Cap. 1 Lineamenti di storia del primo periodo dello Stato bizantino, 324-610

Struttura statale romana, cultura greca e religione cristiana sono le fonti culturali principali dello sviluppo dell’Impero bizantino.
Se si prescinde da uno di questi tre elementi, ci si preclude la comprensione della cultura bizantina.
Solo la sintesi della cultura ellenistica e della religione cristiana con la struttura statale romana ha permesso la formazione di quel fenomeno storico che chiamiamo Impero bizantino.
Questa sintesi è stata resa possibile dallo spostamento del baricentro dell’Impero romano verso Oriente determinato dalla crisi del Terzo Secolo, che ebbe la sua espressione più manifesta nella cristianizzazione dell’Impero romano  e nella fondazione della nuova capitale sul Bosforo.
Questi due avvenimenti – la vittoria del cristianesimo e il virtuale trasferimento del centro politico dell’Impero nell’Oriente ellenistico – segnano l’inizio dell’epoca bizantina.
La storia bizantina è in primo luogo un nuovo periodo della storia romana e lo Stato bizantino nient’altro che una continuazione dell’antico Impero romano.
Il termine “bizantino”, com’è noto sorgerà solo molto più tardi e i veri “bizantini” non lo conoscevano.
Essi continuavano a chiamarsi “Romani”, gli imperatori bizantini si consideravano imperatori romani, successori ed eredi dei Cesari dell’antica Roma.
Essi restarono dominati dal prestigio del nome di Roma per tutto il tempo che visse il loro impero, e fino all’ultimo la tradizione dello Stato romano dominò il loro pensiero e la loro volontà politica.
L’impero, eterogeneo dal punto di vista etnico, fu tenuto unito dal concetto romano di Stato e la sua posizione nel mondo fu determinata dall’idea romana di universalità.
Pag. 25-26

La civiltà bizantina non solo deriva dall’ellenismo, ma è strettamente imparentata con esso da una profonda affinità.
Come la civiltà ellenistica, così anche quella bizantina, è una forza unificatrice e omogeneizzatrice.
Ambedue hanno un carattere epigonico, eclettico, quella bizantina ancor più di quella ellenistica.
Ambedue vivono dell’eredità di culture più grandi, più creative e la loro funzione non è tanto nella creazione originale, quanto piuttosto nella sintesi.
Il tipo culturale del compilatore è caratteristico di ambedue le civiltà.
Ma anche se il lavoro di compilazione non ha la genuinità di un lavoro creativo, anche se con l’imitazione si perde il senso e il reale contenuto dell’originale e l’originale bellezza della forma diventa retorica vuota e convenzionale; ciò nonostante resta un grande merito storico dei bizantini l’amorevole conservazione dei capolavori del mondo classico, lo studio del diritto romano e della cultura greca.
Le due cime più alte della civiltà antica, la grecità e il romanesimo, crescono insieme sul suolo bizantino.
I due prodotti più eccelsi della civiltà classica, l’ordinamento statale romano e la cultura greca, si unificano in una nuova concezione della vita e si fondono col cristianesimo, nel quale lo Stato e la cultura antichi vedevano la loro negazione irriducibile.
La cristiana Bisanzio non rinnega né l’arte né la filosofia pagane.
Il diritto romano resterà sempre la base dell’ordinamento e della coscienza giuridica dei bizantini; e analogamente la cultura greca resterà sempre una delle basi fondamentali della loro vita spirituale.
Anche per i bizantini più religiosi, la scienza, la filosofia, la storiografia e la poesia greche sono elementi essenziali della loro  formazione culturale.
La stessa Chiesa bizantina fa propria l’eredità spirituale della filosofia antica e si serve del sistema logico creato dai filosofi greci per l’elaborazione del proprio sistema dogmatico.
Pag. 29-30

La base di questo sistema [monetario] era il solidus aureo, che normalmente conteneva 4,48 grammi d’oro: una libbra d’oro corrispondeva a 72 solidi; inoltre c’era la siliqua d’argento, che pesava 2,24 grammi e quindi – finché il rapporto tra il valore dell’argento e quello dell’oro fu di 1:12 – rappresentava la ventiquattresima parte del solidus.
Questo sistema si rivelò straordinariamente stabile: per un intero millennio il solidus costantiniano (in greco nomisma, più tardi yperpuron) fu la base del sistema monetario bizantino e per molti secoli godette di grande credito nel commercio mondiale.
Non per questo non fu  soggetto a crisi, ma solo a partire dalla metà dell’Undicesimo Secolo il suo valore cominciò sensibilmente a cadere, mentre l’impero stesso si avviava a decadenza.
Pag. 38

Vi erano cioè nella parte bizantina dell’impero cinque comandanti in capo con distinte competenze; e tutti dipendevano direttamente dall’imperatore che da solo personificava l’unità del comando supremo.
Solo con la costituzione del forte esercito mobile dei comitatenses, anche l’esercito di frontiera dei limitanei acquista il carattere di un corpo particolare dell’esercito che ha la funzione specifica della difesa delle frontiere.
I soldati che stazionano sulle frontiere ricevono come compenso del loro servizio un appezzamento di terra; essi rappresentano cioè un corpo militare composto da piccoli proprietari, che vivono dei prodotti del proprio appezzamento di terreno e provvedono alla difesa della frontiera; un tipo di organizzazione che ebbe molta importanza nell’Impero bizantino.
Caratteristico dell’esercito romano-bizantino è il suo progressivo imbarbarimento.
La parte più combattiva e più apprezzata è costituita da barbari, soprattutto germani; tra i sudditi dell’Impero i soldati migliori erano gli illiri.
Il numero dei mercenari stranieri è in continuo aumento e a partire dal Quarto Secolo i migliori tra i barbari cominciano ad entrare, con ritmo crescente, anche tra gli ufficiali.
Altro elemento caratteristico dell’esercito romano-bizantino è il peso crescente della cavalleria dovuto tra l’altro alla necessità di adeguarsi alla tecnica militare dei sasanidi, la cui potenza militare si basava soprattutto sulla cavalleria.
Pag. 39

