata e già nel 986 ripresero le incursioni, la più clamorosa delle quali si ebbe nel 1002 con l’assedio di Bari per terra e per mare da parte di un consistente esercito musulmano.
L’assedio durò dai primi giorni di maggio al 20 settembre, quando arrivò uan flotta veneziana comandata dal doge Pietro 2. Orseolo, che rifornì la popolazione affamata e in pochi giorni contribuì a liberare la città.
L’intervento a Bari offrì al doge Orseolo una buona occasione per un salto di qualità nei rapporti con la corte imperiale: oltre ai vantaggi politici che Venezia ricavò dalla sconfitta degli arabi, infatti, la città lagunare venen ricompensata con un importante matrimonio diplomatico e la dignità nobiliare di patrizio per Giovanni Orseolo, figlio del doge in carica e da lui associato al potere.
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La politica conciliante di Costantinopoli non fermò i normanni, che mantennero le conquiste fatte e iniziarono a espandersi sistematicamente in Puglia e in Lucania, avvicinandosi alla Calabria dove, a nord delle valli del Crati, si stanziò con il suo seguito uno dei numerosi figli di Tancredi d’Altavilla, quel Roberto il Guiscardo che negli anni a venire sarebbe divenuto il capo riconosciuto della sua gente.
Argiro, che era stato chiamato nel 1045 a Costantinopoli e qui era rimasto per alcuni anni, fu rimandato in patria dal governo bizantino con l’ordine di usare ogni mezzo diplomatico a disposizione per risollevare le sorti dell’impero.
Sbarcò quindi ad Otranto nel 1051, prendendo poi possesso di Bari, con fatica per l’ostilità della fazione filo normanna, ma non arrivò ad alcun risultato e si decise quindi a giocare la carta estrema inviando un’ambasceria a papa Leone al fine di concordare un’azione contro il nemico comune.
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L’ascesa del Guiscardo, che si stava affermando fra i capi normanni, divenne poi irresistibile quando nel 1059, con un trattato concluso a Melfi, ottenne da papa Niccolò 2. l'investitura a duca di Puglia, Calabria e Sicilia in cambio del giuramento di fedeltà alla chiesa romana.
Si stava infatti profilando lo scontro fr ail papato e l’impero germanico e, con la consueta spregiudicatezza, la politica papale si orientò verso l’unica potenza in grado di sostenere le proprie aspirazioni, abbandonando al suo destino il meridione imperiale.
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Nelle regioni del nord e del centro Italia i bizantini hanno lasciato scarsi ricordi della loro presenza, mentre al sud questi sono in numero di gran lunga maggiore.
I motivi della diversità sono essenzialmente due: la maggiore permanenza in termini di tempo dei dominatori al sud e le condizioni degradate di vita in cui si trovò l’esarcato, stretto in una situazione di assedio permanente, che non consentì il dispiegarsi di forme evolute di civiltà.
Bisogna inoltre distinguere, quando si parla di testimonianze bizantine in Italia, fra la presenza nei nostri istituti culturali di numerosissimi oggetti arrivati dall’impero (come monete, sigilli, miniature, marmi, icone o altri ancora), di cui spesso si ignorano la provenienza esatta e le modalità di acquisizione, e i manufatti direttamente prodotti dai bizantini in Italia, che sono in quantità di gran lunga inferiore.
Lo stesso poi vale per le altrettante numerose opere d’arte di imitazione bizantina, di cui il patrimonio culturale italiano è molto ricco.
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A Iesolo infine un’iscrizione di produzione locale, incisa nella fronte superstite di un sarcofago, ricorda un Antonino tribuno sepolto insieme alla moglie.
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Nel meridione e nelle isole le testimonianze, lo si è visto, sono più ampie e varie: ne basta un breve panorama per rendere l’idea.
Il dominio bizantino nelle regioni del sud, si è detto, fu più solido e duraturo di quanto non sia stato nelle altre parti della penisola; più forte fu inoltre il legame culturale che, se si eccettua il caso anomalo di Venezia, si mantenne spesso anche al di là dell’effettivo controllo sul territorio.
Il rapporto particolare che soprattutto la Puglia e la Calabria ebbero con Bisanzio è determinato, in termini di memoria visiva, in primo luogo dai numerosi edifici di culto ancora esistenti, ma anche dalla sopravvivenza di minoranze linguistiche greche, legate probabilmente in gran parte all’immigrazione di popolazioni ellenofone provenienti da Bisanzio.
Attualmente esistono infatti isole linguistiche greche, riconosciute dallo Stato italiano con le disposizioni a tutela delle minoranze linguistiche, ubicate in Puglia (nove comuni), in Calabria (quindici comuni) e in Sicilia (uno soltanto).
Vi si parla un’idioma che ha forti caratteri di affinità con il neogreco e viene comunemente definito grecanico per l’area calabrese e griko i grico per quella salentina, ovvero “italiano meridionale”.
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La presenza di Costantinopoli trovò espressione per secoli nelle numerose chiese dell’Italia meridionale, in particolare nel Salento, edificate per lo più a opera di monaci orientali che popolarono la regione.
Il ricordo di Bisanzio in questo caso è ora rimasto soprattutto nelle cripte e negli ipogei, poiché nel corso dei secoli le chiese sono state modificate o sostituite da altre soluzioni che ne hanno alterato l’aspetto iniziale.
Un esempio tangibile di sopravvivenza della forma originaria è dato dalla chiesa di san Pietro di Otranto, databile a quando sembra al 9.-10. secolo, che si presenta nei caratteri dell’architettura religiosa dell’Impero d’Oriente e nelle tre absidi mostra affreschi in stile bizantino.
A Carpignano Salentino (provincia di Lecce) si ha un caso particolare con la cripta di Santa Cristina (o della Madonna delle Grazie) ubicata in piazza Madonna delle Grazie e scavata nella roccia.
Santa Cristina risale al 10. secolo e fu probabilmente la chiesa più importante dell’antico centro.
La cripta conserva gli affreschi più antichi del Salento e, cosa singolare, le iscrizioni ivi presenti tramandano i nomi dei committenti, dei pittori e le date di esecuzione.
Nell’intero ciclo pittorico, uno dei più cospicui e dei meglio conservati del Salento, spiccano per importanza l’Annunciazione e il Cristo Pantokrator del pittore Teofilatto, cha data al mese di maggio del 959, il trittico del pittore Eustazio, del mese di maggio del 1020; l’affresco del pittore Costantino, del 1054-55; i dipinti della tomba ad arcosolio (datati tra il 1055 e il 1075, quindi agli ultimi tempi della dominazione bizantina in Puglia), in cui si conserva un epitaffio in versi dodecasillabi, , noto come iscrizione di Stratigulis, fatto eseguire dal padre del giovane defunto.
La Calabria ebbe un rapporto molto stretto con il mondo bizantino e ortodosso.
In questa regione non solo fu determinante la componente demografica di lingua e di cultura greca, ma vi si radicò anche un’intensa spiritualità, alimentata da monasteri e chiese sparsi nel suo territorio.
Tra queste ultime merita una menzione particolare per la sua singolarità la Cattolica di Stilo (ubicata sulle falde del monte Consolino), così chiamata secondo la nomenclatura bizantina perché appartenente al rango delle chiese munite di battistero.
La Cattolica, destinata al culto greco e convertita nel 577 al quello latino, presenza un’architettura tipica del periodo medio bizantino, con pianta a croce greca inscritta in un quadrato, e mostra una caratteristica forma cubica con all’interno tre absidi destinate alla preparazione e alla realizzazione della liturgia.
I muri dell’edificio erano ricoperti interamente di affreschi, di cui restano avanzi.
Assai simile alla Cattolica di Stilo, per forma e per la presenza di tre absidi, è la chiesa di San Marco che sorge all’interno della città di Rossano, edificata introno al 10. secolo per servire come luogo di culto a uso dei monaci che vivevano nelle sottostanti grotte di tufo.
Presenta lo schema tipicamente bizantino della croce greca inscritta in un quadrato e sormontata da cinque cupole; all’interno è particolarmente rilevante un affresco superstite dell’originaria decorazione con la Vergine e il Bambino.
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Il fenomeno dell’insediamento rupestre legato alla presenza bizantina, attestato in Puglia e in Basilicata, si verifica anche nella Sicilia sud-orientale e il riferimento più importante in questo caso è a Pantalica (in provincia di Siracusa), dove la presenza di abitati è attestata da gruppi di villaggi scavati nella roccia e dove si trovano i santuari di San Micidiario, san Nicolicchio e del Crocifisso.
Il primo, parte di un villaggio bizantino di circa centocinquanta abitazioni, mostra all’interno tracce di affreschi e iscrizioni, fra cui meglio visibili un Pantokrator fiancheggiato da due angeli e un’altra figura che dovrebbe essere san Mercurio.
San Nicolicchio è un villaggio più piccolo che ha al suo centro l’oratorio, anch’esso con tracce di affreschi in cui si riconoscono sant’Elena e santo Stefano, databili pare al 7. secolo.
La grotta del Crocifisso, utilizzata come chiesa, mostra i resti di una Crocifissione e le figure di san Nicola e santa Barbara.
A questi si aggiungono la grotta di San Pietro presso Buscemi, il cui primo utilizzo potrebbe datare al 5.-7. secolo, le rovine del monastero rupestre di San Marco a Noto e l’oratorio delle catacombe si Santa Lucia a Siracusa, quest’ultimo fondamentale per la conoscenza della pittura bizantina in Sicilia.
La chiesa di Santa Lucia extra moenia, nel cui portico è collocato l’accesso alle catacombe, venne infatti edificata in età bizantina sul luogo del martirio della santa, ma fu poi ricostruita al tempo dei normanni e completamente rifatta a fine Seicento.
Gli affreschi dell’8. secolo a loro volta furono coperti da malta nel Quattrocento allorché gran parte dell’oratorio venne distrutta per far posto a uan cisterna: grazie però a un recente intervento di restauro oggi sono ancora visibili nella volta, nella parete sud-est e nell’abside.
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La Sicilia orientale offre ugualmente numerose testimonianze di epoca bizantina.
A Cava d’Ispica, la valle fluviale nell’altopiano ibleo fra Modica e Ispica, sono presenti testimonianze di civiltà rupestre, tra cui la grotta dei Santi, in cui si vedono tracce di pitture di trentasei santi e di iscrizioni greche (con una santa abbigliata da imperatrice); il santuario di San Nicola, detto anche della Madonna, con altri affreschi; i ruderi della chiesa di San Pancrati, l’unico esempio di costruzione non rupestre della Cava; il complesso di Santa Alessandra, comunemente ritenuto un monastero, e altri minori, in parte anche franati, utilizzati dagli asceti d’epoca bizantina.
A Kaukana, località del comune di Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa, l’area archeologica mostra i ruderi dell’abitato di epoca tardo romana e bizantina, mentre la Cittadella dei Maccari, località a sud dell’area naturalistica di Vendicari presso Noto, è un villaggio bizantino sorto nel 6. secolo, dove si trovano fra l’altro le rovine di una grande basilica detta “Trigona”, perché possiede tre absidi, che si presenta come un caseggiato agricolo; vicino a questa sorgono diverse catacombe dello stesso periodo, resti di abitazioni e altri edifici, segno anche della vitalità dell’antico centro commerciale.
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Nell’altra grande isola infine l’archeologia ha conseguito rilevanti risultati nell’esplorazione del passato bizantino, ancorché in genere piuttosto specialistici: si segnala a questo proposito il recupero di un’ottantina di sigilli nel sito di San Giorgio (comune di Cabras), dove sorgeva una chiesa dedicata al santo, pertinenti a cancellerie ecclesiastiche e non, con scritte sia greche sia latine.
Tra i sigilli di ambito non ecclesiastico se ne trova uno di Anastasia, correggente l’Impero con Costante 2. e Costantino 4., sul trono dal 654 al 668; vi sono poi una bulla di un tal Giorgio cubicolario imperiale nel 7. Secolo, un sigillo di Pantaleone, mandatario imperiale vissuto nel 7. -8. secolo, e sigilli di altri dignitari, fra cui consoli, ex prefetti e generali.
L’epigrafia ci offre infine due testimonianze interessanti per la storia universale dell’isola.
La prima iscrizione, oggi conservata nella basilica di San Saturno o Saturnino a Cagliari e riportabile al 6. secolo, presenta un testo latino di difficile lettura, ma che può essere ricomposto riconducendolo alla tomba di un tal Gaudiosus, sottufficiale del reparto dei dromonarii, ossia della marina da guerra imperiale.
La seconda, latina anch’essa e databile a epoca più tarda (7. od 8. secolo), fa invece riferimento alle vittorie sui longobardi e altri barbari di un imperatore di nome Costantino (quindi Costantino 4. o Costantino 5.) e fu fatta apporre da un altro Costantino, di cui nulla si sa, ypatos e dux di Sardegna, cioè governatore imperiale dell’isola.
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Cap. 4. Venezia e Bisanzio
Venezia è ancora oggi una città sotto molti aspetti complicata e tale è anche la storia delle sue origini.
Il motivo è essenzialmente tecnico: le testimonianze materiali che consentono di ricostruirle sono poche, le fonti documentarie assai scarse e gli storici locali scrivono molto tardi rispetto agli avvenimenti.
La più antica fonte narrativa di cui disponiamo, l’Istoria Veneticorum di Giovanni Diacono, risale infatti a poco dopo il Mille, mentre la composizione del testo cronachistico noto come Origo civitatum Italiae seu Venetiarum si data fra 11. e 12. Secolo.
Più tarda ancora è inoltre la Chronica extensa del doge Andrea Dandolo, composta nel Trecento, che rappresenta la prima storia ufficiale di Venezia e, di conseguenza, è uno strumento indispensabile per le vicende dei secoli delle origini.
Le opere storiche di provenienza veneziana presentano inoltre una caratteristica del tutto peculiare che consiste nella mitizzazione dell’origine della città, legandola a eventi leggendari e in particolare tacendo sulla dipendenza da Bisanzio, che feriva l’orgoglio civico al tempo in cui vennero scritte.
A ciò si aggiunge infine un ulteriore problema costituito dalla difficoltà di utilizzare l’Origo, in cui non solo si ha mescolanza di realtà e leggenda, ma anche un incredibile disordine espositivo, con continue confusioni cronologiche, e, almeno in apparenza, la mancanza di un qualsiasi filo logico nella narrazione.
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Le isole veneziane restarono sotto il dominio imperiale anche dopo che i longobardi misero fine all’esarcato, ma i rapporti con Costantinopoli cominciarono ad allentarsi, al punto che nell’804 andò al potere a Malamocco (dove nel 742 era stata spostata la capitale) il doge Obelerio, rappresentante del partito filo franco e, quindi, avverso a Bisanzio.
La situazione territoriale in terraferma si era infatti profondamente modificata: Carlo Magno nel 774 aveva messo fine al regno dei longobardi conquistando dopo qualche tempo anche l’Istria.
Nell’800 si era inoltre fatto proclamare imperatore, contrapponendo così a Bisanzio una nuova potenza con una decisa volontà di supremazia in Occidente.
In questo modo Venezia passava di fatto nell’orbita carolingia senza un’apparente reazione da parte di Bisanzio; quando però nell’806 Carlo Magno assegnò Venezia, l’Istria e la Dalmazia al figlio Pipino, nella sua qualità di re d’Italia, l’imperatore Niceforo 1., per riaffermare i diritti di Bisanzio, inviò una flotta che andò a gettare le ancore nella laguna veneta.
Ne seguì una guerra bizantino-franco-venetica, con l’arrivo di un’altra flotta bizantina a Venezia, un tentativo apparentemente fallito da parte di Pipino di conquistare le isole e, infine, una pace conclusa ad Aquisgrana nell’812 con cui Costantinopoli riconosceva a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma in cambio otteneva il dominio su Venezia, ma in cambio otteneva il dominio su Venezia.
L’inviato imperiale che aveva trattato con Carlo Magno, lo spatario Arsafio, nell’811 a nome del suo signore dichiarò deposti il doge filo franco Obelerio e i due suoi fratelli associati al trono, sostituendoli con il duca lealista Agnello Partecipazio e riportando così decisamente il governo cittadino sotto l’influenza di Costantinopoli.
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Venezia fu nel Medioevo la città più legata a Bisanzio e, anche al di là della sua indipendenza, mantenne un vincolo di sostanziale alleanza con l’Impero fino al 12. secolo, quando sotto i sovrani Comneni i rapporti cominciarono a incrinarsi.
La coincidenza di interessi nel far sì che le rotte adriatiche e le regioni che su queste si affacciano fossero sgombre da nemici comuni spinse infatti a più riprese il governo veneziano a intervenire in favore dei bizantini.
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Dal punto di vista istituzionale, per esempio, possiamo ravvisare una chiara influenza bizantina nel sistema di coreggenza, che in alcuni occasioni consentì la successione dei dogi veneziani al potere.
Era consuetudine a Bisanzio, infatti, che il sovrano in carica si associasse uno o più colleghi formalmente di pari grado.
Questo sistema da un lato poneva rimedio alla tradizionale instabilità del potere supremo, dall’altro consentiva il formarsi di dinastie più o meno durature.
A Venezia la coreggenza venne introdotta da Maurizio Galbaio, doge dal 764 al 787, che si associò al potere il figlio, e venne conservata fino all’abolizione del 1032.
Il doge del primo periodo aveva un’autorità di tipo regale, che venne limitata molto più tardi fino a trasformarlo in un semplice magistrato cittadino.
Al di là dei meccanismi istituzionali, inoltre, anche il rituale della corte bizantina influenzò la Venezia delle origini.
La trasmissione del potere comportava, alla maniera bizantina, una consegna delle insegne da parte del collega più anziano, di cui si ha notizia per la prima volta a Venezia nell’997 al momento del passaggio dei poteri fra Giovanni Partecipazio e Pietro 1. Candiano.
La cerimonia avvenne con al consegna di tre emblemi, la “spada, il bastone e il seggio”, che erano forse anche antiche insegne in qualche modo venute da Bisanzio.
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Il privilegio concesso a Venezia nel 1082 segnò l’inizio della loro straordinaria fortuna in Levante.
Venne attribuito attraverso l’emissione di una “crisobolla” (chrysoboullos logos, come si chiamava tecnicamente l’atto imperiale), ossia un documento all’apparenza unilaterale con cui veniva accordata una concessione sovrana, espressa come tale nella forma solenne dell’editto munito di sigillo aureo, ma che in realtà, in questo come in altri casi, era piuttosto il risultato di un accordo bilaterale conclusi a seguito di trattative.
Nel maggio del 1082, durante il soggiorno a Costantinopoli, Alessio Comneno emise infatti una crisobolla con la quale concedeva ampi privilegi alla città alleata in cambio dell’aiuto prestato e dell’impegno a mantenere l’alleanza anche in futuro, sulla base di quanto concordato qualche tempo prima nelle trattative svolte dai suoi ambasciatori a Venezia.
L’aiuto era quanto mai necessario per far fronte all’aggressione dei normanni e l’imperatore largheggiò in concessioni, come d’altronde si era impegnato a fare chiamando in soccorso i veneziani.
Concesse loro pertanto titoli nobiliari, elargizioni in denaro, proprietà fondiarie e privilegi di natura commerciale.
Questi ultimi furono senza dubbio i più importanti, perché le esenzioni attribuite fecero ottenere una posizione di preminenza nel commercio orientale.
I veneziani avevano già ottenuto vantaggi di questo genere nel 992, con una crisobolla di Basilio 2., ma si era trattato di una semplice riduzione di imposte per le navi che arrivavano a Costantinopoli.
Ora al contrario furono autorizzati a commerciare in pressoché tutto l’impero senza pagare tasse né andare soggetti a controlli.
Un notevole salto di qualità, tale da determinare inevitabilmente il predominio di Venezia, che sarebbe stato gravido di conseguenze negative per Bisanzio.
Al momento, tuttavia, non se ne valutò appieno la pericolosità, sia per lo stato di necessità sia perché, probabilmente, il volume dei traffici veneziani non era tale da destare preoccupazioni.
L’importanza dell’avvenimento non sfuggì però a una osservatrice attenta come Anna Comnena, figlia e biografa di Alessio 1.
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Cap. 5. L’invadenza dell’Occidente
Il secolare dissidio con la chiesa di Roma si avvicinò allo scisma nel 9. secolo con l’avvento al trono patriarcale di Costantinopoli dell’erudito Fozio.
Imparentato con la famiglia imperiale e nato a Costantinopoli verso l’820, fu un uomo di grande erudizione e scrittore fecondo: la sua opera principale, preziosa fonte di informazione per i moderni, è la Biblioteca, una serie di epitomi, riassunti o commenti di duecentosettantanove testi greci di vario argomento, che in alcuni casi ci dà notizie su scritti oggi scomparsi.
Nell’858, dopo la deposizione di Ignazio Fozio fu scelto come un nuovo patriarca di Costantinopoli da Teodora, reggente dell’impero per conto del minore Michele 3., nonostante fosse un laico: un fatto peraltro non insolito a Bisanzio.
L’ex patriarca Ignazio andò a Roma per lamentare il trattamento subito: papa Niccolò 1. gli diede ascolto e convocò un sinodo che non riconobbe l’elezione di Fozio dichiarandola illegittima, dato che era stato di fatto imposto da Barda, l’onnipotente zio dell’imperatore, che aveva costretto alla rinuncia il precedente patriarca.
Fozio, con l’appoggio di Barda e del suo sovrano, entrò in conflitto con il papa Niccolò e convinse gli ambasciatori a lui inviati da Roma a ritenere legittima la sua elezione.
Il papa dichiarò deposto Fozio nell’863, ma Michele 3. Si schierò a favore del patriarca, respingendo la pretesa romana al primato religioso.
Fozio a sua volta attaccò la chiesa di Roma sul piano dottrinale: un sinodo riunito a Costantinopoli nell’867 scomunicò il papa, condannò come eretica la dottrina romana della duplice processione dello Spirito Santo e respinse come illegali le intrusioni romane nelle questioni della chiesa bizantina.
Si sarebbe probabilmente arrivati allo scisma, ma improvvisamente Michele 3. fu deposto e il nuovo imperatore Basilio 1. Cambiò politica religiosa.
Il sovrano fece rinchiudere Fozio in un monastero e richiamò Ignazio, rappacificandosi così con Roma.
In seguito tuttavia, deluso dalla sua precedente politica ecclesiastica, Basilio 1. fece tornare a corte Fozio che nell’887, alla morte di Ignazio, salì di nuovo sul trono patriarcale e questa volta venne anche riconosciuto da Roma.
Pag. 121-22
A più riprese infine Liutprando mette l’accento su uno dei principali temi di polemica fra Oriente e Occidente, che sarebbe durato anche in seguito, ossia la pretesa dei sovrani di Bisanzio di essere gli unici ad aver diritto al titolo di imperatore, basileus in lingua greca, e di essere considerati gli unici eredi diretti dei cesari romani.
“Voi non siete romani ma longobardi”, sembra aver esclamato alla presenza dell’ambasciatore d’Occidente Niceforo Foca, che considerava il sovrano, Ottone 1., nient’altro che un re; a sua volta Liutprando definisce con disprezzo i bizantini semplicemente “greci”, cosa che ai loro orecchi suonava alquanto offensiva.
Non si trattava d’altronde di una novità: nell’812 i bizantini con la pace di Aquisgrana avevano riconosciuto senza entusiasmo a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma non di imperatore dei romani, che riservavano al loro sovrano.
Questa condiscendenza non era comunque durata molto: dodici anni più tardi Michele 1. scrivendo a Ludovico Pio lo qualificava come “glorioso re dei franchi e dei longobardi e chiamato loro imperatore”.
Allo stesso modo Basilio 1. rifiutava a Ludovico 2. il titolo di imperatore dei romani, concedendogli soltanto quello di imperatore dei franchi.
Durante l’ambasceria di Liutprando, con la tensione generata dalla guerra in corso, si ebbe poi un incidente diplomatico che andava al di là del semplice conflitto protocollare: arrivarono infatti a Costantinopoli legati a papa Giovanni 13. con lettere in cui Niceforo Foca veniva definito “imperatore dei greci” mentre Ottone 1. era “imperatore augusto dei romani”, e vennero incarcerati per l’intollerabile oltraggio.
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Nella seconda metà dell’11. secolo le distanze fra Oriente e Occidente iniziarono ad accorciarsi e quest’ultimo divenne sempre più aggressivo.
Entrarono in gioco infatti due fattori nuovi: la generale rinascita dell’Europa occidentale dopo il Mille, con le effervescenze sociali e politiche che essa comportò, e la progressiva crisi dell’Impero di Bisanzio.
Nel generale quadro di rinnovati movimenti delle persone, l’Impero iniziò a presentarsi come una meta appetibile per chi era attirato dalle prospettive di guadagno o anche per gli Stati che avevano intenzioni aggressive.
I bizantini stessi, dopo secoli di un sostanziale cambiamento, si aprirono sempre più all’Occidente e questo fenomeno si fece avvertire soprattutto sotto la dinastia dei Comneni, sul trono dal 1081 al 1185.
Manuele 1. Comneno, il terzo sovrano della dinastia, amava le usanze occidentali e le introdusse a corte modificando la mentalità e le tradizioni della sua gente.
Si fecero strada così i tornei cavallereschi accanto alle tradizionali corse di carri, per secoli il divertimento preferito dai bizantini, e anche nella scelta dell’imperatrice si fece avvertire il cambiamento: mentre per secoli i sovrani avevano sposato le loro suddite, salvo rare eccezioni ora iniziano a preferire le straniere, e la prassi in seguito sarebbe divenuta la regola.
L’influsso massiccio di occidentali fece tuttavia maturare, come naturale evoluzione, anche un processo di ostilità crescente, rivolta a contenerne sia la pressione militare sia la presenza ingombrante nella vita sociale ed economica dell’Impero.
Pag. 129-30
Le crociate risvegliarono gli entusiasmi e i desideri di conquista degli occidentali e segnarono nello stesso tempo l’inizio di una crisi irreversibile per Bisanzio.
Il movimento crociatistico – come è noto – ebbe inizio nel 1095, quando papa Urbano 2. al Concilio di Clermont fece appello ai fedeli per condurre la “guerra santa”, e divenne in seguito un aspetto caratteristico della cristianità occidentale.
La definizione di crociata si adattò progressivamente a ogni guerra contro i nemici della fede, ivi compresi gli eretici, ma come crociate più importanti sono in genere ricordate sette od otto spedizioni, che ebbero luogo fra 11. e 13. secolo.
