Bisanzio e l’Occidente medievale di Giorgio Ravegnani

Premessa

La storia di Bisanzio a tutt’oggi non ha il posto di rilievo che meriterebbe nella vicenda del Medioevo.
I bizantini e l’Impero bizantino in realtà non sono mai esistiti se non come categoria storiografica: si trattava infatti della metà orientale dell’Impero romano, che di questo fu parte inscindibile fino a quando i destini delle due parti non iniziarono a separarsi, con un Occidente destinato a crollare sotto i barbari e un Oriente che al contrario sopravvisse per molti secoli ancora.
Bisanzio non fu una realtà astratta e un cosmo a sé stante, inseritosi chi sa come nella storia; ereditò al contrario tutto quanto era romano, senza soluzione di continuità, e lo conservò gelosamente nel corso del tempo, sia pure con gli adattamenti che il trascorrere di questo talvolta richiedeva.
I suoi sovrani si definivano imperatori romani e romani erano chiamati i loro sudditi, che rifuggivano altre designazioni, come greci o elleni, considerate dispregiative, e men che mai utilizzarono quella per loro inesistente di bizantini, valida al massimo per gli abitanti di Bisanzio, l’antica città greca che dal tempo di Costantino 1. prese il nome di Costantinopoli.
Altro pregiudizio da sfatare è che Bisanzio sia stato un mondo chiuso, anche nella ripetitiva ritualità delle sue cerimonie, lontano dall’Occidente e refrattario a qualsiasi contatto con questo.
In realtà la più che millenaria storia dell’Impero di Bisanzio ha continui punti di contatto con quella dell’Occidente, di cui molto spesso è parte integrante.
I bizantini furono presenti come dominatori soprattutto in Italia, dove restarono per più di cinque secoli, dapprima in possesso dell’intera regione, poi di parte di questa a seguito dell’invasione longobarda della penisola e infine del Meridione, in cui diedero vita a una brillante civiltà, fino a quando nell’11. secolo i normanni li cacciarono.
La memoria della loro presenza in Italia non è certo ampia come quella di Roma; non mancano tuttavia testimonianze dirette o indirette, visibili soprattutto in campo artistico, come per esempio nei celebri mosaici di Ravenna, che ne sono l’attestazione più alta.
Una volta terminato il dominio diretto, i rapporti con l’Occidente non vennero mai meno, anche se furono per lo più di natura conflittuale, come i ripetuti attacchi normanni all’impero o le crociate, che ebbero come corollario una sorda ostilità dell’Occidente nei confronti di Bisanzio.
Diverso fu almeno in parte il caso di Venezia, città nata sotto il dominio di Costantinopoli e che con questa mantenne un rapporto particolare, per lo più di collaborazione, fino almeno al 12. secolo, subendone fortemente l’influsso in diversi campi.
Nel 1204, con la quarta crociata, si raggiunse l’apice dell’ostilità occidentale all’Impero di Oriente: veneziani e  cavalieri crociati, anziché dirigersi in Terra Santa, si impossessarono infatti di Costantinopoli, che fu messa a sacco, e di parte del territorio da questa dipendente.
Si formò così un Impero latino con sede nella capitale e sorsero nello stesso tempo, in Grecia e altrove, altri Stati latini che sostituirono la precedente dominazione; a questi si affiancò un dominio marittimo veneziano destinato almeno in parte a durare per parecchio tempo.
Si trattò innegabilmente di un atto di dubbia moralità, poiché Bisanzio, ancorché scismatica, era pur sempre una città cristiana; ma era discutibile anche sotto il profilo politico, perché la spedizione crociata, benedetta dal papa per andare a liberare i luoghi santi, si rovesciò al contrario su uno Stato che con gli infedeli nulla aveva a che fare.
La città imperiale venne riconquistata nel 1261 dagli esuli bizantini, che ricostruiscono così il loro impero sia pure fortemente diminuito nel territorio e minacciato dalle potenze occidentali in cerca di rivincita.
Le due vicende storiche di Oriente e Occidente continuarono, come era avvenuto in precedenza, a interferire una con l’altra, mostrandosi una volta in più come inscindibili.
Particolarmente attive in Levante divennero le repubbliche marinare di Genova e Venezia, che perseguivano le loro ambizioni di dominio per lo più ai danni di Costantinopoli, con cui erano sia alleate sia nemiche, a seconda delle contingenze del momento.
L’atteggiamento ostile dimostrato a più riprese andò però esaurendosi nel Trecento quando l’Occidente, e soprattutto Venezia, divennero più accondiscendenti nei confronti di Costantinopoli, considerata un avamposto della cristianità contro la montante marea dei turchi ottomani.
Vennero di conseguenza forniti aiuti militari, sia pure insufficienti e sporadici, ma le discordie degli Stati europei e la potenza dei turchi condussero fatalmente alla caduta dell’Impero, nonostante i disperati tentativi fatti dagli ultimi sovrani per tenerlo in vita, e questo alla fine cadde nel 1453 quando il sultano Maometto 2. si impossessò di Costantinopoli, mettendo così fine alla secolare successione di governanti romani.

Cap. 1 L’età di Giustiniano

La fine dell’Occidente romano

La caduta dell’Impero romano di Occidente, convenzionalmente datata al 476, è un avvenimento che ha impressionato più gli storici moderni di chi lo visse di persona.
Non ne sappiamo in realtà molto, perché le fonti per l’epoca sono assenti o reticenti, ma vi sono buoni motivi per credere che l’evento abbia lasciato abbastanza indifferenti i contemporanei.
Di quello che era stato l’Impero di Roma era infatti rimasta la sola penisola italiana, insieme a qualche altro frammento di territorio e da un ventennio i sovrani si succedevano senza di fatto governare quasi più nulla.
Morto Valentiniano 3. nel 455, l’ultimo esponente della dinastia teodosiana, il trono era stato conteso infatti da avventurieri di varia origine, non all’altezza del ruolo e per di più condizionati dai reali detentori del potere, ossia i generali barbari.
Subito dopo Valentiniano divenne imperatore un losco personaggio di nome Petronio Massimo, un senatore romano, che riuscì a comprare il favore dei soldati di stanza a Roma.
Insediatosi il 17 marzo del 455, finì ingloriosamente la sua esistenza un mese e mezzo più tardi quando i vandali provenienti dall’Africa, approfittando del vuoto di potere che si era creato, andarono ad assediare Roma.
Di fronte al pericolo incombente, l’imperatore non seppe pensare di meglio che fuggire: salì a cavallo e tentò di allontanarsi, ma gli andò male perché fu riconosciuto e ucciso dalla folla inferocita, che ne fece a pezzi il cadavere gettandolo nel Tevere.
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La deposizione di Romolo Augustolo è comunemente ritenuta la fine dell’Impero d’Occidente, anche se questa da alcuni è posticipata al 480, quando Giulio Nepote venne assassinato in Dalmazia.
Ma a ben guardare significò soltanto l’interruzione della successione imperiale: Odoacre, salito al potere con la forza come altri suoi predecessori, avrebbe potuto nominare un sovrano prestanome ma non lo fece, forse perché riteneva conclusa la vicenda imperiale o, perché la presenza di un sovrano poteva suscitare come in passato guerre civili pericolose per il proprio personale potere.
Per quanto a noi possa sembrare strano, inoltre, nella mentalità dei contemporanei l’impero continuava a esistere nella persona di Zenone, all’ombra della cui autorità il generale barbaro si limitava a esercitare un’autorità delegata.
Gli stessi contemporanei non avvertirono la frattura e il cambio di governo passò sotto silenzio fino al secolo successivo quando, sull’onda della riconquista giustinianea, gli storici iniziarono a rimarcarla.
Il comes Marcellino, autore di un Chronicon che giunge fino al 354, è per esempio molto preciso in merito: “l’impero romano – egli scrive infatti – perì con questo Augustolo e da quel momento in poi Roma sarebbe stata governata dai goti”.
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Teodorico governò l’Italia come re degli ostrogoti e questa sua qualifica fu riconosciuta da Costantinopoli: l’imperatore Anastasio 1. nel 497 gli trasmise le insegne imperiali che Odoacre aveva inviato a Zenone, ma ciò nonostante egli non pensò a fregiarsi del titolo di Augusto.
Il suo lungo governo fu, a giudizio di molti storici, un periodo felice per l’Italia: si mantenne nei principi stabiliti da Odoacre di rispetto della romanità e attuò nello stesso tempo una proficua collaborazione con l’aristocrazia senatoria.
Promosse inoltre importanti opere pubbliche, come il palazzo o al basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e numerose altre ancora, che diedero lustro al suo governo.
Ma l’idillio con i romani era destinato a interrompersi bruscamente quando, dopo la morte di Anastasio 1., nel 518 salì al trono Giustino 1., un anziano generale illirico sotto il quale cominciò ad avvertirsi un nuovo orientamento politico.
La conduzione della cosa pubblica, sotto Giustino 1., di fatto faceva capo al nipote Flaviano Sabbazio, che aveva assunto il nome di Giustiniano dopo essere stato adottato dallo zio.
Giustino 1, che a differenza del predecessore era un cristiano di fede ortodossa, prese provvedimenti contro il culto ariano professato da Teodorico e dai suoi goti, come dalla maggior parte dei popoli germanici.
Teodorico, già sospettoso dell’attivismo di Giustiniano e dell’aristocrazia senatoria, in cui vedeva potenziali alleati di Costantinopoli, perse letteralmente la testa, a causa forse anche dell’età ormai avanzata, e rovinò con errori madornali la politica di sostanziale moderazione seguita fino a quel momento.
Il re adottò provvedimenti contro il culto cattolico e molti romani eminenti vennero arrestati o uccisi.
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La riconquista giustinianea

Giustino 1. morì il 1. agosto del 527, quattro mesi dopo aver associato al trono Giustiniano il quale, investito da lui del rango di augusto, gli subentrò quindi automaticamente secondo la prassi costituzionale del tempo.
Giustiniano come lo zio proveniva da una modesta famiglia dell’Illirico, ma diversamente da lui, che era analfabeta, aveva studiato, soprattutto diritto e religione, per prepararsi al governo dello Stato.
Era allora un uomo brillante di quarantacinque anni, già sposato con la famosa Teodora, nonostante lo scandalo che aveva suscitato a corte l’unione del principe ereditario con un’autrice.
La figura di questo sovrano è una delle più controverse della storia e l’attività che esercitò al servizio dell’impero ebbe sicuramente del prodigioso.
Giustiniano cercò di rinnovare e, nello stesso tempo, di rafforzare lo Stato con una serie di provvedimenti e di riforme che datano per lo più ai primi anni del regno.
Si impegnò inoltre in un ambizioso programma di riconquista dei territori appartenuti all’ex Impero di Occidente, recuperandone circa un terzo con lunghi anni di guerre: portò così Bisanzio a un’estensione in seguito mai più raggiunta.
A tale programma di restaurazione della potenza romana Giustiniano fu spinto dalla necessità di ricostruire l’unità del bacino mediterraneo, in parte sfuggito al controllo imperiale, ma anche da forti convinzioni ideologiche: nonostante le sue umili origini, si sentiva profondamente romano e considerava suo dovere la riconquista dei territori imperiali perché, secondo le  concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinta che tale compito gli fosse stato affidato da Dio, dal quale riteneva come ogni sovrano di Bisanzio di aver ricevuto il potere.
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Al di là delle apparenze, la conquista di Ravenna non rappresentò la fine della guerra e i goti rimasti in armi nell’Italia del Nord non occupata dai bizantini elessero un nuovo re a Pavia, apprestandosi a proseguire la lotta.
Nel corso del 540 i bizantini subirono una grave sconfitta presso Treviso e l’anno successivo, quando fu eletto re Totila dopo i brevi regni di Ildibado ed Erarico, le fortune dei goti cambiarono radicalmente.
A differenza di Vitige, Totila si dimostrò infatti un generale capace e un politico accorto.
Rinunciò all’ostinazione mostrata dal predecessore nell’assalire le città fortificate, con cui aveva inutilmente logorato le forze dei suoi, e preferì ottenerne la resa con trattative; una volta conquistata la piazzaforte, ne abbatteva le mura per evitare che gli imperiali potessero nuovamente servirsene.
Cercò inoltre di ovviare a un altro punto debole dei goti, che aveva ugualmente favorito il successo di Bisanzio, e mise in campo una flotta in grado di intercettare le navi nemiche e di condurre azioni di pirateria nelle zone costiere dell’impero: nella prima fase del conflitto, a parte un intervento in Dalmazia, la flotta ostrogota era stata infatti assente dal teatro operativo, consentendo a Bisanzio il dominio del mare e la conseguente sicurezza dei rifornimenti.
Come politico, Totila si adoperò per dare un volto più rispettabile ai suoi e per dividere il campo avversario.
Evitò il più possibile la brutalità, che di norma si accompagnava alle operazioni militari, e al contrario si sforzò di alleviare i disagi delle popolazioni civili.
Rendendosi conto, inoltre, che i peggiori nemici dei goti erano gli aristocratici romani, naturali alleati di Bisanzio, concepì un progetto per stroncarne il potere con uan nuova politica agraria volta all’esproprio dei latifondi, che costituivano al principale base economica dell’aristocrazia.
Nei territori riconquistati dai goti, infatti, passarono al fisco regio non solo le imposte ordinarie ma anche le rendite dei latifondi e, per di più, i servi vennero sistematicamente affrancati per entrare nell’esercito ostrogoto.
Non furono, come spesso idealisticamente si è voluto credere, provvedimenti rivoluzionari sotto il profilo sociale, ma più probabilmente si trattò di un calcolo utilitaristico per rafforzare il suo esercito dissanguato.
Pag. 23-24