L’esempio più chiaro e storicamente più importante dell’influenza del cristianesimo sullo Stato romano ai tempi di Costantino è dato dal Concilio di Nicea (325), il primo di quella serie di concili ecumenici che posero le basi dogmatiche e canoniche della Chiesa cristiana.
Fu l’imperatore a convocare il concilio e a dirigerne i lavori; non solo, ma ne influenzò fortemente le decisioni, nonostante non facesse ancora formalmente parte della Chiesa (fu battezzato, com’è noto, solo sul letto di morte).
Ma era già lui, di fatto, il capo della Chiesa, e anche da questo punto di vista rappresentò un esempio per i suoi successori.
Tema centrale del Concilio era la dottrina del presbitero alessandrino Ario, che rifiutava di credere compatibile col monoteismo l’uguaglianza tra il Padre e il Figlio, e quindi negava la natura divina del Cristo.
La dottrina ariana venne condannata e si stabilì il dogma della consustanzialità del Padre e del Figlio; venne così formulato quell’articolo di fede che poi – completato dai risultati del Secondo Concilio ecumenico di Costantinopoli (381), rappresenterà il credo della Chiesa cristiana.
Pag. 42

Il periodo dei conflitti religiosi al tempo di Costanzo fu seguito dalla reazione pagana di Giuliano l’Apostata (361-363).
Con Giuliano giunse a un punto critico uno dei problemi centrali della cultura bizantina, e cioè quello della convivenza della vecchia cultura con la nuova fede.
L’amore per quel mondo classico che si avviava al tramonto, per la sua arte, la sua cultura e la sua saggezza, portò quest’ultimo rappresentante della dinastia di Costantino a dichiarare guerra alla nuova religione.
E sembrò che le interminabili lotte tra i diversi partiti all’interno della Chiesa cristiana gli assicurassero il successo.
I pagani erano numericamente ancora molto forti, soprattutto nella parte occidentale dell’Impero, e particolarmente a Roma; e pagano era anche in gran parte l’esercito che era fortemente barbarizzato.
E non era trascurabile il numero di coloro che ora tornavano a staccarsi dalla religione cristiana.
Ma Giuliano non riuscì a creare un forte movimento anticristiano.
In questa lotta egli restò soprattutto il portavoce dell’aristocrazia culturale pagana dei filosofi e retori neoplatonici, di cui egli stesso faceva parte.
Nella metà orientale dell’Impero, e soprattutto ad Antiochia, dove aveva fissato  la sua residenza, l’imperatore andò incontro a gravi delusioni.
L’intima debolezza del suo tentativo reazionario è dimostrato in modo espressamente chiaro dal fatto che nell’organizzazione del suo nuovo clero pagano, Giuliano copiò l’organizzazione della Chiesa cristiana.
Lo zelo con cui si sforzava di far rivivere gli antichi culti pagani (egli stesso faceva sacrifici di animali agli dèi) provocò meraviglia e disapprovazione.
Come ogni reazione che si entusiasma per l’antico in quanto tale e combatte il nuovo in quanto tale, la reazione di Giuliano era condannata al fallimento.
Durante una campagna contro i persiani egli fu ferito da un colpo di lancia e morì sul campo.
E la sua opera morì con lui.
Il suo rapido fallimento non ha fatto in fondo che dimostrare che vi era una necessità storica per la vittoria del cristianesimo.
Pag. 44

Con l’inizio delle invasioni barbariche, l’Impero si trovò a dover affrontare nuovi problemi, le cui ripercussioni sarebbero state di imprevedibile portata.
Ora anche la frontiera settentrionale della parte orientale dell’Impero diventa teatro di continue battaglie.
Ebbe così inizio quella logorante lotta su due fronti che non sarebbe più terminata fino alla caduta dell’Impero bizantino.
D’ora in poi, per tutto il corso della storia, Bisanzio sarà in lotta pressoché costante sia contro i grandi imperi che si formavano in Oriente, sia contro i popoli che tornavano continuamente a minacciarla dal Nord all’Ovest.
Pag. 45

E si giunse a un punto cruciale quando i visigoti apparvero sul Danubio e occuparono la diocesi della Tracia.
Ad essi si aggiunsero gli ostrogoti e gli unni che li seguivano, e ben presto tutta la Tracia veniva sommersa dall’invasione barbarica.
Valente, che da Costantinopoli seguiva gli avvenimenti sul fronte persiano, accorse immediatamente ad affrontare l’esercito barbaro presso Adrianopoli.
Qui si giunse il 9 agosto 378 ad una battaglia memorabile in cui i visigoti, appoggiati dagli ostrogoti, sconfissero l’esercito romano fino a distruggerlo, e lo stesso imperatore vi perse la vita.
Pag. 46

Ma il processo di progressiva separazione era sempre più evidente.
Sia dal punto di vista politico che da quello culturale le vis di sviluppo delle due metà dell’impero divergevano sempre più.
Un’espressione visibile e molto importante di questa progressiva separazione è l’approfondimento della divisione linguistica.
In Occidente la conoscenza della lingua greca è virtualmente scomparsa; in Oriente invece la lingua latina, pur continuando ad essere la lingua ufficiale e quindi artificiosamente coltivata, perde sempre più d’importanza in confronto a quella greca.
La grecizzazione dell’Oriente procede ininterrottamente, soprattutto ai tempi dell’imperatore Teodosio Secondo e dell’imperatrice Eudocia Augusta.
Non a caso alla nuova università di Costantinopoli i professori greci erano più di quelli latini.
Pag. 49-50

Nel quinto decennio del Quinto Secolo l’Impero d’Oriente attraversò uan nuova crisi dovuta alla minaccia degli unni capeggiati da Attila.
Incursioni e saccheggi si alternarono a trattati di pace di breve durata, che imponevano all’Impero condizioni ogni volta più dure ed umilianti.
Tutta la penisola balcanica era stata devastata e saccheggiata quando infine Attila, dopo aver imposto all’Impero dure condizioni finanziarie, si diresse verso l’Occidente.
Invase la Gallia e fu sconfitto dal capo dell’esercito romano d’Occidente, Ezio, presso i Campi Catalunici (451).
L’anno seguente gli unni devastarono l’Italia, ma già nel 453 Attila morì e con la sua morte andò anche in frantumi il suo regno gigantesco.
Ma la liberazione degli unni non riuscì ad evitare la disgregazione dell’Impero romano d’Occidente.
La situazione peggiorava continuamente.
Dopo l’assassinio di Ezio (454) e di Valentiniano Terzo (455) in Italia regnava il caos.
Le più importanti province fuori d’Italia si trovavano in mano a popoli germanici che fondarono propri regni, come i vandali in Africa e i visigoti in Gallia e Spagna.
Pag. 50