Di queste, le prime quattro coinvolsero direttamente l’Impero d’Oriente, generandovi riflessi pesanti e del tutto negativi.
L’appello di papa Urbano 2. suscitò un grande entusiasmo nella cristianità occidentale: l’adesione all’impresa andò al di là delle aspettative e l’idea di combattere per la fede colpì profondamente l’immaginazione dei contemporanei.
Il richiamo mistico di Gerusalemme e il miraggio di grandi avventure infiammarono i cuori dell’uomo medievale eccitando gli animi di tutti, dai grandi signori feudali agli umili popolani.
Pag. 135
Il fallimento delle operazioni in Asia Minore, di cui i maggiori responsabili furono i capi della spedizione, venne propagandisticamente attribuito ai bizantini: come già al tempo della prima crociata si era parlato di un tradimento bizantino, ora Luigi 7. lamentò lo stesso motivo fra le cause della sconfitta.
Il cronista ufficiale della spedizione, Oddone di Deuil, fu ancora più esplicito e rimproverò all’Impero l’insufficiente appoggio logistico, il costo eccessivo delle vettovaglie, l’inefficienza delle guide e, cosa ancora più grave, un’alleanza con i turchi contro i cristiani.
Vere o false che fossero le accuse, contribuirono a inasprire i rapporti fra Oriente e Occidente, che negli anni successivi si fecero sempre più tesi.
Da parte occidentale si guardava con sospetto crescente all’Impero, visto come una potenza inaffidabile e pericolosa e, viceversa, a Bisanzio cresceva di giorno in giorno l’animosità contro i latini.
Pag. 147
L’intesa con il re di Germania non venne tuttavia meno e l’inizio della campagna in Italia fu fissato per il 1152, ma Corrado 3. morì il 15 febbraio di quell’anno senza che nulla fosse stato fatto.
Il nuovo sovrano tedesco, Federico 1. Barbarossa, si mostrò molto più tiepido di fronte a un accordo con i bizantini, da cui li divideva la sua pretesa all’egemonia, e il progetto di guerra comune sfumò.
Ciò malgrado, nel giugno del 1155, quando il Barbarossa si trovava in Italia, le forze imperiali attaccarono la Puglia giungendo in poco tempo alle porte di Taranto.
Fu però una vittoria di Pirro: l’anno successivo il nuovo re di Sicilia, Guglielmo 1., sconfisse i bizantini in prossimità di Brindisi, procedendo quindi alla riconquista del territorio che gli era stato sottratto.
Nella primavera del 1158, infine, con la mediazione di papa Adriano 4., venne concluso un trattato in forza del quale i bizantini abbandonarono la penisola.
L’impresa non fu soltanto un insuccesso militare, ma ebbe anche pesanti conseguenze politiche: creò infatti un contrasto insanabile fra l’imperatore di Bisanzio e il collega germanico, e segnò l’inizio di una progressiva frattura nelle relazioni con Venezia.
Il timore di una riaffermata presenza bizantina in Italia aveva spinto la repubblica a concludere un trattato con Guglielmo 1. Nel 1154, così che al momento delle ostilità Venezia restò neutrale.
Per aggirare l’ostacolo, Manuele Comneno nel 1155 si rivolse a Genova, gettando le basi di un accordo, ma la diplomazia normanna vanificò la sua opera ottenendo che anche questa città restasse neutrale.
Pag. 148
La questione centrale del disaccordo fra Venezia e Bisanzio, cioè il risarcimento dei danni, non venne ufficialmente definita, sebbene gli ambasciatori fossero stati incaricati di farlo, ma è possibile che essa sia stata comunque regolata.
In compenso furono determinati altri punti la riconferma dei privilegi commerciali e una serie di provvedimenti relativi allo stato giuridico dei veneziani che vivevano a Bisanzio.
Il resto dell’accordo del 1187 venne integralmente riproposto nella nuova crisobolla, sia pure con le modifiche dovute alla mutata situazione politica, che identificavano nuovi amici e nuovi avversari.
Alessio 3. riconfermò i privilegi commerciali sanciti dalle crisobolle dei suoi predecessori e a sua volta dichiarò solennemente la completa libertà di commercio per i veneziani con l’esenzione da tutte le imposte.
Per sgombrare il campo da possibili equivoci, inoltre, fece elencare nella crisobolla tutte le città o regioni in cui essi avrebbero potuto esercitare il commercio.
Erano infatti sorte controversie a motivo dell’incompletezza delle precedenti concessioni, che non indicavano esattamente tutte le zone aperte ai traffici veneziani; gli ambasciatori se ne erano lamentati con il sovrano ed egli volle così definire una volta per tutte la questione.
La lista comprendeva pressoché tutto l’impero, come si configurava a quel tempo, e anche alcune località che non ne facevano più parte, come Antiochia o Laodicea in Siria.
Ne restavano però escluse le zone costiere del mar Nero, mantenendo la decisione già adottata al tempo di Alessio 1. Comneno.
Su richiesta degli ambasciatori venne infine definita la condizione dei veneziani residenti a Bisanzio, ai quali furono date alcune garanzie giurisdizionali per meglio tutelarli.
Questo accordo solenne concludeva la serie dei patti fra Venezia e l’Impero iniziata oltre un secolo prima.
Fu l’ultimo tentativo di definire su base pacifica un rapporto divenuto sempre più difficile: agli umori oscillanti dei sovrani di Bisanzio corrispondeva da tempo il desiderio veneziano di una sicurezza che salvaguardasse i loro interessi in Oriente.
Bisanzio, minacciata da ogni parte e senza più una politica coerente, non offriva le necessarie garanzie al comune veneziano, per il quale il mantenimento della regolarità dei traffici in Levante era di capitale importanza.
Pag. 163-64
Cap. 6. La quarta crociata e l’Impero latino
La battaglia di Adrianopoli salvò Nicea dalla probabile sottomissione e gli occidentali dovettero temporaneamente evacuare l’Asia Minore, permettendo così al nuovo impero di consolidarsi e raccogliere l’eredità di Costantinopoli.
Teodoro Lescaris organizzò il nuovo Stato sul modello di Bisanzio facendovi rivivere sia l’impero sia il patriarcato.
Egli e i suoi successori entrano nella storia dei sovrani di Costantinopoli come una sorta di governo imperiale in esilio: si considera infatti la serie dei sovrani di Nicea quale legittima successione di Alessio 5. dopo la presa della capitale.
All’Impero latino e al patriarca latino si vennero perciò contrapponendo un patriarca ortodosso e un imperatore greco a Nicea.
Nicea rappresentava un pericolo per l’Impero latino e il nuovo titolare di questo, Enrico di Fiandra, fratello di Baldovino, riprese il progetto di sottometterla dopo aver arrestato l’espansione dei bulgari.
La guerra si trascinò per alcuni anni senza risultati notevoli, finché, nel 1214, venne concluso il trattato di Ninfeo che definì i confini dei due imperi: allo Stato latino sarebbe rimasta la costa nord-occidentale dell’Asia Minore, mentre il resto fino alla frontiera con i Selgiuchidi sarebbe andato a Nicea.
I latino riconoscevano così l’esistenza dell’Impero greco in Asia Minore, non essendo riusciti a eliminarlo con le armi.
Pag. 177-78
L’Impero latino aveva subito un colpo terribile con la disfatta di Adrianopoli e negli anni che seguirono si trasformò sempre più in un morto vivente, privo di ogni energia, e mantenuto in vita soltanto perché sostenuto dalla flotta veneziana, con la quale le forze nicene non erano in grado di confrontarsi a motivo delle sua superiorità tecnica.
Lo stato di cronica debolezza dell’Impero latino fu aggravato da una pesante crisi finanziaria.
Baldovino 2., sul trono dal 1228, trascorse lunghi anni in Occidente nella disperata quanto inutile ricerca di sostegno, vendendo i possedimenti aviti e rivolgendosi in varie direzioni per far sopravvivere la dominazione latina a Costantinopoli: una dopo l’altra vennero anche cedute le reliquie più preziose in possesso dell’Impero latino e giunsero così a Parigi la corona di spine e altre reliquie della passione, per accogliere le quali re Luigi il Santo fece costruire la Saint-Chapelle.
A causa del continuo bisogno di denaro, infine, Baldovino 2. Finì per dare in pegno ai mercanti veneziani il figlio Filippo e per vendere il piombo che ricopriva i tetti dei suoi palazzi.
Ogni sforzo fu però inutile e l’Occidente abbandonò Costantinopoli latina al suo destino, con la sola eccezione dei veneziani, che fino all’ultimo cercarono di preservarla per il loro tornaconto.
Pag. 180
I genovesi inviarono qualche nave in oriente, ma il loro aiuto non fu necessario, perché Costantinopoli cadde in modo imprevisto.
La città venne infatti occupata quasi per caso da un generale di Nicea di nome Alessio Strategopulo, che era stato inviato in missione in Tracia con circa ottocento uomini e l’ordine di passare vicino alla capitale per spaventare i latini.
Quando egli giunse in prossimità di Costantinopoli, venne a sapere che era pressoché priva di difensori e decise di approfittarne.
L’intera flotta, costituita da trenta navi veneziane e una siciliana, era infatti partita al comando del podestà Marco Gradenigo per attaccare un’isola del Mar Nero appartenente a Nicea; su di essa si era inoltre imbarcata quasi tutta la guarnigione latina, lasciando in città soltanto l’imperatore Baldovino 2. con il suo seguito.
Con l’aiuto di alcuni residenti, i Niceni entrarono in Costantinopoli nella notte tra il 24 e il 25 luglio: al mattino seguente i latini cercarono di resistere, ma vennero dispersi e Baldovino 2., vista inutile ogni difesa, si preparò a fuggire.
Nel corso della stessa giornata fece ritorno la flotta veneziana e Alessio Strategopulo ordinò di dare fuoco alle case dei latini lungo la riva, cominciando da quelle veneziane, in modo che questi pensassero alel loro famiglie e non al contrattacco.
Lo stratagemma fu efficace e gli occidentali non poterono far altro che provvedere all’evacuazione, ammassandosi sulle loro navi in numero di circa tremila.
Fuggirono anche l’imperatore, ferito nell’ultima battaglia, il podestà veneziano e il patriarca latino Pantaleone Giustiniani.
I profughi raggiunsero la veneziana Negroponte, ma molti morirono di fame e di stenti durante il viaggio.
Finì così quella brutta pagina di storia che fu l’Impero latino di Costantinopoli e l’Impero di Bisanzio venen restaurato, anche se nella pratica era divenuto l’ombra di sé stesso: si affermava inoltre la nuova dinastia dei Paleologi, la più duratura di Bisanzio, che sarebbe stata sul trono fino alla fine.
Pag. 181-82
Cap. 7. Il declino di Bisanzio
L’epoca dei Paleologi rappresenta l’ultima fase della storia di Bisanzio.
L’Impero, ricostruito nel 1261, riuscì a sopravvivere per circa due secoli, anche se riducendosi progressivamente nell’estensione e in preda a un continuo processo di disfacimento.
L’opera di erosione del territorio residuo venne attuata dai tradizionali nemici balcanici e orientali, che approfittarono della debolezza di Bisanzio per espandersi, nonché dalle repubbliche marinare di Genova e di Venezia, la cui ipoteca sul secondo impero si fece sempre più pesante.
Il colpo definitivo fu tuttavia assestato dai Turchi ottomani, la stirpe guerriera che iniziò a imporsi nel 14. secolo, la cui incontestabile potenza finì per travolgere ciò che restava di Bisanzio e gran parte dei possedimenti occidentali costituitisi dopo la quarta crociata, espandendosi anche ai danni degli Stati balcanici tradizionalmente nemici dell’Impero.
La crisi politica dell’epoca paleologa ebbe anche pesanti ripercussioni sul piano interno, che si fecero drammaticamente avvertire nel corso del Trecento, con un generale impoverimento della popolazione, eccezion fatta per una classe ristretta di grandi proprietari terrieri, una forte contrazione delle attività economiche e la perdita del controllo dei mercati, passato in gran parte in mano alle repubbliche marinare italiane.
In stridente contrasto con la decadenza di Bisanzio, tuttavia, la cultura letteraria e la produzione artistica ebbero un periodo di rigogliosa fioritura.
Pag. 183
L’Occidente, brutalmente cacciato da Costantinopoli, non stava intanto a guardare.
I veneziani attuarono velleitari tentativi per promuovere una coalizione antibizantina all’indomani della caduta di Costantinopoli, ma qualche cosa di concreto si ebbe soltanto quando sulla scena politica si affermò Carlo d’Angiò.
L’eliminazione del dominio svevo in Italia meridionale (nel 1266) e l’avvento al trono di Sicilia di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, diedero infatti un nuovo impulso ai piani espansionistici ai danni di Bisanzio.
Intenzionato a conquistare l’Impero, Carlo d’Angiò si assicurò l’appoggio papale e, in forza di accordi diplomatici che ne facevano l’alleato del deposto sovrano latino, rivendicò il diritto alla sovranità su Costantinopoli, iniziando nello stesso tempo i preparativi per una grande spedizione militare.
Privo delle forze per contrastarlo, Michele 8. cercò di ritardare l’impresa e, nello stesso tempo, di giocare la carta diplomatica dell’unione religiosa con Roma, che avrebbe tolto la spinta propagandistica per l’attacco alla scismatica Bisanzio.
La sua diplomazia convinse il re di Francia, Luigi 9., a portare con sé il fratello nella crociata di Tunisi nel 1270 e l’anno successivo vennero avviati i contatti con Roma, resi possibili dall’elezione del papa italiano Gregorio 10., ben disposto nei confronti di Costantinopoli e nello stesso tempo avverso alla politica angioina.
Le trattative andarono a buon fine: nel 1274 fu convocato un concilio a Lione, dove il dissidio fra le due chiese venen formalmente ricomposto con la proclamazione dell’unione religiosa e i delegati bizantini giurarono di accettare la fede romana nonché il primato di Roma.
I vantaggi politici furono immediati: Carlo d’Angiò dovette rinunciare ai piani di conquista e Michele 8. poté avviare una controffensiva su vari fronti.
L’unione però ebbe gravi contraccolpi interni a Bisanzio per l’opposizione pressoché compatta del clero, del monachesimo e di buona parte della popolazione, così da spingere Michele 8. a mettere in atto pesanti persecuzioni dei dissidenti.
L’unione inoltre non fu duratura e con l’avvento al seggio papale nel 1281 del francese Martino 4., strumento di Carlo d’Angiò, si tornò alla rottura aperta: il papa condannò Michele 8. come scismatico e l’Angiò (che già nel 1280 aveva attaccato senza successo l’Albania imperiale) poté riprendere i suoi piani di conquista, promuovendo uan coalizione antibizantina formata dall’erede al trono latino Filippo di Courtenay, Venezia, Tessaglia (che nel 1271 si era staccata dell’Epiro), Serbia e Bulgaria.
I serbi e il despota di Tessaglia irruppero in Macedonia nel 1282 e l’Angiò, con l’aiuto navale di Venezia, si apprestò a dare il colpo definitivo al nemico; la situazione fu però salvata all’ultimo momento dalla rivolta dei Vespri siciliani, scoppiata a Palermo nel marzo del 1282, alla quale non fu estranea la diplomazia di Costantinopoli.
A seguito di questa rivolta, infatti, la Sicilia si liberò del dominio francese e il tentativo dell’Angiò di rientrarne in possesso fu ostacolato dalla potenza rivale degli aragonesi, con cui si accese un violento conflitto (destinato a trascinarsi fino al 1302, oltrepassando la vita stessa dei primi protagonisti) a seguito del quale naufragò ogni progetto di spedizione in Oriente.
Pag. 185-86
Di fronte a una situazione del genere, il governo della città lagunare perse interesse per quanto stabilito a Capua, che neppure fu messo in pratica, e pensò piuttosto a un accordo di più ampia portata: ciò ebbe come esito, il 3 luglio del 1281, il trattato concluso a Orvieto, dove papa Martino 4. aveva messo la propria residenza.
L’alleanza fu presentata come una crociata anti scismatica “a esaltazione della fede ortodossa” ma, al di là delle motivazioni di principio, lo scopo consisteva nell’insediare sul trono di Costantinopoli Filippo di Courtenay e restituire a Venezia tutti i privilegi di cui aveva goduto nell’Impero latino.
L’inizio delle operazioni era previsto entro aprile del 1283 e doveva essere preceduto da un’azione preliminare probabilmente contro Negroponte.
Vennero iniziati i preparativi, ma i Vespri siciliani tutto sconvolsero: a parte una breve puntata degli alleati a Negroponte, che a nulla servì, Venezia si defilò abbandonando l’Angiò al proprio destino e riprese le trattative con Bisanzio, con cui nel 285 avrebbe concluso un nuovo trattato.
Pag. 188
La rinuncia al mantenimento di una forza militare e la nuova linea politica ebbero un pesante contraccolpo sull’impero.
La potenza ancora esistente sotto il predecessore subì un rapido processo di contrazione, avviando Bisanzio a divenire un piccolo Stato incapace di esprimere una propria politica estera e in preda a una sempre più accentuata disgregazione interna.
La moneta andò soggetta a una forte svalutazione e nello stesso tempo si diffuse in modo sempre più massiccio la grande proprietà fondiaria, inutilmente contrastata da un tentativo imperiale di aumentare l’imposizione fiscale per i ricchi.
Sui mercati prevalsero le monete d’oro delle repubbliche italiane, portando come conseguenza un forte rincaro dei prezzi e un generale impoverimento, da cui si salvava soltanto una ricca classe dei proprietari fondiari.
Analogamente disastrose furono le ripercussioni della politica seguita nei confronti delle repubbliche marinare, la cui alleanza o neutralità gravò ulteriormente sull’erario imperiale con uan serie di concessioni o privilegi per mantenerne l’amicizia.
Pag. 189
Anche la tregua faticosamente raggiunta con Venezia era molto fragile e questa, nel 1306, si associò al progetto di crociata contro Bisanzio di Carlo di Valois, fratello di Filippo Quarto di Francia, che aveva ereditato i diritti sul trono latino e godeva dell’appoggio di papa Clemente Quinto, da cui Andronico secondo era stato scomunicato.
La spedizione comunque non ebbe mai luogo e, nel 1310, la città lagunare cambiò rotta accordandosi con il sovrano di Costantinopoli, con cui concluse un nuovo trattato.
Pag. 190
Nel 1352 si era aperta, infatti, uan nuova guerra civile fra Giovanni 6. e Giovanni 5., risolta con l’intervento dei turchi ottomani (l’etnia emergente nella galassia delle tribù turche dell’Asia Minore) a vantaggio del reggente.
L’amicizia con i turchi – che fu un cardine della politica di Giovanni 6. - alla lunga finì tuttavia per rivelarsi un’arma a doppio taglio e ne causò la caduta.
Gli ottomani nel 1354 penetrarono infatti in territorio europeo, impossessandosi di Gallipoli, che non abbandonarono malgrado le pressanti richieste dell’imperatore.
Per Cantacuzeno fu uno scacco di ampie dimensioni, perché Gallipoli era una testa di ponte per la conquista dell’Europa, e su di lui ricadde la responsabilità di aver aperto le vie del continente ai nuovi invasori.
La sua posizione si indebolì, a vantaggio di una congiura promossa da Giovanni 5. con l’appoggio del corsaro genovese Francesco Gattilusio, cui fu promessa come ricompensa l’isola di Lesbo.
Questa ebbe successo e l’usurpatore du deposto nel novembre del 1354 e costretto a divenire monaco; visse ancora per un trentennio, partecipando alla vita pubblica e attendendo alla composizione delle opere letterarie, fra cui una monumentale storia degli avvenimenti del tempo che ancora si conserva.
Il governo dei Cantacuzeno sopravvisse tuttavia in Morea, dove nel 1348 era stato istituito un despotato, retto fino al 1380 dal figlio dell’ex imperatore per poi passare ai Paleologi.
Pag. 194
Il pericolo rappresentato dalla espansione ottomana cominciò a essere seriamente avvertito anche in Occidente (dove già dagli anni Trenta Venezia di era adoperata per promuovere alleanze antiturche), ma le continue rivalità fra le potenze rendevano assai problematica un’azione comune.
Il tradizionale antagonismo tra Venezia e Genova, in particolare, rendeva improponibile un progetto politico indipendente dagli interessi particolari delle due repubbliche, sebbene la conservazione delle posizioni in Levante fosse preminente per entrambe.
L’atteggiamento nei confronti di Bisanzio, a ogni modo, cominciò a modificarsi al tempo di Giovanni 5. e, dalla consueta ostilità, si passò a una sempre maggiore consapevolezza del ruolo di frontiera cristiana svolto da Bisanzio, valutando le ricadute negative che la sua scomparsa avrebbe prodotto anche in Occidente.
Pag. 195
Le residue sopravvivenze bizantine rappresentavano un ostacolo per i suoi piani di dominio a Costantinopoli, in particolare, era un assurdo ricordo di una potenza ormai scomparsa, pericolosamente incuneata però nell’Impero ottomano.
Maometto 2. preparò con cura l’accerchiamento della città imperiale, che con le sue forti mura rappresentava ancora un ostacolo formidabile.
Prese dapprima una serie di iniziative volte a intercettare l’arrivo di qualsiasi aiuto esterno alla città, poi fece costruire nel punto più stretto del Bosforo la fortezza di Rumeli Hisari, aggiungendola a quella di Anadolu Hisari fatta edificare da Bayazid sulla sponda asiatica, e dotandola di un imponente spiegamento di artiglieria in grado di impedire a chiunque la navigazione.
Quando l’accerchiamento fu completato, ebbe inizio l’assedio vero e proprio.
Pag. 203
Una volta in più le potenze occidentali non erano accorse in difesa di Costantinopoli, malgrado gli appelli disperati di Costantino 9. e i pericoli connessi alla perdita della città, che avrebbe offerto ai turchi una posizione strategica di prim’ordine per proseguire il loro attacco al mondo cristiano.
La flotta veneziana inviata in aiuto degli assediati partì con incredibile ritardo e non arrivò mai sul teatro operativo, perché fu preceduta dalla notizia della caduta di Costantinopoli in mano turca.
Nell’inutile tentativo di ottenere l’aiuto dell’Occidente, l’imperatore bizantino aveva fatto proclamare di nuovo l’unione religiosa in Santa Sofia (12 dicembre 1452), suscitando l’indignata reazione dei suoi sudditi, in grande maggioranza determinati a sopportare il dominio turco che la soggezione a Roma.
I turchi vincitori proseguirono negli anni immediatamente seguenti l’assoggettamento di ciò che restava dell’Impero di Bisanzio: la Morea nel 1460 e Trebisonda l’anno successivo.
Molti bizantini fuggirono riparando soprattutto in Italia e, fra questi, un buon numero di eruditi che contribuirono alla diffusione in Occidente della cultura greca.
Il ducato di Atene, residuo della conquista latina, fu ugualmente travolto nel 1456, mentre alcune delle colonie genovesi e veneziane costituite nel corpo dell’Impero avrebbero resistito più o meno a lungo alla marea turca.
Con la conquista di Costantinopoli, a ogni modo, finiva la storia di Bisanzio, ma la sua tradizione fu portata avanti attraverso la cultura greca, che nel corso del 15. secolo si affermò decisamente in Occidente e attraverso la chiesa ortodossa che ne raccolse l’eredità.
L’Occidente, che per secoli aveva avuto un rapporto travagliato con Bisanzio, era rimasto politicamente a guardare senza essere in grado di elaborare un progetto comune per soccorrere l’Impero, nonostante il vantaggio che ne avrebbe ricavato.
In questo quadro desolante fecero eccezione i veneziani residenti a Costantinopoli, che contribuirono valorosamente alla difesa.
Il bailo Gerolamo Minotto, eroe della battaglia per Costantinopoli, pagò con la vita assieme ad altri nobili la sua dedizione.
Fu catturato dai turchi e il giorno successivo, il 30 maggio 1453, venne decapitato per ordine del sultano insieme a uno dei suoi figli e ad altri sette nobili veneziani, mentre la moglie andò incontro alla prigionia e un altro figlio riuscì probabilmente a fuggire.
Venezia infine fece da ponte per molti eruditi greci fuggiti in Occidente e ospitò una folta comunità greca, alla quale nel Cinquecento sarebbe stato dato anche il riconoscimento ufficiale.