Narsete ebbe i pieni poteri di generalissimo e un’ampia italiana: disponibilità di denaro, utile per approntare un esercito e per saldare gli arretrati della paga all’armata italiana; partì quindi da Salona nella primavera del 552,  con circa trentamila uomini, dei quali una buona parte erano ausiliari barbarici.
La condotta delle operazioni fu del tutto opposta a quella di Belisario, che si muoveva con grande prudenza, poiché Narsete puntò allo scontro risolutore con l’avversario.
Raggiunse l’Italia via terra, non avendo una flotta sufficiente per le sue truppe, passò lungo la costa veneta e arrivò a Ravenna all’inizio di giugno; di qui, senza curarsi di assediare Rimini e altre piazze in mano ai goti, proseguì incontro a Totila.
Il re goto si mosse da Roma verso il nemico e lo scontro ebbe luogo a Busta Gallorum (o Tagina), in prossimità di Gualdo Tadino, terminando con la completa disfatta dei goti.
I barbari furono messi in fuga, con il loro stesso re, che venne raggiunto e ucciso da un ufficiale bizantino.
La vittoria imperiale non comportò tuttavia la resa dei goti, e i superstiti elessero a Pavia un altro re nella persona di Teia, il quale scese a sud per combattere Narsete, che nel frattempo aveva ripreso Roma, ma venen sconfitto e ucciso nel corso dello stesso anno ai monti Lattari; con la sua morte ebbe fine il regno ostrogoto.
Gli sconfitti si sottomisero e, a quanto pare, ebbero dai vincitori il permesso di tornare nelle loro sedi.
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Il collasso demografico, a seguito della guerra, carestie ed epidemie, doveva infine avere assunto una dimensione massiccia e gli stessi ostrogoti avevano subito un ridimensionamento tale che nell’arco di pochi anni scomparvero come componente demica.
Il volto dell’Italia romana, mantenutosi brillante fino all’inizio della guerra soprattutto grazie all’opera di Teodorico, si era modificato irreparabilmente, annunciando i secoli bui che sarebbero seguiti fino alla ripresa in età comunale.
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Cap. 2 L’Italia esarcale

L’invasione longobarda

Giustiniano morì nel 565.
Fu sicuramente un uomo straordinario, di quelli che, come Cesare, Napoleone o altri, hanno lasciato un’impronta duratura delle propria attività.
Ancora oggi il Corpus Iuris Civilis resta alla base della nostra cultura giuridica e allo stesso modo la chiesa di Santa Sofia a Istanbul, anche se danneggiata dal tempo e dagli uomini, è un monumento imperituro alla sua grandezza.
Ma per chi dovette subentrargli al governo le cose furono meno semplici.
I suoi sogni di gloria avevano si portato alla riconquista più o meno di un terzo dell’ex Impero di Occidente, ma le devastazioni nei paesi riportati all’Impero erano state imponenti e, soprattutto, la forza militare di Bisanzio, perennemente in crisi, si rivelava insufficiente a coprire un territorio così ampliato.
I nemici erano in agguato e gli attacchi all’impero furono concentrici.
La prima grande guerra si accese con i persiani a causa della politica sconsiderata del successore di Giustiniano, il nipote Giustino 2., che nel 572 li attaccò infrangendo la pace faticosamente stipulata dieci anni prima.
L’esito, dopo qualche successo iniziale, fu disastroso e il conflitto si trascinò per un ventennio, sottraendo da altri fronti le migliori energie dell’Impero.
Altrove furono invece i bizantini a essere attaccati e a doversi difendere.
In Spagna la controffensiva visigota mise in difficoltà l’Impero, che continuò a perdere terreno finché negli anni Venti del 7. secolo dovette abbandonare la regione.
L’Africa, cronicamente agitata da rivolte indigene, andò interamente perduta con l’irruzione degli arabi e la conquista islamica di Cartagine nel 698.
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I rapporti con Narsete e la coincidenza fra la sua rimozione e l’invasione longobarda hanno fatto sorgere nel Medioevo la cosiddetta “leggenda di Narsete”, secondo la quale gli invasori sarebbero stati chiamati in Italia dall’eunuco che voleva così vendicarsi dei torti subiti da Costantinopoli.
La leggenda, peraltro assai tarda rispetto agli avvenimenti, potrebbe tra l’altro spiegare la mancata reazione degli imperiali che, almeno apparentemente, vennero travolti dai longobardi senza opporre resistenza.
In realtà l’inerzia dei bizantini, malgrado la scarsità di fonti storiche, può essere spiegata diversamente e attribuita a cause concomitanti, come lo spopolamento dovuto a una pestilenza che aveva imperversato in alta Italia poco prima dell’invasione longobarda, l’impegno delle truppe mobili di Bisanzio su altri fronti, l’assenza di un comando militare centralizzato a seguito della rimozione di Narsete, che potrebbe aver paralizzato la risposta degli imperiali, o anche un possibile accordo iniziale con le autorità bizantine per utilizzar ei nuovi arrivati contro i franchi, accordo reso poi nullo dall’aggressività longobarda.
Non va infine sottovalutata la tradizionale strategia difensiva dei bizantini per cui, data la scarsità di soldati normalmente disponibili, si preferiva evitare lo scontro campale con gli invasori, attendendo che si ritirassero spontaneamente dal territorio imperiale o che fosse possibile allontanarli in altro modo.
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La riforma amministrativa fu attuata attraverso l’introduzione di un nuovo funzionario, con sede a Ravenna, che aveva il titolo di esarca.
Su questa innovazione, tradizionalmente attribuita a Maurizio, a dire il vero i pareri degli storici non sono concordi: è vista infatti sia come una intenzionale come una semplice riproposizione del “generalissimo con pieni poteri, già esistente con un nome diverso”.
L’esarca ripristinava infatti la figura dello strategos autokrator (così definito nelle fonti erudite) creata nel 535 da Giustiniano al fine di conferire a Belisario la suprema autorità per la riconquista dell’Italia; la novità consisteva semmai nel fatto che la critica diveniva permanente, da provvisoria quale era nata, e che l’esarca si trovava ora in uan situazione ben diversa, con i nemici insediati stabilmente in Italia e l’impossibilità già ampiamente provata di cacciarli.
L’esarca era essenzialmente un governatore militare che esercitava nello stesso tempo un potere molto ampio anche nelle competenze civili, per cui si disse di lui che aveva il regno e il principato dell’Italia intera (regnum et principatus totius Italiae).
Coem già nell’epoca precedente, l’autorità civile non fu abolita, ma nella pratica quanto ne restava assunse un ruolo sempre più secondario di fronte all’elemento militare, la cui importanza andò crescendo nel corso del tempo fino a divenire predominante.
Il prefetto d’Italia, in particolare, si mantenne fino almeno alla metà del 7. secolo e, accanto a lui, si hanno isolate testimonianze sul funzionamento delle vecchie strutture dell’amministrazione civile.
La preminenza delle necessità difensive, in un’Italia che di fatto si era trasformata in una cittadella assediata, rovesciò tuttavia le tradizionali divisioni di competenze, in linea d’altronde con un generale processo di militarizzazione che in seguito si sarebbe esteso a tutto l’impero, ma che per il momento trovò espressione nell’esarcato d’Italia e in quello costituito negli stessi anni in Africa.
Le autorità civili si trovarono in una posizione subordinata rispetto ai capi militari, che esercitavano il loro potere più o meno legittimo in tutti i rami dell’amministrazione pubblica.
Pag. 44-45

Dopo la disastrosa spedizione di Baduario, i bizantini non affrontarono più i loro nemici in campo aperto.
Lo stato di guerra fu pressoché continuo, salvo occasionali remissioni, ma sembra più che altro essersi risolto in operazioni locali di non grande respiro; sta di fatto comunque che, con una lenta azione di logoramento, i longobardi sottrassero all’Impero sempre più territori fino a portarlo al collasso nell’8. secolo.
Alle carenze dell’apparato militare supplivano un’attività diplomatica efficace, spesso coronata da successo, volta a cercare alleanze esterne o a corrompere i duchi longobardi, nonché la militarizzazione delle strutture amministrative, che bene o male permise la sopravvivenza dell’esarcato per più di un secolo e mezzo.
I longobardi, per parte loro, attuarono per lo più una guerra per bande, volta a conquistare singoli punti e a praticare un saccheggio sfrenato.
Pag. 49

Il 590 e il successivo furono anni di svolta per la storia dell’Italia bizantina.
L’Impero rinunciò alle velleità aggressive, mentre il re Autari, morto il 3 settembre del 590, venne sostituito dal duca di Torino Agilulfo, che ne sposò la vedova Teodolinda e ottenne nel maggio del 591 l’investitura dai capi longobardi.
Morì anche papa Pelagio 2. e il papato passò al più energico Gregorio 1. (3 settembre 590), destinato a lasciare una forte impronta di sé.
I grandi ducati longobardi di Spoleto e di Benevento infine passarono in mano a forti personalità: Ariulfo a Spoleto e, probabilmente nel 591, Arichis a Benevento.
Pag. 54

San Gregorio magno si rendeva conto dell’impossibilità di contenere la guerra per bande de i longobardi con le esigue forze dell’Impero e aspirava a concludere uan pace duratura con i nemici.
Di tutt’altra opinione era l’esarca Romano, per il quale il papa aveva una decisa antipatia, che ragionava come un militare era intenzionato a mantenere le posizioni strategiche in Italia.
Verso la fine del 592, senza avvertire il papa, Romano partì da Ravenna con le sue forze, raggiunse via mare Roma e di qui, prelevando i soldati che vi trovò, andò a sbloccare il corridoio viario interrotto dai longobardi di Spoleto.
Il suo intervento sospese le trattative avviate da Gregorio 1. e provocò a tal punto i nemici che nel 593 il re Agilulfo in persona si mosse da Pavia per riprendere Perugia, il cui duca era passato dalla parte dell’Impero, e andare ad assediare Roma.
Romano non si mosse da Ravenna e la città fu difesa alla meglio dalle poche forze presenti; ancora una volta però l’onere maggiore ricadde sul papa, che convinse il re a ritirarsi al prezzo di cinquecento libbre d’oro per mettere fine alle devastazioni.
Pag. 55