Leone fu il primo imperatore che ottenne la corona dalle mani del patriarca di Costantinopoli: tutti i suoi predecessori, nonostante la loro fedeltà alla fede cristiana, si accontentavano di ricevere il diadema da un generale o da un altro funzionario, secondo la tradizione romana; venivano sollevati su uno scudo e acclamati dall’esercito, dal popolo e dal senato.
L’innovazione del 457 è significativa in relazione al potere conquistato dall’episcopato di Costantinopoli e sancito dall’ultimo concilio ecumenico.
D’ora in poi gli imperatori bizantini verranno incoronati dal patriarca della capitale: così la cerimonia dell’incoronazione veniva ad acquistare il carattere di un’investitura religiosa.
Alla cerimonia dell’incoronazione temporale, che aveva un carattere prevalentemente militare, si aggiungeva una incoronazione religiosa, che col passare del tempo fece passare sempre più in secondo piano la vecchia cerimonia di origine romana, finché nel Medioevo la soppiantò del tutto.
Pag. 53

Egli riprendeva il potere proprio mentre l’Impero romano d’Occidente giungeva al suo crollo definitivo.
Al governo di Costantinopoli non restò che prendere atto del fatto compiuto.
La cosa venne facilitata dall’atteggiamento conciliatore di Odoacre, che riconobbe esplicitamente la sovranità dell’imperatore d’Oriente.
Il nuovo dominatore d’Italia venne nominato magister militum per Italiam e governò il paese coem plenipotenziario dell’imperatore.
Le apparenze vennero salvate, ma di fatto l’Italia era persa per l’Impero e, come quasi tutto il resto dell’Occidente, caduta sotto il dominio germanico.
Pag. 54

La crisi che aveva portato alla caduta della metà occidentale dell’Impero romano fu superata dall’organismo più sano della sua parte orientale, economicamente più forte e più densamente popolata.
Ma anche l’Impero d’Oriente attraversò la stessa crisi, visse tutto il terrore delle invasioni barbariche, lottò per un secolo intero contro il pericolo dell’imbarbarimento dell’organismo statale e dell’esercito.
Mentre le ondate delle invasioni barbariche si abbattevano sull’Occidente, Bisanzio stessa era rimasta paralizzata in tutte le sue membra e raramente osava uscire da un ruolo di semplice spettatrice passiva.
A cavallo tra il Quinto  e il Sesto Secolo la crisi etnica in Oriente era ormai definitivamente superata e ora Bisanzio sembrava in grado di condurre una politica più attiva e di fare un tentativo per recuperare i territori occidentali perduti.
Nonostante l’amministrazione separata delle due metà dell’Impero, l’idea della sua unità era rimasta viva; e analogamente conservava forza, nonostante le conquiste germaniche in Occidente, l’idea dell’universalità dell’Impero romano.
L’imperatore romano continuava ad essere considerato il capo dell’orbis romanus e dell’ecumene cristiana.
I territori che avevano appartenuto uan volta all’Impero romano erano considerati come suo eterno e irrevocabile possesso, anche se erano amministrati da re germanici.
Ma del resto questi stessi re riconoscevano la sovranità dell’imperatore romano e non esercitavano che un potere delegato da questi.
Era un diritto naturale dell’imperatore romano riconquistare l’eredità di Roma.
Era una sacra missione quella di liberare il territorio romano dal giogo dei barbari stranieri e degli eretici ariani, per riportare ai suoi antichi confini l’unico Impero romano e cristiano ortodosso.
Giustiniano Primo (527-565) pose la sua politica al servizio di questa missione.
Pag. 59-60

Una caratteristica tipica della legislazione giustinianea è la forte accentuazione dell’assolutismo imperiale.
Il Corpus iuris civilis diede una sanzione giuridica al potere autocratico, e questo eserciterà a lungo una notevole influenza su tutto il futuro sviluppo delle scienze politiche, non solo a Bisanzio, ma in tutto l’Occidente.
Il diritto romano resterà a Bisanzio il fondamento di tutto lo sviluppo del suo ordinamento giuridico e il Corpus di Giustiniano è il punto di partenza per tutto il lavoro futuro in questo campo.
Invece in Occidente solo nel Dodicesimo Secolo si ritornerà al diritto romano: l’assimilazione del diritto romano attraverso lo studio del Corpus iuris civilis di Giustiniano ebbe un’importanza fondamentale nell’elaborazione delle concezioni politiche e giuridiche dell’Occidente.
E da allora in poi il diritto romano, nella forma datagli dalla codificazione giustinianea, diventò un fattore fondamentale nello sviluppo del diritto in tutt’Europa, fino ai giorni nostri.
Pag. 66

Per quanto il numero dei pagani si fosse considerevolmente assottigliato, la loro influenza nella vita culturale e nell’insegnamento restava molto forte.
Giustiniano interdisse ai pagani l’insegnamento e nel 529 chiuse l’Accademia di Atene, la culla del neoplatonismo pagano.
Gli insegnanti che ne vennero cacciati si rifugiarono alla corte dell’imperatore persiano e portarono in Persia i frutti della cultura greca.
A Bisanzio la vecchia religione era ormai morta e con questo si chiudeva un’intera epoca della storia romana.
Pag. 67

Nella letteratura e nell’arte la vecchia cultura sotto spoglie cristiane ebbe una nuova fioritura, a cui doveva seguire ben presto un lungo periodo di decadenza culturale.
Il periodo di Giustiniano non fu, com’era nei suoi desideri, l’inizio di una nuova era, ma la fine di una grande epoca al suo tramonto.
Giustiniano non riuscì a rinnovare l’impero: riuscì soltanto ad estendere – per breve tempo – le sue frontiere, ma non gli fu possibile operare una rigenerazione interna del vecchio Stato romano.
La restaurazione territoriale mancava di solide basi e per questo le conseguenze dell’improvviso crollo della restaurazione giustinianea furono doppiamente disastrose.
Dopo tutti i suoi grandiosi successi Giustiniano lasciò ai suoi successori un impero internamente esausto, e in completa rovina economica e finanziaria.
Questi ebbero ora il compito di riparare alle manchevolezze del grande imperatore e cercare di salvare quello che si poteva ancora salvare.
Pag. 68