Cronologia
535 I bizantini sbarcano in Sicilia
552 Fine del regno ostrogoto in Italia
552 Intervento bizantino in Spagna
568 Invasione dei longobardi
584 ca. Istituzione dell’esarcato in Italia
751 Caduta dell’esarcato
827 Inizio della conquista araba della Sicilia
880 Inizio della controffensiva bizantina in Italia meridionale
968 Ottone 1. invade l’Italia meridionale bizantina
970 ca. Istituzione del catepano d’Italia
1009 I normanni compaiono in Italia meridionale
1071 Aprile: Bari si arrende ai normanni
1082 Trattato tra Bisanzio e Venezia
1082-85 I normanni invadono l’Impero
1095 Viene bandita la prima crociata
1147-49 Seconda crociata
1155 I bizantini sbarcano in Italia meridionale
1171 12 marzo: arresto dei veneziani nell’impero
1182 Strage di occidentali a Costantinopoli
1189-90 Terza crociata
1195 L’imperatore Enrico 6. Minaccia Bisanzio
1202-4 Quarta crociata
1204 Aprile: conquista latina di Costantinopoli
1204 Formazione dell’Impero latino di Oriente
1261 I bizantini riconquistano Costantinopoli
1261-82 Michele 8. Paleopago cerca di ricostruire l’Impero
1268 Inizio dei nuovi trattati fra Venezia e Bisanzio
1274 Concilio di Lione. Unione religiosa con Roma
1282 I Vespri siciliani mettono fine ai progetti i Carlo d’Angiò
1294-99 Guerra veneto-genovese combattuta in Oriente
1306 Carlo di Valois organizza la crociata contro Bisanzio
1352 Battaglia del Bosforo. Giovanni 6. alleato di Venezia
1366 Amedeo 6. conte di Savoia riconquista Gallipoli
1369 Giovanni 5. Paleologo si reca in Italia
1396 I crociati sconfitti dai turchi a Nicopoli
1399-1403 Manuele 2. Paleologo in Occidente
1438 Febbraio: Giovanni 8. Paleologo arriva a Venezia
1438-29 Concilio di Ferrara-Firenze
1438 Viene proclamata la riunificazione religiosa
1443-44 Crociata di Varna e sconfitta cristiana
1451 Maometto 2. sultano dei turchi
1453 Maometto 2. assedia Costantinopoli
1453 29 maggio: caduta di Costantinopoli in mano turca
1456 I turchi sottomettono il ducato di Atene
1460 Fine del despotato di Morea
1461 Caduta di Trebisonda
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Bisanzio e il Rinascimento: umanisti greci a Venezia e la diffusione del greco in Occidente, 1440-1535 / D. J. Geanakoplos. – 1967
Il tardo Impero romano, 284-602 / A. H. M. Jones. – 1973-81
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Studi sulle colonie veneziane in Romania nel 13. secolo / S. Borsari. – 1966
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Costantinopoli: nascita di una capitale, 350-451 / G. Dragon. – 1991
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L’Impero bizantino e l’islamismo / A. Guillou…et al. – 1997
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L’Impero di Trebisonda, Venezia, Genova e Roma, 1204-1461: rapporti politici, diplomatici e commerciali / S. P. Karpov. – 1986
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Il crepuscolo di Bisanzio, 1392-1448 / I. Djuric. – 1989
Un impero, due destini: Roma e Costantinopoli fra il 395 e il 600 d. C. / A. Cameron. – 1996
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I trattati con Bisanzio, 1265-1285 / M. Pozza e G. Ravegnani (a cura di). – 1996
Bisanzio e Genova / S. Origone. – 1997
La Sardegna bizantina tra 6. e 7. secolo / P. Spanu. – 1998
Giovanna di Savoia alias Anna Paleogina, latina a Bisanzio, c. 1306-c. 1365 / S. Origone. – 1999
Theofano: una bizantina sul trono del Sacro romano impero, 958-991 / R. Gregoire. – 2000
Costantino hypatos e doux di Sardegna / F. Fiori. – 2001
Storia della marineria bizantina / A. Carile e S. Cosentino (a cura di). – 2004
L’impero perduto: vita di Anna di Bisanzio, una sovrana tra Oriente e Occidente / P. Cesaretti. – 2006
Quarta crociata: Venezia-Bisanzio-Impero latino / G. Ortalli…et al (a cura di). – 2006
Epigrafi greche dell’Italia bizantina, 7.-11. secolo / F. Fiori. – 2008
Bisanzio e le crociate / G. Ravegnani. – 2011
Gli esarchi d’Italia / G. Ravegnani. – 2011
Roma bizantina: opere d’arte dall’Impero di Costantinopoli nelle collezioni romane / S. Moretti. – 2014
Andare per l’Italia bizantina / G. Ravegnani. – 2016
Il diario dell’assedio di Costantinopoli di nicolò Barbaro / A. Codato. – 2017
Storia degli arabi in Calabria / A. M. Loiacono. – 2017
Carlo 1. d’Angiò re di Sicilia: biografia politicamente scorretta di un “parigino” a Napoli / G. Iorio. – 2018
I bizantini in Italia / G. Ravegnani. – 2018
L’eredità di Roma: storia d’Europa dal 400 al 100 d. C. / Chris Wickham
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Parte prima: L’impero romano e il suo smembramento, 400-550
Cap. 2. La forza dell’impero
Roma e Costantinopoli ospitavano entrambe una plebe urbana che era sostentata da regolari distribuzioni da parte dello Stato di grano e olio d’oliva, prodotti provenienti dall’Africa settentrionale (odierna Tunisia) nel caso di Roma, e dall’Egitto, e probabilmente dalla Siria, nel caso di Costantinopoli, Africa ed Egitto essendo le principali regioni esportatrici di tutto l’impero. Tali distribuzioni gratuite di cibo (annoma in latino) rappresentavano una spesa considerevole per il sistema fiscale imperiale, costituendo un quarto e più dell’intero budget. Lo Stato deve avere avuto un interesse molto forte a che le sue città importanti fossero mantenute artificialmente grandi e la loro popolazione felice, con “panem et circenses”, come recitava la citazione – quantunque i “circenses” (compresi i giochi negli anfiteatri di Roma) fossero pagati in molti casi personalmente dai ricchi. L’importanza simbolica di queste città era tale che quando i Visigoti, nel 410, saccheggiarono Roma, lo shock investì tutto l’impero.
P. 8
Quando i “barbari” divennero meglio organizzati, si fecero anche più pericolosi e i Romani dovettero di fendersene. Ai confini settentrionali dell’impero prese a svilupparsi una lunga regione di frontiera la cui militarizzazione, che incise su ampi strati della società come mai era avvenuto altrove, fu capillare; il nord della Gallia e i Balcani furono le più vaste di tali regioni, ma ve ne erano di più piccole. Poiché i “barbari”, che venivano utilizzati nell’esercito spesso si insediavano nell’impero, e poiché oltre frontiera veniva allo stesso tempo sviluppandosi sotto l’influenza romana una nuova gerarchia, le società di ambedue le parti della frontiera divennero più simili: a un certo livello, può non esservi stata una così grande differenza tra Valentiniano, egli stesso proveniente dalla frontiera della Pannonia, nell’odierna Ungheria, e i capi dei vicini Quadi la cui audace risposta calse ad ucciderlo.
P. 35
Questa sorta di osmosi divenne sempre più comune, in particolare dopo che un maggior numero di gruppi “barbari” invase l’impero nel 405-06, probabilmente a seguito del costante sviluppo della potenza unna. Non v’era in ciò una ostilità preconcetta verso le strutture del potere romane e in Oriente non fu mai così; ma gli errori politici nel trattare con i “barbari”, come quelli commessi da Valente, continuarono dopo la sua morte e avrebbero avuto conseguenze più problematiche. Vedremo nel capitolo 4 quanto l’inettitudine strategica di fronte ad una situazione politica continuamente mutevole contribuì alla fine ad affondare la metà occidentale dell’impero. Ma la stabilità oggetto di questo capitolo non era affatto illusoria, e molti dei modelli politici e sociali qui descritti avrebbero avuto una lunga posterità nel mondo altomedievale.
P. 37
Bibliografia
Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto / Peter Brown. – Torino, 1987
Il tardo impero romano / Averil Cameron. – Bologna, 1995
Il tardo impero romano / A. H. M. Jones. – Milano, 1981
La società dell’Alto Medioevo: Europa e Mediterraneo, secoli 5.-8. / C. Wickham. – Roma, 2009
Società romana e impero tardo antico / Bowersock … et al. – Laterza, 1986
Storia di Roma / A. Carandini … et al. – Einaudi, 1992
L’impero romano di Ammiano / J. E. Matthews. – Napoli, 2006
Religione e società nell’età di Sant’Agostino / P. Brown. – Torino, 1975
Terre, proprietari e contadini dell’impero romano / E. Lo Cascio … et al. – Roma, 1997
Potere e cristianesimo nella tarda antichità / P. Brown. – Laterza, 1995
Cap. 3. Fede e cultura nel mondo romano cristiano
Il cristianesimo venne effettivamente assorbito nei tradizionali valori romani ma non interamente.
P. 39
All’altezza del 400, vocabolario, simbolismo e pratica pubblica cristiani erano dunque politicamente dominanti nell’impero, una preponderanza che in seguito non avrebbe fatto che accrescersi e nelle città, che costituivano il centro di ogni attività politica i cristiani erano numericamente superiori. Occorre tuttavia chiedersi di che tipo di cristianesimo si trattasse, quale fosse il suo effettivo contenuto, in che misura avesse assorbito i valori tradizionali romani (persino le pratiche religiose), quanto li avesse cambiati e quali fossero le divisioni che lo attraversavano, dato che ve n0erano parecchie. La prima parte di questo capitolo sarà dedicata a tali temi, in specie quelli relativi alla pratica e alla fede religiose; la seconda parte amplierà il quadro della ricerca considerando altri rituali della sfera pubblica e valori più profondamente radicati tra i quali i presupposti relativi ai ruoli di genere.
P. 41
Il fatto che questa struttura tradizionale non dipendesse dall’impero, e avesse soprattutto un finanziamento autonomo significò che poté sopravvivere alla frammentazione politica del 5. secolo e la chiesa in realtà, ben dentro all’alto Medioevo, fu l’istituzione romana che andò incontro a minori cambiamenti; i legami tra le regioni divennero più deboli, ma il resto rimase intatto. Il problema della relazione tra la chiesa come istituzione e il potere politico secolare si è posto alle società cristiane sin dall’inizio, ed è stato spesso causa di notevoli conflitti, come era già accaduto nel 4.-5. secolo e sarebbe di nuovo accaduto nell’11., con la Riforma e negli stati post-illuministi del 19 e 20. secolo.
P. 49
In Oriente il tema che più divideva era piuttosto diverso: si trattava della natura del Cristo.
P. 51
La vittoria di Nicea significò che il Cristo, sebbene umano e soggetto a sofferenza, veniva anche considerato pienamente divino; ma come si combinavano umanità e divinità? Fu questo il principale punto di discussione delle dispute del 5° secolo, che furono per molti aspetti lotte di potere tra Alessandria ed Antiochia, con Costantinopoli schierata in genera dalla parte di Antiochia. Il patriarca di Alessandria, Cirillo (412-44) sosteneva che gli elementi umani e divini della natura di Cristo non potessero essere separati; antiocheni quali Nestorio, patriarca di Costantinopoli (428-31), li consideravano invece distinti. Il pericolo della posizione di Cirillo, che chiamiamo “monofisita”, era che Cristo avrebbe perso del tutto la sua umanità; il pericolo nella posizione di Nestorio era che si sarebbe mutato in due persone. Né l’uno né l’altro pericolo si erano ancora materializzati, ma gli antagonisti di entrambe le parti credevano al contrario. Il terzo concilio ecumenico, tenutosi ad Efeso nel 431, teatro di una gestione assai spregiudicata da parte di Cirillo, condannò e depose Nestorio. Efeso legittimò anche il culto della Vergine Maria in quanto Theotokos, “madre di Dio”, formulazione particolarmente avversata da Nestorio, ma che da allora ha dominato molte chiese cristiane, nel complesso.
P. 52
In conclusione, questo capitolo e il precedente hanno presentato un mondo tardoromano stabile, certo non esente da cambiamenti (fu questo un periodo di considerevoli innovazioni religiose) né, naturalmente, da conflitti, ma tuttavia in nessun modo votato alla dissoluzione. Nel capitolo successivo prenderemo in considerazione come sia accaduto che nell’Occidente del 4° secolo, nonostante questa stabilità interna, il potere politico romano si sia sfaldato. Ma è anche opportuno chiedersi a questo punto cosa, dei modelli politici, sociali e culturali sinora descritti, sarebbe rimasto, andando a formare l’eredità di Roma per i secoli futuri. Per questo capitolo la risposta è semplice: la maggior parte dei modelli qui descritti è sopravvissuta. Le strutture della Chiesa furono l’istituzione che cambiò meno alla caduta dell’Occidente romano: esse divennero politicamente marginali solo nel Mediterraneo sud-orientale e meridionale, con le conquiste musulmane del 7° secolo. La conformità della fede, quale punto irrinunciabile, sopravvisse a Bisanzio e in alcune zone dell’Occidente, come vedremo nei capitoli successivi. L’impegno ascetico e le critiche di stampo religioso alla società secolare non persero mai di forza nei secoli successivi, e li vedremo ripresentarsi costantemente. Si tratta, in questo caso, di una specifica eredità romano-cristiana. Le istituzioni pubbliche dell’Impero romano sopravvissero quale fondamentale struttura politica tanto per Bisanzio che per il califfato arabo, basati ancora sul sistema mai interrottosi dell’imposta fondiaria. La tassazione, tuttavia, venne meno nell’Occidente post-romano e le istituzioni politiche subirono una radicale semplificazione. Ciononostante, l’intelaiatura politica e istituzionale dell’Impero romano era così complessa che queste nuove versioni più semplici furono ancora in grado, nei regni “romano-germanici”, in particolare quelli dei Franchi in Gallia, dei Visigoti in Spagna e dei Longobardi in Italia – i principali stati dei due secoli successivi al 550 – di dar vita a un sistema di governo di stile fondamentalmente romano. Al quale si accompagnò un senso del potere pubblico, e dello spazio pubblico come arena per l’agone politico, che era in gran parte eredità romana. La rilevanza dell’arena pubblica per l apolitica durò in Occidente sin dopo la fine del periodo carolingio, almeno sino al 10° secolo, e spesso oltre; il suo esaurimento, , dove si manifestò (in modo particolare in Francia), fu un fatto di massimo rilievo. Un fatto che segnerà la fine del libro perché, almeno in Occidente, esso rappresenta la fine dell’Alto Medioevo.
L’Alto Medioevo ha conosciuto molti cambiamenti. La continuità religiosa e culturale non può nascondere l’importanza del crollo delle strutture statali; l’economia di scambio divenne anch’essa più circoscritta, tanto in Oriente che in Occidente e, almeno in Occidente, tecnicamente meno complessa. La società aristocratica acquisì un’impronta più militare, e in specie in Occidente una formazione letteraria laica perse d’importanza; di conseguenza le nostre fonti scritte, tanto per l’Oriente che per l’occidente, diventano in maggioranza di matrice religiosa. Con i cambiamenti politici del 5° secolo in Occidente e del 7° secolo in Oriente, l’identità aristocratica ebbe a mutare anch’essa ovunque; in numerosi luoghi la ricchezza complessiva dell’aristocrazia diminuì, mentre la ricchissima élite senatoria di Roma scomparve. Non si deve tuttavia esagerare la contrazione, perché gli aristocratici con antenati romani continuarono a svolgere un ruolo di primo piano, ma, dati i mutamenti culturali di cui si è detto, il loro affondare le radici nell’esperienza romana risulta molto più difficile da osservare. I contadini, con il globale decrescere della proprietà terriera aristocratica e l’indebolirsi in Occidente del potere dello Stato, divennero anch’essi più autonomi; per contro, le costrizioni sulle donne aumentarono certamente. E, soprattutto, ciascuna regione dell’Impero romano ebbe da qui in avanti uno sviluppo politico, sociale, economico e culturale separato. Prima del 550, Oriente e Occidente vengono considerati congiuntamente in questo libro, ma per il seguito saranno esaminati separatamente e le storie delle terre franche, della Spagna, dell’Italia, della Britannia, di Bisanzio e del mondo arabo saranno trattate tutte singolarmente, così come i territori non romani del Settentrione. E’ questa regionalizzazione e complessiva semplificazione a caratterizzare in special modo l’Alto Medioevo. Tuttavia, al di sotto di ciascun sistema politico di cui ci occuperemo nel resto del libro, con l’esclusione del lontano Settentrione, troveremo il peso del passato romano, il quale, per quanto frammentato, ha dato vita alle componenti di base dell’azione politica, sociale e culturale di tutte le società post-romane per i secoli a venire.
P. 66-67
Bibliografia
Potere e cristianesimo nella tarda antichità / P. Brown. – Laterza,1995
La fine della cristianità antica / R. Markus. – Roma, 1996
L’ellenismo nel mondo tardoantico / G. W. Bowersock. – Laterza, 1992
Roma: profilo di una città, 312-1308 / R. Krautheimer. – Roma, 2009
Sorvegliare il potere: nascita della prigione / M. Foucault. – Einaudi, 2008
La società ed il sacro nella tarda antichità / P. Brown. – Einaudi, 1988
Arte e cerimoniale nell’antichità / S. G. MacCormack. – Einaudi, 1995
Vittoria eterna: sovranità trionfale nella tarda antichità, a Bisanzio e nell’Occidente altomedievale / S. G. MacCormack. – Milano, 1993
Cap. 4. Crisi e continuità, 400-550
Come ha scritto di recente Walter Pohl, “il nocciolo di tradizioni” che faceva di qualcuno un Ostrogoto o un Visigoto era probabilmente una rete di credenze e convinzioni contraddittorie e mutevoli. Nel processo che lo vedeva passare la frontiera, porsi al servizio discontinuo dell’esercito romano, e poi insediarsi in una provincia romana, non necessariamente ciascun gruppo deve aver presentato un insieme omogeneo di tradizioni. Entro il 650 ogni regno “barbarico” ha tradizioni proprie, alcune delle quali si vogliono antiche di secoli, e quelle rappresentarono senza dubbio da allora gli elementi essenziali dei miti fondatori di molti dei loro abitanti; nondimeno, non soltanto non è necessario che i miti fondatori siano veri, ma non è neppure necessario che siano antichi. Ciascuno dei regni “normanno-germanici” aveva un insieme disparato di credenze e identità le cui radici variavano grandemente, e queste, lo ripeto, potevano cambiare, e venire riconfigurate, ad ogni generazione, per andare incontro alle nuove necessità.
P. 95
In realtà, a differenza che nel 20° o 21° secolo, la lingua, nel periodo di cui ci stiamo occupando, non era da nessuna parte, per quanto è dato vedere, un elemento forte dell’identità etnica. Nel 600 numerosi Franchi, per dire, parlavano ancora franco (una versione di quello che adesso chiamiamo “antico alto tedesco”), ma con ogni probabilità non tutti, e di certo molti erano pienamente bilingui. Gregorio di Tours, il più prolifico scrittore della Gallia del 6° secolo, che parlava unicamente latino, non ci ha mai fornito la benché minima indicazione del fatto che avesse problemi a comunicare con chiunque altro nei regni franchi. In realtà, sino al 9° secolo, né lui né nessun altro nel mondo franco accenna a difficoltà di comunicazione tra parlanti la cui prima lingua fosse il latino o il franco: dev’essere accaduto, ma non costituiva un problema in relazione alla “franchità”.
P. 96
Si trattò di un cambiamento cruciale. Gli stati che si fondano sulla riscossione delle tasse sono molto più ricchi della maggior parte degli stati che si fondano sul possesso della terra, perché le tasse sulla proprietà vengono in genere riscosse da molti più individui rispetto al pagamento del canone del terreno demaniale a un sovrano. Probabilmente solo ir e franchi all’apice del loro potere, nel secolo successivo al 540 e nel secolo dopo il 770, poterono gareggiare in ricchezza con gli stati del Mediterraneo orientale, l’impero bizantino e il califfato arabo, che mantenevano ancora le tradizioni romane in materia di tasse. Gli stati che si fondano sulla riscossione delle tasse hanno un controllo complessivo di gran lunga maggiore sui loro territori, in parte a causa della costante presenza degli ispettori del fisco e degli esattori delle imposte, in parte perché i dipendenti dello Stato (tanto funzionari che soldati) sono salariati. Se i sovrani hanno il potere di interrompere il pagamento del salario, aumenta di conseguenza il loro potere sul personale. Ma se gli eserciti si fondano sulla proprietà terriera, sono più difficili da controllare. I generali possono avere la tentazione di essere sleali a meno che non si dia loro più terra, il che riduce la quantità di terra posseduta dal sovrano; e, se sono sleali, mantengono il controllo della propria terra a meno che non ne vengano scacciati con la forza, compito spesso non facile. Gli stati che si fondano sulla terra rischiano in realtà la frammentazione, perché i territori lontani sono difficili da controllare in profondità e nei fatti possono rendersi autonomi. Situazione diffusa dopo il tardo 9° secolo ed oltre. Molte cose sarebbero dovute cambiare perché ciò su verificasse, come vedremo nei capitoli successivi. Ma alla fine, soprattutto nei vasti territori governati dai Franchi, ciò avvenne.
P. 100-1
Perché l’Impero Romano sia scomparso ad Occidente e non in Oriente è un problema che ha stimolato, e continuerà a stimolare, folle di studiosi. Non mi sembra che in ciò si riflettano differenze di ordine sociale tra Occidente ed Oriente, o la divisione dell’impero. Probabilmente, fu in parte il risultato della maggiore esposizione delle aree centrali dell’Occidente, l’Italia e specialmente la Gallia centrale e meridionale, all’invasione delle frontiere; ad Oriente era raro che gli attacchi portati ai Balcani oltrepassassero Costantinopoli per riversarsi nel resto dell’impero, mentre quelli sferrati nelle regioni militari occidentali, la Gallia settentrionale e le province del Danubio, potevano spingersi oltre con molta maggior facilità. Accettare i gruppi invasori nell’impero occidentale e insediarli come federati era una risposta perfettamente ragionevole a questa situazione, nella misura in cui le aree federate non diventassero a tal punto turbolente che l’esercito romano dovesse rimanervi bloccato per combatterle, o così grandi da minacciare le basi fiscali dell’impero, e quindi le risorse necessarie al mantenimento dello stesso esercito. Sfortunatamente per l’Occidente questo avvenne. Nel 418 i Visigoti poterono essere un sostegno per l’impero, ma 50 anni dopo ne furono i nemici. Come sostenuto in precedenza la conquista delle terre da grano africane da parte dei Vandali nel 439, che i Romani erroneamente non previdero e non respinsero, mi sembra rappresentare il punto di non ritorno, il momento dopo il quale questi potenziali supporti poterono volgersi in pericoli. In seguito, le risorse per l’esercito diminuirono significativamente: l’equilibrio del potere cambiò. All’altezza del 476 persino l’esercito romano in Italia può aver iniziato a ritenere preferibile la ricchezza fondiaria. E, cosa non meno importante, le classi dirigenti locali iniziarono ad avere a che fare con i poteri “barbari” piuttosto che con il governo imperiale, ormai troppo distante e sempre meno importante: la provincializzazione della politica segnò la fine dell’impero occidentale. Ad Oriente, il controllo da parte dell’impero dell’altra enorme regione granaria, la valle del Nilo in Egitto, non venne mai messo in crisi in questo periodo, e di conseguenza la struttura logistica dell’impero rimase immutata. Quando, dopo il 618, i Persiani e quindi gli Arabi sottrassero l’Egitto, e anche il Levante, al controllo romano, l’Oriente andò tuttavia anch’esso incontro ad una fortissima e rapida crisi. L’Impero romano d’Oriente (da questo punto in poi inizieremo a chiamarlo Impero bizantino) sopravvisse, ma si trattò di una lotta senza quartiere in conseguenza della quale subì trasformazioni profonde.
P. 105-6
Bibliografia
La caduta dell’Impero romano: una nuova storia / P. Heather. – Milano, 2008
Il Mediterraneo tar antichità e Medioevo: Roma e Costantinopoli fra il 395 e il 600 d. C. / A. Cameron. – Genova, 2007
La caduta di Roma e la fine della civiltà / B. Ward-Perkins. – Laterza, 2008
Cap. 5. La Gallia e la Germania merovince, 500-751
Bibliografia
I Franchi: agli albori dell’Europa: storia e mito / E. James. – Genova, 1988
La società dell’alto Medioevo: Europa e Mediterraneo, secoli 5.-8. / C. Wickam. – Roma, 2009
L’Europa dopo Roma: una nuova storia culturale / J. M. H. Smith. – Bologna, 2008
Parte seconda: L’Occidente post-romano, 550-750
Cap. 6. I regni mediterranei occidentali: Spagna e Italia, 550-750
In Spagna l’intero periodo 409-569 è caratterizzato dall’instabilità. Forse gli anni tra il 483 ed il 507 conobbero una relativa pace e lo stesso probabilmente accadde tra il 511 e il 526, ma in entrambi i momenti la penisola venne governata dall’esterno, dalla Gallia prima e dall’Italia poi. L’esperienza dell’impero, l’epoca in cui il Mediterraneo occidentale aveva costituito una sola unità, non era poi così lontana nel tempo, ma nelle rare fonti di questo periodo la Spagna sembra costituire un’appendice in senso quasi coloniale, abbandonata in gran parte a se stessa. Come abbiamo visto nel capitolo 4, i siti archeologici relativi al tardo 5° secolo, in particolare riguardanti l’altipiano interno della Spagna, la Meseta, mostrano un indebolimento della proprietà rurale, le villae, e anche una forte contrazione di scala nella produzione ceramica, che divenne più localizzata e semplice. Il primo di questi fenomeni, accentuatosi nel 6° secolo, potrebbe semplicemente riflettere cambiamenti culturali, come accadde nella Gallia settentrionale militarizzata della fine del 4° secolo, ma il secondo mostra una complessiva semplificazione dell’economia che implica un calo della domanda aristocratica. In alcune aree della penisola iberica l’insicurezza del 5° e di gran parte del 6° secolo sembra aver colpito piuttosto duramente molte delle strutture economiche ereditate dal mondo romano.
P. 132
I principali legislatori dell’epoca, Recesvindo, Ervige ed Egica, furono ferocemente ostili al più importante gruppo non cattolico della Spagna, gli ebrei; ripresero, ampliandola significativamente, la legislazione di Sisebuto, mettendo al bando tutte le pratiche religiose ebraiche, limitando i diritti civili degli ebrei e riducendo infine, nel 694, tutti gli ebrei in schiavitù.
P. 137
Una delle ragioni per le quali si è impiegata l’immagine della crisi è che nel 711 il regno visigoto venne rovesciato da un esercito invasore arabo e berbero proveniente dal nord Africa, con la conseguenza che per i successivi cinque secoli e oltre (cfr. cap. 14) gran parte della Spagna entrò nell’orbita di una comunità politica musulmana che guardava a Damasco, a Baghdad e al Cairo. Quando i segni si sfaldano rapidamente, gli storici sono spesso tentati di attribuire loro la colpa della sconfitta: ma la risposta può semplicemente riguardare la sorte di un’unica battaglia, come per il regno anglosassone d’Inghilterra finito ad Hastings nel 1066. È certamente vero che nel 711 la Spagna cadde a pezzi. Gli Arabi furono a lungo potenti solo nell’estremo Sud. Il Nord-Est mantenne un re visigoto, Teodemiro (m. 744), siglare un accordo separato con gli arabi in cambio dell’autonomia; l’estremo Nord ritornò a tradizioni comunitarie e talvolta tribali, e così pure le Asturie, intorno al 720, tornarono a scegliere un re cristiano indipendente, Pelagio, primo di una lunga serie di re indipendenti del Nord (cfr. cap. 20). Queste differenti scelte riflettono certamente le divergenze socioeconomiche già citate. Ma fu necessaria la conquista violenta per trasformarle in realtà politiche: prima del 711 non v’è segno dello sganciarsi delle regioni esterne, diversamente dalla Francia del tardo 7° secolo. Sino ad allora, per quanto è possibile osservare, i re visigoti mantennero una salda egemonia su di esse.
