Citazioni

Il 7 novembre 1917 i bolscevichi, con l’aiuto delle truppe passate al loro fianco e delle prime guardie rosse,  - cioè operai armati – rovesciarono il governo di Kèrenskij e si impadronirono saldamente del potere.
Restava ancora ai socialisti rivoluzionari e ai menscevichi un’ultima speranza di rivincita. Il proletariato russo non era la nazione russa, perciò se i soviet erano l’espressione del proletariato, le assemblee rappresentative elette da tutta la nazione avrebbero contrastato il loro potere e impedito il dominio di una classe unica. Già l’antica Duma aveva riflesso pensieri e sentimenti assai diversi da quelli di Lenin e dei suoi amici, ed egualmente si erano manifestate nell’ultimo periodo del governo di Kerenskij, la Conferenza di Stato convocata a Mosca, e la Conferenza democratica convocata a Pietrogrado. Proprio nei primi giorni successivi alla vittoria dei bolscevichi, era stata eletta l’Assemblea costituente per stabilire il nuovo ordine della Russia rivoluzionaria. L’Assemblea costituente avrebbe potuto, dunque, non ratificare e quindi capovolgere l’ordinamento instaurato da Lenin. E infatti le elezioni dettero una notevole maggioranza ai socialisti rivoluzionari, rinforzati dall’apporto dei menscevichi, mettendo in minoranza i bolscevichi, che raccolsero soltanto un quarto dei voti complessivi. Ma costoro non rispettarono il responso della nazione e, proclamando che la volontà sovrana della classe proletaria non può patire diminuzioni od opposizioni, disciolsero con l’autorità del potere centrale l’Assemblea costituente. Così l’appello alla volontà popolare, il suffragio universale, il governo della maggioranza, il Parlamento specchio della nazione, tutti questi principi della concezione democratica furono cancellati di colpo. Si sostituì loro la volontà della sola classe lavoratrice, manifestata officina per officina, borgo per borgo, caserma per caserma, senza norme uniformi per la sua espressione, da proletari operai contadini e soldati. Per tale modo veniva instaurata in Russia, agli inizi del 1918, la dittatura del proletariato.
P. 50-51

Quindi leghe operaie e contadine, leghe bianche per distinguerle dalle rosse insufflate si spirito marxista ma in sostanza leghe del tutto simili a quelle socialiste e proponentesi quegli stessi miglioramenti di salario e di orario e quelle stesse riforme sociali che il movimento operaio della Confederazione generale del lavoro affiancante il Partito socialista agitava allora l’Italia.
P. 79

Così la prima battaglia politica del neonato Partito popolare fu coronata da successo. Aiutando i socialisti, aiutando tutti i numerosi fautori della proporzionalità, il nuovo sistema elettorale venne approvato dalla Camera nel luglio 1919 e adottato nelle elezioni generali del novembre
P. 87

In sostanza la Chiesa non aveva in quegli anni che un fine assai limitato: impedire che lo Stato ricadesse nelle mani degli anticlericali e assuefare il paese alla penetrazione dei cattolici nelle scuole, nelle organizzazioni economiche, negli istituti donde un tempo erano stati cacciati. Per questo bastava che il Partito popolare collaborasse in sott’ordine nei vari gabinetti, e formasse parte indispensabile e necessaria della maggioranza governativa senza alcuna ambizione di capeggiarla e di dirigerla.
P.113

Così maturava in previsione della prossima campagna elettorale l’inclusione dei fascisti nella maggioranza giolittiana. Quell’avvenimento che nessuno nella primavera del 1920 avrebbe potuto prevedere, coronava la rapida evoluzione del fascismo che, da movimento di estrema sinistra, andava assumendo funzione di restauratore dell’ordine contro gli eccessi del movimento rosso e, nuovo alleato delle forze conservatrici, veniva a prendere il posto fra i partiti d’estrema destra.
Naturalmente quell’avvenimento era visto in diversa luce da Giolitti e da Mussolini. Per Giolitti quell’inclusione di un modesto nucleo di fascisti nelle file del suo grosso esercito non rappresentava se non il riconoscimento della loro funzione sussidiaria nel ristabilimento dell’ordine già in via di attuazione per forze molteplici e complesse. Per Mussolini, invece, l’inclusione sua e di una trentina dei suoi nelle liste ministeriali voleva significare che egli aveva vinto la battaglia anticomunista, e che egli solo aveva evitato all’Italia il rischio di ripetere la rivoluzione russa. Certo quel suo orgoglio smisurato gli fece credere sin d’allora che egli fosse il salvatore atteso e che, in quella veste, tutto fosse possibile osare.
In realtà Mussolini non era che la mosca che si pone sul timone e crede di trascinare il carro.  Nell’Italia del 1921 le forze dell’estremismo rosso erano già in declino e piegavano in ritirata. Esse si ritiravano per il clamoroso insuccesso della occupazione delle fabbriche, per la progressiva prevalenza degli elementi di ordine nello stesso partito socialista, per la naturale resipiscenza dell’opinione pubblica oramai stanca di vane agitazioni e non già per effetto del “manganello fascista” che si abbatteva, nella sue furia cieca, su tutte le istituzioni proletarie distruggendo anche ciò che poteva essere elemento di civiltà e di progresso.
Ma questa verità non poteva essere accolta dall’ambizioso capo dei fascisti, al quale giovava far credere che egli era l’artefice della vittoria e che l’Italia gli doveva la sua salvezza.
Così cominciava la leggenda di un Mussolini che preservava l’Italia dal bolscevismo e la menzogna, riecheggiata dall’estero, troppo superficiale e troppo credulo, gli preparava le prossime fortune
P. 144-145