Maurizio è uno dei più importanti imperatori bizantini.
Il suo regno rappresenta uan tappa fondamentale nella trasformazione della struttura statale del vecchio Impero tardo-romano nel nuovo, più vitale, ordinamento dell’Impero bizantino medievale.
Il maggior peso attribuito alla politica orientale e la forzata rinuncia alla maggior parte delle conquiste di Giustiniano in Occidente non significò una rinuncia agli interessi dell’Impero in Occidente.
Con le importanti misure organizzative di Maurizio, si riuscì a conservare all’impero per lungo tempo almeno una parte dei suoi possedimenti occidentali.
Raggruppando i resti dei possedimenti giustinianei, creò gli esarcati di Ravenna e di Cartagine e con una rigorosa organizzazione militare cercò di renderli capaci di autodifendersi.
I possedimenti nordafricano e quelli di Ravenna – circondati da territori in mano ai longobardi, vennero organizzati come luogotenenze militari e l’amministrazione sia militare che politica fu affidata agli esarchi.
Ambedue gli esarcati divennero gli avamposti della potenza bizantina in Occidente.
Questo tipo di organizzazione inaugurò il periodo della militarizzazione dell’amministrazione bizantina e preannunciò il sistema dei temi.
Pag. 69

Gli anni dell’anarchia sotto il regno di Foca rappresentano l’ultima fase della storia dell’Impero tardo-romano.
Così finisce il periodo tardo-romano o primo periodo bizantino.
Dalla crisi uscì un’altra Bisanzio, liberata ormai dall’eredità del decadente Stato tardo-romano, e alimentata da nuove forze.
A questo punto ha inizio la storia bizantina propriamente detta, cioè la storia dell’Impero greco medievale.
Pag. 73

Cap. 2. Lotta per l’esistenza e il rinnovamento dello Stato bizantino, 610-711

Ma per quanto smaglianti fossero le vittorie militari riportate da Eraclio, la grandezza e il significato di questo periodo non risiede nella politica estera.
Le conquiste in Oriente andarono perdute pochi anni dopo, quando iniziarono le invasioni arabe.
Quello che invece restò fu la riforma militare e amministrativa.
Su di essa riposa la potenza bizantina degli anni seguenti e, con la sua decadenza, inizia la decadenza della struttura statale bizantina.
L’ordinamento dei temi, fondato da Eraclio, è la spina dorsale dell’Impero bizantino medievale.
L’Età di Eraclio rappresenta nella storia bizantina una svolta non solo nella vita politica ma anche in quella culturale.
Con Eraclio si chiude la fase romana e si apre quella bizantina nel vero senso della parola.
La completa grecizzazione e la forte clericalizzazione di tutta la vita pubblica dànno una nuova fisionomia a tutto lo Stato.
Nel primo periodo bizantino la lingua latina resisteva con straordinaria tenacia nella vita pubblica: lo Stato non si decideva a prendere atto della progressiva grecizzazione dell’Impero se non a poco a poco e con estrema indecisione, senza risolversi a introdurre un cambiamento definitivo.
La caratteristica del primo periodo dello Stato bizantino è il bilinguismo tra governo e popolo: la lingua ufficiale dell’amministrazione e dell’esercito era il latino, che la grande maggioranza della popolazione orientale non comprendeva.
Al tempo di Eraclio si pose fine a questa situazione e la lingua greca divenne la lingua ufficiale dell’Impero bizantino.
La lingua del popolo e della Chiesa divenne così anche la lingua dello Stato.
Il processo di grecizzazione che prima veniva artificiosamente frenato, si sviluppò ancora più rapidamente, e nelle generazioni immediatamente successive la conoscenza del latino era divenuta una rarità perfino negli ambienti colti.
Pag. 94

L’anno nel quale iniziarono le vittorie bizantine contro la Persia è anche l’anno dell’egira degli arabi.
Mentre Eraclio sconfiggeva l’Impero persiano, Maometto poneva le fondamenta dell’unità religiosa e politica degli arabi.
L’opera di Maometto, poco sviluppata e intellettualmente debole, contiene peraltro uan certa energia primordiale che la rende un potente stimolo all’azione.
Pochi anni dopo la morte del profeta ebbero inizio le grandi invasioni degli arabi che dall’opera di Maometto si sentirono spinti a espandersi come una forza elementare oltre i confini della propria povera terra.
Il loro scopo non era tanto la conversione dei popoli alla nuova fede, quanto la conquista di nuove terre e il dominio sugli infedeli.
I due grandi imperi confinanti furono le prime vittime della loro sete di conquiste: la Persia venne sconfitta al primo attacco, Bisanzio perse le sue province orientali solo dieci anni dopo la morte del profeta.
Questa continua lotta aveva indebolito ambedue i contendenti e così spianata la strada agli arabi.
Dopo la sconfitta della Persia da parte di Eraclio, l’antico impero dei Sasanidi era caduto nel disordine più caotico; un usurpatore succedeva all’altro, tutta l’impalcatura dello Stato era in pezzi.
Ma anche le forze della vittoriosa Bisanzio erano uscite esaurite dalla dura lotta.
Inoltre inconciliabili divergenze religiose avevano eretto un muro di odio tra Costantinopoli e le sue province orientali; le tendenza separatistiche delle popolazioni copte e siriane erano state rafforzate e la loro volontà di difesa era stata definitivamente soppressa.
Anche le deficienze dell’organizzazione militare e la situazione disastrosa in cui si trovava l’amministrazione a causa del prepotere dei grandi proprietari fondiari locali, furono fattori che contribuirono a facilitare il compito degli invasori.
Pag. 97

Tanto allora quanto precedentemente in politica estera il problema principale era quello della continua avanzata degli arabi.
In ottemperanza alle clausole del trattato che il patriarca di Alessandria, Ciro, aveva concluso con gli arabi dietro ordine di Martina, e che stabiliva una scadenza precisa per lo sgombero del territorio da parte dei bizantini, le truppe bizantine salparono da Alessandria il 12 settembre 642 e si diressero a Rodi.
Intanto il vittorioso generale arabo ‘Amr entrava il 29 settembre nella città di Alessandro Magno, da dove gli arabi continuarono ad espandersi lungo la costa nordafricana, conquistarono la Pentapoli e nel 643 presero la città di Tripoli sulla Sirte.
Dopo la morte di Omar (novembre 644) ‘Amr venne richiamato dal nuovo califfo ‘Othman, e questo fatto incoraggiò i bizantini ad intraprendere una nuova controffensiva.
Il generale bizantino Manuele si diresse verso l’Egitto alla testa di una grande flotta; gli riuscì di sorprendere la guarnigione araba e di riconquistare Alessandria.
Ma questo successo fu di breve durata.
‘Amr venne immediatamente rimandato in Egitto, sconfisse presso Nikiu l’armata di Manuele e nell’estate del 646 rientrò in Alessandria.
Manuele fu costretto a fuggire a Costantinopoli, mentre la popolazione copta di Alessandria, con alla sua testa il patriarca monofisita Beniamino si sottomise spontaneamente agli arabi e ratificò formalmente la propria sottomissione dichiarando di preferire il giogo arabo a quello bizantino.
Dopo questa reiterata conquista di Alessandria l’Egitto restò per sempre sotto dominazione musulmana.
L’Impero bizantino aveva perduto definitivamente la più ricca ed economicamente più importante delle sue province.
Pag. 101-2