P. 141
La Spagna visigota e l’Italia longobarda mostrano due coerenti alternative al percorso di distacco dall’Impero Romano e in direzione dell’alto Medioevo intrapreso dai Franchi. Intorno al 700, in realtà, la Spagna sembrava avere maggiore successo della Francia, benché la sua conquista da parte degli Arabi e la riunificazione dei territori franchi ad opera di Carlo martello nel decennio 710-20 e oltre abbiamo spesso portato gli storici moderni a concludere altrimenti. Anche il governo d’Italia dopo il 774 era abbastanza efficace per costituire un modello per i Franchi. Questi tre stati mostrano forti divergenze quanto a stile politico, forza del cerimoniale regio (maggiore in Spagna), importanza della legittimità dinastica e ricchezza delle aristocrazie locali (più intensa in Francia), complessità dei legami tra governo centrale e società provinciale (più forte, senza dubbio, in Italia). Le aspirazioni regie erano anch’esse diverse: solo i re franchi cercarono di ottenere l’egemonia politica sugli altri popoli; solo i re visigoti cercarono di governare come imperatori romani. Ma vi sono altri aspetti in cui il loro sviluppo fu simile. Tutti ruotavano attorno a gerarchie politiche e sociali dominate dall’identità militare: le aristocrazie civili scomparvero. (Ciò accadde pure nell’impero bizantino, dapprima in Italia, ma alla fine persino nel cuore dell’impero). Seppure con diverse velocità, essi persero il controllo della riscossione delle tasse, divenendo per l’essenziale sistemi politici fondati sulla terra, sebbene tutti e tre riuscissero poi a mantenere una prassi, e persino un’identità politica aristocratica, saldamente centrata sulle corti regie. In effetti, anche se tutti e tre sperimentarono periodi di debolezza regia e di frammentazione politica, i sovrani di successo – Leovigildo, dopo il 569, Agilulfo dopo il 590, Carlo martello dopo il 719 – furono in grado di orientare l’aristocrazia a loro favore. Tutti e tre considerarono anche la propria identità politica in termini etnici, come Franchi, Goti e Longobardi, ma il fattore etnico, in pratica, divenne presto di scarsa importanza: già nel 700 molti “Franchi” avevano antenati che erano stati romani e lo stesso è vero per la Spagna e per l’Italia. In realtà, a parte la rinnovata importanza delle assemblee, e il presupposto che il servizio militare, almeno in teorie (mai in pratica), fosse obbligatorio per tutti i maschi liberi, non vi era poi granché di specificamente germanico nei regni romano-germanici. Politica, società e cultura erano cambiate rispetto al mondo romano, ma possono più efficacemente essere comprese come esiti di un’evoluzione che prende le mosse da antecedenti romani.
P. 151-52
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La connessione tra potere e possesso nel regno franco e nel regno longobardo / G. Tabacco. – 1972
La città nell’alto medioevo italiano: archeologia e storia / G. P. Brogiolo, S. Gelichi. – Laterza, 1998
Cap. 8. Vocazioni post-romane: cultura, fede ed etichetta politica, 550-750
La frammentazione politica della chiesa occidentale e la mancanza di eresie sono, come già accennato, fenomeni collegati: semplicemente, non si avevano regolari affermazioni su quanto accadeva al di fuori del proprio ambito locale o regionale. Si è conservata una lettera del 613 del fondatore di monasteri irlandesi Colombano a papa Bonifacio 4.: risale al periodo in cui Colombano, dopo aver trascorso più di due decenni in Francia e Alemannia, si trovava nell’Italia longobarda per fondarvi il monastero di Bobbio. Essa esprime grande stupore per il fatto che Bonifacio (Colombano lo ha appreso solo una volta arrivato in Italia) aderisca alla posizione di Costantinopoli sullo scisma dei Tre Capitoli, manifestando al riguardo un severo biasimo. Tuttavia, la posizione papale era rimasta immutata sin dal decennio 550-60 e nell’Italia settentrionale era quanto meno oggetto di discussione. Qualsivoglia conoscenza di un dibattito teologico relativamente complesso sembra essere stata assente al di là delle Alpi, o almeno Colombano poteva affermare che lo fosse. Esistendo un problema di trasmissione delle informazioni, la credenza non ortodossa avrebbe potuto incontrare difficoltà nella sua diffusione, potendo persino rimanere sconosciuta. In queste circostanze, tutte le versioni locali di cristianesimo poterono avere campo libero senza contestazioni di sorta. E’ questo il mondo circoscritto che Peter Brown ha chiamato “micro-cristianità”, termine che in anni recenti ha avuto fortuna: un mondo di costanti divergenze nel rituale, nella regola e nella tradizione, come anche nelle strutture politiche e nelle pratiche socioculturali della società laica.
P. 182
L’Alto Medioevo è stato tradizionalmente considerato come più “germanico” della tarda età romana, il prodotto delle invasioni e anche il momento privilegiato della fusione culturale “romano-germanica” che avrebbe conosciuto evoluzione e apice sotto i Carolingi. Come ho indicato nei precedenti capitoli, non mi sembra trattarsi di una caratterizzazione adeguata. In primo luogo, in Occidente le società altomedievali avevano tratti comuni al di là del fatto che fossero state invase o meno: l’Italia bizantina e il Galles presentavano per molti aspetti dei parallelismi rispetto all’Italia Longobarda e all’Inghilterra. Anche l’Irlanda, i cui contatti con il mondo “germanico” erano stati minimi, mostrava tratti ad esso riferibili (sebbene tra le società che abbiamo considerato fosse per numerosi riguardi la più atipica). All’interno delle province ex-romane il vero contrasto era non tra le società che erano state invase o conquistate e le altre, ma tra il continente e la Britannia; nel continente le strutture di base, sociali e politiche, di stampo romano, sopravvissero (sebbene in molti luoghi in forma fatiscente e sottofinanziata), mentre ciò non avvenne nella Britannia; le società tribali furono una caratteristica della Britannia post-romana sia anglosassone sia gallese. Complessivamente, in realtà, il principale cambiamento nella cultura politica non fu la germanizzazione ma la militarizzazione: l’epoca che avrebbe visto il dominio dell’aristocrazia militare iniziò nel 5. e 6. Secolo proseguendo in tutto l’Occidente per più di un millennio. Come vedremo nella Parte terza, una simile dinamica caratterizza anche l’Impero bizantino e, in minor misura, il califfato.
P. 212
L’ultimo punto che occorre precisare riguarda il fatto che le credenze e le pratiche qui trattate non cambiarono molto dopo il 750. Si sono qui utilizzati per la maggior parte materiali pre-carolingi, ma potrebbero essere facilmente forniti esempi per ogni secolo fino al 1000 e anche oltre. I Carolingi (in particolare Ludovico il Pio) unificarono in larga misura l’ordinamento monastico, mentre la scala del controllo politico da essi esercitato fece si che gli uomini di chiesa di tutto l’Occidente potessero entrare in contatto più regolarmente. Diedero vita anche a un sistema pedagogico più strutturato, in particolar per le élite, che pose fine all’isolamento intellettuale di figure quali Beda e aprì il dibattito teologico e persino alla ricomparsa delle eresie. I presupposti strutturali relative alle pratiche religiose descritte in questo capitolo puntellarono tuttavia anche il progetto riformatore carolingio, sopravvivendo anzi al suo parziale eclissarsi alla fine del 9. secolo. Quanto agli atteggiamenti aristocratici, e ai concetti relativi alla differenza di genere, essi cambiarono molto poco nel periodo carolingio. I mutamenti culturali e politici oggetto della Parte quarta di questo libro si sarebbero innestati su valori rimasti a lungo stabili.
P. 214
Bibliografia
La formazione dell’Europa cristiana: universalismo e diversità, 200-1000 d. C. / P. Brown. – Laterza, 1995
Gregorio e il suo mondo / R.A. Markus. – Milano, 2001
Cap. 9. Ricchezza, scambio e società contadina
I villaggi, anche se liberi dal giogo di un signore e se i grandi proprietari erano marginali o assenti, non furono mai comunità egualitarie. I contadini erano divisi tra proprietari e affittuari, e tra proprietari più o meno ricchi, in un complesso ordine gerarchico. La linea che divideva i liberi dai non liberi era anch’essa in molti villaggi di cruciale importanza, mantenendo separati quanti avevano diritti legalmente riconosciuti, nei tribunali e nel processo decisionale locale (benché obblighi come il servizio in armi), da quanti ne erano privi. Questa linea divisoria venne risolutamente presidiata dai re, e i matrimoni tra liberi e non liberi erano ovunque vietati, sebbene si sia visto, con Anstruda di Piacenza, come i singoli in pratica tendessero di frequente a ignorarla. L’importanza pratica della divisione tra liberi e non liberi era anche con ogni probabilità estremamente variabile su base regionale. Assumeva maggiore importanza quanto tutti gli affittuari erano giuridicamente non liberi, ad esempio, rispetto a quando gli affitti in regime di non libertà era solo una versione di dipendenza accanto ad altre (come a Palaiseau, dove gli affittuari liberi e non liberi vivevano fianco a fianco, sposandosi regolarmente fra loro). Ma dovunque essa segnava un’importante differenza di status all’interno del villaggio e quindi una breccia nella solidarietà locale: le collettività di villaggio avrebbero acquistato forza e coesione solo quando la condizione di non libertà si fece meno comune, caratteristica, ancora una volta, del 10. e dell’11. secolo più che dei secoli dal 6. all’8.
P. 226
Nell’8. secolo, il Mare del Nord aveva quasi certamente un volume di traffico marittimo superiore a quello del Mediterraneo. Nello stesso periodo Comacchio, sul delta del Po, era il centro dello scambio adriatico a vasto raggio, e anche, come si è visto, di alcuni commerci lungo il fiume. ; ma tra il declino di Marsiglia intorno al 700 e l’affermarsi di Venezia intorno al 780, il Mediterraneo non ebbe porti equivalenti a quelli del Nord. Come vedremo nel capitolo 22, Venezia era un centro per il commercio degli schiavi, frutto delle guerre carolinge, che la città vendeva agli Arabi come servitori domestici in cambio di spezie e altri beni di lusso orientali. Venezia era, cioè, un porto d’ingresso che fondava la sua ricchezza sui generi di lusso diretti ai Franchi e ad altri acquirenti, e rispetto all’economia dell’Italia settentrionale era probabilmente persino più marginale di quanto fossero Dorestad per la Francia Settentrionale e Hamwic per il Wessex. Ma anche qui le cose erano in movimento; in Italia, nel 9. secolo, sarebbero apparsi un maggior numero di porti e Venezia avrebbe sviluppato anch’essa, infine, dopo il 950 circa, una relazione più stretta con il proprio Hinterland. Dopo l’800 le opportunità di sviluppo del commercio furono alla fine maggiori nel Mediterraneo che nel Mare del Nord. Il Mediterraneo collegava infatti diverse economie complesse che dopo la pausa dell’8. secolo avrebbero riscoperto i vantaggi di livelli di scambio apprezzabili. Il problema del Mare del Nord stava nel fatto che pur essendo l’economia franca così attiva, quelle vicine non lo erano altrettanto. Per gli Anglosassoni o i Danesi era importante ottenere merci franche, in larga parte generi di lusso, ma le loro classi dominanti non era ancora abbastanza ricche da poterne acquistare in grandi quantità. Né le economie del Nord erano granché diversificate; la gamma dei prodotti artigianali di Hamwic era simile a quella di Maastricht e Dorestad, e difficilmente può essere stata pensata per la vendita al di fuori del Wessex. La specializzazione e la diversificazione economica si sarebbero sviluppate lentamente nei secoli successivi; il commercio del Mare del Nord nell’8. secolo era quindi più una ricaduta della ricchezza e dell’influenza politica carolingia che un segno del futuro dominio economico dell’Europa nord-occidentale.
P. 248
Bibliografia
Le origini dell’economia europea: guerrieri e contadini nel Medioevo / G. Duby. – Laterza, 2004
Aristocrazie e campagne nell’Occidente da Costantino a Carlo magno / G. P. Brogiolo, A. chavarria Arnau. – Firenze, 2005
Cap. 10. Il potere dell’immagine: cultura materiale e ostentazione dalla Roma imperiale ai Carolingi
La intervisualità dello stile architettonico è uno dei più potenti trasmettitori di significato ed effetto visivo. Come sottolineato all’inizio del libro, l’archeologia, assieme allo studio della cultura materiale nel suo significato più ampio quale si esprime nella storia dell’arte e nella storia dell’architettura, tende a dirci una diversa specie di cose rispetto allo studio dei testi narrativi e documentali. La cultura materiale ci dice di più rispetto all’uso dello spazio, alla funzione delle relazioni spaziali, come pure, naturalmente, rispetto ai cambiamenti stilistici e tecnologici; la cultura scritta ci dice di più rispetto alle relazioni, alle scelte e alle rappresentazioni coscienti del mondo circostante. Ma la costruzione di significati visivi, da parte di imperatori come di contadini, lega questi due mondi: è la cultura materiale, , non sono le parole, a dirci delle scelte di al-Walid, Pasquale o Giuliano e Domna a Sergilla. E’ la cultura materiale, quindi, a spiegare la centralità di questo capitolo, che offre un modo per comparare nell’alto Medioevo le strategie di ciascun attore, ricco o povero che fosse, e non – per una volta – solo di quanti avevano accesso alla parola scritta. Edifici come questi avevano inoltre un pubblico di gran lunga più ampio di quello di un qualunque testo scritto, eccettuate le parti della Bibbia e del Corano lette con più frequenza in occasione delle cerimonie religiose, le quali d’altra parte tendevano a non cambiare molto nel tempo e nello spazio. L’intera popolazione d’Europa era dunque coinvolta nel tipo di comunicazione analizzato in questo capitolo, e poteva persino, se sceglieva di farlo, partecipare in qualità di comunicatore, non solo di pubblico. In realtà, poiché l’archeologia sperimenterà immancabilmente dei progressi nel futuro, è questo un settore della conoscenza storica che, tanto per cambiare, si amplierà sempre di più.
P. 271
Bibliografia
Arte islamica: formazione di una civiltà / O. Grabar. – Milano, 1989
La Repubblica di San Pietro: nascita dello Stato Pontificio, 680-825 / T. F. X. Noble. – Genova, 1988
Parte terza: Gli imperi d’Oriente, 550-1000
Cap. 11. La sopravvivenza bizantina, 550-850
Lo spartiacque in questione sarà oggetto del presente capitolo, perché l’Impero bizantino dell’8. secolo, erede diretto dell’Impero romano d’Oriente, era una società diversa, i cui punti di riferimento erano in gran parte cambiati.
La ragione dell’esistenza di un simile spartiacque era semplice: era infatti il risultato dei catastrofici eventi che infransero il controllo romanosu gran parte del Mediterraneo orientale tra il 609 e il 642. Il drastico ridimensionamento e la successiva riorganizzazione dell’impero costituirono per tutto il periodo di cui ci stiamo occupando la più importante frattura nella storia imperiale d’Oriente e, d’accordo con molti storici, chiamo “bizantino” l’impero che sopravvisse da questa data in avanti.
P. 277
Come scrive Michael Hendy, il non poter più disporre della ricchezza agricola e produttiva dell’Egitto, fu un fatto particolarmente grave. Bisanzio si vide ridotta all’altopiano anatolico della moderna Turchia, al mare Egeo e alle terre circostanti e, muovendo da Ovest, a sacche della costa adriatica, a parte dell’Italia (compresa Roma) e della Sicilia, e al Nord Africa. Nei successivi due secoli, i Balcani meridionali sarebbero stati riconquistati, ma l’Italia settentrionale e centrale e l’Africa sarebbero andate perdute, così come, dopo il decennio 820-830, la Sicilia, benché gran parte dell’Italia meridionale continentale sia rimasta bizantina sin dopo il 1050.
P. 280
Dalla metà dell’8. secolo in avanti i papi iniziarono a considerarsi quale parte del mondo longobardo e franco, non più di quello bizantino: è questa, infatti, l’epoca in cui le terre latine andarono perse per Bisanzio, fatto che le fonti greche registrano a stento. Costantino intervenne, anche, più di quanto avessero fatto i suoi predecessori per un secolo, sulle infrastrutture imperiali, ricostruendo l’acquedotto principale di Costantinopoli nel 767, riformando il sistema fiscale e istituendo un corpo di truppe professionali d’assalto senza legami con i temi, i tagmata, che nel 9. secolo sarebbe divenuto il corpo scelto dell’esercito.
P. 290
E’ contro questo atteggiamento che nell’8. secolo si levò la reazione degli iconoclasti: il rivolgere preghiere alle icone sviliva l’omaggio dovuto solo a Dio, e doveva essere considerato come idolatria. Secondo quanto argomentava Costantino 5. nelle Peuesis (752 ca.), le immagini di Cristo evidenziavano soltanto la parte umana della divinità, trascurando quella divina: Cristo viene propriamente rappresentato solo nella eucarestia, come pure, metaforicamente, nella croce.
P. 291
Il secondo concilio di Nicea condannò inflessibilmente l’iconoclastia, confutando punto per punto (e così tramandando) la sua teologia. Fu, in realtà, il secondo concilio di Nicea a dar forma alla teologia delle immagini rimasta quale parte strutturale della chiesa orientale.
P. 293
Va sottolineato come non esista alcuna prova del fatto che gli iconoclasti bizantini fossero influenzati dagli Arabi. Ma Arabi, Bizantini e cristiani di Palestina erano tutti autonomamente interessati al problema della rappresentazione: quali elementi fossero sacri, quali idolatri, come e chi le immagini rappresentassero o dovessero rappresentare. Si trattava di una rottura con la tradizione cristiana terdoromana, nel quale le immagini, persino quelle dei santi, non erano investite di un compito speciale particolarmente rilevante: in Oriente d’ora in poi esse avrebbero avuto, almeno potenzialmente, un potere divino e, in un modo o nell’altro, si doveva trattarle in modo adeguato. E il sistema politico in cui ciò assunse maggiore importanza fu Bisanzio perché gli imperatori stavano diventando un fulcro più decisivo di interesse religioso di quanto non fossero stati gli imperatori romani, o persino, all’epoca, i califfi. L’iconoclastia non ebbe inizio con gli imperatori, ma quando Costantino 5. fu chiamato a decidere al riguardo, essa divenne immediatamente una iniziativa imperiale a lui legata, come mai era avvenuto nel caso dell’”arianesimo” per Valente, e nel caso del monofisismo per Anastasio 1. La rappresentazione, e l’importanza della dimensione visiva, divennero quindi parte della legittimazione imperiale. Dopo l’843 tutto ciò divenne ortodossia; la centralità religiosa delle immagini è stata da allora una caratteristica del cristianesimo ortodosso.
P. 302
Bibliografia
La civiltà bizantina / C. Mango. – Laterza, 2009
I Bizantini / A. Cameron. – Bologna, 2008
Bisanzio / J. Herrin. – Milano, 2008
Il Commonwealth bizantino: l’Europa orientale dal 500 al 1453 / D.Obolensky. – Laterza, 1974
Cap. 12. Il consolidarsi del potere politico arabo, 630-750
E tuttavia il primo periodo arabo è cruciale per il nostro discorso. Il califfato non controllava alcuna parte d’Europa prima dell’invasione arabo-berbera della Spagna, nel 711, ma non può essere escluso da una storia del continente. In primo luogo, nel 7. secolo furono gli Arabi a spezzare in due la parte superstite dell’Impero romano, mettendo fine per sempre al suo sogno di mantenere l’egemonia mediterranea, e obbligandolo a reinventarsi nello stato chiamato (da noi) Bisanzio, come abbiamo visto nel capitolo che precede. In secondo luogo, il califfato fu esso stesso costruito su fondamenta romane (neanche persiano-sasanidi). Nonostante la difficoltà e l’esotismo delle nostre fonti sul punto, si può proporre la tesi che esso mantenesse i parametri della società imperiale romana in maniera più completa di quanto non accadesse in ogni altra parte del mondo post-romano, almeno sino al 750; si tratta di un paradosso che necessita di essere approfondito. In terzo luogo, il califfato fu semplicemente più ricco e più potente di ogni altra società post-romana. Erano gli Arabi, ormai, a dominare nel Mediterraneo. Dopo il 750, sotto gli Abbasidi, il centro del califfato si spostò dalla Siria di Mu’awiya all’Iraq, distanziandosi ulteriormente dalle tradizioni romane, motivo per cui il capitolo 14 prenderà in esame gli Abbasidi secondo un profilo meno puntuale. Ma gli Abbasidi, persino più degli Omayyadi del periodo antecedente al 750, sorpassarono di gran lunga i loro vicini in quanto a ricchezza e ricercatezza della loro cultura intellettuale, e dovremo prestarvi attenzione, tanto nel capitolo 14 che nel capitolo 15, quando considereremo l’economia del Mediterraneo orientale nel suo complesso. Il presente capitolo studierà le conquiste arabe e il califfato omayyade di Mu’awiya e dei suoi successori. Ci concentreremo in queto caso sui problemi interconnessi relativi alla stabilizzazione del sistema politico arabo (o musulmano) e sul tema della continuità e del cambiamento sociale e culturale nel primo dei molti secoli di dominio arabo sul Mediterraneo orientale e meridionale, e al di là di esso.
P. 306-7
Si è anche proposto che l’Islam omayyade debba considerarsi più “arabo” rispetto a quello, più universalista, che gli è succeduto. Muhammad era forse un profeta solo per gli Arabi, o per tutti? Si è sostenuto che l’iniziale cautela araba riguardo alla conversione implicasse la prima considerazione, e che solo gli Abbasidi aprirono realmente la loro religione a tutti. Si tratta anche in questo caso di una lettura successiva. Gli arabi credevano senza dubbio nella propria superiorità etnica, e con i non Arabi, compresi i convertiti, erano al meglio spigolosi, al peggio ostili. A Qusayr’Amra c’è il famoso affresco dei sei re, dell’Impero romano, della Persia sasanide, dell’Etiopia, della Spagna visigota e di due paesi non identificati, che a quanto pare accennano a un affresco adiacente della vittoria etnica araba.
P. 319-20
Alla fine, tutto ciò non sorprende e ricorda infatti da vicino i diversi valori che andavano a comporre la personalità di un qualunque scrittore altomedievale, occidentale o orientale che fosse: si pensi alla glorificazione della superiorità etnica e militare franca in Gregorio di Tours o Eginardo a dispetto della tensione verso l’inclusione propria del Cristianesimo, o alla feroce ostilità verso i Goti che il loto correligionario Sinesio mostra all’inizio del 5. secolo. In quest’epoca, non è l’incoerenza religiosa e morale a rendere diversi gli Arabi.
P. 321
Gli Omayyadi caddero in larga misura perché l’esercito della Siria si divise, facendo perdere loro tanto la superiorità militare che l’egemonia, la convinzione che il loro potere fosse senza alternative. Lo sciismo millenarista che aveva sospinto Mukhatar a Kufa nel decennio 680-90, e anche ribello di minor rilievo successivamente, poté così guadagnare, nel cuore del secondo principale esercito dell’Islam, quello del Khorasan, un appoggio mai prima ottenuto (Il terzo esercito, quello dei Berberi, andò per proprio conto). Abu Muslim, egli stesso un mawla, ebbe un considerevole appoggio etnico persiano nell’esercito del Khorasan. Di conseguenza fu allora, e da allora, possibile considerare l’ascesa degli Hashimiyya come il rigetto di un governo arabo particolarista da parte di una nuova comunità musulmana basata su un tasso di conversione all’Islam più alto nel Khorasan che ovunque altrove. Ma gli altri elementi di questa ascesa erano interamente arabi, e traevano la loro forza da fonti opposte: il risentimento dei soldati arabi Yamaniti e dei coloni arabi che in Oriente erano stati assoggettati al potere locale – e alla tassazione – delle élite persiane islamizzate. E’ chiaro almeno che la caduta del consenso degli Omayyadi nel Khorasan fu il risultato di un’interazione, molto più ampia e forte che altrove, tra coloni arabi e maggioranza indigena. Ciò avrebbe potuto portare a una guerra civile locale; gli sciti, però, riuscirono a trasformare questa tensione in un’unità, che aveva al suo centro la salvezza, in grado di rovesciare il sistema politico. Il riferimento alla salvezza si rivelò illusorio, e le rivolte religiose (ormai tutte alidi) punteggiarono il califfato abbaside allo stesso modo di quanto era accaduto con gli Omayyadi. Ma la direzione politica di un califfato adesso radicato in Iraq sarebbe ciononostante stata piuttosto diversa.
P. 523
Bibliografia
Gli eserciti dei califfi: militari e società nello stato islamico delle origini / H. Kennedy. – Gorizia, 2010
Gli effetti del monoteismo nella tarda antichità: dall’impero al Commonwealth / G. Fowden. – Roma, 1997
Cap. 13. La rinascita bizantina, 850-1000
La maggior parte delle grandi famiglie mi sembrano infatti a Bisanzio meno radicate nel territorio rispetto all’Occidente; inoltre, ai fini di un reale protagonismo politico, più dipendenti rispetto all’Occidente dal fatto di detenere una carica pubblica. Rispetto all’Occidente del 10. secolo, Bisanzio presentava probabilmente un numero maggior di zone non dominate dai “potenti”; sembra questa uan conclusione ragionevole, anche se le testimonianze bizantine ci dicono molto poco riguardo alla società contadina. Come vedremo nella parte quarta, le élite aristocratiche erano strettamente collegate allo Stato pesino in Occidente, nella Francia carolingia, nella Francia orientale ottoniana (la futura Germania), nella tarda Inghilterra anglosassone: dovevano la loro indennità e il loro status al patronato reale, e non cercarono di stabilire poteri locali autonomi, o di indebolire il potere regale, a meno che la crisi di un regno le obbligasse a far da sé, come nella Francia occidentale (la futura Francia). Nella Bisanzio del 10. secolo, dove lo Stato – basato com’era sulla tassazione – era di gran lunga più forte, dove i detentori di cariche disponevano di enormi stipendi e dove la loro posizione pubblica era legata ai comandi nell’esercito e alla presenza nella capitale, un potere locale autonomo non aveva possibilità di affermarsi. Le testimonianze frammentarie che abbiamo anche per i procedimenti giudiziari provinciali - in prevalenza provenienti dal monte Athos, dove i monasteri dedicavano moltissimo tempo alle dispute giudiziarie - mostrano l’efficace e sistematico intervento ufficiale, con giudici regolarmente inviati dalla capitale che interagivano anche con un complesso insieme di funzionari locali: questa rete di potere pubblico, di nuovo senza paralleli nell’Occidente altomedievale, non avrebbe facilmente ceduto il passo alle autonomie private. In ogni caso, Basilio 2., spesso considerato particolarmente sensibile ai pericoli rappresentati dalle grandi famiglie, non le temeva così tanto da premunirsi in ordine alla sopravvivenza della propria dinastia. Non soltanto non si sposò mai, ma neppure tentò di persuadere lo scialbo fratello Costantino 8. (suo successore negli anni 1025-8) a far sposare le sue due figlie mentre erano ancora in età fertile, perpetuando in tal modo la discendenza. Basilio sapeva che altre famiglie avrebbero presto conquistate il soglio imperiale, e ciò chiaramente non gli importava. Né, data la continuità di potere e la stabilità che l’Impero bizantino mantenne per un altro mezzo secolo si può dire che abbia avuto torto.