Nel 744 Liutprando si sentì abbastanza forte per dare il colpo definitivo all’esarcato: ne superò i confini occupando Cesena e apprestandosi ad assediare Ravenna.
Eutichio, imponente a fermarlo, chiese aiuto al papa e Zaccaria, dopo il fallimento della delegazione inviata, andò personalmente a incontrare il re a Pavia, ottenendo di far cessare le ostilità in attesa che l’intera questione fosse trattata a Costantinopoli.
Ma era solo uan breve tregua: il successore di Liutprando, Ratchis, nonostante la pace conclusa con il papa, nel 749 attaccò la Pentapoli.
Il papa intervenne e Ratchis, che era un buon cristiano, lo ascoltò; il fratello e successore Astolfo ebbe però meno scrupoli e nel 750 si impadronì di Ferrara, di Comacchio e dell’Istria.
Nell’estate del 751, se non prima, si ebbe l’epilogo, anche se non si sa in che modo avvenne.
Sappiamo soltanto che il 4 luglio di quell’anno nel palazzo di Ravenna, che già era stato dell’esarca, il re vincitore emise un diploma a favore dell’abbazia laziale di Farfa.
Era così finito in sordina l’esarcato d’Italia e neppure si sa che fine abbia fatto Eutichio, di cui le fonti non fanno più menzione.
Pag. 62

L’antagonismo fra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, e di conseguenza gli imperatori, che della loro chiesa erano il braccio armato, aveva radici profonde e si manifestò in tutta la sua virulenza durante il dominio bizantino.
Nelle grandi controversie teologiche del quinto secolo Roma si era schierata con Costantinopoli sulla questione del nestorianesimo, la dottrina secondo cui in Cristo vi sarebbe stata solo la natura umana, e lo stesso fece poco più tardi sul monofisismo, per cui al contrario in Cristo sarebbe esistita soltanto la natura divina.
Nestorianesimo e monofisismo vennero sconfitti rispettivamente al Concilio di Efeso nel 431 e a quello di Calcedonia del 451 e la cosa per il momento finì lì.
Si trattava comunque di contrasti dottrinali, mentre nel 484 la situazione assunse una piega più preoccupante.
L’imperatore Zenone pubblicò l’Henotikon, un editto in materia di fede, che cercava una conciliazione fra ortodossi ed eretici, ma Roma si oppose e si arrivò a uno scisma fra le due sedi episcopali che fu detto scisma di Acacio, dal nome del patriarca di Costantinopoli, e che durò fino al 519, quando venne ricomposto da Giustino 1.; ma con l’arrivo dei bizantini in Italia le cose andarono ancora peggio.
Pag. 62-63

Il potere effettivo era ormai passato alla sede romana e, una volta scomparso il dominio bizantino a Ravenna, papa Stefano 2. con grande spregiudicatezza ricorse all’alleanza con i franchi contro i longobardi che minacciavano i suoi domini.
Nel 752 arrivò a Roma una ambasceria imperiale al papa e al re Astolfo di restituire i territori usurpati.
Stefano 2., forse stupito di tanta mancanza di realismo, fece proseguire l’ambasciatore fino a Ravenna.
Astolfo a sua volta non aderì, come è ovvio, alla sua richiesta e lo rimandò a Costantinopoli insieme a un proprio inviato, cui si aggiunsero poi messi papali, per portare proposte di cui ignoriamo il contenuto.
Il papa supplicò Costantino 5. di liberare Roma e l’Italia, ma di fronte all’inerzia di Costantinopoli maturò un progetto rivoluzionario, prendendo contatto con il re dei franchi Pipino il Breve e chiedendo il suo aiuto contro i longobardi che premevano su Roma.
La sua determinazione fu rafforzata dal ritorno dell’ambasceria di Costantinopoli con l’ordine per il papa di recarsi presso il re longobardo e ottenere la restituzione di Ravenna e delle città da questa dipendenti.
Il papa si prestò a eseguire la richiesta alquanto bizzarra del sovrano ma, dopo il fallimento dell’incontro con Astolfo, proseguì per la Francia, dove all’inizio del 754 ebbe con Pipino il famoso incontro di Ponthion, in cui riconobbe  il regno da lui stabilito in Francia in cambio dell’impegno del re a intervenire in Italia e a consegnare ampi territori alla sede romana.
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Cap. 3. Bisanzio nell’Italia imperiale