Dopo essersi liberato dal pericolo che veniva dall’Oriente, l’imperatore Costante poté dedicarsi alle province occidentali dell’Impero.
Nel 658 intraprese una campagna nella regione balcanica occupata dagli slavi; attaccò la “Slavinia”, dove “molti vennero fatti prigionieri e sottomessi”.
La scarsezza delle notizie non ci permette di precisare nei dettagli quali fossero le conseguenze di questa campagna di Costante Secondo.
Quello che possiamo dire con sicurezza è che Costante Secondo costrinse una parte degli slavi – probabilmente in Macedonia – a riconoscere la sovranità bizantina.
Si trattava della prima grande controffensiva bizantina contro gli slavi dai tempi di Maurizio.
Pare che la spedizione di Costante Secondo fosse accompagnata da deportazioni in massa di Slavi in Asia Minore.
Ed è a partire da questo periodo che le fonti parlano di slavi in Asia Minore e di soldati slavi al servizio imperiale.
Nel 665 una divisione di cinquemila soldati slavi passò agli arabi e venne da questi insediata in Siria.
Pag. 103

Dopo la morte di Costante Secondo, gli successe sul trono di Costantinopoli il suo giovane figlio Costantino Quarto (668-885).
Il suo regno inaugurò un periodo di importanza fondamentale sia per la storia universale che per quella bizantina: il regno durante il quale nella lotta bizantino-araba si avrà la svolta decisiva.
Ancora mentre Costante Secondo si tratteneva in Occidente, Mu’awiya dopo la composizione delle lotte interne al califfato, riprese le armi contro l’Impero bizantino.
Nel 663 gli arabi riapparvero in Asia Minore e, da allora in poi, le loro incursioni si ripeterono di anno in anno.
La regione venne interamente devastata e gli abitanti deportati e fatti schiavi; nel frattempo gli arabi erano giunti fino a Calcedonia e molti di loro restarono a svernare in territorio bizantino.
Ma la lotta decisiva, la lotta per Costantinopoli e quindi anche per l’esistenza stessa dell’Impero bizantino si svolse in mare.
Il califfo Mu’awiya riprese il piano di conquista, elaborato quando era governatore della Siria, al punto in cui lo aveva dovuto interrompere più di un decennio prima.
Gli arabi avevano occupato Cipro, Rodi, Coo; questa catena di isole venne completata con la conquista di Chio; nel 67’ un generale di Mu’awiya si impadronì della penisola di Cizico, nelle immediate vicinanze della capitale bizantina.
Gli arabi avevano così in mano una sicura base per le operazioni contro Costantinopoli.
Ma prima di sferrare l’attacco contro la capitale, nel 672 un distaccamento della flotta araba prese Smirne, mentre un altro si impadroniva delle coste della Cilicia.
Pag. 108-9

Per la prima volta era stata fermata l’avanzata araba.
L’invasione araba, che fino allora era andata avanzando come una valanga, senza quasi incontrare resistenza, era stata arrestata per la prima volta.
Nella grande lotta per la difesa dell’Europa dall’avanzata araba, la vittoria di Costantino Quarto rappresenta uan svolta di importanza mondiale, come più tardi la vittoria di Leone Terzo nel 718 e quella del 732 di Carlo Martello, a Poitiers, all’altro estremo del mondo di allora.
Di queste tre vittorie, che salvarono l’Europa dal dilagare dei musulmani, la vittoria di Costantino Quarto  è non solo la prima, ma anche la più grande.
Senza dubbio quell’offensiva araba contro Costantinopoli era l’ultimo argine che si opponeva all’invasione.
Il fatto che questo argine abbia retto significò la salvezza non solo dell’Impero bizantino, ma di tutta la cultura europea.
Pag. 110

Il territorio che i bulgari occuparono era già stato slavizzato da tempo: era abitato dalla stirpe dei Severi e da sette altre tribù slave, che ora vennero costrette a versare tributi ai bulgari invasori e sembrarono allearsi con essi nella lotta contro i bizantini.
Sul territorio dell’antica provincia della Mesia, tra il Danubio e la catena dei Balcani venne così a formarsi un impero slavo-bulgaro.
L’invasione dei bulgari nella parte nordorientale della penisola balcanica occupata dagli slavi ebbe così l’effetto di accelerare il processo della strutturazione statuale e portò alla creazione del primo impero jugoslavo.
All’inizio i bulgari e gli slavi rappresentarono due entità etniche distinte e ancora per molto tempo verranno chiaramente distinte fonti bizantine; ma in seguito a poco a poco i bulgari si amalgamarono completamente nella massa slava.
Pag. 111

L’ordinamento dei temi è uno dei problemi più importanti dello sviluppo dello Stato bizantino nel primo Medioevo.
Le opere storiche bizantine non trattano mai in modo dettagliato questo problema, ma a partire dalla seconda metà del Settimo Secolo troviamo nelle fonti sempre più frequenti riferimenti ai temi; il che dimostra che quest’organizzazione amministrativa si incorporava sempre più organicamente nell’Impero bizantino.
Un documento di Giustiniano del 17 febbraio 687 cita accanto ai due esarchi d’Italia e d’Africa i cinque strateghi di Opsikion, dell’Anatolia, dell’Armenia, del tema marittimo dei Carabisiani e del tema della tracia.
Pag. 115