P. 346
Bibliografia
Storia dell’Impero bizantino / G. Ostrogorsky. – Einaudi, 2008
Cap. 14. Dalla Baghdad abbaside alla Cordova omayyade, 750-1000
L’unità culturale e religiosa di cui abbiamo appena detto venne raggiunta per la prima volta grazie alle conquiste militari degli omayyadi. Divenne permanente, tuttavia, nel secolo e mezzo del califfato abbaside, politicamente egemone dal 750 all’861 e ancora potente intorno l 920; la disunione dell’epoca di Ibn Hawqal (e delle epoche successive) risaliva ad appena una generazione prima quando questi si mise in viaggio da Baghdad. Nel presente capitolo considereremo l’efficace politica di centralizzazione portata avanti dagli Abbasidi e la creazione a Baghdad di una tradizione religiosa e scientifica forte abbastanza da sopravvivere alla frammentazione del 10. secolo. Seguiremo quindi la storia di due degli stati che presero il posto, quelli più vicini al precipuo interesse europeo di questo libro, i Fatimidi del Nord Africa e dell’Egitto e, soprattutto, gli omayyadi di Spagna. Questi ultimi, già resisi autonomi dal dominio abbaside nel decennio 750-60, guardarono a lungo verso Baghdad. Sebbene non abbia in alcun modo parte della storia d’Europa, e neppure dell’antico mondo romano, nell’ultimo terzo del periodo oggetto del nostro studio Baghdad ebbe una importanza culturale ed economica tale da superare di gran lunga qualunque altra realtà analoga, importanza che certamente ebbe un impatto anche in Europa: in Spagna, a Costantinopoli, e persino nella lontana Aquisgrana, dove la corte di Carlo magno seguiva con attenzione quella di Harun al-Rashid, mentre il contrario sembra meno probabile.
P. 348-49
La comunità, naturalmente, non sempre era d’accordo al suo interno. Abbiamo già incontrato la divisione tra sunniti e sciiti, che si cristallizza nel 9. secolo in sistemi politico-religiosi alternativi. Ciascuno di questi sistemi, tuttavia, aveva anche propri sottosistemi, scuole di pensiero rivali riguardo a come la religione, l’azione politica e il diritto dovessero essere interpretati e gestiti. All’interno di quella che si sarebbe chiamata la tradizione sunnita, ad esempio, dall’inizio dell’8. secolo si assistette a un notevole dibattito volto a stabilire in che misura la pratica giuridica islamica (sharia) dovesse basarsi sulla legislazione (presumibilmente emanata dai califfi), ovvero venire dedotta dai principi etici fondamentali derivati dal Corano, o anche dal sempre più elaborato insieme della “tradizione” (hadith), l’insieme di affermazioni attribuite al profeta Muhammad su pressoché qualsiasi problema giuridico o morale immaginabile. (Queste attribuzioni in realtà fornivano una legittimità religiosa alla consuetudine locale, sebbene la consuetudine in sé non venisse mai considerata come una fonte legittima del diritto). Alla fine, i “tradizionalisti” la spuntarono, ma le quattro principali scuole giuridiche dell’Islam medievale sunnita, che si rifacevano rispettivamente ad Abu Hanifa (m. 767), Malik (m. 795), al-Shafi (m. 820) – intellettualmente il più autorevole – e Ibn Hanbal (m. 855), differirono considerevolmente in rapporto allo hadith, con i seguaci di Hanifa più aperti all’argomentazione giuridica e gli hanbaliti più rigidamente attaccati ad una sua interpretazione letterale. Le scuole di cui si è detto, e altre meno durature, arrivarono ad offrire un paesaggio di reciproca tolleranza, precisamente in quanto costitutive dell’opinione degli ulama sunniti, ed entro il 900 circa diedero corpo a quella che è stata chiamata la “chiusura delle porte del ragionamento indipendente”: in teoria, nessuna nuova legge o parere giuridico, anche emanante da un califfo o da altra autorità politica, sarebbe stato più accettabile. Il diritto islamico divenne così sempre più immobile (anche se ciò non valeva per la pratica giuridica). Simile atteggiamento valse a caratterizzare ulteriormente gli ulama alla stregua di una casta culturale, sebbene altre discipline continuassero a evolversi per secoli, allo stesso modo in cui i precetti dottrinali della cristianità orientale e occidentale circoscrissero l’evoluzione culturale europea per tutto il Medioevo.
P. 356
Lo smembramento del califfato abbaside, che per un centinaio d’anni aveva costituito lo stato più forte dell’intero pianeta (la Cina della dinastia Tang entrò in crisi nel e dopo il decennio 750-60) richiederebbe un’indagine e un insieme di spiegazioni altrettanto dettagliate di quanto fatto per l’Impero romano. Se dispongo la sequenza degli eventi in un paio di pagine, è solo perché ormai, dopo il decennio 650-70, la sua storia, tranne che per brevi periodi, è limitata all’Iraq, troppo lontana quindi da quella europea. Nel mondo islamico il 10. Secolo, come già osservato, fu persino più frammentato, con i Samanidi e quindi i Ghaznavidi nell’Iran occidentale e in Iraq, due entità politiche hamdanidi ad Aleppo e (per più breve tempo) a Mosul, un insieme di dinastie curde nelle montagne a nord e a est, i Qaramiti nel deserto arabico, gli Ikhshididi e quindi i Fatimidi in Egitto, e pure altre unità politiche – e insieme quelle del Maghreb non più sotto controllo abbaside dall’inizio del 9. secolo e anche prima, gli Aghlabidi nell’odierno Marocco, e gli Omayyadi in Spagna. Non è qui possibile seguire tutte le loro storie. Ma prima di considerarne due nello specifico, occorre fare un bilancio del secolo dell’unità abbaside e del suo fallimento.
Una prima ragione che spiega il crollo del califfato abbaside è semplicemente il suo essere troppo grande.
…….
I problemi per gli Abbasidi cominciavano in genere in Iran: Iran ed Egitto erano molto più semplici da governare e dopo la caduta degli Omayyadi la Siria, per due secoli, venne estromessa da qualunque protagonismo politico.
P. 364-65
Tuttavia, una separazione tra il “ceto sociale” e le società provinciali e locali esisteva, ed essa costituiva un problema. In generale, fare carriera in una città e fare carriera nello Stato erano due cose diverse, non solo nel califfato abbaside, geograficamente così esteso, ma anche nelle realtà politiche provinciali del 10. secolo. Ciò significava che le società locali erano nella posizione di poter considerare le cangianti fortune dei loro sovrani con una certa equanimità: questi ultimi erano per la maggior parte figure esterne, benevole o violente, generose o fiscalmente capaci, colte o marziali, senza un collegamento strutturale con i ceti dei governati. Con la secolarizzazione del governo, ora che la sorte dell’Islam era stata consegnata agli ulama, l’immagine salvifica del governo giusto, così efficacemente invocata da Abu Muslim e dai primi Abbasidi, svanì dalla gran parte dei programmi politici. Come vedremo tra breve, solo i Fatimidi vi si riaccostarono nel 10. secolo. Quando un sovrano locale si trovava di fronte a un fallimento militare, perché un blocco nell’approvvigionamento fiscale rendeva difficile pagare le truppe, o semplicemente a seguito di una sconfitta in battaglia, poteva essere sostituito senza che la società locale fosse realmente coinvolta, posto che il nuovo sovrano non prendesse il potere con particolare violenza. Si diedero certamente esempi di un protagonismo lealista delle élite locali, come quando nel 989 i cittadini di Mosul espulsero i Buyidi riportando temporaneamente al potere i loro precedenti sovrani, gli Hamdanidi, ma rimasero casi isolati. In un certo senso, in effetti, la grande facilità con cui gli Abbasidi persero il potere fra il 910 e il 945, per venire sostituiti da regimi che per la gran parte assomigliavano al loro, finisce per rappresentare un vero fallimento strutturale: per quanto fosco fosse il periodo, avrebbe dovuto esserci spazio per qualcuno che facesse di più, un eroe votato alla sconfitta, portatore di una più antica legittimità. Gli Abbasidi non ci hanno lasciato storie di questo tipo, e neppure, in seguito, i Buyidi. Le storie che continuarono ad attrarre l’attenzione furono ancora sasanidi, o della Baghdad fantastica e senza tempo di Harun al-Rashid e delle Mille e una notte.
P. 367-68
La Spagna, tuttavia, presentava una situazione diversa rispetto alla maggioranza delle altre province del califfato. Di gran lunga più decentralizzata, e anche, almeno per un secolo, con un’economia decisamente meno complessa, la sua produzione artigianale relativamente più specializzata e assai più localizzata ricordava le economie del resto d’Europa piuttosto che le province del califfato economicamente complesse e fortemente urbanizzate, Egitto, Siria e Iraq. Persino le sue città più grandi, che sotto gli Arabi come sotto i Visigoti erano Cordova, Siviglia, Mérida, Toledo, Saragozza, e poche altre, furono a lungo relativamente piccole rispetto a quelle del Mediterraneo orientale. La Spagna era anche una delle poche province conquistate dagli Arabi ad avere un sistema fiscale frammentario, un fatto certamente cruciale. Erano quindi impraticabili le procedure standard dell’occupazione araba, basate su una élite militare stipendiata di stanza in una (forse nuova) città guarnigione. I Berberi, che nel decennio 710-20 erano di recente islamizzazione (quando non erano addirittura convertiti), volevano senza dubbio semplicemente insediarsi sulla terra conquistata, e così fecero. I Siriani, tuttavia, inviati nel decennio 740-50 come un normale esercito stipendiato, s’insediarono anch’essi sul territorio – all’inizio come esattori di imposte, di lì a poco come proprietari terrieri – e prestavano solo servizio nell’esercito (per il quale venivano pagati a campagna militare); essi si imparentarono con l’aristocrazia visigota, e nel 10. secolo, come vedremo, si trovavano famiglie orgogliose dei loro antenati tanto arabi che visigoti.
P. 372
Bibliografia
Storia della più grande dinastia islamica: ascesa e declino della corte dei califfi / Kennedy. – Roma, 2005
Introduzione al diritto musulmano / J. Schacht. – Einaudi, 1995
La letteratura araba / R. Allen. – Bologna, 2006
Pensiero greco e cultura araba / D. Gutas. – Einaudi, 2002
Cap. 15. Lo Stato e l’economia: reti di scambio nel Mediterraneo orientale, 600-1000
Come abbiamo visto, e come vedremo nuovamente, dopo la fine dell’Impero romano in Occidente – uno Stato forte e centralizzato che muoveva grandi quantità di beni per proprio interesse – lo scambio nei regni post-romani dipendeva, quanto a intensità, dalla ricchezza dei proprietari terrieri: aristocratici, chiese, re. Quanto più ricchi erano i proprietari, tanto più lo scambio era attivo e più complessi erano i suoi modelli. Analoga considerazione vale grosso modo per il mediterraneo orientale; in questo caso, tuttavia, la presenza dello Stato, basata sulla riscossione delle tasse, era ancora avvertibile, e il suo potere d’acquisto si poneva per solito su una scala decisamente maggiore rispetto a quella dei proprietari terrieri privati. Inoltre, la ricchezza privata consentiva ai singoli di accedere alle cariche dello Stato, e così ai maggiori emolumenti resi possibili dalla tassazione. Questo era vero anche nel mondo islamico, dove i proprietari terrieri privati erano per solito meno automaticamente legati al potere politico, e quindi potrebbero essere considerati come una fonte rivale di domanda rispetto a quella rappresentata da funzionari e militari. Nel complesso, è la ricchezza variabile del settore statale a costituire nell’Oriente bizantino e arabo la miglior guida alla scala variabile della domanda e quindi dello scambio. Dove la ricchezza fondiaria privata aveva una diversa linea di sviluppo rispetto a quella dello Stato, essa deve aver influenzato pure la domanda, e la sua variazione locale aggiunge complessità alle nostre analisi. Ma grosso modo i due tipi di ricchezza andavano di pari passo in gran parte dell’Oriente, e il sistema statale è anche documentato decisamente meglio. Di conseguenza mi soffermerà maggiormente su quest’ultimo.
P. 384
La storia economica di ciascuna delle regioni esaminate è stata diversa tra il 7 ed il 10. Secolo, ma ha avuto anche elementi strutturali comuni. La persistente forza dello Stato tanto a Bisanzio che in Egitto ha compensato, quale motore dello scambio, la temporanea diminuzione della ricchezza dell’aristocrazia locale, nonostante simile compensazione operasse in misura minore a Bisanzio dove nel 7. e nell’8. secolo lo Stato dovette affrontare notevoli difficoltà. In Siria, le aristocrazie conobbero condizioni di prosperità sino al 750, ma furono meno integrate dallo Stato omayyade in un unico mercato regionale di quanto i governatori omayyadi riuscissero a fare in Egitto: dopo il 750 accadde l’opposto, con la diminuzione della prosperità dei centri locali ma con lo sviluppo di un’integrazione del commercio regionale orientata dal fisco. In Iraq, nel tardo 8. secolo, tanto le aristocrazie che (in maniera preponderante) lo Stato accrebbero la propria forza, facendo della regione per un secolo e mezzo un importantissimo centro agrario, artigianale e commerciale, dopo di che essa perse nuovamente terreno. Possiamo anche aggiungere a questa carrellata di esempi al-Andalus, in Occidente, dove per tutto il periodo di cui ci stiamo occupando esistette un insieme di aristocrazie locali di diversa ricchezza sebbene lo Stato divenisse notevolmente più forte nel 10. secolo, permettendo l’integrazione dell’economia dell’intera penisola e la creazione di specializzazioni produttive per l’esportazione tra cui la seta, lo zafferano e il qirmis (tintura cremisi). Altrettanto può dirsi del nucleo centrale della Tunisia, l’Ifriqiya, sebbene qui si abbia la presenza di uno Stato già nel 9. secolo. In numerosi luoghi (eccettuata forse la Siria) il 9. secolo vide un maggior volume di scambi interni rispetto all’8. secolo, e il 10. secolo (eccettuato l’Iraq) un maggior volume di scambi interni rispetto al 9. secolo.
P. 404
Nel 9. secolo la situazione venne lentamente rovesciandosi. L’ascesa di Venezia e della rotta adriatica dopo il 750 circa ne è n piccolo segno: piccolo, perché Venezia si concentrava sul commercio dei generi di lusso prima menzionato, sebbene, data la crescita così veloce della ricchezza veneziana nel 9. secolo, quest’ultimo debba essere stato in espansione. Venezia commerciava con Bisanzio e anche con Alessandria, da dove nel decennio 820-30 trafugò il corpo di San Marco, da qui in avanti il santo patrono della città.
P. 405-6
Il 10. secolo vide quindi il commercio mediterraneo raggiungere – e sorpassare – la complessità che il commercio del Mare del Nord aveva già toccato nell’8. e nel 9. secolo: la ricchezza agricola e la complessità produttiva dell’Egitto costituiscono il cuore di questa dinamica. Persino dopo che le flotte italiane ebbero parzialmente assunto il ruolo di intermediari anche per il mondo arabo – cosa che avvenne entro il 1100 - l’Egitto rimase ancora il cuore di questo scambio, e insieme il punto di snodo per i generi di lusso provenienti dall’Oceano indiano; fu il motore che fece girare l’intero ciclo medievale. Ciò che accadde nel 10. secolo fu che le economie fu che le economie delle altre regioni mediterranee iniziarono ad essere, almeno in alcuni settori, altrettanto complesse di quella dell’Egitto, cosicché relazioni di reciproca dipendenza economica divennero più sicure, meno rischiose, e solide abbastanza da poter costituire la piattaforma per ulteriori sviluppi. In ogni epoca della storia, è stata questa la base per lo scambio di grandi volumi di merci.
Dobbiamo tuttavia terminare questa analisi ribadendo un punto già trattato in precedenza: in ogni parte del Mediterraneo, i più importanti sistemi di scambio erano non interregionali ma intraregionali. Cuore di questa dinamica erano lo scambio città-campagna e le specializzazioni agricole e artigianali microregionali, non le banchine di Venezia o di Almeria, Tunisi o Antalya, Palermo o Alessandria. Né stiamo qui considerando processi di scambio capaci di autosostenersi; per quanto attivi fossero i mercanti di Fustat e d Venezia, i processi in questione non sarebbero venuti a maturazione ancora per molti secoli. Lo sviluppo economico interno dipendeva essenzialmente dalla forza della domanda interna, e quindi dalla ricchezza delle élite, e dunque dall’estrazione di un surplus dai contadini. Nel 9. e nel 10. secolo, nel Mediterraneo come nell’Europa settentrionale, questo surplus si accrebbe, consentendo la nascita di un ambiente più complesso e vivace e la produzione di prodotti artigianali (come i tessuti) abbastanza economici da essere venduti nei villaggi: prodotti, nondimeno, che costituiscono segni tanto di sfruttamento quanto di dinamismo. Ritorneremo su questo tema nel contesto dell’Europa settentrionale nel capitolo 22, in cui presenteremo più dati relativi alle sue ricadute sulla maggioranza contadina.
P. 408
Bibliografia
Storia economica e sociale del vicino Oriente nel medioevo / E. Ashtor. – Einaudi, 1982
I bacini ceramici medievali nelle chiese di Pisa / G. Berti, L. Tongiorgi. – Roma, 1981
Parte 4.: L’Occidente carolingio e post-carolingio, 750-1000
Cap. 16. Il secolo carolingio, 751-887
Nel decennio 790-800 la corte si venne ulteriormente consolidando secondo due direttrici. Negli anni 794-6, ed è il primo punto, Carlo Magno fondò la propria capitale ad Aquisgrana, nel cuore dell’Austrasia settentrionale pipinide, e nei decenni successivi egli e il figlio Ludovico la arricchirono di edifici ambiziosi, uno dei quali, la cappella del palazzo costruita in dimensioni pari a una cattedrale, ancora esistente. Invecchiando, Carlo magno trascorse sempre più tempo nella sua capitale (era vicina alla foresta delle Ardenne, tra le migliori riserve di caccia reali), e per la prima volta nella storia franca questa divenne uno stabile centro politico e amministrativo. I re si muovevano ancora, e al loro seguito si muoveva la corte, ma due generazioni di cortigiani trovarono ad Aquisgrana lo sfondo naturale dell’azione politica.
Il secondo punto è che nell’800 Carlo magno ricevette un nuovo titolo, quello di imperatore, in una cerimonia a Romain cui venne (nuovamente) unto dal papa. L’importanza del titolo non dovrebbe qui venire esagerata, essendo meramente onorifico. Ma Carlo magno ne era orgoglioso, ed era impaziente di essere riconosciuto tale dai (si potrebbe dire “veri”) imperatori bizantini, cosa che ottenne nell’812 dopo aver minacciato l’enclave ancora bizantina di Venezia. Dopo l’800 il linguaggio simbolico imperiale iniziò a pervadere pure la legislazione carolingia. La verità è, tuttavia, è che già entro la fine del decennio 780-90, grazie ai successi militari, Carlo magno aveva raggiunto un dominio di respiro europeo occidentale e poteva contare sul sostegno quasi unanime da parte dei suoi sudditi, su una centralità politica, cioè, quale nessuno in quelle terre aveva eguagliato dai tempi dell’imperatore romano Valentiniano 1.Persino i più forti dei Merovingi, Clodoveo o Dagoberto, non avevano governato tali estensioni do territorio o goduto di un così duraturo successo. La macchina militare di Carlo Martello e la fortuna di quattro generazioni quasi ininterrotte di sovrani (i figli di Carlo Magno, tra i quali intendeva dividere le sue terre, gli premorirono tutti tranne Ludovico), costituirono la base di questo successo, coronato però dal carisma di Carlo magno. La domanda, allora, era cosa ne avrebbe fatto.
P. 419
L’impero carolingio era enorme, più grande id quanto ia mai stato qualunque altro Stato in Europa eccetto che per pochi anni, al massimo delle loro fortune, quelli di Napoleone e Hitler; era anche tutt’altro che uniforme, andando dai territori ancora semipagani e privi di strade della Sassonia, alle antiche società urbane della Provenza e dell’Italia. Controllarlo, senza disporre dell’elaborato sistema fiscale e amministrativo dell’Impero Romano o del califfato, rappresentava una sfida quasi impossibile. La politica assembleare era parte della risposta; lo stesso deve dirsi per l’adunata dell’esercito; mentre il palazzo, la corte del re o imperatore, sia ad Aquisgrana che altrove, costituiva un perenne magnete per gli ambiziosi, cercassero essi giustizia, doni o promozioni.
P. 425
Bibliografia
L’Impero carolingio / H. Fichtenau. – Laterza, 2000Feudi e vassalli: una nuova interpretazione delle fonti medievali / S. Reynolds. – Roma, 2004
Le società dell’alto Medioevo: Europa e Mediterraneo, secoli 5.-8. / C. Wickham. – Roma, 2009
Cap. 17. Intellettuali e politica
I tre più importanti sistemi politici del 9. secolo, la Francia, Bisanzio e il califfato, ebbero tutti, in una forma o nell’altra, politiche ispirate a un consapevole progetto riformatore, e vale la pena considerarli comparativamente. Il fatto che fossero grosso modo coevi mi sembra essere frutto del caso; non c’è nulla che leghi il successo militare di Carlo Magno e il suo senso di una missione religiosa, la stabilizzazione del ridimensionato impero bizantino nell’8. secolo che consentì la ripresa della scrittura nella capitale già nell’800 circa, e la centralizzazione fiscale che alimentò Baghdad e la straordinaria attività intellettuale del periodo abbaside. Nondimeno, la loro contemporaneità rende almeno più difficile considerare ciascuno di questi fenomeni e processi come un unicum, come spesso fanno gli storici. I governi medievali si consideravano legittimati dalla loro superiore moralità religiosa (i governi usano ancora questo metro); e i governi forti, come questi tre, erano in grado di dar vita a numerosi progetti a carattere morale e intellettuale. Ma nonostante tutto non si trattava affatto degli stessi progetti; le loro differenze sono anzi più interessanti delle somiglianze.
A Bisanzio nel 9. e nel 10. secolo si assistete al costante sviluppo di una classe dirigente istruita, in larga misura laica; l’istruzione bizantina, analogamente ad alcune riforme istituzionali adottate nel 9. secolo (in particolare in ambito giuridico), era volta a far rivivere le tradizioni greco-romane, tra cui l’assunto che gli uomini che gestivano lo Stato dovessero possedere una estesa cultura letteraria. Ma la cultura includeva ormai un forte elemento religioso, fatto a sua volta legato all’importanza religiosa dell’imperatore quale centro dell’ortodossia e punto di irradiazione di elaborati rituali politici. Abbiamo visto nel capitolo 13 che i Bizantini non avvertivano l’urgenza morale e politica che è possibile osservare nella correctio carolingia, urgenza forse parzialmente attribuibile alle radici relativamente recenti del progetto carolingio. I Bizantini sapevano di avere un millennio di potere imperiale alle spalle, per più di metà cristiano, e che la sua rinascita, dato il successo romano nel passato, era ambizione di per sé sufficiente; al contrario, nel tardo 8. secolo, la sicurezza di sé dei Franchi da un punto di vista religioso era qualcosa di nuovo, di strettamente legato alla fede di Carlo Magno nella sua unicità e poi all’impegno morale personale al quale Ludovico il Pio conformava la propria azione. Lo Stato bizantino era anche, ovviamente, più solido di quello franco, e istruzione e cultura letteraria poterono consolidarsi per diversi secoli, a differenza delle tre generazioni su cui poté contare l’esperimento carolingio. Se i Bizantini avvertivano meno la pressione dell’urgenza, considerando come loro impegno la semplice riscoperta del passato romano, ciò non significa fossero necessariamente in errore.
Gli Abbasidi furono in generale altrettanto certi di Bizantini e Carolingi della loro centralità in relazione alla salvezza religiosa dell’umanità; ma simile convinzione operava in modo diverso nel califfato. Dopo il 750, la stessa centralità religiosa del califfo era in declino; solo la mihna dell’833-47, introdotta da al-Ma’mun, tentò di ripristinarla, ma senza successo. La mancanza nell’Islam di una classe sacerdotale specializzata significò che gli interpreti della religione musulmana, i quali effettivamente divennero i suoi esclusivi custodi già entro l’850, furono definiti più liberamente come una classe colta, gli ulama. Nel califfato del 9. secolo, come nella Bisanzio contemporanea, l’istruzione, nelle sempre più elaborate tradizioni dell’Adah, preparava gli individui all’arte del governo, ma, spesso simultaneamente, li predisponeva ad assumere un’autorità religiosa. D’altra parte, nessuna gerarchia ufficiale personificava nell’Islam quella autorità; erano la conoscenza religiosa e l’abilità retorica e filosofica a far si che un individuo diventasse un capo religioso, non la nomina a imperatore, patriarca/papa, vescovo o abate. Dopo l’847 ne risultò una pluralità di voci, al suo meglio altamente stimolante, che tuttavia di rado spinse lo Stato in una specifica direzione. Anzi, da allora in poi, eccetto che nel califfato fatimide, i califfi e gli altri leader politici furono in larga misura tagliati fuori dalla politica in quanto portatrice di un progetto morale; di conseguenza, sebbene l’istruzione, compresa quella religiosa, fosse essenziale tanto per la carriera politica che per la primazia religiosa, essa non produsse l’equivalente degli intellettuali politicizzati dalla corte carolingia, semplicemente perché il sostegno ai sovrani e il coinvolgimento nella loro politica non erano così essenziali per uno studioso. Nel mondo islamico si ebbero certo intellettuali politicamente rilevanti: si pensi a Nizam al-Mulk (m. 1092), visir dei Turchi selgiuchidi e importante teorico del governo; uomini come lui hanno il loro corrispettivo in figure come Fozio e Bisanzio, e, naturalmente, Alcuino e Incmaro In Francia. Ma l’intellettuale musulmano non si definiva in via prioritaria a partire dal potere politico: quella tracciata dal potere politico costituiva semplicemente la carriera più remunerativa. La riforma morale non procedeva dallo Stato, come accadeva tanto a Bisanzio, data la centralità religiosa dell’imperatore, quanto in Occidente. Il cerimoniale politico arabo – altrettanto elaborato di quello di Costantinopoli – era meno carico di significati religiosi, e oggetto di minori e meno sistematiche riflessioni teoriche di quanto avvenisse sia a Bisanzio che in Francia.