La fine dell’esarcato ebbe come conseguenza la dissoluzione di gran parte dei domini bizantini in Italia, anche se il tracollo non fu immediato.
Nel Nord l’Impero manteneva almeno nominalmente il controllo su Venezia, mentre l’Istria caduta in mano longobarda fu recuperata nel 774 per poi essere perduta di nuovo a vantaggio dei franchi alcuni anni dopo.
Scendendo al Centro-Sud, il ducato di Roma di fatto già da tempo era passato sotto il dominio dei papi, a differenza di quello di Napoli che restò ancora a lungo nell’orbita dell’Impero.
Al momento della caduta di Ravenna era al potere un duca lealista e tali furono anche i suoi immediati successori.
Il processo di diversificazione da Costantinopoli era comunque in atto e anche qui, come sarebbe accaduto a Venezia, il distacco fu graduale e senza scosse violente.
Dopo l’827, quando gli arabi invasero la Sicilia, e di conseguenza il governatore dell’isola non ebbe più la possibilità di intervenire negli affari locali, la città si emancipò sempre più adottando anche una propria politica estera, talvolta in contrasto con l’Impero.
In quegli stessi anni, inoltre, si svincolarono progressivamente dal ducato napoletano, di cui erano stati parte integrante, i centri di Amalfi e di Gaeta, che si diedero governi autonomi.
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L’epilogo della vicenda, di cui ormai i bizantini erano divenuti spettatori, si ebbe nel 774 allorché Carlo Magno, rispondendo all’appello del papa Adriano, scese in Italia per combattere i longobardi che di nuovo si erano fatti minacciosi in spregio ai trattati sottoscritti.
I longobardi furono sconfitti e il re Desiderio fu fatto prigioniero, mentre il figlio Adelchi fuggiva a Costantinopoli.
Finiva così il loro regno, che venne aggregato a quello franco.
Nel 774, a Roma, Carlo Magno depose solennemente sulla tomba di San Pietro un diploma di donazione di località italiane, che ampliava quella già fatta da suo padre Pipino: anche se nella pratica parte dei territori concessi non finì sotto il dominio dei papi, ciò che era stato bizantino nel centro e nel nord della penisola passava definitivamente sotto il controllo della chiesa romana.
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La Sicilia imperiale non ebbe particolari problemi per parecchi anni; nell’827 però entrò nell’occhio del ciclone quando gli arabi provenienti dalla Tunisia sbarcarono in giugno a Mazara.
L’isola a partire dalla metà del 7. secolo aveva già subito incursioni islamiche, ma questa volta si trattava di un’invasione vera e propria.
L’emiro Ziyadat Allah aveva dato seguito alle richieste di un losco ufficiale, il turmarca Eufemio, che mirava a costituirsi un dominio personale con l’appoggio degli arabi, e aveva inviato un corpo di spedizione di circa diecimila uomini nonostante i trattati di pace che legavano gli aghhlabiti a Bisanzio.
 Un mese più tardi gli invasori si scontrarono con i bizantini probabilmente a ovest di Corleone e li misero in fuga.
Nonostante questo successo, tuttavia, la loro conquista si rivelò molto lenta e difficile.
Dopo un fallito assedio a Siracusa, gli arabi si riversarono all’interno conquistando numerosi centri; andarono poi ad assediare Palermo che capitolò nel settembre dell’831 e divenne la loro capitale.
Dopo alcuni anni di relativa inattività, ripresero l’offensiva in grande stile, arrivando nell’839 a dominare l’intera parte occidentale dell’isola.
Le operazioni proseguirono quindi con l’assedio e la conquista di Messina, fra 842 e 843, di Modica nell’845, l’anno successivo di Lentini, i cui difensori vennero sterminati, e di Ragusa che si arrese senza combattere nell’848.
Fu quindi la volta di Enna che fu presa nell’859 dopo più di venticinque anni di tentativi andati a vuoto.
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Una volta liquidato il regno longobardo, le ambizioni di Carlo Magno si estesero anche al ducato di Benevento sino ad allora rimasto indenne.
Il duca Arechi 2., che dopo la caduta del regno longobardo aveva assunto il titolo di principe, cercò di destreggiarsi fra i bizantini, i franchi e la chiesa: così, quando Carlo Magno gli impose la propria sovranità, si rivolse a Bisanzio in cerca di aiuto.
A Costantinopoli regnava allora il giovane Costantino 6., ma di fatto il governo reale era nelle mani della madre Irene, che alcuni anni più tardi si sarebbe sbarazzata del figlio facendolo accecare e diventando così la prima delle tre imperatrici bizantine.
Irene aveva seguito inizialmente una politica di amicizia con i franchi acconsentendo al fidanzamento di Costantino 6. con Rotrude, figlia di Carlo Magno, ma in seguito si risolse a intervenire in favore di Arechi 2. avviando le trattative per un accordo che prevedeva di riportare con le armi sul trono di Pavia Adelchi, figlio di Desiderio e cognato dello stesso Arechi, in cambio del riconoscimento della sovranità imperiale: per parte sua Arechi avrebbe ottenuto la dignità di patrizio e il ducato di Napoli, verso il quale da tempo i longobardi avevano mire espansionistiche.
Quando però nel 787 giunse a Benevento un’ambasceria imperiale per consegnargli le insegne della dignità, Arechi 2. era già morto e, malgrado la tendenza filoimperiale della vedova Adelperga, il figlio e successore Grimoaldo 3. dovette adeguarsi alla politica di Carlo Magno, del quale era stato ostaggio.
Di conseguenza la spedizione promessa da Irene, arrivata troppo tardi in Calabria, non poté più contare sull’appoggio dei longobardi di Benevento.
Le forze imperiali, al comando del sacellario e logoteta dello stratiotikon Giovanni e di Adelchi, che a Bisanzio aveva assunto il nome greco di Teodoto, pur rinforzate dai contingenti messi a disposizione dallo stratego di Sicilia, furono affrontate nel 788 da longobardi e franchi coalizzati e subirono una grave sconfitta perdendo in battaglia anche il loro comandante.
Sebbene fosse stato costretto al vincolo di vassallaggio, Grimoaldo 3. si affrancò presto dalla soggezione a Carlo magno riuscendo a mantenere l’indipendenza del principato, malgrado i tentativi del figlio di Carlo per sottometterlo.
I bizantini furono invece paralizzati dalla sconfitta subita e non ebbero la forza di riprendere l’iniziativa.
Carlo Magno, nell’802, tentò un’impossibile riconciliazione con Bisanzio chiedendo in sposa l’imperatrice Irene, ma le trattative si arenarono per l’improvvisa destituzione di questa e il successore Niceforo 1. adottò una linea politica di chiusura ai franchi, il cui esito fu il conflitto combattuto nelle lagune veneziane.
La pace di Aquisgrana, conclusa nell’812 durante il regno di Michele 1., e il riconoscimento sia pure parziale del nuovo impero franco allentarono tuttavia le tensioni e le conseguenze si fecero avvertire anche in Meridione con un breve periodo di stabilità.
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La controffensiva iniziò nell’976, quando il governatore imperiale di Otranto si impossessò di Bari, e proseguì decisamente nell’880 quando i bizantini sbarcarono in Calabria un consistente esercito.
L’armata imperiale, muovendosi di conserva con la flotta, che sconfisse in prossimità di Punta Stilo le navi saracene, marciò lungo la costa della Calabria orientale per raggiungere la valle dei Crati e proseguire alla volta di Taranto, riconquistando quasi tutte le fortezze in mano al nemico in Calabria e nella Puglia meridionale.
Si scontrò poi con gli arabi vicino a Taranto, subendo una parziale sconfitta con la morte di uno dei generali, ma ciò non impedì la conquista della città e la cattura della guarnigione musulmana.
L’offensiva riprese nell’882 o 883 con l’invio di un nuovo esercito dall’Oriente, che non ottenne grandi risultati, e ancora nell’885 facendo affluire altri rinforzi.
Il comando dell’esercito imperiale in questa circostanza fu assunto da Niceforo Foca, esponente dell’aristocrazia militare che si andava affermando a quell’epoca e uno dei più valenti generali del tempo.
Niceforo Foca eliminò le ultime sacche di resistenza araba in Calabria e, più con la diplomazia che con la forza, arrivò anche all’obiettivo di ricongiungere i domini in Calabria alle conquiste pugliesi sottomettendo i longobardi che vi erano stanziati.
L’accorta politica del generale imperiale e la moderazione da lui dimostrata gli valsero la riconoscenza delle popolazioni locali, da lui liberate dal dominio arabo, al punto che edificarono una chiesa dedicata a san Foca in ricordi dei suoi meriti.
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I bizantini davano grande importanza al dominio sull’Italia meridionale; l’impegno militare messo in campo fino a quel momento iniziò tuttavia ad affievolirsi sotto i successori di Basilio 1., a causa soprattutto dell’impegno bellico preminente su altri fronti.
Le regioni del Sud dovettero così per lo più contare sulle forze militari locali e andarono soggette a nuove e ripetute incursioni arabe e a ribellioni dei longobardi riottosi alla sottomissione.
Ai nemici tradizionali si aggiunsero poi i pirati slavi che nel 926 saccheggiarono Siponto, disperdendo in prossimità di Termoli una flottiglia imperiale, e, nel 947, una scorreria degli ungari, che già qualche anno prima avevano devastato la Campania.
I territori del meridione in sostanza furono come una cittadella assediata da più parti: nonostante le numerose sconfitte subite da arabi o da longobardi, i bizantini riuscirono però a mantenere intatto il proprio dominio.
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La disfatta di Ottone 2. avvantaggiò il governo bizantino nel secolare confronto con gli arabi.
La morte dell’emiro nella stessa battaglia in cui su sconfitto l’imperatore germanico, e il conseguente ritiro in Sicilia delle forze arabe, concessero infatti qualche anno di respiro ai temi italiani.
Fu comunque una tregua di breve durata e già nel 986 ripresero le incursioni, la più clamorosa delle quali si ebbe nel 1002 con l’assedio di Bari per terra e per mare da parte di un consistente esercito musulmano.
L’assedio durò dai primi giorni di maggio al 20 settembre, quando arrivò uan flotta veneziana comandata dal doge Pietro 2. Orseolo, che rifornì la popolazione affamata e in pochi giorni contribuì a liberare la città.
L’intervento a Bari offrì al doge Orseolo una buona occasione per un salto di qualità nei rapporti con la corte imperiale: oltre ai vantaggi politici che Venezia ricavò dalla sconfitta degli arabi, infatti, la città lagunare venen ricompensata con un importante matrimonio diplomatico e la dignità nobiliare di patrizio per Giovanni Orseolo, figlio del doge in carica e da lui associato al potere.
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La politica conciliante di Costantinopoli non fermò i normanni, che mantennero le conquiste fatte e iniziarono a espandersi sistematicamente in Puglia e in Lucania, avvicinandosi alla Calabria dove, a nord delle valli del Crati, si stanziò con il suo seguito uno dei numerosi figli di Tancredi d’Altavilla, quel Roberto il Guiscardo che negli anni a venire sarebbe divenuto il capo riconosciuto della sua gente.
Argiro, che era stato chiamato nel 1045 a Costantinopoli e qui era rimasto per alcuni anni, fu rimandato in patria dal governo bizantino con l’ordine di usare ogni mezzo diplomatico a disposizione per risollevare le sorti dell’impero.
Sbarcò quindi ad Otranto nel 1051, prendendo poi possesso di Bari, con fatica per l’ostilità della fazione filo normanna, ma non arrivò ad alcun risultato e si decise quindi a giocare la carta estrema inviando un’ambasceria a papa Leone al fine di concordare un’azione contro il nemico comune.
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L’ascesa del Guiscardo, che si stava affermando fra i capi normanni, divenne poi irresistibile quando nel 1059, con un trattato concluso a Melfi, ottenne da papa Niccolò 2. l'investitura a duca di Puglia, Calabria e Sicilia in cambio del giuramento di fedeltà alla chiesa romana.
Si stava infatti profilando lo scontro fr ail papato e l’impero germanico e, con la consueta spregiudicatezza, la politica papale si orientò verso l’unica potenza in grado di sostenere le proprie aspirazioni, abbandonando al suo destino il meridione imperiale.
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Nelle regioni del nord e del centro Italia i bizantini hanno lasciato scarsi ricordi della loro presenza, mentre al sud questi sono in numero di gran lunga maggiore.
I motivi della diversità sono essenzialmente due: la maggiore permanenza in termini di tempo dei dominatori al sud e le condizioni degradate di vita in cui si trovò l’esarcato, stretto in una situazione di assedio permanente, che non consentì il dispiegarsi di forme evolute di civiltà.
Bisogna inoltre distinguere, quando si parla di testimonianze bizantine in Italia, fra la presenza nei nostri istituti culturali di numerosissimi oggetti arrivati dall’impero (come monete, sigilli, miniature, marmi, icone o altri ancora), di cui spesso si ignorano la provenienza esatta e le modalità di acquisizione, e i manufatti direttamente prodotti dai bizantini in Italia, che sono in quantità di gran lunga inferiore.
Lo stesso poi vale per le altrettante numerose opere d’arte di imitazione bizantina, di cui il patrimonio culturale italiano è molto ricco.
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A Iesolo infine un’iscrizione di produzione locale, incisa nella fronte superstite di un sarcofago, ricorda un Antonino tribuno sepolto insieme alla moglie.
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Nel meridione e nelle isole le testimonianze, lo si è visto, sono più ampie e varie: ne basta un breve panorama per rendere l’idea.
Il dominio bizantino nelle regioni del sud, si è detto, fu più solido e duraturo di quanto non sia stato nelle altre parti della penisola; più forte fu inoltre il legame culturale che, se si eccettua il caso anomalo di Venezia, si mantenne spesso anche al di là dell’effettivo controllo sul territorio.
Il rapporto particolare che soprattutto la Puglia e la Calabria ebbero con Bisanzio è determinato, in termini di memoria visiva, in primo luogo dai numerosi edifici di culto ancora esistenti, ma anche dalla sopravvivenza di minoranze linguistiche greche, legate probabilmente in gran parte all’immigrazione di popolazioni ellenofone provenienti da Bisanzio.
Attualmente esistono infatti isole linguistiche greche, riconosciute dallo Stato italiano con le disposizioni a tutela delle minoranze linguistiche, ubicate in Puglia (nove comuni), in Calabria (quindici comuni) e in Sicilia (uno soltanto).
Vi si parla un’idioma che ha forti caratteri di affinità con il neogreco e viene comunemente definito grecanico per l’area calabrese e griko i grico per quella salentina, ovvero “italiano meridionale”.
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La presenza di Costantinopoli trovò espressione per secoli nelle numerose chiese dell’Italia meridionale, in particolare nel Salento, edificate per lo più a opera di monaci orientali che popolarono la regione.
Il ricordo di Bisanzio in questo caso è ora rimasto soprattutto nelle cripte e negli ipogei, poiché nel corso dei secoli le chiese sono state modificate o sostituite da altre soluzioni che ne hanno alterato l’aspetto iniziale.
Un esempio tangibile di sopravvivenza della forma originaria è dato dalla chiesa di san Pietro di Otranto, databile a quando sembra al 9.-10. secolo, che si presenta nei caratteri dell’architettura religiosa dell’Impero d’Oriente e nelle tre absidi mostra affreschi in stile bizantino.
A Carpignano Salentino (provincia di Lecce) si ha un caso particolare con la cripta di Santa Cristina (o della Madonna delle Grazie) ubicata in piazza Madonna delle Grazie e scavata nella roccia.
Santa Cristina risale al 10. secolo e fu probabilmente la chiesa più importante dell’antico centro.
La cripta conserva gli affreschi più antichi del Salento e, cosa singolare, le iscrizioni ivi presenti tramandano i nomi dei committenti, dei pittori e le date di esecuzione.
Nell’intero ciclo pittorico, uno dei più cospicui e dei meglio conservati del Salento, spiccano per importanza l’Annunciazione e il Cristo Pantokrator del pittore Teofilatto, cha data al mese di maggio del 959, il trittico del pittore Eustazio, del mese di maggio del 1020; l’affresco del pittore Costantino, del 1054-55; i dipinti della tomba ad arcosolio (datati tra il 1055 e il 1075, quindi agli ultimi tempi della dominazione bizantina in Puglia), in cui si conserva un epitaffio in versi dodecasillabi, , noto come iscrizione di Stratigulis, fatto eseguire dal padre del giovane defunto.
La Calabria ebbe un rapporto molto stretto con il mondo bizantino e ortodosso.
In questa regione non solo fu determinante la componente demografica di lingua e di cultura greca, ma vi si radicò anche un’intensa spiritualità, alimentata da monasteri e chiese sparsi nel suo territorio.
Tra queste ultime merita una menzione particolare per la sua singolarità la Cattolica di Stilo (ubicata sulle falde del monte Consolino), così chiamata secondo la nomenclatura bizantina perché appartenente al rango delle chiese munite di battistero.
La Cattolica, destinata al culto greco e convertita nel 577 al quello latino, presenza un’architettura tipica del periodo medio bizantino, con pianta a croce greca inscritta in un quadrato, e mostra una caratteristica forma cubica con all’interno tre absidi destinate alla preparazione e alla realizzazione della liturgia.
I muri dell’edificio erano ricoperti interamente di affreschi, di cui restano avanzi.
Assai simile alla Cattolica di Stilo, per forma e per la presenza di tre absidi, è la chiesa di San Marco che sorge all’interno della città di Rossano, edificata introno al 10. secolo per servire come luogo di culto a uso dei monaci che vivevano nelle sottostanti grotte di tufo.
Presenta lo schema tipicamente bizantino della croce greca inscritta in un quadrato e sormontata da cinque cupole; all’interno è particolarmente rilevante un affresco superstite dell’originaria decorazione con la Vergine e il Bambino.
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Il fenomeno dell’insediamento rupestre legato alla presenza bizantina, attestato in Puglia e in Basilicata, si verifica anche nella Sicilia sud-orientale e il riferimento più importante in questo caso è a Pantalica (in provincia di Siracusa), dove la presenza di abitati è attestata da gruppi di villaggi scavati nella roccia e dove si trovano i santuari di San Micidiario, san Nicolicchio e del Crocifisso.
Il primo, parte di un villaggio bizantino di circa centocinquanta abitazioni, mostra all’interno tracce di affreschi e iscrizioni, fra cui meglio visibili un Pantokrator fiancheggiato da due angeli e un’altra figura che dovrebbe essere san Mercurio.
San Nicolicchio è un villaggio più piccolo che ha al suo centro l’oratorio, anch’esso con tracce di affreschi in cui si riconoscono sant’Elena e santo Stefano, databili pare al 7. secolo.
La grotta del Crocifisso, utilizzata come chiesa, mostra i resti di una Crocifissione e le figure di san Nicola e santa Barbara.
A questi si aggiungono la grotta di San Pietro presso Buscemi, il cui primo utilizzo potrebbe datare al 5.-7. secolo, le rovine del monastero rupestre di San Marco a Noto e l’oratorio delle catacombe si Santa Lucia a Siracusa, quest’ultimo fondamentale per la conoscenza della pittura bizantina in Sicilia.
La chiesa di Santa Lucia extra moenia, nel cui portico è collocato l’accesso alle catacombe, venne infatti edificata in età bizantina sul luogo del martirio della santa, ma fu poi ricostruita al tempo dei normanni e completamente rifatta a fine Seicento.
Gli affreschi dell’8. secolo a loro volta furono coperti da malta nel Quattrocento allorché gran parte dell’oratorio venne distrutta per far posto a uan cisterna: grazie però a un recente intervento di restauro oggi sono ancora visibili nella volta, nella parete sud-est e nell’abside.
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La Sicilia orientale offre ugualmente numerose testimonianze di epoca bizantina.
A Cava d’Ispica, la valle fluviale nell’altopiano ibleo fra Modica e Ispica, sono presenti testimonianze di civiltà rupestre, tra cui la grotta dei Santi, in cui si vedono tracce di pitture di trentasei santi e di iscrizioni greche (con una santa abbigliata da imperatrice); il santuario di San Nicola, detto anche della Madonna, con altri affreschi; i ruderi della chiesa di San Pancrati, l’unico esempio di costruzione non rupestre della Cava; il complesso di Santa Alessandra, comunemente ritenuto un monastero, e altri minori, in parte anche franati, utilizzati dagli asceti d’epoca bizantina.
A Kaukana, località del comune di Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa, l’area archeologica mostra i ruderi dell’abitato di epoca tardo romana e bizantina, mentre la Cittadella dei Maccari, località a sud dell’area naturalistica di Vendicari presso Noto, è un villaggio bizantino sorto nel 6. secolo, dove si trovano fra l’altro le rovine di una grande basilica detta “Trigona”, perché possiede tre absidi, che si presenta come un caseggiato agricolo; vicino a questa sorgono diverse catacombe dello stesso periodo, resti di abitazioni e altri edifici, segno anche della vitalità dell’antico centro commerciale.
Pag. 102-3