In un libro di Nitti, edito nel 1945, si legge: ”Giolitti, avvezzo alle combinazioni parlamentari, considerò il fascismo come aveva considerato tutti i fenomeni parlamentari: volle attirarlo a sé e assorbirlo per valersene contro i propri avversari. Pensando di poterne disporre per i propri interessi l’aiutò e gli fornì armi, creando quella situazione equivoca che finì con la marcia su Roma , eseguita da piccoli gruppi senza importanza”
P. 159

Ricordo con commozione la consegna degli uffici della presidenza ch’egli fece a me nei primi giorni di luglio del 1921. Dopo la rituale consegna o lo accompagnai fino al portone del palazzo e chiamai l’automobile presidenziale perché lo portasse a casa. Ma egli m’interruppe: “No – disse – io non sono più presidente, l’automobile non mi spetta”. E si incamminò solo verso la sua casa dove, lui potentissimo, aveva vissuto sempre in una semplicità austera e decorosa.
P. 161

Dunque nella Camera dei deputati (e altrettanto deve dirsi per il Senato), una forte maggioranza avrebbe potuto opporsi ai metodi violenti adottati dai fascisti e costituire tempestivamente un argine contro il loro dilagare e contro i loro piani insurrezionali. Perché non si è tentato una difesa sul terreno parlamentare? Perché la Corona non ha trovato nel Parlamento lo strumento atto a reprimere un movimento che apertamente confessava di volersi impadronire con la forza dello Stato?
A queste domande occorre dare qualche risposta.

La radice del male era nel rifiuto a collaborare di una grossa frazione della Camera: il gruppo socialista che, già costituito da quasi un terzo dell’assemblea prima delle elezioni del 1921, era pur sempre rimasto per il suo numero e per la sua combattività oppositrice, l’elemento determinante della  situazione.

I 253 voti contrari contro 89 favorevoli, con cui la Camera votava contro il governo nella seduta del 19 luglio 1922, significavano che coloro si erano decisi a condannare il governo per la sua politica contraria, cioè una politica di difesa energica delle libertà fondamentali dello Stato. E, poiché in quei 253 voti di maggioranza avevano confluito popolari e socialisti  insieme ad alcune frazioni liberali e democratiche, era logico che il nuovo governo dovesse essere fondato su queste forze e rappresentare l’espressione  genuina della nuova maggioranza.

Filippo Turati non lasciò finire la domanda senza rispondere immediatamente e con estrema chiarezza. Egli mi disse che i più autorevoli socialisti ritenevano ormai che un’opposizione perpetua diretta a combattere tutti i ministeri avrebbe finito per fare il gioco dei fascisti, che occorreva pertanto uscire dalla sterile intransigenza che il rivoluzionarismo massimalista aveva fatto prevalere e che, con una chiara aperta decisione di appoggiare ungoverno di difesa, si sarebbe potuto entrare nella maggioranza per sostenervi il gabinetto.

Io mi arresi alle esortazioni di Turati. Avrei fatto un governo di sinistra con l’appoggio dei socialisti, ma senza la presenza dei socialisti.

Di ciò il re si mostrò contentissimo. Da tempo egli deplorava l’instabilità delle maggioranze parlamentari, il loro rapido farsi e disfarsi, la loro isterica mutabilità, che contribuiva alla debolezza del governo e alla sua perpetua perplessità.

Il gruppo socialista, sulla cui avvedutezza aveva contato Turati, non volle arrendersi alla dura realtà. I massimalisti, ipnotizzati dal grande sogno di una vicina palingenesi, per la quale occorreva mantenere immuni da contatti impuri, avevano silurato le intese e reso impossibili le più ragionevoli soluzioni. Quando il mattino successivo Turati ormai scoraggiato per l’esito della sua vana battaglia mi condusse a casa gli interpreti autorizzati del gruppo socialista, capii subito che la partita era perduta.

Invano io dimostrai che l’ora non consentiva mezze misure, che il pericolo era mortale e che per evitarlo occorreva superare le formule antiche dell’intransigenza rivoluzionaria. Alle mie esortazioni e a quelle accorate di Filippo Turati, che fu, per suo destino, un veggente inascoltato, si rispose che i socialisti avevano il diritto per la Carta costituzionale d’essere difesi nelle loro persone e nelle loro cose, senza che per tale difesa essi dovessero deflettere dalla intransigente custodia delle loro verginità politica che non ammetteva né connubi, né stabili accostamenti.

Mancato quell’argine che per l’incomprensione di quelli stessi che dovevano essere per primi esserne sommersi, l’ondata fascista non trovò alcuna barriera e quando, il 28 ottobre 1922, essa inviò le sue cosiddette legioni su Roma trovò la via aperta e tutti i poteri dello Stato o inefficienti o travolti.
PP. 162-168

Citazione bibliografica nel testo

Il ministro della buona vita / Giovanni Ansaldo
Biblioteca Universitaria - Pavia – PV
Biblioteca di scienze politiche Enrica Collotti Pischel dell'Università degli studi di Milano - Milano - MI

Il ministro della malavita / Gaetano Salvemini

Giolitti e gli italiani / Gaetano Natale