La solidità dei sistemi politici bizantino e arabo (in ciascun caso frutto di una complessa struttura fiscale, assente in Occidente), rafforzata nel caso arabo dalla crescente separazione tra il sistema politico califfale e post-califfale e la questione della salvezza religiosa, alimentò sicuramente l’idea che la cultura fosse una chiave per la supremazia politica; Tuttavia, non sino al punto di far ritenere che una specifica formazione religiosa per le classi dirigenti fosse essenziale per la sopravvivenza dello Stato, o che compito dello Stato fosse principalmente la salvezza della comunità del regno. È questo a segnare l’originalità del progetto carolingio. Per oltre un centinaio d’anni lo Stato carolingio fu estremamente solido e a tal punto fiducioso in se stesso da considerare il compito della salvezza come realmente realizzabile. La rete di intellettuali che circondarono tre generazioni di sovrani carolingi esisteva precisamente a questo scopo. Lo stesso vale per lo spazio pubblico del rituale politico, che, sebbene più semplice che in Oriente, era almeno altrettanto carico di significato – nonché osservato e analizzato – che a Bisanzio; nei momenti chiave (come nell833-34, per ricordare solo un caso ovvio), probabilmente ancora di più. Nella Francia del 9. secolo tutti i più importanti avvenimenti politici furono oggetto di dibattito e investiti di un significato morale, spesso con interpretazioni tra loro in contrasto, situazione che favorì la nascita di uno spazio per l’intellettuale politico in una forma rara, se non del tutto assente, a Bisanzio e nel mondo arabo. Uomini come Eginardo o Lupo di Ferrières, infatti, anche se non ebbero mai un ruolo amministrativo, in esso, erano importanti nello Stato, e ascoltati nei concili, proprio a causa della loro dottrina e capacità di leggere il presente; e inoltre, quanto meno per breve tempo, in Francia furono certamente più numerosi gli Ilduini e gli Incmari, uomini che detenevano posizioni ufficiali ma che avevano anche un programma politico o morale, di quanto fossero i Fozii o i Nizam al-Mulk.
Se il progetto di riforma carolingio viene osservato dal punto di vista dell’Occidente altomedievale, può talora sembrare grandioso: in quanto prodotto del regime politico di maggior successo espresso dall’Europa latina tra il 400 e almeno il 100, non sorprende avesse tale fortissima adesione e innescasse una simile corposa attività culturale. Se si guarda allo stesso progetto dal punto di vista delle contemporanee Costantinopoli e Baghdad, allora esso sembra eccessivamente ansioso quanto ai risultati, iperattivo, dotato di radici poco profonde e – ovviamente – poco duraturo. Di fondo, data la debolezza strutturale di tutti gli stati dell’Occidente medievale, quest’ultima considerazione è decisiva (L’ansia è anche perdonabile; dev’essere stato duro avere Dio quale pubblico attento ad ogni minima azione personale, come credevano i Carolingi). Ma è tuttavia di grande interesse, e per la verità sorprendente, che i Carolingi attingessero simili vette. Nella moralizzazione della politica franca, nella formazione di almeno due generazioni di aristocratici laici, e anche nella crescente razionalizzazione del governo, i Carolingi ottennero dei risultati, diversi da quelli ottenuti dai Bizantini e dagli Arabi, ma comunque dei risultati. Il progetto carolingio perse smalto nel decennio 880-90, anche prima della caduta di Carlo il Grosso, avvenuta nell’887. Incmaro, morto nell’882, fu l’ultimo leader politico realmente interessato alla centralità della dottrina, proprio come Carlo il Calvo fu probabilmente l’ultimo re realmente interessato a conoscerla. Potrebbe essere questo il punto cruciale. I vescovi franchi del 10. secolo controllarono i concili riformatori, ma furono in prevalenza figure di ambito locale, e meno legate alla politica regia, eccetto occasionalmente nella Germania del tardo 10. secolo; lo sforzo educativo (e la copiatura dei manoscritti) proseguì nei monasteri e nelle scuole cattedrali, ma dopo il decennio 870-80non ebbe ricadute sulle decisioni politiche. Vale a dire. Il mondo ecclesiastico non era poi così cambiato, ma il contesto politico era del tutto diverso. L’ottimismo e la fiducia del secolo carolingio, il senso che quanto la politica franca decideva importasse a Dio, fu ciò che tenne in vita il progetto di riforma; e il fallimento della dinastia negli anni 877-87, seguito da una politica molto meno ideologica negli stati non carolingi che le succedettero, spinse l’opera riformatrice sul palcoscenico dell’attività pastorale.
I sistemi politici di successo poterono nondimeno riprendere alcune parti del programma carolingio. L’inizio dell’11. secolo in Germania, ed anche il tardo 10. secolo in Inghilterra, videro entrambi la parziale riassunzione della dimensione morale della riforma come elemento dell’alta politica. Il progetto, cioè, era sempre in attesa di essere applicato, anche se gli stati più piccoli del futuro non sarebbero stati in grado di sollecitare una riflessione teorica che per numeri e qualità potesse stare ala pari con quella che segna i decenni centrali del 9. secolo; per questo ci sarebbe stato bisogno di un nuovo ambiente, le città e l’economia monetaria del 12. secolo. Il presupposto politico che i re e i vescovi agissero congiuntamente, con i re che sceglievano i vescovi ma con i vescovi che avevano il diritto di “correggere” i re, il tutto in vista di un governo al contempo efficiente e morale e della prosperità tanto in questo che nell’altro mondo, seguitò tuttavia a mantenersi, quanto meno come aspirazione, continuando a costituire un assioma della politica occidentale almeno sino al tardo 11. secolo e per molti aspetti per un tempo molto più lungo. Posto al centro della scena dai Carolingi, avrebbe avuto un lungo futuro.
P. 466-71
Bibliografia
Traslazione e miracoli dei santi Marcellino e Pietro: storia di scoperte e trafugamenti di reliquie nell’Europa carolingia / P. E. Dutton. – Pisa, 2009
Furta sacra: la trafugazione delle reliquie nel Medioevo, secoli 9.-11. / P. J. Geary. – Milano, 2000
Cap. 18. Gli stati eredi del 10. secolo
E dopo il 1000 circa, quando le stesse contee iniziarono a scindersi in signorie più piccole, ciascuna con i suoi ristretti poteri politici, giudiziari e militari, nella maggior parte della Francia occidentale si assistette ad un ulteriore involuzione: tutto il sistema politico dell’enorme impero di Carlo magno ridotto alla scala di pochi villaggi. Il processo appena delineato, la cosiddetta “rivoluzione feudale”, verrà esaminato più avanti.
L’egemonia della storiografia francese del tardo 20. secolo relativamente al Medioevo centrale, il quale inizia sotto questi aspetti intorno al 1000 o appena prima, ha fatto sì che l’esperienza franco-occidentale appaia come la tipica evoluzione post-carolingia. Come dovrebbe essere chiaro ai lettori di questo capitolo, non è affatto così. Ancor meno tipica, come vedremo, fu la “rivoluzione feudale”, perché essa riguardò solo alcune parti della stessa Francia occidentale. Dovunque, è vero, il potere fu eminentemente locale, strutturato su terre, diritti, eserciti e giuramenti di fedeltà, e anche in Italia, e persino in alcune parti della Francia orientale, nel 1000 fu più locale rispetto al 900. Ma nella maggior parte dei luoghi status e identità aristocratici erano ancora legati all’essere vicino al re, o almeno ai più importanti poteri regionali come il duca di Baviera, il marchese di Toscana o il conte delle Fiandre. Persino in Italia, sebbene le identità potessero essere strettamente legate ai territori civici, la forza istituzionale del regno, quale eredità del periodo longobardo e carolingio, era ancora un valore. Ed elementi di una comune prassi politica, anch’essi ereditati dai Carolingi e solo in parte modificati dopo il 900, esisterono in tutti i territori post-carolingi, persino in Occidente. Finiremo il capitolo considerando come funzionassero.
P. 491-92
Il 10. secolo ha avuto il problema di essere stato visto in modo duplice dagli storici: si dovrebbe considerarlo come un secolo post-carolingio che prolunga le strutture e i valori politici del 9. secolo (sebbene, per alcuni, non così efficacemente), o come il preludio della politica e delle controversie del periodo successivo al 1000 o al 1050? Un libro che si chiude al 1000, come questo, darà inevitabilmente più attenzione alla prima tesi, come sin qui ho fatto. Ma il 10. secolo mi sembra effettivamente più “carolingio” di quanto non sia l’11., compreso il mondo frammentato della Francia occidentale: nel tardo 10. secolo, persino un piccolo principato occidentale come l’Angiò o la Catalogna usava ancora molte delle procedure pubbliche carolinge, e la Toscana o la Sassonia, o il regno/impero ottoniano considerato nel complesso, facevano ricorso alla quasi totalità di esse. Non intendo portare avanti a questo caso la tesi di una semplice e immutata stabilità, e infatti le ultime pagine hanno sostenuto l’opposto. Ma i parametri politici del mondo del 10. secolo, compresa la sua violenza, e una pari misura di cinismo e opportunismo, mi sembrano – se davvero occorresse scegliere - guardare indietro piuttosto che avanti. Soprattutto, l’insistenza propria del 10. secolo sul mondo pubblico delle assemblee e dei rituali collettivi su vasta scala si sarebbe in futuro attenuata. Nella Francia occidentale era già minore negli ultimi decenni del 10. secolo; in Italia avrebbe trovato alimento ancora per un altro secolo, scomparendo poi piuttosto velocemente attorno al 1100; nella Francia orientale le assemblee avrebbero continuato a lungo ad avere un ruolo a livello di regno, venendo meno tuttavia in alcune località molto più rapidamente. La politica assembleare venne lentamente trasformandosi nella politica delle corti regie e principesche, gruppi scelti dai sovrani piuttosto che rappresentanti (anche se, in pratica, aristocratici) delle comunità politiche. Con il concretizzarsi di questi cambiamenti, appartenenza, lealtà, e senso della gerarchia sarebbero diventati vieppiù personali, e la relazione di dipendenza dal signore maggiormente in evidenza, con un cerimoniale e un’etichetta decisamente più complessi. Sono, questi, i segni del Medioevo centrale, non dell’alto Medioevo, e nel 1000 iniziavano appena ad essere visibili. Una conseguenza del cambiamento così delineato è che l’11. secolo, almeno nella Francia occidentale, ma in qualche misura anche in Italia, raramente volgeva lo sguardo al 10. Dopo il 1000, la storiografia in Italia restringe decisamente il proprio orizzonte, dando poco spazio alla politica del regno; il 10. secolo viene ricordato soltanto attraverso brevi racconti emblematici, come la lussuria di Ugo o il percorso portato da Ottone 1. alla futura seconda moglie Adelaide, caduta nelle mani di Berengario 2. Nella Francia occidentale, Rodolfo il Glabro, il quale scrive giusto una generazione dopo Richerio, è almeno interessato ai re della propria epoca, ma per il periodo antecedente al decennio 990-1000 è quasi sprovvisto di informazioni e volge nuovamente le poche che ha in storie esemplari: la cattura di Carlo il Semplice da parte di Eriberto, la guerra di Lotario contro Ottone 2., o la cattura da parte degli Arabi dell’abate Maiolo di Cluny nel 972; il dettagliatissimo resoconto del suo tempo non ha alcun bisogno della storia passata per spiegare i fatti che analizza, ed è probabile che ai suoi occhi non li spiegasse affatto. Questa riorganizzazione della consapevolezza storica segna il fallimento, ad occidente e a sud delle terre franche, del mondo politico carolingio e dei suoi tradizionali metodi di legittimazione: troppe cose del passato non significavano ormai più niente. Solo Carlo Magno sopravviveva, come una figura sempre più mitica e destoricizzata, affiancata in qualche area della Francia occidentale da Pipino 3. e Clodoveo; simboli inoffensivi di un lontano passato che legittimava il presente senza spiegarlo. Il 10. secolo venne così eclissato; a tal punto che alcuni dei suoi principali protagonisti non possono tuttora essere facilmente compresi. Ma nel 1000, quando il mondo, a giudizio di un Gerberto o un Tietmaro, per quanto pericoloso e imprevedibile, andava avanti perfettamente, questo non era un problema per nessuno.
P. 500-1
Bibliografia
L’Italia nel primo Medioevo: potere centrale e società locale, 400-1000 / C. Wickham. – Milano, 1997
Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano / G. Tabacco. – Einaudi, 2000
L’Italia dei poteri locali / L. Provero. – Roma, 1998
I confini del potere / G. Sergi. – Einaudi, 1995
Nobili e re / P. Cammarosano. – Laterza, 1998
Vescovi, conti e sovrani nella crisi del regno italico / P. Delogu. – In: Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari, 8(1998)
Cap. 19. L’Inghilterra “carolingia”, 800-1000
L’Inghilterra era così passata da una situazione che nel 700 la vedeva come la provincia post-romana dove la sudditanza contadina era minima, a una – che già nel 900 interessava larga parte del paese e al più tardi dall’11. secolo la sua totalità – in cui la sudditanza contadina fu la più completa e capillare dell’intera Europa. La signoria francese basata sulla giustizia privata non ebbe sviluppo in Inghilterra, ma non ve n’era quasi necessità; i contadini erano già assoggettati ai signor i come affittuari, e molti (diversamente dalla Francia) erano non liberi, e quindi non avevano neppure diritto alla giustizia pubblica.
P. 521
In Inghilterra i re poterono dunque rimanere centrali rispetto ad ogni calcolo politico semplicemente a motivo dei loro non intaccati poteri di patronato. E’ tale dinamica, soprattutto, a rendere l’Inghilterra differente, contraddistinguendo la sua traiettoria rispetto a quella degli altri stati che subentrarono ai Carolingi. In questo caso la “politica della terra” favorì certamente il potere regio e, in ultimo, il governo centrale.
P. 522-523
Lo sviluppo inglese rimane dunque paradossale. L’Inghilterra divenne il paese europeo dove il dominio dell’aristocrazia, basato sui diritti di proprietà, fu il più completo, essendo al contempo il paese post-carolingio dove i re mantennero un maggiore controllo delle strutture politiche, tanto tradizionali (assemblee, esercito) che di nuovo impianto (giuramento, tassazione). Ma il paradosso mi sembra tuttavia spiegabile: è la conseguenza tanto del patto oligarchico che permise la conquista sassone occidentale del resto dell’Inghilterra meridionale nel decennio 910-20, quanto della cristallizzazione dei diritti di proprietà che ebbe luogo nel 9 e nel 10. secolo. La storia dell’Inghilterra quale Stato più duraturo dell’Europa medievale inizia qui.
P. 523
Cap. 20. Ai confini d’Europa
In particolare, è effettivamente impossibile dire quali lingue si parlassero in numerose zone dell’Europa orientale e centrale prima, all’incirca, del 9. secolo. Ma la lingua, come abbiamo visto in altri luoghi di questo libro, non rappresenta mai nel periodo che stiamo studiando una guida sicura riguardo all’identità, costituendo quindi la meno importante delle tre aree di indagine sopra individuate. E’ più opportuno considerare i parlanti lingue slave come una parte, tuttavia consistente, di un insieme di comunità su piccola scala di agricoltori stanziali presenti nei vasti territori dal Baltico al Danubio, e anche spostatisi verso sud nei Balcani bizantini.
P. 534-35
Non si è mai data una comune identità “slava”, né nell’alto Medioevo né in seguito: nel nostro periodo le comunità obbedivano a lealtà tribali di carattere locale. Quanto le legava era semplicemente era semplicemente la rete della comune cultura materiale, appena descritta.
P. 535-36
La maggior parte degli studiosi chiama questi popoli, semplicemente, “Slavi”. Ciò, tuttavia, mi sembra problematico quanto chiamare i parlanti di lingua germanica o, più in generale, le popolazioni “barbare” del 5. secolo. 2Germani”; si tratta di termini tardi, che introducono concetti linguistici e di identità anacronistici in questo periodo. Come nei capitoli precedenti, utilizzerò qui il termine “sclaveno” per comprendere tutti i territori dove è presente la cultura materiale di cui si è detto nel paragrafo precedente. Ciò riflette il fatto che tanto i Franchi che i Bizantini conoscevano in effetti i loro vicini collettivamente come Sclaveni, anche se non tutte le comunità sclavene come qui le ho definite sarebbero state necessariamente chiamate con questo termine persino dai Franchi e dai Bizantini, e anche se nessuno degli Sclaveni stessi avrebbe usato questo termine. Alla fine, naturalmente, le lingue slave si diffusero su gran parte – mai sull’insieme – di questa vasta area culturale. Già all’inizio del 9. secolo Eginardo sosteneva che i popol sul confine carolingio “parlano quasi tutti una lingua simile”, presumibilmente lo slavo; entro il 10. secolo siamo in grado di avere maggiori certezze rispetto al fatto che le lingue slave fossero una caratteristica comune di quest’area culturale, e per questo periodo e il successivo utilizzerò più liberamente il termine “slavo”. (“Slavo” verrà utilizzato solo per denotare il gruppo linguistico. Le lingue slave, in particolare a meridione e ad oriente, vengono spesso chiamate “slavoniche”, ma questo termine verrà qui usato solo per la liturgia introdotta dai missionari bizantini).
P. 536
Ciascuna di queste tre entità, la Moravia, al Boemia e la Polonia Piast, ebbero probabilmente ad espandersi troppo rapidamente rispetto alle loro piuttosto semplici infrastrutture politiche, basate essenzialmente sul tributo al sovrano e sulla sua druzina. Furono decisamente meno stabili rispetto alla altrimenti simile entità politica rus’; è probabile che i modelli turchi seguiti dai Rus’ fossero maggiormente efficaci, ma è anche possibile che pressioni e pericoli per l’autorità politica fossero maggiori nei territori sclaveni/slavi occidentali in virtù della minaccia franca. Dopo il 1000, la presenza delle gerarchie ecclesiastiche avrebbe costituito una ulteriore risorsa per questi sovrani, e analoga funzione avrebbero svolto le più elaborate reti di dipendenza politica e il radicarsi della proprietà fondiaria dei privati quale base per la ricchezza aristocratica, regia o principesca, sviluppi, questi, influenzati tutti dall’esempio franco (adesso possiamo dire tedesco). E’ significativo che tanto in Boemia che (in maniera più dubbia) in Polonia, i più tardi tentativi di unificazione dell’11. secolo abbiano avuto maggiore successo. E’ solo allora, in realtà, che possiamo considerare Boemia e Polonia come entità separate; la “Polonia” in particolare, venne inventata dai Piast facendo leva su una rete di gruppi tribali che nessun confine naturale separava dai gruppi vicini.
P. 545
I sistemi politici e sociali descritti in questo capitolo coprivano mezza Europa, ed erano molto diversi. I territori sclaveni/slavi erano particolarmente estesi, e solo una pressoché totale mancanza di documentazione che perdura sin quasi alla fine del periodo oggetto del nostro studio giustifica il fatto di averne trattato in modo così sommario. Nel complesso, tuttavia, si danno tendenze comuni a tutte le società qui descritte. Intorno al 1000, i re e i principi furono in ogni regione più ambiziosi che intorno al 750; spesso governavano vaste aree, o quanto meno miravano a una egemonia di maggior respiro, e talvolta poterono anche giovarsi di strutture più elaborate quale base per il loro governo; erano anche, di frequente, più rilevanti per le società locali, cosicché il loro dominio era insieme più capillare ed esteso. La disparità nella documentazione di cui disponiamo per le diverse entità politiche prese in esame sottolinea al riguardo un elemento, talora un altro. Così, nella Spagna settentrionale, l’aristocrazia tendeva a radicarsi localmente nella proprietà fondiaria, una politica che ha analogie in Inghilterra. Questo processo fu meno completo nei territori celtici, scandinavi e slavi, dove le relazioni aristocratici-contadini furono più spesso quelle tra patrono e cliente, o tra chi riscuoteva e chi pagava tributi, o entrambe, sin dopo la fine dell’alto Medioevo. Fu questa una vera differenza, benché possa sembrare più accentuata visto che la nostra documentazione riguardo alla proprietà terriera è di gran lunga per la Spagna (e l’Inghilterra) che per le altre situazioni esaminate; è assolutamente possibile, ad esempio, che in una regione come la Boemia gli aristocratici stessero diventando proprietari giù nel 10. secolo, come certamente sarebbero stati non molto tempo dopo. In questo caso non siamo in grado di affermarlo perché le nostre fonti sono ancora insufficienti, ma certamente abbiamo segni del fatto che ciò stava accadendo in Croazia, altro territorio confinante con il mondo franco. Nel complesso, comunque, l’impulso a sviluppare un potere politico più ampio e capillare sembra essere il portato di due dinamiche specifiche. La prima riguarda lo sviluppo del potere aristocratico, e quindi la possibilità di gerarchie di dipendenza politica che si estendevano dai re e principi sino alle società locali. La seconda fu lo sviluppo di tecniche di governo e di controllo, solitamente (tranne che in Spagna e in Irlanda) prese a prestito dai poteri vicini: funzionari regi maggiormente specializzati, un sistema giudiziario più complesso e maggiormente controllato dai governanti, la capacità di sfruttare la manodopera per costruire fortificazioni di diverso tipo e, nelle aree di recente cristianizzazione, lo sviluppo di più solide gerarchie ecclesiastiche. Abbiam visto alcuni segni di queste differenti dinamiche nelle varie regioni, benché occorrerebbe un altro libro per districarsi nella frammentarietà della documentazione e svilupparle in un tutto coerente.
In generale, quanto più un sovrano (nella Rus’, una volta, una sovrana) poteva fare affidamento su tali dinamiche, tanto più stabile era il suo potere, e tanto più alte, di conseguenza, erano le sue ambizioni politiche. L’aggregazione politica fu forse più forte nella Rus’, e anche, in misura minore, in Bulgaria, Danimarca e Asturie-Leon; entro la fine del periodo in esame iniziò tuttavia a concretarsi, seppure in modo meno lineare e più contrastato, anche in Croazia, Boemia, Polonia e forse Norvegia, e anche (la situazione meno chiara tra quelle elencate) in Scozia. Nel Galles e in Irlanda, tuttavia, e anche in Svezia, l’ambizione regia non aveva ancora dietro di sé un adeguato sviluppo infrastrutturale, e l’espansione dei regni promosse l’instabilità più che basi solide per il governo (ciò è parzialmente vero anche per la Boemia e la Polonia); in alcune realtà, infine, come la costa baltica o l’Islanda (talvolta anche in Norvegia) simile espansione venne per qualche tempo vittoriosamente contrastata. Quelle appena delineate sono strade diverse verso un accresciuto potere politico, il quale da nessuna parte era inevitabile – e anche, di sicuro, non necessariamente preferibile, almeno se si faceva parte della maggioranza contadina, per la quale un governo più forte significava ovunque un più stretto controllo e un maggiore sfruttamento.
Colpisce, tuttavia, nonostante queste differenze, quanto generale fosse nella seconda metà del periodo che stiamo studiando il muovere verso un accresciuto potere politico, da una parte all’altra di quest’ampia fascia d’Europa. Nel 400 i sistemi politici forti e stabili si fermavano al confine dell’Impero romano tracciato dal Reno e dal Danubio. Nel 750 la situazione, fatta eccezione per alcune aree della Germania centrale e meridionale che erano sotto l’egemonia franca, è la stessa, mentre nei Balcani e in Gran Bretagna essi erano addirittura in arretramento. Ma nel 1000 entità politiche riconoscibili si erano consolidate nella massima parte dell’Europa, ad ovest del Volga e a sud della zona di cacciatori-raccoglitori di lingua finnica dell’estremo Nord: certamente più deboli dell’Impero romano, avevano tuttavia una sicura capacità di tenuta – metà dei paesi della moderna Europa, in effetti, e quasi tutto i più grandi, possono far risalire la loro origine, per quanto in modo fuorviante, ai regni e ai principati che occupavano allora la mappa europea. Tale diffuso sviluppo deve avere necessariamente una radice comune? Un’importante caratteristica del periodo successivo al 750 è che i più potenti sistemi politici d’Europa, al Francia e Bisanzio, ritrovarono stabilità e iniziarono ad espandersi; entrambi rappresentavano tanto una minaccia per i loro immediati vicini, i quali avrebbero dovuto diventare più forti o soccombere, quanto un modello, perché tutte le tecniche di governo or ora menzionate erano in questi paesi più sviluppate. L’Inghilterra utilizzò quale modello la Francia, ed entro il 10. secolo era essa stessa tanto una minaccia quanto un modello per i suoi vicini celtici; la Danimarca si diede una dimensione politica in risposta alle pressioni e alle influenze franche, ed entro il 1000 era anch’essa tanto una minaccia quanto un modello all’interno della Scandinavia. L’egemonia khazara nelle steppe dell’Ucraina ebbe un effetto simile sulla Rus’. I modelli di governo forte superarono infine la linea del Reno-Danubio, muovendo sempre più verso l’esterno, a nord, ad ovest e ad est. Simile sviluppo non fu semplice, ed ebbe anche altre cause: non fu neanche lineare, come mostra (ad esempio) la storia della Danimarca. Ma funzionò come base per sviluppi più locali, dando loro a livello continentale una coerenza destinata, alla fine, a durare.
P. 562-64
Bibliografia
I Vichinghi / G. Jones. – Roma, 1995
Le origini dell’economia europea: comunicazioni e commercio / M. McCormick. – Milano, 2008
Cap. 21. Gli aristocratici tra mondo carolingio e mondo “feudale”.