Nell’altra grande isola infine l’archeologia ha conseguito rilevanti risultati nell’esplorazione del passato bizantino, ancorché in genere piuttosto specialistici: si segnala a questo proposito il recupero di un’ottantina di sigilli nel sito di San Giorgio (comune di Cabras), dove sorgeva una chiesa dedicata al santo, pertinenti a cancellerie ecclesiastiche e non, con scritte sia greche sia latine.
Tra i sigilli di ambito non ecclesiastico se ne trova uno di Anastasia, correggente l’Impero con Costante 2. e Costantino 4., sul trono dal 654 al 668; vi sono poi una bulla di un tal Giorgio cubicolario imperiale nel 7. Secolo, un sigillo di Pantaleone, mandatario imperiale vissuto nel 7. -8. secolo, e sigilli di altri dignitari, fra cui consoli, ex prefetti e generali.
L’epigrafia ci offre infine due testimonianze interessanti per la storia universale dell’isola.
La prima iscrizione, oggi conservata nella basilica di San Saturno o Saturnino a Cagliari e riportabile al 6. secolo, presenta un testo latino di difficile lettura, ma che può essere ricomposto riconducendolo alla tomba di un tal Gaudiosus, sottufficiale del reparto dei dromonarii, ossia  della marina da guerra imperiale.
La seconda, latina anch’essa e databile a epoca più tarda (7. od 8. secolo), fa invece riferimento alle vittorie sui longobardi e altri barbari di un imperatore di nome Costantino (quindi Costantino 4. o Costantino 5.) e fu fatta apporre da un altro Costantino, di cui nulla si sa, ypatos e dux di Sardegna, cioè governatore imperiale dell’isola.
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Cap. 4. Venezia e Bisanzio

Venezia è ancora oggi una città sotto molti aspetti complicata e tale è anche la storia delle sue origini.
Il motivo è essenzialmente tecnico: le testimonianze materiali che consentono di ricostruirle sono poche, le fonti documentarie assai scarse e gli storici locali scrivono molto tardi rispetto agli avvenimenti.
La più antica fonte narrativa di cui disponiamo, l’Istoria Veneticorum di Giovanni Diacono, risale infatti a poco dopo il Mille, mentre la composizione del testo cronachistico noto come Origo civitatum Italiae seu Venetiarum si data  fra 11. e 12. Secolo.
Più tarda ancora è inoltre la Chronica extensa del doge Andrea Dandolo, composta nel Trecento, che rappresenta la prima storia ufficiale di Venezia e, di conseguenza, è uno strumento indispensabile per le vicende dei secoli delle origini.
Le opere storiche di provenienza veneziana presentano inoltre una caratteristica del tutto peculiare che consiste nella mitizzazione dell’origine della città, legandola a eventi leggendari e in particolare tacendo sulla dipendenza da Bisanzio, che feriva l’orgoglio civico al tempo in cui vennero scritte.
A ciò si aggiunge infine un ulteriore problema costituito dalla difficoltà di utilizzare l’Origo, in cui non solo si ha mescolanza di realtà e leggenda, ma anche un incredibile disordine espositivo, con continue confusioni cronologiche, e, almeno in apparenza, la mancanza di un qualsiasi filo logico nella narrazione.
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Le isole veneziane restarono sotto il dominio imperiale anche dopo che i longobardi misero fine all’esarcato, ma i rapporti con Costantinopoli cominciarono ad allentarsi, al punto che nell’804 andò al potere a Malamocco (dove nel 742 era stata spostata la capitale) il doge Obelerio, rappresentante del partito filo franco e, quindi, avverso a Bisanzio.
La situazione territoriale in terraferma si era infatti profondamente modificata: Carlo Magno nel 774 aveva messo fine al regno dei longobardi conquistando dopo qualche tempo anche l’Istria.
Nell’800 si era inoltre fatto proclamare imperatore, contrapponendo così a Bisanzio una nuova potenza con una decisa volontà di supremazia in Occidente.
In questo modo Venezia passava di fatto nell’orbita carolingia senza un’apparente reazione da parte di Bisanzio; quando però nell’806 Carlo Magno assegnò Venezia, l’Istria e la Dalmazia al figlio Pipino, nella sua qualità di re d’Italia, l’imperatore Niceforo 1., per riaffermare i diritti di Bisanzio, inviò una flotta che andò a gettare le ancore nella laguna veneta.
Ne seguì una guerra bizantino-franco-venetica, con l’arrivo di un’altra flotta bizantina a Venezia, un tentativo apparentemente fallito da parte di Pipino di conquistare le isole e, infine, una pace conclusa ad Aquisgrana nell’812 con cui Costantinopoli riconosceva a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma in cambio otteneva il dominio su Venezia, ma in cambio otteneva il dominio su Venezia.
L’inviato imperiale che aveva trattato con Carlo Magno, lo spatario Arsafio, nell’811 a nome del suo signore dichiarò deposti il doge filo franco Obelerio e i due suoi fratelli associati al trono, sostituendoli con il duca lealista Agnello Partecipazio e riportando così decisamente il governo cittadino sotto l’influenza di Costantinopoli.
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Venezia fu nel Medioevo la città più legata a Bisanzio e, anche al di là della sua indipendenza, mantenne un vincolo di sostanziale alleanza con l’Impero fino al 12. secolo, quando sotto i sovrani Comneni i rapporti cominciarono a incrinarsi.
La coincidenza di interessi nel far sì che le rotte adriatiche e le regioni che su queste si affacciano fossero sgombre da nemici comuni spinse infatti a più riprese il governo veneziano a intervenire in favore dei bizantini.
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Dal punto di vista istituzionale, per esempio, possiamo ravvisare una chiara influenza bizantina nel sistema di coreggenza, che in alcuni occasioni consentì la successione dei dogi veneziani al potere.
Era consuetudine a Bisanzio, infatti, che il sovrano in carica si associasse uno o più colleghi formalmente di pari grado.
Questo sistema da un lato poneva rimedio alla tradizionale instabilità del potere supremo, dall’altro consentiva il formarsi di dinastie più o meno durature.
A Venezia la coreggenza venne introdotta da Maurizio Galbaio, doge dal 764 al 787, che si associò al potere il figlio, e venne conservata fino all’abolizione del 1032.
Il doge del primo periodo aveva un’autorità di tipo regale, che venne limitata molto più tardi fino a trasformarlo in un semplice magistrato cittadino.
Al di là dei meccanismi istituzionali, inoltre, anche il rituale della corte bizantina influenzò la Venezia delle origini.
La trasmissione del potere comportava, alla maniera bizantina, una consegna delle insegne da parte del collega più anziano, di cui si ha notizia per la prima volta a Venezia nell’997 al momento del passaggio dei poteri fra Giovanni Partecipazio e Pietro 1. Candiano.
La cerimonia avvenne con al consegna di tre emblemi, la “spada, il bastone e il seggio”, che erano forse anche antiche insegne in qualche modo venute da Bisanzio.
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Il privilegio concesso a Venezia nel 1082 segnò l’inizio della loro straordinaria fortuna in Levante.
Venne attribuito attraverso l’emissione di una “crisobolla” (chrysoboullos logos, come si chiamava tecnicamente l’atto imperiale), ossia un documento all’apparenza unilaterale con cui veniva accordata una concessione sovrana, espressa come tale nella forma solenne dell’editto munito di sigillo aureo, ma che in realtà, in questo come in altri casi, era piuttosto il risultato di un accordo bilaterale conclusi a seguito di trattative.
Nel maggio del 1082, durante il soggiorno a Costantinopoli, Alessio Comneno emise infatti una crisobolla con la quale concedeva ampi privilegi alla città alleata in cambio dell’aiuto prestato e dell’impegno a mantenere l’alleanza anche in futuro, sulla base di quanto concordato qualche tempo prima nelle trattative svolte dai suoi ambasciatori a Venezia.
L’aiuto era quanto mai necessario per far fronte all’aggressione dei normanni e l’imperatore largheggiò in concessioni, come d’altronde si era impegnato a fare chiamando in soccorso i veneziani.
Concesse loro pertanto titoli nobiliari, elargizioni in denaro, proprietà fondiarie e privilegi di natura commerciale.
Questi ultimi furono senza dubbio i più importanti, perché le esenzioni attribuite fecero ottenere una posizione di preminenza nel commercio orientale.
I veneziani avevano già ottenuto vantaggi di questo genere nel 992, con una crisobolla di Basilio 2., ma si era trattato di una semplice riduzione di imposte per le navi che arrivavano a Costantinopoli.
Ora al contrario furono autorizzati a commerciare in pressoché tutto l’impero senza pagare tasse né andare soggetti a controlli.
Un notevole salto di qualità, tale da determinare inevitabilmente il predominio di Venezia, che sarebbe stato gravido di conseguenze negative per Bisanzio.
Al momento, tuttavia, non se ne valutò appieno la pericolosità, sia per lo stato di necessità sia perché, probabilmente, il volume dei traffici veneziani non era tale da destare preoccupazioni.
L’importanza dell’avvenimento non sfuggì però a una osservatrice attenta come Anna Comnena, figlia e biografa di Alessio 1.
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Cap. 5. L’invadenza dell’Occidente

Il secolare dissidio con la chiesa di Roma si avvicinò allo scisma nel 9. secolo con l’avvento al trono patriarcale di Costantinopoli dell’erudito Fozio.
Imparentato con la famiglia imperiale e nato a Costantinopoli verso l’820, fu un uomo di grande erudizione e scrittore fecondo: la sua opera principale, preziosa fonte di informazione per i moderni, è la Biblioteca, una serie di epitomi, riassunti o commenti di duecentosettantanove testi greci di vario argomento, che in alcuni casi ci dà notizie su scritti oggi scomparsi.
Nell’858, dopo la deposizione di Ignazio Fozio fu scelto come un nuovo patriarca di Costantinopoli da Teodora, reggente dell’impero per conto del minore Michele 3., nonostante fosse un laico: un fatto peraltro non insolito a Bisanzio.
L’ex patriarca Ignazio andò a Roma per lamentare il trattamento subito: papa Niccolò 1. gli diede ascolto e convocò un sinodo che non riconobbe l’elezione di Fozio dichiarandola illegittima, dato che era stato di fatto imposto da Barda, l’onnipotente zio dell’imperatore, che aveva costretto alla rinuncia il precedente patriarca.
Fozio, con l’appoggio di Barda e del suo sovrano, entrò in conflitto con il papa Niccolò e convinse gli ambasciatori a lui inviati da Roma  a ritenere legittima la sua elezione.
Il papa dichiarò deposto Fozio nell’863, ma Michele 3. Si schierò a favore del patriarca, respingendo la pretesa romana al primato religioso.
Fozio a sua volta attaccò la chiesa di Roma sul piano dottrinale: un sinodo riunito a Costantinopoli nell’867 scomunicò il papa, condannò come eretica la dottrina romana della duplice processione dello Spirito Santo e respinse come illegali le intrusioni romane nelle questioni della chiesa bizantina.
Si sarebbe probabilmente arrivati allo scisma, ma improvvisamente Michele 3. fu deposto e il nuovo imperatore Basilio 1. Cambiò politica religiosa.
Il sovrano fece rinchiudere Fozio in un monastero e richiamò Ignazio, rappacificandosi così con Roma.
In seguito tuttavia, deluso dalla sua precedente politica ecclesiastica, Basilio 1. fece tornare a corte Fozio che nell’887, alla morte di Ignazio, salì di nuovo sul trono patriarcale e questa volta venne anche riconosciuto da Roma.
Pag. 121-22