L’ordinamento dei temi, che si sviluppa sempre più forte nell’Asia Minore e progressivamente prende piede anche in certi territori della penisola balcanica, costituisce l’ambito in cui si compie la rigenerazione dell’Impero bizantino.
Nel corso di un lungo periodo il governo bizantino si preoccupa con sorprendente ostinazione di introdurre nel territorio dell’Impero il maggior numero possibile di slavi e di collocarli, come stratioti e come contadini, nei temi creati ex novo, per accrescere in questo modo le forze armate dell’Impero, e per rafforzare economicamente il paese.
Il rinnovamento interno, conosciuto dall’Impero bizantino a partire dal Settimo Secolo, consiste soprattutto proprio nel formarsi di una forte classe contadina e nel costituirsi di un nuovo esercito di stratioti, cioè nel rafforzamento della piccola proprietà contadina, dal momento che anche gli stratioti residenti sono piccoli proprietari terrieri.
Nella prestazione del servizio militare allo stratiota seguiva di regola il figlio maggiore, che succedeva anche nel fondo militare gravato dall’obbligo del servizio.
I restanti suoi eredi costituivano però un’eccedenza di forze agricole cui la quantità di terreno libero offriva un naturale campo di attività; in questo modo anche il contadino veniva ad essere inquadrato nell’ordinamento degli stratioti.
I contadini liberi e gli stratioti appartengono ad una sola classe e questa classe è ora la forza fondamentale dell’Impero bizantino.
Pag. 115-16

Ma in forte aumento è anche la proprietà terriera della Chiesa e dei monasteri, grazie alle donazioni dei devoti bizantini di tutte le classi.
Questo fenomeno, insieme all’incessante sviluppo del monachesimo, è un’espressione della crescente potenza della Chiesa.
Un’idea dell’enorme sviluppo dei monasteri a Bisanzio è data dalla più tarda testimonianza del patriarca Giovanni Antiocheno(fine dell’Undicesimo Secolo), che, nonostante le evidenti esagerazioni, ne dà un’immagine abbastanza esatta.
Questo alto rappresentante del clero orientale e deciso difensore dell’intoccabilità dei beni dei monasteri disse che la popolazione dell’Impero bizantino prima dell’inizio della crisi iconoclastica si divideva in due grandi gruppi: monaci e laici.
E all’aumento del numero dei monasteri e dei monaci corrispose anche un aumento della proprietà terriera ecclesiastica.
Pag. 118

La politica della dinastia eracleia, che fece della piccola proprietà degli stratioti e dei contadini liberi il pilastro fondamentale dell’Impero, non poteva essere accetta all’aristocrazia bizantina.
Con Giustiniano Secondo la politica del governo assunse un indirizzo anti aristocratico particolarmente accentuato, e l’atteggiamento brusco e provocante del giovane imperatore, che non esitava mai a ricorrere alla violenza, portò la tensione al massimo.
Fonti orientali ben informate dimostrano che l’atteggiamento di Giustiniano minacciava l’aristocrazia di completo annientamento.
D’altra parte alcune delle misure che prese non erano certo atte a conquistarsi l’appoggio popolare.
La sua politica colonizzatrice – anche se rispondeva alle necessità dello Stato – era molto dura per coloro che ne erano colpiti, che venivano strappati alla loro patria e gettati in regioni sconosciute e disabitate.
Inoltre il governo di Giustiniano Secondo impose duri gravami finanziari ai suoi redditi soprattutto per i grandi programmi di costruzioni cui l’imperatore, cercando di emulare il suo grande omonimo, si era appassionatamente dedicato.
Il fiscalismo spietato provocò l’odio della popolazione contro i funzionari incaricati delle finanze, il sakellarios Stefano e il Logothetes genikou Teodoto, che pare si siano particolarmente distinti per la loro brutalità e mancanza di riguardi.
Alla fine del 695 scoppiò la rivolta contro il governo di Giustiniano Secondo e il partito degli azzurri elevò al trono imperiale Leonzio, lo stratega del nuovo tema dell’Ellade.
I due luogotenenti di Giustiniano, il sacellario Stefano ed il logotete Teodoto perirono travolti dalla furia della folla e a Giustiniano venne tagliato il naso.
L’imperatore detronizzato venne esiliato a Cherson, dove già Martino aveva finito i suoi giorni d’esilio.
Pag. 119-20

Si trattava della prima dinastia bizantina nel vero senso della parola; una dinastia i cui rappresentanti avevano governato l’Impero per cinque generazioni, per un secolo intero.
Se consideriamo la storia di questa stirpe eccezionale ci vediamo sfilare davanti tutta una galleria di uomini in cui effettive doti di statisti si combinano con una ipertensione morbosa: il grande Eraclio, il riformatore dell’Impero, che alla testa della sua armata combatte la guerra santa e ottiene vittorie favolose sul potente Impero persiano, ma poi, stanco ed esausto, assiste passivamente all’avanzata degli arabi e passa gli ultimi anni della sua vita in uno stato di grave turbamento mentale; Costante Secondo – il figlio di un uomo consunto dalla tisi – che sale sul trono ancora fanciullo, con il fresco ricordo delle sanguinose lotte famigliari, che diventa un sovrano dalla prepotente volontà autocratica e cade per un grande, ma utopistico ideale; Costantino Quarto, l’eroico vincitore della guerra contro gli arabi che, dopo il suo avo, fu colui che meritò più di chiunque altro il titolo di salvatore dell’Impero, un grande generale e statista, morto precocemente all’età di soli trentatré anni, e infine Giustiniano Secondo, un sovrano di doti eccezionali, che contribuì più di ogni altro all’elaborazione della nuova organizzazione statale, ma che per il suo dispotismo che non conosceva limiti, per la sua mancanza di autocontrollo e la sua crudeltà addirittura morbosa, si preparò una tragica fine e si rese responsabile della caduta della dinastia.
Il periodo creativo della dinastia eraclea si concluse con la prima fase del regno di Giustiniano Secondo.
Nel periodo che va dall’ascesa al trono di Eraclio alla prima detronizzazione di Giustiniano si svolge la più dura lotta per l’esistenza che l’Impero bizantino abbia mai dovuto sostenere e la più grande trasformazione interna che abbia mai vissuto.
Pur avendo sconfitto i persiani e gli avari, Bisanzio fu costretta a cedere vasti territori agli arabi.
Riuscì comunque a conservare, dopo dura lotta, il cuore dei propri possedimenti, a impedire ai musulmani l’accesso all’Europa e a preservare la propria esistenza in quanto grande potenza.