La sprezzante condotta aristocratica non nasce quindi con la “rivoluzione feudale” dell’11. secolo. Né, come si è visto nei capitoli precedenti, queste regole quasi senza tempo confliggono realmente con quanto altro sappiamo circa gli aristocratici: il loro attaccamento (e persino lealtà) ai re e alle altre importanti figure politiche, la loro religiosità, e persino il loro far propri i valori dell’educazione carolingia e della correctio. Il presente capitolo mira a considerare le prassi aristocratiche, per quanto le nostre fonti lo consentono, dal loro punto di vista, non da quello dei sovrani e scrittori, e a capire cosa esse significassero ai loro occhi nei diversi contesti dell’Europa occidentale dopo il 750 circa. Inizierò esaminando questi brevi casi specifici, per illustrare come famiglie diverse, in differenti parti d’Europa, reagissero ai cambiamenti politici del periodo. Considererò poi tre temi interconnessi, le strutture del potere locale, la relazione di dipendenza, e quindi, ritornando a Wichmann e Geraldo, i valori aristocratici.
P. 567
Pur tra loro così diverse, le prassi aristocratiche di cui si è brevemente dato conto hanno tuttavia in comune alcuni elementi. Il primo, del tutto scontato nell’alto Medioevo, è costituito dalla terra: nessuno prima del 1000, neppure in un’area minuscola, poteva ambire a diventare un protagonista della scena politica senza considerevoli possedimenti locali, in piena proprietà o concessi a lungo termine da chiese e re. Quanto caratterizza tra l’altro il periodo carolingio e post-carolingio è il fatto che, rispetto a epoche precedenti, il controllo aristocratico sulla terra fu decisamente maggiore, e per conseguenza minore quello esercitato dai non aristocratici. Il cambiamento fu particolarmente significativo in Inghilterra, come abbiamo visto nel capitolo 19., e persino più rilevante in Sassonia, dove la conquista di Carlo Magno ebbe come conseguenza la rapida acquisizione di terre in precedenza di proprietà contadina da parte degli stessi re, delle chiese e dei monasteri, dei subentranti signor i franchi e (forse in misura maggiore) della sopravvissuta aristocrazia di origine sassone. La velocità del cambiamento sociale provocò la rivolta contadina di portata più ampia dell’Europa altomedievale, la sollevazione degli Stellinga dell’841-2, durante la guerra civile carolingia, la quale, una volta domata, lasciò campo libero ai nuovi poteri politici riguardo all’accumulo di terra. La novità del potere aristocratico sassone e la sua stretta connessione con l’azione regia possono ben spiegare la solidità del sistema politico ottoniano in Sassonia, come certamente spiegano quella del potere regale in Inghilterra. Nella Francia propriamente detta, e anche in Italia, il periodo 750-1000, grazie in larga misura alle opportunità politiche che si aprirono per gli aristocratici sotto Carlo magno e i suoi successori, segna anch’esso una costante crescita della ricchezza e del potere aristocratici a spese delle superstiti comunità contadine. In conseguenza di questo processo ancora mal studiato, in Francia ed in Italia i contadini proprietari sono decisamente meno visibili nel 1000 che nel 750, ed in alcuni luoghi scompaiono del tutto. Considereremo questo aspetto nel prossimo capitolo, ma esso rappresenta lo sfondo contro cui porre l’affermazione aristocratica: i signor i ebbero più terra da utilizzare politicamente e talvolta – come i monasteri di maggiore successo o l’”aristocrazia imperiale” - di gran lunga molta più terra. La dinamica su accennata non venne intaccata dal crescente radicarsi regionale dell’aristocrazia (al di fuori dell’Inghilterra) dopo l’850 circa, processo che semplicemente vedeva i signori usare in maniera crescente le loro terre come elementi della politica regionale, come anche (o in luogo di quanto) avrebbero fatto a livello di regno.
P. 573-74
I signori carolingi, esattamente come nel periodo precedente al 750, remuneravano le loro clientele militari in modi diversi: con terre donate in proprietà, in affitto ereditario, o in beneficio revocabile. La differenza non sempre era rilevante: diversamente dalle aristocrazie di più alto livello, i fideles e i vassalli minori potevano non essere in grado di far valere le loro ragioni anche nel caso in cui la loro piena proprietà fosse stata confiscata da un conte, un vescovo o un abate. Aumentando la loro terra, gli aristocratici laici, ma anche i vescovi e gli abati, accrescevano inoltre i loro seguiti – i loro eserciti – concedendo questa terra in misura maggiore. Nel 10. secolo avrebbero posto i milites d spicco al comando dei loro castelli e dei poteri politici locali associati a tale comando. Simili scelte non avrebbero comportato problemi nel 9. secolo, poiché nessun miles poteva allora rendersi autonomo senza prepararsi un destino infausto. Nel tardo 10. secolo, tuttavia, quando in alcune parti d’Europa il ceto 2militare” iniziò ad acquisire un’identità aristocratica e il senso di un autonomo protagonismo politico, la scelta comportava maggiori rischi. Se i conti potevano rendersi autonomi riguardo ai re, i castellani potevano anche rendersi autonomi riguardo ai conti, come i signori di Uxelles avevano fatto nei riguardi dei conti di Macon. Se un conte o un vescovo perdeva il controllo dei suoi castellani, l’intera intelaiatura del suo potere poteva disfarsi, e accadeva spesso. In questo caso, la “politica della terra” condusse stabilmente a una frammentazione politica di un tipo più radicale – rara prima del 1000, ma frequente dopo il 1050. L’intera forma della politica poteva potenzialmente cambiare: il mondo pubblico dei Carolingi scomparire, lasciando al suo posto, in alcune aree, solo minuscole signorie private.
In anni recenti, questo processo è stato battezzato da molti storici “rivoluzione (o mutazione) feudale”, e il tema è stato oggetto di un serrato dibattito. In effetti, la “rivoluzione feudale” è diventata per alcuni studiosi (in particolare in Francia) una formula in grado di evocare quello che essi ritengono un cambiamento epocale, la fine dello stesso mondo antico nelle sue definizioni più ambiziose. Il dibattito non può essere ripreso in questa sede (in larga misura è relativo all’11. secolo), ma alcuni punti possono tuttavia venire esplicitati. Il primo riguarda il fatto che il tono catastrofico di molti storici è fuori luogo: il nuovo mondo “feudale” dell’11. secolo può certo essere stato caratterizzato da una violenza maggiore, ma la differenza era solo nel grado, non nella specie, come qualunque lettore degli Annali di Flodoardo, o della Vita che Oddone dedica a Geraldo (o, in quanto a questo, degli Annali di San Bertino) è in grado di percepire; gli aristocratici in armi di qualunque tipo sono sempre vilenti, e ciò non mutò per il fatto che adesso erano affluiti in tale ambito anche i milites minori. Il secondo ha a che vedere con la circostanza che in alcuni luoghi, mentre l’ordine carolingio veniva sostituito dalle signorie, si ebbero effettivi cambiamenti, taluni molto rapidi: le assemblee pubbliche sparirono, le relazioni di dipendenza divennero più importanti, il potere divenne maggiormente personale, persino quando era nelle mani degli stessi individui. In una contea autonoma del 10. secolo il potere comitale tendeva ad avere una struttura molto carolingia; ma i tentativi di considerare una signoria di banno locale alla stessa stregua di un sistema politico carolingio di dimensioni ridotte non hanno avuto successo. Come prima argomentato, questi cambiamenti rendono il mondo politico dell’1. secolo strutturalmente differente da quello del 10., almeno nelle parti d’Europa in cui si verificarono.
P. 581-2
Alla fine del nostro periodo, il classico esempio del monastero riformato è quello di Cluny, nella contea di Macon. Fondato nel 909-10 da Guglielmo il Pio, allo scopo di escluderlo da ogni diretto dominio laico venne posto non sotto il suo patronato familiare, ma sotto quello del papa. E per la verità, non vi fu mai la questione di un patronato da parte della famiglia: Macon si trovava ai margini dell’ambito potere dei Guglielmidi, e la famiglia si estinse già nel 927; i successivi abati furono sicuramente di ascendenza aristocratica, ma le loro famiglie non avevano autorità su di essi (né l’aveva il papa, naturalmente, figura marginale della politica del 10. secolo). Nel suo essere separata dall’autorità laica Cluny costituì una realtà decisamente insolita, e i suoi abati dovevano essere – e furono – insolitamente abili per mantenerla tale. Ma la sua crescente reputazione quale centro di alta spiritualità lo rese di gran lunga il maggiore beneficiario della generosità terriera laica nell’Europa dell’epoca, con un migliaio di carte relative a donazioni per il solo 10. Secolo. Le quali furono il frutto non del controllo, ma delle relazioni tanto con gli aristocratici che con i vicini di rango minore (anche le élite di villaggio e i coltivatori: non v’era chi non donasse terre a Cluny), i quali tutti volevano vedere impiegati i loro doni, quanto più abilmente e autorevolmente possibile, a loro vantaggio spirituale. Cluny si trasformò in una signoria di pari grado delle altre presenti nel Maconnais, e di gran lunga più ricca della maggior parte di esse. Lo fece non minacciando gli atteggiamenti spirituali aristocratici, ma usandoli e dando loro legittimità. Dopo tutto fu il suo secondo abate, Oddone (927-42), a scrivere il testo fondante della spiritualità laica aristocratica, la Vita di Geraldo. Oddone divenne un esperto della riforma monastica, richiesto in tutta la Francia occidentale e persino da Alberico, principe di Roma. Cluny fu l’esatto opposto di una critica alla società del 10. secolo: per molti aspetti, fu il prodotto più perfetto dei valori aristocratici, compresi quelli religiosi, discussi in questo capitolo.
P. 588-89
Bibliografia
L’Europa dopo Roma: una nuova storia culturale, 500-1000 / J. M. H. Smith. – Bologna, 2008
Le origini di una grande dinastia feudale / V. Fumagalli. – Tubingen, 1971
La montagna e la città: gli Appennini toscani nell’alto Medioevo / C. Wickham. – Einaudi, 1997
Strutture e trasformazioni della signoria rurale nei secoli 10.-13. / C. Violante, G. Dilcher (a cura di). – Bologna, 1996
La società feudale / M. Bloch. – Einaudi, 1999
Cap. 22. L’incasellamento dei contadini, 800-1000
Il modo e la misura in cui ciò avvenne furono diversi nelle diverse aree dell’Europa occidentale. E’ possibile richiamare in questo caso non meno di cinque differenti cambiamenti socioeconomici. In primo luogo, il 9. e il 10. secolo furono in alcune regioni non carolinge il periodo in cui si sviluppò la stessa proprietà fondiaria e si vide emergere per la prima volta un’aristocrazia realmente ricca. In secondo luogo, nell’Europa carolingia gli aristocratici e le chiese accrebbero le loro proprietà, tramite la forza o in altro modo, a spese dei loro vicini contadini, riducendo in tal modo il numero di quelli effettivamente indipendenti. In terzo luogo, i contadini dipendenti e gli affittuari dovettero far fronte a canoni in aumento e a un maggior controllo esercitato sul loro lavoro. In quarto luogo, i contadini vennero sempre più spesso esclusi dal mondo pubblico dell’esercito e dell’assemblea, e quindi dall’ambito di interesse proprio dei re. In quinto luogo, già nel mille in alcune aree d’Europa (in particolare in Francia, ma anche in gran parte d’Italia), questa esclusione iniziò a comportare il diretto assoggettamento delle comunità contadine al controllo giuridico dei signori locali, nel contesto della signoria di banno. Si è trattato di dinamiche per gran parte non collegate, ma che nondimeno andavano tutte nella stessa direzione. Nel complesso, negli ultimi due secoli del periodo oggetto del nostro studio, la relativa autonomia dei contadini dell’alto Medioevo, trattata nel capitolo 9, si andò vieppiù assottigliando. Ho chiamato questo processo “l’incasellamento” dei contadini: sempre più spesso, l’enorme maggioranza contadina della popolazione dell’Europa occidentale venne concentrata in unità circoscritte, vieppiù controllate dai signori locali. Il termine rappresenta l’approssimativa traduzione della parola encellulement utilizzata da Robert Fossier, letteralmente la divisione della società secondo un modello cellulare, dinamica che egli considera l’elemento chiave del passaggio dall’alto Medioevo al Medioevo centrale. La forza di quest’immagine è più strettamente legata a quella della “rivoluzione feudale”, che in senso stretto rappresenta solo il quinto (e più circoscritto) dei cinque cambiamenti da me sottolineati. Nel complesso, tuttavia, i contadini vennero ovunque sistematicamente confinati e messi al margine. Considereremo volta a volta ciascuna delle dinamiche sopra elencate, e successivamente, allargando la prospettiva, i più ampi contesti economici nei quali ebbero a manifestarsi e quindi le loro conseguenze.
P. 591-92
Alla fine del periodo oggetto del nostro studio si ebbe quindi una qualche vitalità commerciale nell’Europa occidentale, ma non un vero e proprio decollo dello scambio. Ciò fa il paio con la costante ma non ancora rapida crescita della popolazione e dei disboscamenti; per la verità, l’11. ed il 12. secolo mostrano un tale volume di attività che si rischia di non vederne alcuno prima del 1000, un’interpretazione altrettanto fuorviante di quanto sarebbe l’esclusivo concentrarsi sul commercio internazionale dell’alto Medioevo. Tuttavia, cosa spiega l’attività di scambio che si può osservare nel 9. e nel 10. secolo? Ho sostenuto nel capitolo 9 che prima dell’800 il motore dello scambio era, grosso modo, la ricchezza e il potere d’acquisto degli aristocratici: quanto più ricche erano le élite, tanto più erano in grado di sostenere reti di produzione e distribuzione su vasta scala. Dopo l’800, e in misura persino maggiore dopo il 950 circa, si può aggiungere a ciò l’accresciuta complessità economica che una popolazione in crescita avrebbe di per sé comportato; inoltre, persino i contadini potevano trarre benefici dall’espansione economica conseguenza dei disboscamenti, almeno in qualche circostanza, e i signori, che traevano i canoni da più individui e luoghi, certamente se ne avvantaggiarono. Ma il principale motore era ancora aristocratico. E in questo contesto l’incasellamento dei contadini rappresentò un elemento di fondamentale importanza. Tutte le dinamiche tese a un più forte assoggettamento dei contadini descritte nella prima metà di questo capitolo ebbero quale risultato la concentrazione del surplus contadino nelle mani dei signori, attraverso i canoni e i diritti signorili. La percentuale di produzione globale che finiva nelle mani dei signori si accresceva continuamente (talvolta come in Inghilterra, rapidamente). Il potere d’acquisto aristocratico si accrebbe quindi di conseguenza. Fu questo ad alimentare l’espansione dello scambio nel 9. e nel 10. secolo, e lo avrebbe alimentato ancora per alcuni secoli, perché fu solo molto in là nel Medioevo che lo scambio capillare poté ovunque fare affidamento dui contadini in modo sufficiente ad autosostenersi. La perdita di autonomia dei contadini e l’accresciuta complessità dello scambio furono così le due facce di una stessa medaglia. Gli storici tendono a valutare positivamente la complessità dello scambio, e usano per descriverlo parole dalla forte connotazione positiva quali prosperità, sviluppo e (come ho fatto anch’io) dinamismo. Ma la complessità ha i suoi costi, e il suo costo nel periodo che stiamo studiando fu un passo decisivo verso la limitazione dell’autonomia (e talvolta, in effetti, della prosperità), di una quota tra l’80 e il 90 per cento della popolazione.
P. 615-16
Bibliografia
Le origini dell’economia europea: guerrieri e contadini nel Medioevo / G. Duby. – Laterza, 2004
L’economia rurale nell’Europa medievale: Francia, Inghilterra, Impero, secoli 9.-15 Medioevo / G. Duby. – Laterza, 1966
L’economia carolingia / A. Verlhust. – Roma, 2004
L’infanzia dell’Europa: economia e società dal 10. al 12. secolo R. Fossier. – Bologna, 1987
L’azienda curtense in Italia / B. Andreolli, M. Montanari. – Bologna, 1983
Castelli e villaggi nell’Italia padana / A. A. Settia. – Napoli, 1984
Il problema dell’incasellamento nell’Italia centrale / C. Vickham. – Firenze, 1985Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano / G. Tabacco. – Einaudi, 2000
Cap. 23. Conclusione: le tendenze della storia europea tra il 400 e il 1000
L'analisi sin qui condotta ha mostrato come tanto l'alto medioevo nel suo complesso, quanto ciascuna delle società piccole ecco grandi esistenti in quel periodo, vadano riguardati nei termini loro propri evitando di ricorrere al senno di poi. In questo senso una conclusione può sembrare in qualche modo non necessaria perché, rispetto alle diverse realtà esaminate, ho costantemente cercato di porre l'accento sulle differenze di ordine locale. Ho fatto uso della comparazione, piuttosto che di generalizzazioni onnicomprensive, proprio lo scopo di tener conto di queste differenze, come pure di provare a capirle.
L’avversione per un approccio teleologico, che troppo spesso comporta una condanna moralistica dell'alto medioevo, non implica però che si debba considerare quanti dissero in quel periodo “proprio come noi” o, peggio, provare per quell’epoca una qualunque forma di nostalgia. il mondo altomedievale, infatti, era molto diverso dall'Europa occidentale del ventunesimo secolo nella quale mi trovo a scrivere. I valori attuali, il liberalismo, la secolarizzazione, la tolleranza, il senso dell' ironia, l'interesse per le opinioni altrui, per quanto superficiali possano essere nella nostra società, erano allora del tutto assenti, ho il meglio presenti solo allo stato embrionale, come invero sono stati assenti dalla maggior parte delle società del passato. Nell'alto medioevo, com'è ovvio, gli individui avevano il senso dell'umorismo, ma quanto li divertiva (in gran parte il dileggio e i giochi di parole grossolani) non li avvicina affatto alla nostra esperienza: certamente usavano l'ironia, ma per solito era piuttosto feroce i sarcastica. Quasi tutti gli scrittori dell’epoca, persino i rigoristi religiosi che si rifacevano all’egualitarismo della teologia del nuovo testamento o del Corano, davano per scontata l’immutabilità della gerarchia sociale che l’innata virtù morale del ceto aristocratico dal quale per la gran parte provenivano. Il servilismo verso i socialmente superiori e la compiaciuta coartazione Dei socialmente inferiori erano condotte normali e persino virtuose, così come l’assunto generale (per quanto è dato vedere) dell'intrinseca superiorità degli uomini sulle donne. Per completare il moderno Rosario di ciò che consideriamo intollerabile manca soltanto il razzismo, Di cui la generalizzata credenza sciovinista che gli stranieri fossero inferiori e stupidi faceva senz'altro le veci. Scrivendo questo libro mi sono divertito a immaginare quale scrittore tardo antico o altomedievale (vale a dire, quelli la cui personalità siamo in grado di riuscire a cogliere, almeno in parte, con il minimo di mediazione) avrei potuto avere piacere di incontrare. Si riducono davvero a pochi: Teodoreto di Cirro, Gregorio Magno, Eginardo, forse Braulio di Saragozza e, con minore entusiasmo, Agostino, comunque per la notevole intelligenza e consapevolezza di sé, non per la tolleranza. Tuttavia, data la distanza da noi, e in larga misura proprio motivo di quella distanza, l'alto medioevo e interessante - come interessanti sono le molte diverse realtà al suo interno. E’ il suo interesse che ho soprattutto cercato di far risaltare e rendere chiaro, non un disegno strutturale onnicomprensivo del periodo, una narrazione metastorica di cui la maggior parte degli esempi attuali, per le ragioni delineate all’inizio dl capitolo 1, rappresentano invenzioni.
Nondimeno, la storia dell’Europa altomedievale ha certamente conosciuto delle tendenze: compito di questo capitolo finale è metterle in evidenza rendendole esplicite, benché di tutte i sia già fatto cenno. Nel corso dei sei secoli coperti dal nostro studio credi si possano rilevare sei principali cambiamenti (o rotture), tre all’Ovest, due all’Est e uno al Nord: li prenderò in considerazione in ordine cronologico, evidenziando quindi le soggiacenti strutture che sorreggono l’insieme dei sistemi sociali e politici del periodo.
La prima rottura, e la più decisiva, rimane lo smembramento dell’Impero romano d’Occidente. Come abbiamo visto, nei decenni a noi più vicini le reazioni alla consolidata lettura moralista della “fine della civiltà antica” hanno spesso voluto porre in risalto le continuità presenti per tutto il 5. secolo, in specie riguardo alle pratiche culturali e religiose ma con un occhio alle aspirazioni politiche: continuità effettivamente presenti. La vecchia immagine di una cultura romana spazzata via dalla vitale barbarie germanica (seguita dalla “fusione” romano-germanica sotto l’egida degli ecclesiastici cattolici) è, di conseguenza, irrimediabilmente superata. Ciò non significa tuttavia che in Occidente il 5. secolo non abbia costruito un importante periodo di cambiamento. Nei regni post-romani la base fiscale dello Stato romano, l’imposta fondiaria, vide costantemente decrescere la propria importanza, se non nel 5. certamente nel 6. secolo. Nessuno di essi, eccettuata forse l’Italia ostrogota, tentò mai di riprodurre lo Stato romano su scala ridotta, come fecero nel mondo islamico gli stati post-abbasidi; in Occidente, le realtà locali favorirono sistemi politici più semplici, e le rispettive prassi differirono sempre di più, fatta eccezione per la militarizzazione della politica, di portata generale in tutta l’Europa latina. L’unità economica del Mediterraneo occidentale venne spezzata; le aristocrazie assunsero carattere maggiormente locale vedendo per solito diminuire la propria ricchezza; in numerosi luoghi la cultura materiale conobbe un analogo processo di semplificazione. Il fai-da-te che caratterizza la maggior parte della prassi politica e culturale (e in misura persino maggiore architettonica) altomedievale è stato l’esito naturale della frammentazione dei modelli e delle risorse romani, anche se i frammenti rimasero a lungo attivi; da qui la necessità di illustrare nel libro il funzionamento del tardo Impero Romano in quanto fondamento essenziale di quello che sarebbe seguito. Questo fai-da-te era sia estremamente creativo che imposto dalla frammentazione dell’esperienza romana; è stato per molti secoli consustanziale all’attività sociale e politica altomedievale.
Il corrispettivo orientale della rottura del 5. secolo, e in effetti il cambiamento di maggior momento in Oriente, è costituito dal culmine della conquista araba nel 636-51, fatto che aprì due secoli di crisi per il mondo orientale/bizantino spingendo Bisanzio, in via duratura, verso una diversa traiettoria politica, di maggiore centralizzazione e militarizzazione. Naturalmente il califfato arabo era del tutto nuovo, anche se è possibile sostenere che le sue radici strutturali fossero altrettanto romane di quelle dei bizantini. La ricchezza del califfato e la debolezza dello Stato bizantino del settimo secolo (per non parlare dei regni occidentali) spostarono l’epicentro della politica molto più ad est Di quanto non fosse stato da quasi un millennio a quella parte: dapprima in Siria e poi virgola dopo il 750 in Iraq. quando nel Mediterraneo, all'incirca dopo l’Ottocento, riprese vitalità il commercio a medio raggio, il suo centro era un Egitto che (diversamente da quanto accadeva nell’Impero Romano) guardava tanto ad est quanto a nord e ad ovest. Nell'oriente del settimo secolo, come anche in seguito, la continuità nelle strutture dello Stato rese ai cambiamenti del decennio 640- 50 non così irreversibili come quelli avvenuti nell’occidente del quinto secolo; furono tuttavia più sconvolgenti, e invero più terrificanti (allo stesso modo per vincitori e vinti) di tutti gli altri considerati in questo libro. Nel periodo esaminato, i califfi ‘Umar 1. e ‘Uthman Non hanno rivali quali strateghi di cambiamenti politici e (in definitiva) culturali di rilevanza epocale; in questo senso, persino Carlo Magno non può costituire un adeguato equivalente, e conquistatori del quinto secolo come Genserico e Clodoveo ne rimangono decisamente lontani.
Il secondo importante cambiamento che interessò l’Occidente fu culturale: l’affermazione di una prassi politica di esplicito contenuto moralizzatore in specie nel secolo che va dal 780 all’880. Una tradizione politica cristiana di contenuto moralizzatore risalente alla tarda romanità esisteva certamente, ma non aveva una relazione diretta con i programmi politici laici. La Spagna visigota fu con ogni probabilità la prima entità politica a dar vita a una simile prassi, ma furono Carlo magno e i suoi successori i primi a predisporre un coerente programma politico volto, nella maggior parte d’Europa, a condurre un’intera popolazione è più vicino alla salvezza. I Carolingi strinsero tra lo Stato e una chiesa semiautonoma un legame che per due secoli divenne la norma dell’Occidente latino, sino a che i papi, da Gregorio 7. in avanti, cercarono nuovamente di scioglierlo; tentativo riuscito solo in parte – e nell’Europa settentrionale poi ribaltato dalla Riforma del 16. secolo. Cosa forse ancor più importante, i Carolingi furono all’origine dell’assunto secondo il quale i re e i loro atti potrebbero e dovrebbero venir controllati dagli ecclesiastici sotto il profilo morale, la qual cosa già nel 9. secolo fu fonte di numerosi problemi per sovrani quali Ludovico il Pio e Lotario 2., e avrebbe continuato ad esserlo ancora a lungo per molti dei loro successori in Europa (compresa, a partire dal 10. secolo, l’Inghilterra). L’insieme dei cambiamenti d cui sopra rappresentò una vera e propria innovazione carolingia, con solo sporadici precedenti, e da allora è valsa a contrassegnare la fondamentale diversità della prassi politica occidentale. L’Impero bizantino e il califfato furono certamente pari ai Carolingi quanto a baldanza religiosa ma, come osservato alla fine del capitolo 17, nessuno dei grandi imperi orientali avvertì allo stesso modo l’urgenza di un programma analogo a quello carolingio. I movimenti salvifici segnarono la politica musulmana per tutto il 7. secolo e di nuovo nel 747-50 e (In Nord Africa) nel 10. secolo, ma erano incentrati, più che su particolari programmi, sulla questione di chi dovesse essere califfo. Fu, questo, un cambiamento specificamente occidentale.
La terza rottura che interessa l’Occidente è rappresentata dalla fine del mondo carolingio: non tanto il venir meno dell’unità del sistema politico franco tra la metà e la fine del 9. Secolo, che nessuno, persino all’epoca, pensava potesse durare, quanto piuttosto il disintegrarsi, intorno all’anno 1000, delle stesse strutture di potere pubblico in alcune parti di quel sistema, in specie nella Francia occidentale e (in certa misura) in Italia. La sua fine segna la fine di questo libro, caratterizzando l’11. secolo in gran parte d’Europa come un periodo assai diverso nei paradigmi di base. Ritornerò tra un momento su alcune delle sue implicazioni: come la rottura del 5. secolo, si tratta infatti di un cambiamento che quanti amano pensare la storia in termini di forti discontinuità hanno sottolineato con decisione e che al contrario i paladini della continuità hanno teso a sminuire; la realtà del cambiamento va riconosciuta senza lasciarsene fuorviare.