A più riprese infine Liutprando mette l’accento su uno dei principali temi di polemica fra Oriente e Occidente, che sarebbe durato anche in seguito, ossia la pretesa dei sovrani di Bisanzio di essere gli unici ad aver diritto al titolo di imperatore, basileus in lingua greca, e di essere considerati gli unici eredi diretti dei cesari romani.
“Voi non siete romani ma longobardi”, sembra aver esclamato alla presenza dell’ambasciatore d’Occidente Niceforo Foca, che considerava il sovrano, Ottone 1., nient’altro che un re; a sua volta Liutprando definisce con disprezzo i bizantini semplicemente “greci”, cosa che ai loro orecchi suonava alquanto offensiva.
Non si trattava d’altronde di una novità: nell’812 i bizantini con la pace di Aquisgrana avevano riconosciuto senza entusiasmo a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma non di imperatore dei romani, che riservavano al loro sovrano.
Questa condiscendenza non era comunque durata molto: dodici anni più tardi Michele 1. scrivendo a Ludovico Pio lo qualificava come “glorioso re dei franchi e dei longobardi e chiamato loro imperatore”.
Allo stesso modo Basilio 1. rifiutava a Ludovico 2. il titolo di imperatore dei romani, concedendogli soltanto quello di imperatore dei franchi.
Durante l’ambasceria di Liutprando, con la tensione generata dalla guerra in corso, si ebbe poi un incidente diplomatico che andava al di là del semplice conflitto protocollare: arrivarono infatti a Costantinopoli legati a papa Giovanni 13. con lettere in cui Niceforo Foca veniva definito “imperatore dei greci” mentre Ottone 1. era “imperatore augusto dei romani”, e vennero incarcerati per l’intollerabile oltraggio.
Pag. 128-29

Nella seconda metà dell’11. secolo le distanze fra Oriente e Occidente iniziarono ad accorciarsi e quest’ultimo divenne sempre più aggressivo.
Entrarono in gioco infatti due fattori nuovi: la generale rinascita dell’Europa occidentale dopo il Mille, con le effervescenze sociali e politiche che essa comportò, e la progressiva crisi dell’Impero di Bisanzio.
Nel generale quadro di rinnovati movimenti delle persone, l’Impero iniziò a presentarsi come una meta appetibile per chi era attirato dalle prospettive di guadagno o anche per gli Stati che avevano intenzioni aggressive.
I bizantini stessi, dopo secoli di un sostanziale cambiamento, si aprirono sempre più all’Occidente e questo fenomeno si fece avvertire soprattutto sotto la dinastia dei Comneni, sul trono dal 1081 al 1185.
Manuele 1. Comneno, il terzo sovrano della dinastia,  amava le usanze occidentali e le introdusse a corte modificando la mentalità e le tradizioni della sua gente.
Si fecero strada così i tornei cavallereschi accanto alle tradizionali corse di carri, per secoli il divertimento preferito dai bizantini, e anche nella scelta dell’imperatrice si fece avvertire il cambiamento: mentre per secoli i sovrani avevano sposato le loro suddite, salvo rare eccezioni ora iniziano a preferire le straniere, e la prassi in seguito sarebbe divenuta la regola.
L’influsso massiccio di occidentali fece tuttavia maturare, come naturale evoluzione, anche un processo di ostilità crescente, rivolta a contenerne sia la pressione militare sia la presenza ingombrante nella vita sociale ed economica dell’Impero.
Pag. 129-30

Le crociate risvegliarono gli entusiasmi e i desideri di conquista degli occidentali e segnarono nello stesso tempo l’inizio di una crisi irreversibile per Bisanzio.
Il movimento crociatistico – come è noto – ebbe inizio nel 1095, quando papa Urbano 2. al Concilio di Clermont fece appello ai fedeli per condurre la “guerra santa”, e divenne in seguito un aspetto caratteristico della cristianità occidentale.
La definizione di crociata si adattò progressivamente a ogni guerra contro i nemici della fede, ivi compresi gli eretici, ma come crociate più importanti sono in genere ricordate sette od otto spedizioni, che ebbero luogo fra 11. e 13. secolo.
Di queste, le prime quattro coinvolsero direttamente l’Impero d’Oriente, generandovi riflessi pesanti e del tutto negativi.
L’appello di papa Urbano 2. suscitò un grande entusiasmo nella cristianità occidentale: l’adesione all’impresa andò al di là delle aspettative e l’idea di combattere per la fede colpì profondamente l’immaginazione dei contemporanei.
Il richiamo mistico di Gerusalemme e il miraggio di grandi avventure infiammarono i cuori dell’uomo medievale eccitando gli animi di tutti, dai grandi signori feudali agli umili popolani.
Pag. 135

Il fallimento delle operazioni in Asia Minore, di cui i maggiori responsabili furono i capi della spedizione, venne propagandisticamente attribuito ai bizantini: come già al tempo della prima crociata si era parlato di un tradimento bizantino, ora Luigi 7. lamentò lo stesso motivo fra le cause della sconfitta.
Il cronista ufficiale della spedizione, Oddone di Deuil, fu ancora più esplicito e rimproverò all’Impero l’insufficiente appoggio logistico, il costo eccessivo delle vettovaglie, l’inefficienza delle guide e, cosa ancora più grave, un’alleanza con i turchi contro i cristiani.
Vere o false che fossero le accuse, contribuirono a inasprire i rapporti fra Oriente e Occidente, che negli anni successivi si fecero sempre più tesi.
Da parte occidentale si guardava con sospetto crescente all’Impero, visto come una potenza inaffidabile e pericolosa e, viceversa, a Bisanzio cresceva di giorno in giorno l’animosità contro i latini.
Pag. 147

L’intesa con il re di Germania non venne tuttavia meno e l’inizio della campagna in Italia fu fissato per il 1152, ma Corrado 3. morì  il 15 febbraio di quell’anno senza che nulla fosse stato fatto.
Il nuovo sovrano tedesco, Federico 1. Barbarossa, si mostrò molto più tiepido di fronte a un accordo con i bizantini, da cui li divideva la sua pretesa all’egemonia, e il progetto di guerra comune sfumò.
Ciò malgrado, nel giugno del 1155, quando il Barbarossa si trovava in Italia, le forze imperiali attaccarono la Puglia giungendo in poco tempo alle porte di Taranto.
Fu però una vittoria di Pirro: l’anno successivo il nuovo re di Sicilia, Guglielmo 1., sconfisse i bizantini in prossimità di Brindisi, procedendo quindi alla riconquista del territorio che gli era stato sottratto.
Nella primavera del 1158, infine, con la mediazione di papa Adriano 4., venne concluso un trattato in forza del quale i bizantini abbandonarono la penisola.
L’impresa non fu soltanto un insuccesso militare, ma ebbe anche pesanti conseguenze politiche: creò infatti un contrasto insanabile fra l’imperatore di Bisanzio e il collega germanico, e segnò l’inizio di una progressiva frattura nelle relazioni con Venezia.
Il timore di una riaffermata presenza bizantina in Italia aveva spinto la repubblica a concludere un trattato con Guglielmo 1. Nel 1154, così che al momento delle ostilità Venezia restò neutrale.
Per aggirare l’ostacolo, Manuele Comneno nel 1155 si rivolse a Genova, gettando le basi di un accordo, ma la diplomazia normanna vanificò la sua opera ottenendo che anche questa città restasse neutrale.
Pag. 148

La questione centrale del disaccordo fra Venezia e Bisanzio, cioè il risarcimento dei danni, non venne ufficialmente definita, sebbene gli ambasciatori fossero stati incaricati di farlo, ma è possibile che essa sia stata comunque regolata.
In compenso furono determinati altri punti la riconferma dei privilegi commerciali e una serie di provvedimenti relativi allo stato giuridico dei veneziani che vivevano a Bisanzio.
Il resto dell’accordo del 1187 venne integralmente riproposto nella nuova crisobolla, sia pure con le modifiche dovute alla mutata situazione politica, che identificavano nuovi amici e nuovi avversari.
Alessio 3. riconfermò i privilegi commerciali sanciti dalle crisobolle dei suoi predecessori e a sua volta dichiarò solennemente la completa libertà di commercio per i veneziani con l’esenzione da tutte le imposte.
Per sgombrare il campo da possibili equivoci, inoltre, fece elencare nella crisobolla tutte le città o regioni in cui essi avrebbero potuto esercitare il commercio.
Erano infatti sorte controversie a motivo dell’incompletezza delle precedenti concessioni, che non indicavano esattamente tutte le zone aperte ai traffici veneziani; gli ambasciatori se ne erano lamentati con il sovrano ed egli volle così definire una volta per tutte la questione.
La lista comprendeva pressoché tutto l’impero, come si configurava a quel tempo, e anche alcune località che non ne facevano più parte, come Antiochia o Laodicea in Siria.
Ne restavano però escluse le zone costiere del mar Nero, mantenendo la decisione già adottata al tempo di Alessio 1. Comneno.
Su richiesta degli ambasciatori venne infine definita la condizione dei veneziani residenti a Bisanzio, ai quali furono date alcune garanzie giurisdizionali per meglio tutelarli.
Questo accordo solenne concludeva la serie dei patti fra Venezia e l’Impero iniziata oltre un secolo prima.
Fu l’ultimo tentativo di definire su base pacifica un rapporto divenuto sempre più difficile: agli umori oscillanti dei sovrani di Bisanzio corrispondeva da tempo il desiderio veneziano di una sicurezza che salvaguardasse i loro interessi in Oriente.
Bisanzio, minacciata da ogni parte e senza più una politica coerente, non offriva le necessarie garanzie al comune veneziano, per il quale il mantenimento della regolarità dei traffici in Levante era di capitale importanza.
Pag. 163-64

Cap. 6. La quarta crociata e l’Impero latino

La battaglia di Adrianopoli salvò Nicea dalla probabile sottomissione e gli occidentali dovettero temporaneamente evacuare l’Asia Minore, permettendo così al nuovo impero di consolidarsi e raccogliere l’eredità di Costantinopoli.
Teodoro Lescaris organizzò il nuovo Stato sul modello di Bisanzio facendovi rivivere sia l’impero sia il patriarcato.
Egli e i suoi successori entrano nella storia dei sovrani di Costantinopoli come una sorta di governo imperiale in esilio: si considera infatti la serie dei sovrani di Nicea quale legittima successione di Alessio 5. dopo la presa della capitale.
All’Impero latino e al patriarca latino si vennero perciò contrapponendo un patriarca ortodosso e un imperatore greco a Nicea.
Nicea rappresentava un pericolo per l’Impero latino e il nuovo titolare di questo, Enrico di Fiandra, fratello di Baldovino, riprese il progetto di sottometterla dopo aver arrestato l’espansione dei bulgari.
La guerra si trascinò per alcuni anni senza risultati notevoli, finché, nel 1214,  venne concluso il trattato di Ninfeo che definì i confini dei due imperi: allo Stato latino sarebbe rimasta la costa nord-occidentale dell’Asia Minore, mentre il resto fino alla frontiera con i Selgiuchidi sarebbe andato a Nicea.
I latino riconoscevano così l’esistenza dell’Impero greco in Asia Minore, non essendo riusciti a eliminarlo con le armi.
Pag. 177-78