L’estensione dell’Impero si ridusse notevolmente, ma nei suoi nuovi confini Bisanzio si trova ad essere più salda e più forte.
Alla vecchia organizzazione statale tardo-romana viene data nuova vita attraverso profonde riforme interne e l’accesso dall’esterno di forze giovani e fresche.
Il suo ordinamento militare viene riorganizzato in modo rigoroso e unitario e l’organizzazione dell’esercito viene trasformata e basata sulle forze degli stratioti-contadini; si ha un forte aumento della classe dei liberi contadini che si dedicano alla coltivazione di nuove terre e che coi tributi che pagano rappresentano il più sicuro pilastro delle finanze dell’Impero.
E’ sulle fondamenta poste nel Settimo Secolo che si basa la futura forza dello Stato bizantino.
Grazie alle riforme introdotte dalla dinastia di Eraclio, Bisanzio riesce a sostenere al difesa contro gli arabi e i bulgari e infine a scatenare un’offensiva decisiva e vittoriosa in Asia e nella penisola balcanica.
Ma quanto quest’epoca è ricca di guerre eroiche, altrettanto essa è povera in fatto di vita culturale, di attività letteraria e artistica.
Infatti con la scomparsa del vecchio ceto aristocratico si estingue anche la vecchia cultura da essa incarnata, e dopo lo splendore e la ricchezza della letteratura e dell’arte del tempo di Giustiniano, segue nel Settimo Secolo un periodi di aridità culturale.
Questo attribuisce a tale epoca un aspetto cupo, tanto più che in Bisanzio penetra una crudezza di costumi veramente orientale.
Le arti figurative sono irrilevanti.
La letteratura mondana e la scienza sono mute.
Richiamata in causa da nuove controversie religiose, la teologia è l’unica a far sentire la sua voce.
La Chiesa acquista un’importanza sempre maggiore.
La vita bizantina assume un caratteri mistico ed ascetico.
Gli stessi imperatori sono dei mistici: Eraclio, “il liberatore della terra santa”, Costantino, “il faro della ortodossia”, Giustiniano, “il servo ci Cristo”.
L’Impero romano universale appartiene ora al passato.
Mentre in Occidente si formano regni germanici, Bisanzio, pur restando sempre aderente alle idee statali ed alle tradizioni romane, diviene un impero medievale greco.
La cultura e la lingua greca (che raggiunge la vittoria definitiva nel territorio di Oriente dopo al romanità artificiosa dell’epoca transitoria paleo bizantina) dà a questo impero un suo proprio sigillo e ne indirizza lo sviluppo in una nuova direzione.
Pag. 123-25

Cap. 3. L’età della crisi iconoclastica, 711-843

La grande crisi, che si abbatté su Bisanzio nell’età della controversia iconoclastica, si preannuncia già durante il regno di Filippico Bardane e in questo risiede l’importanza storica di questo breve e poco fortunato regno.
Infatti Filippico aveva rinfocolato non solo le dispute cristologiche, ma aveva provocato anche una strana controversia sulle immagini, una lotta, che invero non colpiva ancora il culto delle immagini come tale, ma che comunque si serviva del carattere simbolico dell’immagine come strumento della controversia, preannunciando quindi la grande lotta iconoclastica degli anni seguenti.
Come armeno, Filippico Bardane secondo ogni apparenza aveva tendenza al monofisitismo.
Non arrivò tanto lontano da avanzare un riconoscimento di questa eresia, ma apparve come un deciso sostenitore del monoteletismo che era stato condannato trent’anni prima al Quarto Concilio ecumenico.
Di propria autorità emanò un editto imperiale col quale respingeva le decisioni del Sesto Concilio Ecumenico e dichiarava il monotelismo la sola dottrina ortodossa.
Questa volta ebbe la sua espressione simbolica nella distruzione di un dipinto nel palazzo imperiale, rappresentante il Sesto Concilio Ecumenico e nella rimozione di un’iscrizione commemorativa del Concilio che era posta davanti al palazzo sulla Porta Milion; al suo posto venne messa un’effigie dell’imperatore e una del patriarca Sergio.
Analogamente più tardi gli imperatori iconoclasti rimuovevano le immagini di natura religiosa, ma davano la massima pubblicità alle immagini dell’imperatore.
Il monotelismo di Filippico non riuscì a prevalere, la sua politica ecclesiastica provocò una forte opposizione che affrettò la sua caduta, ma ciò nonostante egli riuscì a trovare alcuni sostenitori, o almeno simpatizzanti, negli ambienti dell’alto clero bizantino, e tra questi anche il futuro patriarca Germano.
Inoltre riapparvero tendenze monofisite, il che sta a dimostrare che l’eresia monofisita-monotelita non era stata affatto sradicata da Bisanzio.
Naturalmente l’aperta professione, da parte dell’imperatore, di un’eresia che era stata condannata all’ultimo Concilio Ecumenico, provocò a Roma una decisa opposizione, che si manifestò in una forma affatto caratteristica.
Quando venne annunciata la sua ascesa al trono, Filippico inviò al papa Costantino Primo, insieme alla propria effigie, una confessione di fede piena di accenti monoteliti.
A Roma l’effigie dell’imperatore eretico venne respinta e non venne nemmeno coniata sulle monete; e il suo nome non venne menzionato nelle funzioni religiose e nella datazione degli avvenimenti.
Alla rimozione della rappresentazione del Sesto Concilio Ecumenico dal palazzo imperiale di Costantinopoli, il papa rispose facendo portare nella chiesa di San Pietro immagini che rappresentavano tutti e sei i concili.
Così, poco prima dello scoppio della grande controversia sul culto delle immagini, si svolse tra l’imperatore eretico e il papa una strana lotta, in cui l’immagine era uno strumento della disputa e la posizione delle due parti si esprimeva nell’accettazione o nel rifiuto di determinate rappresentazioni iconografiche.
Pag. 141-42

Con la liberazione di Costantinopoli e la vittoria in Asia Minore si chiudeva una fase importante della lotta bizantino-araba.
I futuri attacchi degli arabi creeranno seri problemi all’Impero, ma non porranno più in questione la sua esistenza.
Costantinopoli non subirà più un assedio arabo e l’Asia Minore, che grazie al sistema dei temi, possedeva forti capacità di resistenza nonostante alcuni contraccolpi, restò saldamente parte integrante dell’Impero.
Pag. 145