Il secondo cambiamento orientale fu, in maniera analoga, lo smembramento del califfato all’inizio del 10. secolo. Come già osservato, la maggior parte delle entità politiche post-abbasidi mantennero le strutture statuali del califfato, le quali poterono essere più facilmente riprodotte a livello regionale rispetto a quelle dell’Impero romano d’Occidente. La spaccatura condizionò quindi il mondo arabo in misura decisamente minore di quanto ci si sarebbe potuto aspettare; nondimeno, a causa delle eccessive divisioni, esso cessò di essere politicamente dominante. Questo permise alla metà del 10. secolo a un Impero bizantino nuovamente stabile di entrare nel suo secolo di gloria militare e di dominare gli stati vicini: disintegrandosi al-Andalus sotto i colpi della guerra civile successiva al 1009, Basilio 1. fu di gran lunga il più forte sovrano d’Europa, superiore probabilmente anche ai Fatimidi del Mediterraneo meridionale. Quel potere sarebbe stato indebolito solo alla fine dell’11. secolo dai nuovi conquistatori musulmani provenienti da est, i Turchi selgiuchidi, mentre per ristabilire l’unità musulmana delle terre mediterranee si sarebbero dovute attendere le conquiste ottomane del 16. secolo. In un certo senso, gli Ottomani ricostituirono l’impero di Giustiniano attorno a un Mediterraneo nuovamente centrato su Costantinopoli/Istanbul, fornendogli le basi per durare ancora piuttosto a lungo. Ma il gap di quasi un migliaio di anni tra i due imperi rende quella restaurazione non più che un interessante parallelo storico: i legami genealogici tra i due sistemi rivestono un’importanza di gran lunga minore rispetto alle rilevantissime differenze strutturali le quali, già presenti nel 7. secolo, si accentuarono ulteriormente nel 10.
Il più importante cambiamento intervenuto nel Settentrione ha riguardato soprattutto il 10. secolo: si tratta della costante espansione di stabili gerarchie politiche e sociali in tutta la vasta area tra l’Impero franco e quello bizantino a sud e i cacciatori-raccoglitori delle lontane foreste settentrionali. I primi a trarne vantaggio nell’8. secolo furono i re anglosassoni, seguiti nel 10. da Danesi, Polacchi, Boemi, Ungheresi e Rus’, e in maniera più esitante dalle entità politiche del resto della Scandinavia, del Galles e dell’Irlanda. Ho ascritto questo fenomeno alla stabilità e all’espansionismo dei Franchi e dei Bizantini (e per estensione degli Inglesi e poi dei Danesi), che li rendeva tanto modelli da emulare quanto minacce se le entità politiche settentrionali non fossero state in grado di organizzarsi per opporvisi. Nella maggior parte dei casi il consolidarsi della regalità e della gerarchia nel Settentrione ebbe carattere duraturo; fatto che vale d per sé a dimostrare la solidità dei sistemi politici creati nella seconda metà del nostro periodo da Carlo martello, Pipino 3. e Carlo magno ad ovest, e dagli imperatori iconoclasti e macedoni ad est. In Occidente, tale solidità sopravvisse persino all’eclisse carolingia, perché gli ottoni e i loro successori nella Francia orientale fecero valere un’egemonia sui territori slavi e scandinavi altrettanto estesa, se non maggiore, di quella esercitata da Carlo Magno. Dopo il 750, la Francia e Bisanzio dominarono insieme l’Europa altomedievale come aveva fatto l’Impero romano trecento anni prima. Non altrettanto potenti, dovettero fronteggiare un rivale molto più forte a sud-est, il califfato abbaside (per un secolo la potenza più formidabile al mondo), ma ebbero sui loro vicini nordici un impatto maggiore di quello dei Romani.
Nel periodo che va dal 400 al 1000, i sistemi politici dell’Europa e del Mediterraneo si costituiscono quindi in tre blocchi grosso modo distinguibili cronologicamente. Nel primo periodo, l’Impero romano domina l’Europa occidentale e meridionale e il Mediterraneo senza alcun rivale a nord. Situazione che ebbero termine in Occidente nel 5. secolo, nonostante il suo parziale ribaltamento ad opera di Giustiniano nel Mediterraneo occidentale, e che si protrasse in Oriente sino all’inizio del 7. Il secondo periodo fu caratterizzato da un potere policentrico: entro il 700, i principali stati occidentali furono la Francia merovingia, la Spagna visigota e l’Italia longobarda, più o meno sullo stesso piano e ciascuno più potente di qualunque altro vicino, contrapposti al califfato omayyade in espansione e a un impero bizantino che si difendeva con ogni mezzo. Il terzo periodo fu quello dei tre maggiori poteri, i Franchi, i Bizantini e gli Abbasidi, ridottisi ai primi due già nel 950, con i Franchi che si indebolivano e i Bizantini che si rafforzavano; nel tardo 8. secolo i due poteri erano egemoni in Europa, ed entro il 1000, o in epoca poco successiva, contribuirono anche allo sviluppo degli stati del Settentrione. Ho già sottolineato la sorprendente sicurezza di sé di tutti e tre questi poteri del terzo blocco temporale: sapevano di essere più forti dei loro immeditati predecessori e di qualunque altro potere ad ovest della Cina, fatto che consideravano una riprova della loro superiorità morale e che usavano per giustificare la loro ulteriore espansione. Il protagonismo straordinariamente consapevole non solo dei Carolingi ma, in modi diversi, anche dei loro contemporanei bizantini e arabi, ne discende direttamente: e tutti e tre lasciarono un’eredità duratura. Sarebbe tuttavia un errore trascurare per questo le innovazioni su piccola scala lasciate dal secondo blocco temporale: la costituzione da parte dei Merovingi della centralità politica della regione tra Parigi e il Reno (innovazione che dura da allora), la politica episcopale della Spagna del 7. secolo, l’iconoclastia bizantina e, soprattutto, l’ascesa politica omayyade. Non è più possibile studiare uno qualunque di questi temi, meno che meno considerarli nel loro insieme, e concludere che l’Alto Medioevo si colloca al di fuori della “vera” storia: infatti, ormai, non lo fa più nessuno.
I sistemi politici e i cambiamenti sociali or ora richiamati riposavano su una rete di strutture comuni a tutte le società esaminate in questo libro. Non erano specifiche dell’alto Medioevo – si può sostenere caratterizzassero la maggior parte del mondo precapitalistico – ma al fine di comprendere il periodo di cui ci stiamo occupando è necessario evidenziarle e tematizzarle. Ne propongo una breve analisi secondo tre prospettive: l’accumulazione di ricchezza, l’istituzionalizzazione della politica e la cultura della sfera pubblica.
Nel periodo che abbiamo studiato, ricchezza e potere erano in maniera decisiva basati sulla terra. Quanto più si poteva trarre dalla terra, vale a dire, dai contadini che la coltivavano, sia in canoni di affitto che in tasse, tanto più si era ricchi, e maggiori quindi risultavano la quantità di risorse che si era in grado di manovrare, il numero di uomini armati che si potevano mantenere, e il potere di cui si poteva disporre. Il mezzo più sicuro per di sfruttare e i contadini erano le tasse, perché in teoria tutti dovevano pagarle, non soltanto gli affittuari dei fondi – da qui la rilevanza di Bisanzio e del califfato, fondati, diversamente dagli stati dell’Occidente post-romano, sulla riscossione dei tributi. Ma anche in Occidente i re franchi, in specie, poterono arricchirsi attraverso i canoni tratti dagli estesi territori regi, pure in periodi, come il tardo 7. secolo, in cui non ricavavano ricchezza dai popoli limitrofi. La stessa logica guidava le aristocrazie di ciascun sistema politico. Un’aristocrazia ricca sosteneva in genere i sovrani, perché nelle condizioni politiche altomedievali il suo coinvolgimento nel potere regale/imperiale era estremamente forte. Quanto più potenti erano i re, tanto maggiore era la loro capacità di dare, quindi di attrarre i propri sostenitori dell’élite; l’accumulazione di ricchezza rafforzava quindi doppiamente la coesione politica. La sola grande eccezione fu rappresentata dal califfato, in cui le aristocrazie locali ebbero relativamente poco a che fare con il potere politico. I califfi furono a lungo talmente ricchi che questo non contava granché, benché alla fine sia stato tra i fattori che contribuirono alla dissoluzione dell’unità abbaside.
Il legame tra ricchezza e potere significava che uno stato forte dipendeva in modo essenziale dallo sfruttamento dei contadini. Non siamo in grado di dire cosa questi ultimi avrebbero preferito: la sicurezza loro offerta da molti potenti sovrani (sicurezza solo relativa: i regni di Giustiniano, Calo Magno e Basilio 2. hanno tutti lasciato chiare tracce di violenze locali e oppressione), oppure l’autonomia e canoni e tributi inferiori di cui i contadini poterono godere nelle piccole e deboli entità politiche della Gran Bretagna o dei mondi slavi e scandinavi prima del 10. Secolo, autonomia d’altra parte rischiosa se invasori più forti si davano alle razzie o a fare bottino di schiavi. Semplicemente non abbiamo le informazioni che ci potrebbero permettere di affermarlo, né le avevano in effetti la maggior parte degli stessi contadini altomedievali; quale alternativa sembri preferibile dipenderà dunque in larga misura dai presupposti di ciascuno di noi (personalmente, penso che avrebbero preferito l’autonomia). La ricchezza e il potere dei ricchi andavano tuttavia di pari passo con lo sfruttamento dei poveri e le limitazioni della mobilità della vita contadina. Come appena accennato, i contadini conobbero limitazioni minori nel Settentrione. In alcune parti delle province occidentali postromane, e forse anche in talune zone dell’Impero bizantino, dal 6. all’8. secolo (a Bisanzio dal 7. al 9.) furono anche più autonomi rispetto sia al passato sia al futuro: agli inizi dell’alto Medioevo, gli stati e le aristocrazie furono in genere più deboli di quanto sarebbero stati sotto i Carolingi o gli imperatori macedoni. Con la comparsa di poteri più forti, il controllo locale sui contadini sperimentò un rinnovato inasprimento, e in Occidente continuò a intensificarsi persino dopo la disintegrazione del potere carolingio, diffondendosi a nord attraverso il continente europeo.
La ricchezza comportò anche lo scambio. Le ricche aristocrazie (e le chiese, i re) ebbero maggiori risorse da destinare all’acquisto di beni artigianali, i quali poterono così essere prodotti in quantità maggiori e venduti a un pubblico più vasto – persino contadino, in taluni casi – mentre le aristocrazie meno benestanti e i contadini più autonomi diedero vita a produzioni di minore specializzazione. Produzione complessa e scambio furono maggiori nell’Impero romano che negli stati occidentali che lo sostituirono, o nella Bisanzio dell’8. secolo; in seguito, a un livello minore, produzione complessa e scambio furono (di gran lunga) maggiori nell’entroterra merovingio della Francia settentrionale che non tra vicini inglesi, tedeschi o scandinavi; con il Carolingi lo scambio conobbe in Francia una nuova espansione, ma non raggiunse mai i livelli romani e quelli dell’economia del mondo musulmano. Lo stretto legame tra ricchezza aristocratica e sfruttamento dei contadini da una parte e complessità economica dall’altra sarebbe durato a lungo nel Medioevo; iniziò a indebolirsi colo quando la produzione su larga scala si fece a tal punto generale, e la vendita dei prodotti così capillare, da poter far conto sulla domanda contadina e non più solo aristocratica. Con la sola possibile eccezione dell’Egitto (dove, tuttavia, manca un’analisi che permetta di orientarsi in tal senso), in Europa e nel Mediterraneo è questa una situazione che avrebbe iniziato a prodursi al più presto dopo il 1200, e spesso molto più tardi. Nel periodo di ci siamo occupati, concentrazione della ricchezza, sfruttamento, scambio e potere politico costituiscono un unico blocco, e (con la dovuta cautela) la presenza di uno di questi elementi può consentire di inferire gli altri – cosa che, data la disomogeneità della nostra documentazione, è spesso utile.
Il secondo elemento da mettere qui in rilievo è il grado in cui il potere si radicava in modelli politici permanenti. Era certo importante per un re avere risorse fondiarie, ma se il potere di cui godeva si fosse basato semplicemente sulla lealtà personale dei suoi armati – una lealtà mai gratuita – allora, a meno che non espandesse continuamente l’area sotto il suo controllo, avrebbe rischiato di rimanere privo di terra, e di conseguenza senza potere, avendone data troppa. Marc Bloch considerava la dialettica di cui sopra come un dato permanente della società feudale in Occidente dopo il 900, e in questo libro ci è accaduto di considerare i problemi della “politica della terra” in varie occasioni, da ultimo nel contesto del collasso dell’autorità regale nella Francia occidentale del 10. secolo, esempio invero classico di questo modello. Come vi facevano fronte i sovrani? Perché bisogna riconoscere che, al di fuori dei sistemi politici altamente personalizzati e su piccola scala (ad esempio) della Britannia e dell’Irlanda postromane, i sovrani altomedievali riuscirono spesso a mantenere stati grandi ed efficienti per lunghi periodi di tempo, anche operando costanti concessioni di terre.
Il compito era relativamente facile per gli stati sulla riscossione dei tributi, gli imperi romano e bizantino e gran parte degli stati islamici. In queste realtà, lo Stato disponeva di un’importante risorsa di base utilizzabile per organizzare un esercito salariato, in larga misura indipendente dal sostegno aristocratico, e anche per ricompensare la lealtà su scala molto ampia; soltanto in circostanze di estrema crisi (l’Occidente del 5. secolo, lo smembramento di al-Andalus nel decennio 1010-20) gli aristocratici poterono considerare l’ipotesi di rendersi autonomi, e di norma quanto più i sovrani glielo permettevano, tanto più strettamente gli aristocratici si legavano a loro. Gli stati basati sulla riscossione dei tributi necessitavano inoltre di una complessa burocrazia destinata esclusivamente alla riscossine delle imposte, al qual cosa, insieme alla gerarchia militare, provvedeva a creare percorsi di carriera all’interno di istituzioni stabili, anche se spesso rudimentali. L’istituzionalizzazione dell’azione politica fu un lascito diretto dell’Impero romano (e anche sasanide) a Bisanzio e al califfato. In entrambi fu abbastanza complessa da mantenere due classi dirigenti separate, l’una civile e l’altra militare. Mentre a Roma era l’élite civile a godere dello status più elevato, rappresentando così l’obiettivo più ambito dell’aristocrazia terriera, sotto tutti i successori fu la gerarchia militare ad avere la primazia. In un modo o nell’altro, tuttavia, lo Stato, nelle sue strutture di base, era piuttosto solido, come mostra la sopravvivenza di quello bizantino dopo le conquiste arabe.
Nell’Occidente postromano, la maggior parte della gerarchia burocratica si dissolse insieme al sistema fiscale, e l’esercito divenne un insieme di seguiti militari aristocratici: le istituzioni dello Stato romano subirono una notevole contrazione. E tuttavia non scomparvero; in Francia, in Italia e nella Spagna visigota si ebbero ancora conti, duchi e funzionari di palazzo, posizioni altamente remunerative (implicavano l’assegnazione di terre) e oltremodo ambite. I Carolingi estesero il sistema con la temporanea concessione di honores, i quali potevano comprendere cariche, terre regie, il controllo sui monasteri. Quasi ogni attore politico doveva avere una carica di qualche tipo, o altrimenti essere molto vicino al re, come Eginardo. Di nuovo, rendersi autonomi venne a lungo considerato inconcepibile, eccetto che ai margini della politica, come nel 6. secolo nelle montagne della Spagna settentrionale o dal 6. all'8. nelle Alpi orientali attorno a Coira. La comunità politica veniva inoltre regolarmente riunita nelle assemblee pubbliche, nei concili ecclesiastici, nell’adunata dell’esercito, e alla corte del re, come vedremo tra un momento: coloro che mancavano di essere presenti rischiavano di perdere le proprie terre, almeno quelle attribuite dal re. In stati grandi ma disorganizzati come in Francia e in Spagna, le assemblee ebbero sufficiente regolarità per configurarsi come sostegni istituzionali al pari del sistema di assegnazione delle cariche. Come abbiamo visto nei capitoli 5 e 16, in Francia gli attori politici, persino coloro che vivevano lontani dalla corte, avevano necessità di sapere dove si trovava il re; patronato, lotte fra frazioni, talvolta persino un senso di responsabilità pubblica, tutto dipendeva dalla direttiva regia. Simile centralità dei re – o delle loro corti quando i re erano minori o posti ai margini, come nella Francia nel tardo 7. secolo – venne rafforzata nella consapevolezza che la slealtà avrebbe dovuto subire una punizione che per quanto lenta sarebbe alla fine comunque arrivata. Nei calcoli politici dell’aristocrazia la paura rafforzava l’interesse personale, contribuendo alla coesione dei principali stati postromani. Entro il 10. secolo al più tardi, e per alcuni aspetti già nell’8., questa logica politica si estese anche all’Inghilterra.
A ciò si lega l’ultimo elemento dei sistemi politici altomedievali che voglio qui evidenziare, la cultura della sfera pubblica, la più forte eredità di Roma. L’Impero romano ebbe un forte senso della differenza tra il pubblico, l’arena dello Stato e della comunità, e la sfera privata; i confini tra queste due aree non erano esattamente gli stessi di quelli attuali, né v’era alcuna netta opposizione tra “pubblico” e “privato”, ma gli usi della parola publicus erano analoghi a quelli per noi oggi consueti. In uno Stato basato sulla riscossione delle imposte la differenza veniva mantenuta facilmente, perché le imposte emanavano dalla sfera pubblica e la alimentavano. I Bizantini conservarono il concetto senza mutamenti, e gli stati musulmani, pur usando una diversa terminologia, attribuirono a funzioni “pubbliche quali il diritto e il culto collettivo la stessa rilevanza. Tuttavia, anche gli stati occidentali postromani mantennero l’idea dell’arena pubblica: nella prassi politica visigota, longobarda, merovingia e carolingia essa costituiva un’immagine molto importante. Nei testi latini altomedievali la proprietà regia, i tribunali, i funzionari regi, e le assemblee tanto grandi che piccole, venivano regolarmente descritti come qualcosa di publicus. Il chiaro concetto che ricaviamo dalle nostre fonti occidentali riguardo al fatto che il mondo del potere regio era anche il mondo pubblico della collettività (dei maschi liberi) nel suo complesso, è la migliore giustificazione che posso fornire per aver costantemente usato, in questo libro e altrove, la parola “Stato” per descrivere questi sistemi politici occidentali. Sebbene la risorsa essenziale della sfera pubblica, la tassazione, fosse già residuale entro il 7. secolo, l’assemblea, introdotta nella prassi politica dal Settentrione germanico, ne costituì un ulteriore rafforzamento. In Scandinavia, e a lungo in Inghilterra, l’assemblea fu il solo elemento collettivo in una struttura di potere politico che altrimenti riposava interamente sui legami personali tra i re (o i signori) e i loro più stretti seguaci. In Francia e negli altri regni romano-germanici, d’altra parte, essa venne a formare una parte cruciale dell’immagine della sfera pubblica, d’altronde romana nelle sue origini, invero estendendola ulteriormente, perché l’assemblea, almeno in teoria, legava direttamente il re a tutti i maschi liberi della popolazione. Il fatto che la politica effettiva si basasse anche sul controllo di fazioni oltremodo attive sulla scena politica e sulla relazione personale, nulla toglie al valore di quella concezione della sfera pubblica; in realtà, all’apice del periodo carolingio, l’intero progetto morale del re e del suo regno, la correctio dei fedeli, potrebbe venir descritta come una (c come la) res publica. Non sorprende, in questo senso, che il diritto romano potesse venire esplicitamente richiamato nella legislazione di Carlo il Calvo: i suoi assunti relativamente alla natura del sistema politico continuavano ad essere del tutto pertinenti. Fatto, naturalmente, che rafforzò ulteriormente la rilevanza della politica regia per chi aveva altre mire: privatus non indicava un qualsiasi tipo di attività politica “privata” ma, usato in questo contesto, significava semplicemente “senza potere. Il potere pubblico era tutto, anche se le risorse del mondo pubblico romano non erano più disponibili.
È questo mondo pubblico nel significato appena esplicitato che conobbe un significativo indebolimento nell’Occidente del 10. secolo e, in particolare, dell’11., in specie nei territori franchi occidentali. Come abbiamo visto negli ultimi capitoli del libro, i parametri della politica erano cambiati. Nella signoria di banno, i vecchi diritti pubblici ora appannaggio dei signori locali vennero considerati come parte della loro proprietà, e poterono essere divisi tra gli eredi o ceduti. La signoria poté essere rivendicata da persone che non avevano mai incontrato un re; in talune aree il titolo di conte poté essere assunto da chiunque fosse abbastanza potente e trasmesso agli eredi. Nel 12. secolo, i re di Francia o le città in Italia utilizzarono il termine publicus, ma dovettero costruirlo dal basso, unendo legami di dipendenza personale e riaffermazione collettiva in un mix che aveva ormai pochissimo a che fare con il passato romano. Questo mondo più “privato” non era peggiore di quello dei Carolingi e dei loro predecessori; gli aristocratici facevano valere la loro prepotenza in entrambi, tanto verso i loro pari che verso i loro (e gli altrui) contadini. Ma era diverso: la dialettica fra sfera pubblica e (quello che chiamiamo) interesse privato era scomparsa. I poteri locali che i castellani riuscirono a rafforzare sui vicini villaggi non erano più illegali o semilegali, in quanto contrapposti alla legge pubblica dei re, ma assunsero invece una nuova legittimità: in Francia, in particolare, in talune regioni per un secolo, questo fu tutto ciò che c’era.
Gli anni intorno al 1000 rappresentano in maniera adeguata la fine di un ciclo più per alcune regioni d’Europa che per altre. Non hanno certo lo stesso valore per Bisanzio; all’altra estremità dell’Europa sono perfettamente in linea con la storia di al-Andalus (e anche del califfato abbaside, sebbene il 950 sarebbe stato in questo caso un punto di riferimento ancora più adeguato). Il tardo 10. secolo indica una rottura anche in gran parte della storia slava e scandinava, segnando gli inizi di durature formazioni statali. Nella Francia orientale / odierna Germania e in Inghilterra, dove i parametri politici carolingi sopravvissero con facilità dopo il 1000 (in Inghilterra, invero, non scomparvero mai), il millennio non rappresenta una linea di divisione altrettanto felice; giunge un po’ troppo presto per l’Italia (in questo caso, quale data per la fine della sfera pubblica il 1080 andrebbe meglio: l’assemblea giudiziaria, in particolare, sopravvisse sino ad allora senza grandi difficoltà), attagliandosi meglio invece alla Francia occidentale / odierna Francia. Vale a dire: non esiste data perfetta. Ho scelto il 1000 semplicemente perché, nel 10. secolo, volevo analizzare le divergenze tra gli stati che subentrarono a quello carolingio, quelle presenti nell’Inghilterra post-alfrediana, e gli anni del successo bizantino, senza aggiungervi, nell’11., i Turchi selgiuchidi, i problemi legati alla “riforma gregoriana” e l’inizio della grande narrazione il cui faro è il progresso morale, che ho stigmatizzato nel capitolo 1. Nondimeno, non sembra irragionevole terminare con un cambiamento fondamentale nelle categorie del potere politico, anche se solo in alcune parti d’Europa. L’eredità di Roma, almeno in quelle regioni, durò all’incirca sino al 1000; dopo quella data la sua ombra, lentamente, scomparve.
Bibliografia
La società dell’alto Medioevo: Europa e Mediterraneo, secoli 5.-8- / C. Wickham. – Roma, 2009
Storia di Venezia di F. Lane
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Storia di Venezia di F. Lane
Considerazioni
Questa Storia di Venezia ha smentito la tesi secondo la quale la scoperta dell’America (1492) ha determinato la caduta della Serenissima. In effetti tra il 1492 e la caduta di Venezia con l’arrivo di Napoleone passano tre secoli: se non altro non si può parlare di causa diretta.
Si parla di Venezia come possibile fattore unificatore dell’Unità d’Italia come poi è diventato il Piemonte sabaudo ma evidentemente la presenza di imperi centrali, Francia e Germania, erano diventati molto più potenti e concorrenti perché questo potesse avvenire o comunque con tempi non ancora maturi.
Il passaggio cruciale per il declino è stato visto nel passaggio dell’interesse marittimo a quello per l’entro terra e negli equilibri del continente
Altra caratteristica da ricordare è la non eleggibilità dopo due mandati dei dogi che ricorda un po’ il grillismo attuale
Citazioni
Venezia era in grado di frenare più agevolmente le rivalità familiari perché aveva ereditato dall’impero bizantino una tradizione di lealismo unitario verso lo stato sovrano. Tale unità era rafforzata da molte disposizioni istituzionali, di alcune delle quali abbiamo già parlato: il gran numero di uffici e consigli, la brevità dei mandati, e la loro non rieleggibilità immediata dei detentori.
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I partiti politici sono considerati da noi come un elemento essenziale di qualsiasi governo che rispecchi il volere della comunità, ma George Washington e altri fondatori degli Stati Uniti condividevano l’opinione dei veneziani e invero di tutti i primi repubblicani cioè che la rivalità dei partiti era un male e portava alla rovina della libertà. Come i veneziani i padri fondatori degli Stati Uniti cercarono di evitarla con vari accorgimenti, come il collegio elettorale: ma senza successo, come i fatti hanno dimostrato.
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Bibliografia
Studi di storia economica veneziana/ G. Luzzatto. – Cedam, 1954
Società e stato nel medioevo veneziano / G. Cracco. – Firenze, 1967
The Cambridge economic history of Europe / ed. italiana. – Einaudi, 1977. – Vol. 3
Umanesimo europeo e umanesimo veneziano / a cura di Vittore Branca. – Sansoni, 1963
Venezia e l’Oriente / a cura di Agostino Pertusi. – Sansoni, 1966
L’Italia nell’età dei principati / Nino Valeri. – Mondadori, 1949
le signorie / Luigi Simeoni. – Milano, 1950
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