L’Impero latino aveva subito un colpo terribile con la disfatta di Adrianopoli e negli anni che seguirono si trasformò sempre più in un morto vivente, privo di ogni energia, e mantenuto in vita soltanto perché sostenuto dalla flotta veneziana, con la quale le forze nicene non erano in grado di confrontarsi a motivo delle sua superiorità tecnica.
Lo stato di cronica debolezza dell’Impero latino fu aggravato da una pesante crisi finanziaria.
Baldovino 2., sul trono dal 1228, trascorse lunghi anni in Occidente nella disperata quanto inutile ricerca di sostegno, vendendo i possedimenti aviti e rivolgendosi in varie direzioni per far sopravvivere la dominazione latina  a Costantinopoli: una dopo l’altra vennero anche cedute le reliquie più preziose in possesso dell’Impero latino e giunsero così a Parigi la corona di spine e altre reliquie della passione, per accogliere le quali re Luigi il Santo fece costruire la Saint-Chapelle.
A causa del continuo bisogno di denaro, infine, Baldovino 2. Finì per dare in pegno ai mercanti veneziani il figlio Filippo e per vendere il piombo che ricopriva i tetti dei suoi palazzi.
Ogni sforzo fu però inutile e l’Occidente abbandonò Costantinopoli latina al suo destino, con la sola eccezione dei veneziani, che fino all’ultimo cercarono di preservarla per il loro tornaconto.
Pag. 180

I genovesi inviarono qualche nave in oriente, ma il loro aiuto non fu necessario, perché Costantinopoli cadde in modo imprevisto.
La città venne infatti occupata quasi per caso da un generale di Nicea di nome Alessio Strategopulo, che era stato inviato in missione in Tracia con circa ottocento uomini e l’ordine di passare vicino alla capitale per spaventare i latini.
Quando egli giunse in prossimità di Costantinopoli, venne a sapere che era pressoché priva di difensori e decise di approfittarne.
L’intera flotta, costituita da trenta navi veneziane e una siciliana, era infatti partita al comando del podestà Marco Gradenigo per attaccare un’isola del Mar Nero appartenente a Nicea; su di essa si era inoltre imbarcata quasi tutta la guarnigione latina, lasciando in città soltanto l’imperatore Baldovino 2. con il suo seguito.
Con l’aiuto di alcuni residenti, i Niceni entrarono in Costantinopoli nella notte tra il 24 e il 25 luglio: al mattino seguente i latini cercarono di resistere, ma vennero dispersi e Baldovino 2., vista inutile ogni difesa, si preparò a fuggire.
Nel corso della stessa giornata fece ritorno la flotta veneziana e Alessio Strategopulo ordinò di dare fuoco alle case dei latini lungo la riva, cominciando da quelle veneziane, in modo che questi pensassero alel loro famiglie e non al contrattacco.
Lo stratagemma fu efficace e gli occidentali non poterono far altro che provvedere all’evacuazione, ammassandosi sulle loro navi in numero di circa tremila.
Fuggirono anche l’imperatore, ferito nell’ultima battaglia, il podestà veneziano e il patriarca latino Pantaleone Giustiniani.
I profughi raggiunsero la veneziana Negroponte, ma molti morirono di fame e di stenti durante il viaggio.
Finì così quella brutta pagina di storia che fu l’Impero latino di Costantinopoli e l’Impero di Bisanzio venen restaurato, anche se nella pratica era divenuto l’ombra di sé stesso: si affermava inoltre la nuova dinastia dei Paleologi, la più duratura di Bisanzio, che sarebbe stata sul trono fino alla fine.
Pag. 181-82

Cap. 7. Il declino di Bisanzio

L’epoca dei Paleologi rappresenta l’ultima fase della storia di Bisanzio.
L’Impero, ricostruito nel 1261, riuscì a sopravvivere per circa due secoli, anche se riducendosi progressivamente nell’estensione e in preda a un continuo processo di disfacimento.
L’opera di erosione del territorio residuo venne attuata dai tradizionali nemici balcanici e orientali, che approfittarono della debolezza di Bisanzio per espandersi, nonché dalle repubbliche marinare di Genova e di Venezia, la cui ipoteca sul secondo impero si fece sempre più pesante.
Il colpo definitivo fu tuttavia assestato dai Turchi ottomani, la stirpe guerriera che iniziò a imporsi nel 14. secolo, la cui incontestabile potenza finì per travolgere ciò che restava di Bisanzio e gran parte dei possedimenti occidentali costituitisi dopo la quarta crociata, espandendosi anche ai danni degli Stati balcanici tradizionalmente nemici dell’Impero.
La crisi politica dell’epoca paleologa ebbe anche pesanti ripercussioni sul piano interno, che si fecero drammaticamente avvertire nel corso del Trecento, con un generale impoverimento della popolazione, eccezion fatta per una classe ristretta di grandi proprietari terrieri, una forte contrazione delle attività economiche e la perdita del controllo dei mercati, passato in gran parte in mano alle repubbliche marinare italiane.
In stridente contrasto con la decadenza di Bisanzio, tuttavia, la cultura letteraria e la produzione artistica ebbero un periodo di rigogliosa fioritura.
Pag. 183

L’Occidente, brutalmente cacciato da Costantinopoli, non stava intanto a guardare.
I veneziani attuarono velleitari tentativi per promuovere una coalizione antibizantina all’indomani della caduta di Costantinopoli, ma qualche cosa di concreto si ebbe soltanto quando sulla scena politica si affermò Carlo d’Angiò.
L’eliminazione del dominio svevo in Italia meridionale (nel 1266) e l’avvento al trono di Sicilia di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, diedero infatti un nuovo impulso ai piani espansionistici ai danni di Bisanzio.
Intenzionato a conquistare l’Impero, Carlo d’Angiò si assicurò l’appoggio papale e, in forza di accordi diplomatici che ne facevano l’alleato del deposto sovrano latino, rivendicò il diritto alla sovranità su Costantinopoli, iniziando nello stesso tempo i preparativi per una grande spedizione militare.
Privo delle forze per contrastarlo, Michele 8. cercò di ritardare l’impresa e, nello stesso tempo, di giocare la carta diplomatica dell’unione religiosa con Roma, che avrebbe tolto la spinta propagandistica per l’attacco alla scismatica Bisanzio.
La sua diplomazia convinse il re di Francia, Luigi 9., a portare con sé il fratello nella crociata di Tunisi nel 1270 e l’anno successivo vennero avviati i contatti con Roma, resi possibili dall’elezione del papa italiano Gregorio 10., ben disposto nei confronti di Costantinopoli e nello stesso tempo avverso alla politica angioina.
Le trattative andarono a buon fine: nel 1274 fu convocato un concilio a Lione, dove il dissidio fra le due chiese venen formalmente ricomposto con la proclamazione dell’unione religiosa e i delegati bizantini giurarono di accettare la fede romana nonché il primato di Roma.
I vantaggi politici furono immediati: Carlo d’Angiò dovette rinunciare ai piani di conquista e Michele 8. poté avviare una controffensiva su vari fronti.
L’unione però ebbe gravi contraccolpi interni a Bisanzio per l’opposizione pressoché compatta del clero, del monachesimo e di buona parte della popolazione, così da spingere Michele 8. a mettere in atto pesanti persecuzioni dei dissidenti.
L’unione inoltre non fu duratura e con l’avvento al seggio papale nel 1281 del francese Martino 4., strumento di Carlo d’Angiò, si tornò alla rottura aperta: il papa condannò Michele 8. come scismatico e l’Angiò (che già nel 1280 aveva attaccato senza successo l’Albania imperiale) poté riprendere i suoi piani di conquista, promuovendo uan coalizione antibizantina formata dall’erede al trono latino Filippo di Courtenay, Venezia, Tessaglia (che nel 1271 si era staccata dell’Epiro), Serbia e Bulgaria.
I serbi e il despota di Tessaglia irruppero in Macedonia nel 1282 e l’Angiò, con l’aiuto navale di Venezia, si apprestò a dare il colpo definitivo al nemico; la situazione fu però salvata all’ultimo momento dalla rivolta dei Vespri siciliani, scoppiata a Palermo nel marzo del 1282, alla quale non fu estranea la diplomazia di Costantinopoli.
A seguito di questa rivolta, infatti, la Sicilia si liberò del dominio francese e il tentativo dell’Angiò di rientrarne in possesso fu ostacolato dalla potenza rivale degli aragonesi, con cui si accese un violento conflitto (destinato a trascinarsi fino al 1302, oltrepassando la vita stessa dei primi protagonisti) a seguito del quale naufragò ogni progetto di spedizione in Oriente.
Pag. 185-86

Di fronte a una situazione del genere, il governo della città lagunare perse interesse per quanto stabilito a Capua, che neppure fu messo in pratica, e pensò piuttosto a un accordo di più ampia portata: ciò ebbe come esito, il 3 luglio del 1281, il trattato concluso a Orvieto, dove papa Martino 4. aveva messo la propria residenza.
L’alleanza fu presentata come una crociata anti scismatica “a esaltazione della fede ortodossa” ma, al di là delle motivazioni di principio, lo scopo consisteva nell’insediare sul trono di Costantinopoli Filippo di Courtenay e restituire a Venezia tutti i privilegi di cui aveva goduto nell’Impero latino.
L’inizio delle operazioni era previsto entro aprile del 1283 e doveva essere preceduto da un’azione preliminare probabilmente contro Negroponte.
Vennero iniziati i preparativi, ma i Vespri siciliani tutto sconvolsero: a parte una breve puntata degli alleati a Negroponte, che a nulla servì, Venezia si defilò abbandonando l’Angiò al proprio destino e riprese le trattative con Bisanzio, con cui nel 285 avrebbe concluso un nuovo trattato.
Pag. 188

La rinuncia al mantenimento di una forza militare e la nuova linea politica ebbero un pesante contraccolpo sull’impero.
La potenza ancora esistente sotto il predecessore subì un rapido processo di contrazione, avviando Bisanzio a divenire un piccolo Stato incapace di esprimere una propria politica estera e in preda a una sempre più accentuata disgregazione interna.
La moneta andò soggetta a una forte svalutazione e nello stesso tempo si diffuse in modo sempre più massiccio la grande proprietà fondiaria, inutilmente contrastata da un tentativo imperiale di aumentare l’imposizione fiscale per i ricchi.
Sui mercati prevalsero le monete d’oro delle repubbliche italiane, portando come conseguenza un forte rincaro dei prezzi e un generale impoverimento, da cui si salvava soltanto una ricca classe dei proprietari fondiari.
Analogamente disastrose furono le ripercussioni della politica seguita nei confronti delle repubbliche marinare, la cui alleanza o neutralità gravò ulteriormente sull’erario imperiale con uan serie di concessioni o privilegi per mantenerne l’amicizia.
Pag. 189

Anche la tregua faticosamente raggiunta con Venezia era molto fragile e questa, nel 1306, si associò al progetto di crociata contro Bisanzio di Carlo di Valois, fratello di Filippo Quarto di Francia, che aveva ereditato i diritti sul trono latino e godeva dell’appoggio di papa Clemente Quinto, da cui Andronico secondo era stato scomunicato.
La spedizione comunque non ebbe mai luogo e, nel 1310, la città lagunare cambiò rotta accordandosi con il sovrano di Costantinopoli, con cui concluse un nuovo trattato.
Pag. 190

Nel 1352 si era aperta, infatti, uan nuova guerra civile fra Giovanni 6. e Giovanni 5., risolta con l’intervento dei turchi ottomani (l’etnia emergente nella galassia delle tribù turche dell’Asia Minore) a vantaggio del reggente.
L’amicizia con i turchi – che fu un cardine della politica di Giovanni 6. -  alla lunga finì tuttavia per rivelarsi un’arma a doppio taglio e ne causò la caduta.
Gli ottomani nel 1354 penetrarono infatti in territorio europeo, impossessandosi di Gallipoli, che non abbandonarono malgrado le pressanti richieste dell’imperatore.
Per Cantacuzeno fu uno scacco di ampie dimensioni, perché Gallipoli era una testa di ponte per la conquista dell’Europa, e su di lui ricadde la responsabilità di aver aperto le vie del continente ai nuovi invasori.
La sua posizione si indebolì, a vantaggio di una congiura promossa da Giovanni 5. con l’appoggio del corsaro genovese Francesco Gattilusio, cui fu promessa come ricompensa l’isola di Lesbo.
Questa ebbe successo e l’usurpatore du deposto nel novembre del 1354 e costretto a divenire monaco; visse ancora per un trentennio, partecipando alla vita pubblica e attendendo alla composizione delle opere letterarie, fra cui una monumentale storia degli avvenimenti del tempo che ancora si conserva.
Il governo dei Cantacuzeno sopravvisse tuttavia in Morea, dove nel 1348 era stato istituito un despotato, retto fino al 1380 dal figlio dell’ex imperatore per poi passare ai  Paleologi.
Pag. 194

Il pericolo rappresentato dalla espansione ottomana cominciò a essere seriamente avvertito anche in Occidente (dove già dagli anni Trenta Venezia di era adoperata per promuovere alleanze antiturche), ma le continue rivalità fra le potenze rendevano assai problematica un’azione comune.
Il tradizionale antagonismo tra Venezia e Genova, in particolare, rendeva improponibile un progetto politico indipendente dagli interessi particolari delle due repubbliche, sebbene la conservazione delle posizioni in Levante fosse preminente per entrambe.
L’atteggiamento nei confronti di Bisanzio, a ogni modo, cominciò a modificarsi al tempo di Giovanni 5. e, dalla consueta ostilità, si passò a una sempre maggiore consapevolezza del ruolo di frontiera cristiana svolto da Bisanzio, valutando le ricadute negative che la sua scomparsa avrebbe prodotto anche in Occidente.
Pag. 195

Le residue sopravvivenze bizantine rappresentavano un ostacolo per i suoi piani di dominio a Costantinopoli, in particolare, era un assurdo ricordo di una potenza ormai scomparsa, pericolosamente incuneata però nell’Impero ottomano.
Maometto 2. preparò con cura l’accerchiamento della città imperiale, che con le sue forti mura rappresentava ancora un ostacolo formidabile.
Prese dapprima una serie di iniziative volte a intercettare l’arrivo di qualsiasi aiuto esterno alla città, poi fece costruire nel punto più stretto del Bosforo la fortezza di Rumeli Hisari, aggiungendola a quella di Anadolu Hisari fatta edificare da Bayazid sulla sponda asiatica, e dotandola di un imponente spiegamento di artiglieria in grado di impedire a chiunque la navigazione.
Quando l’accerchiamento fu completato, ebbe inizio l’assedio vero e proprio.
Pag. 203

Una volta in più le potenze occidentali non erano accorse in difesa di Costantinopoli, malgrado gli appelli disperati di Costantino 9. e i pericoli connessi alla perdita della città, che avrebbe offerto ai turchi una posizione strategica di prim’ordine per proseguire il loro attacco al mondo cristiano.
La flotta veneziana inviata in aiuto degli assediati partì con incredibile ritardo e non arrivò mai sul teatro operativo, perché fu preceduta dalla notizia della caduta di Costantinopoli in mano turca.
Nell’inutile tentativo di ottenere l’aiuto dell’Occidente, l’imperatore bizantino aveva fatto proclamare di nuovo l’unione religiosa in Santa Sofia (12 dicembre 1452), suscitando l’indignata reazione dei suoi sudditi, in grande maggioranza determinati a sopportare il dominio turco che la soggezione a Roma.
I turchi vincitori proseguirono negli anni immediatamente seguenti l’assoggettamento di ciò che restava dell’Impero di Bisanzio: la Morea nel 1460 e Trebisonda l’anno successivo.
Molti bizantini fuggirono riparando soprattutto in Italia e, fra questi, un buon numero di eruditi che contribuirono alla diffusione in Occidente della cultura greca.
Il ducato di Atene, residuo della conquista latina, fu ugualmente travolto nel 1456, mentre alcune delle colonie genovesi e veneziane costituite nel corpo dell’Impero avrebbero resistito più o meno a lungo alla marea turca.
Con la conquista di Costantinopoli, a ogni modo, finiva la storia di Bisanzio, ma la sua tradizione fu portata avanti attraverso la cultura greca, che nel corso del 15. secolo si affermò decisamente in Occidente e attraverso la chiesa ortodossa che ne raccolse l’eredità.
L’Occidente, che per secoli aveva avuto un rapporto travagliato con Bisanzio, era rimasto politicamente a guardare senza essere in grado di elaborare un progetto comune per soccorrere l’Impero, nonostante il vantaggio che ne avrebbe ricavato.
In questo quadro desolante fecero eccezione i veneziani residenti a Costantinopoli, che contribuirono  valorosamente alla difesa.
Il bailo Gerolamo Minotto, eroe della battaglia per Costantinopoli, pagò con la vita assieme ad altri nobili la sua dedizione.
Fu catturato dai turchi e il giorno successivo, il 30 maggio 1453, venne decapitato per ordine del sultano insieme a uno dei suoi figli e ad altri sette nobili veneziani, mentre la moglie andò incontro alla prigionia e un altro figlio riuscì probabilmente a fuggire.
Venezia infine fece da ponte per molti eruditi greci fuggiti in Occidente e ospitò una folta comunità greca, alla quale nel Cinquecento sarebbe stato dato anche il riconoscimento ufficiale.

Cronologia

535         I bizantini sbarcano in Sicilia

552         Fine del regno ostrogoto in Italia

552         Intervento bizantino in Spagna

568         Invasione dei longobardi

584 ca.   Istituzione dell’esarcato in Italia

751         Caduta dell’esarcato

827         Inizio della conquista araba della Sicilia

880         Inizio della controffensiva bizantina in Italia meridionale

968         Ottone 1. invade l’Italia meridionale bizantina

970 ca.   Istituzione del catepano d’Italia

1009      I normanni compaiono in Italia meridionale

1071      Aprile: Bari si arrende ai normanni

1082      Trattato tra Bisanzio e Venezia       

1082-85 I normanni invadono l’Impero

1095      Viene bandita la prima crociata

1147-49 Seconda crociata

1155      I bizantini sbarcano in Italia meridionale

1171      12 marzo: arresto dei veneziani nell’impero

1182      Strage di occidentali a Costantinopoli

1189-90 Terza crociata

1195      L’imperatore Enrico 6. Minaccia Bisanzio

1202-4   Quarta crociata   

1204      Aprile: conquista latina di Costantinopoli

1204      Formazione dell’Impero latino di Oriente

1261      I bizantini riconquistano Costantinopoli

1261-82 Michele 8. Paleopago cerca di ricostruire l’Impero

1268      Inizio dei nuovi trattati fra Venezia e Bisanzio

1274      Concilio di Lione. Unione religiosa con Roma

1282      I Vespri siciliani mettono fine ai progetti i Carlo d’Angiò

1294-99 Guerra veneto-genovese combattuta in Oriente

1306      Carlo di Valois organizza la crociata contro Bisanzio

1352      Battaglia del Bosforo. Giovanni 6. alleato di Venezia

1366      Amedeo 6. conte di Savoia riconquista Gallipoli

1369       Giovanni 5. Paleologo si reca in Italia

1396      I crociati sconfitti dai turchi a Nicopoli

1399-1403    Manuele 2. Paleologo in Occidente

1438      Febbraio: Giovanni 8. Paleologo arriva a Venezia

1438-29 Concilio di Ferrara-Firenze

1438      Viene proclamata la riunificazione religiosa

1443-44 Crociata di Varna e sconfitta cristiana

1451       Maometto 2. sultano dei turchi

1453       Maometto 2. assedia Costantinopoli

1453      29 maggio: caduta di Costantinopoli in mano turca

1456      I turchi sottomettono il ducato di Atene

1460      Fine del despotato di Morea

1461      Caduta di Trebisonda

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La caduta di Costantinopoli, 1453 / S. Runciman. – 2001
Gli ultimi giorni di Costantinopoli / S. Runciman. – 1997
Studi sulle colonie veneziane in Romania nel 13. secolo / S. Borsari. – 1966
Maometto il conquistatore e il suo tempo / F. Babinger. – 1967
La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal 9. all'11. secolo V. von Falkenhausen. – 1978
Il Commonwealth bizantino: l’Europa orientale dal 500 al 1453 / D. Obolensky. – 1974
Costantino Porfirogenito e il suo mondo / A. Toynbee. – 1987
Costantinopoli: nascita di una capitale, 350-451 / G. Dragon. – 1991
Per una storia dell’Impero latino di Costantinopoli, 1204-1261 / A. Carile. – 1978
L’amministrazione bizantina in Dalmazia / J. Ferluga. – 1978
L’Impero bizantino e l’islamismo / A. Guillou…et al. – 1997
I bizantini in Italia / G. Cavallo…et al. – 1982
La spedizione italiana di Costante 2. / P. Corsi. – 1983
L’Impero bizantino, 1025-1204: una storia politica / M. Angold. – 1992
L’Impero di Trebisonda, Venezia, Genova e Roma, 1204-1461: rapporti politici, diplomatici e commerciali / S. P. Karpov. – 1986
L’Italia bizantina: dall’esarcato di Ravenna al tema di Sicilia / A. Guillou e F. Bulgarella. – 1988
Venezia e Bisanzio / D. M. Micol. – 1990
Il crepuscolo di Bisanzio, 1392-1448 / I. Djuric. – 1989
Un impero, due destini: Roma e Costantinopoli fra il 395 e il 600 d. C. / A. Cameron. – 1996
I trattati con Bisanzio, 992-1198 / M. Pozza e G. Ravegnani (a cura di). – 1993
I trattati con Bisanzio, 1265-1285 / M. Pozza e G. Ravegnani (a cura di). – 1996
Bisanzio e Genova / S. Origone. – 1997
La Sardegna bizantina tra 6. e 7. secolo / P. Spanu. – 1998
Giovanna di Savoia alias Anna Paleogina, latina a Bisanzio, c. 1306-c. 1365 / S. Origone. – 1999
Theofano: una bizantina sul trono del Sacro romano impero, 958-991 / R. Gregoire. – 2000
Costantino hypatos e doux di Sardegna / F. Fiori. – 2001
Storia della marineria bizantina / A. Carile e S. Cosentino (a cura di). – 2004
L’impero perduto: vita di Anna di Bisanzio, una sovrana tra Oriente e Occidente / P. Cesaretti. – 2006
Quarta crociata: Venezia-Bisanzio-Impero latino / G. Ortalli…et al (a cura di). – 2006
Epigrafi greche dell’Italia bizantina, 7.-11. secolo / F. Fiori. – 2008
Bisanzio e le crociate / G. Ravegnani. – 2011
Gli esarchi d’Italia / G. Ravegnani. – 2011
Roma bizantina: opere d’arte dall’Impero di Costantinopoli nelle collezioni romane / S. Moretti. – 2014
Andare per l’Italia bizantina / G. Ravegnani. – 2016
Il diario dell’assedio di Costantinopoli di nicolò Barbaro / A. Codato. – 2017
Storia degli arabi in Calabria / A. M. Loiacono. – 2017
Carlo 1. d’Angiò re di Sicilia: biografia politicamente scorretta di un “parigino” a Napoli / G. Iorio. – 2018
I bizantini in Italia / G. Ravegnani. – 2018