La controversia iconoclastica aprì un nuovo – affatto caratteristico – capitolo della storia bizantina.
L’opposizione di Leone Terzo al culto delle immagini diede inizio alla crisi che segna della sua impronta tutti questo periodo e che fa dell’Impero il teatro di lotte intestine durate più di un secolo.
La crisi si preparava lentamente.
Il fatto che essa abbia assunto la forma di una controversia sulle immagini è determinato dal particolare valore simbolico che i bizantini attribuivano ad esse.
Nella Chiesa greca il culto delle immagini dei santi aveva raggiunto negli ultimi secoli, particolarmente nell’età post giustinianea, una sempre maggiore diffusione ed era diventato una della forme principali in cui si esprimeva la religiosità bizantina.
D’altra parte non mancavano nello stesso seno della chiesa tendenze contrarie al culto delle immagini in quanto sembrava che il cristianesimo, come religione puramente spirituale, dovesse escluderlo.
Questa opposizione era forte soprattutto nelle religioni orientali dell’Impero, che da molto tempo erano terreno fertile di fermenti religiosi, in cui continuavano ad esistere considerevoli residui di monofisismo e si rafforzava ed estendeva la setta dei pauliciani, nemica di ogni culto ecclesiastico.
Ma fu solo il contatto con il mondo arabo a far divampare l’opposizione al culto delle immagini.
La tendenza iconoclasta di Leone Terzo venne attribuita, dai suoi nemici, ora ad influenze ebraiche, ora arabe.
Il fatto che Leone Terzo abbia perseguitato gli ebrei e li abbia costretti al battesimo, non esclude la possibilità che egli sia stato influenzato dalla religione mosaica, col suo rigoroso divieto delle immagini; analogamente la guerra contro gli arabi non esclude che l’imperatore sia stato influenzato dalla cultura araba.
La persecuzione degli ebrei che ebbe luogo sotto Leone Terzo – una delle relativamente rare persecuzioni antisemite della storia bizantina – deve essere piuttosto considerata come un segno del rafforzarsi dell’influenza ebraica in questo periodo; a partire dal Settimo Secolo, nella letteratura teologica bizantina compaiono in sempre maggior numero scritti polemici che rispondono ad attacchi ebraici contro il cristianesimo.
Ancor più importante è l’atteggiamento filo-arabo di Leone, che i suoi contemporanei chiamarono saraktenofron.
Gli arabi, che da decenni percorrevano in lungo e in largo l’Asia Minore, non portavano a Bisanzio solo la spada, ma anche la loro cultura, e insieme a questa, la loro caratteristica ripugnanza nei confronti della riproduzione delle sembianze umane.
L’iconoclastia nasceva così nelle regioni orientali dell’Impero da un caratteristico incrocio di un’accezione rigorosamente spirituale della fede cristiana, con le dottrine di settari iconoclasti e le concezioni delle antiche eresie cristologiche, come anche gli influssi di religioni non cristiane, il giudaismo e soprattutto l’islam.
Dopo la vittoria sull’avanzata militare dell’Oriente, ora iniziò, nella forma della controversia sulle immagini, la lotta contro l’avanzata degli influssi culturali orientali.
E colui che preparò la via a questa penetrazione dell’influenza culturale orientale fu lo stesso imperatore che aveva respinto l’avanzata araba alle porte di Costantinopoli.
Pag. 147-48

L’imperatore non riuscì però a costringere la lontana Italia ad aderire all’iconoclastia.
Ma la controversia iconoclastica scoppiata a Bisanzio ebbe profonde ripercussioni nei rapporti tra Costantinopoli e Roma.
Dopo la pubblicazione dell’editto iconoclastico, che elevava la dottrina contraria al culto delle immagini a dottrina ufficiale dello Stato e della Chiesa dell’Impero, la rottura – tanto a lungo ritardata – divenne inevitabile.
Papa Gregorio Terzo, il successore di Gregorio Secondo, si vide costretto a condannare in un concilio l’’iconoclastia bizantina.
Leone Terzo – che si era illuso di convincere il papa, come questi si era illuso di convincere l’imperatore – si vide a sua volta costretto a fare prigionieri i legati di Gregorio Terzo.
Alla divisione religiosa seguì quella politica: le prime conseguenze politiche della controversia iconoclastica furono un approfondimento della frattura tra Costantinopoli e Roma e un sensibile indebolimento delle posizioni bizantine in Italia.
Pag. 150

Nella situazione in Oriente si era determinata uan svolta favorevole a Bisanzio.
La forza degli arabi era stata scossa sia dalle guerre dell’epoca di Leone Terzo, sia da una grave crisi interna.
La gloriosa dinastia degli Omayyadi si avviava al tramonto e dopo una lunga guerra civile venne sostituita nel 750 da quella degli Abbasidi.
Il trasferimento del centro dello Stato da Damasco nella lontana Bagdad si accompagnò al cambiamento di dinastia.
Quindi la pressione cui Bisanzio era esposta da questo lato si attenuò e si poteva passare alla controffensiva.
Già nel 476 Costantino irruppe nella Siria settentrionale ed occupò Germanicea, la patria dei suoi antenati.
Seguendo i metodi tradizionali della politica coloniale di Bisanzio, trasferì un gran numero di prigionieri nella lontana Tracia, dove ancora nel Nono Secolo si troveranno colonie di monofisiti siri.
Anche sul mare Bisanzio ottenne una notevole vittoria: il comandante della Marina Bizantina, lo stratego dei Cibirreoti, annientò nel 747 presso Cipro uan flotta araba che era stata mandata da Alessandria.
Un successo ancora maggiore ebbe la campagna che l’imperatore intraprese nel 752 in Armenia e Mesopotamia: due importanti fortezze confinarie, Teodosiopoli e Melitene, caddero nelle mani dei bizantini.
Anche questa volta i prigionieri vennero mandati in Tracia, presso il confine bulgaro, che venne fortificato su ordine dell’imperatore.
Naturalmente questi successi non portarono nessuna conquista territoriale duratura all’Impero, giacché ben presto le fortezze che erano state conquistate caddero di nuovo nelle mani degli arabi.
Ma le vittorie di Costantino sui confini orientali erano comunque molto importanti perché erano un sintomo che la situazione era mutata: era finito il tempo in cui Bisanzio doveva lottare per la propria esistenza.
La lotta arabo-bizantina aveva ora il carattere di conflitto di frontiera, in cui inoltre l’iniziativa era spesso nelle mani dell’imperatore bizantino.
Nell’Oriente Bisanzio non era più l’aggredito, ma l’aggressore.
Pag. 152-53

I grandi successi di Costantino Quinto nelle guerre arabe e in quelle bulgare erano costate la limitazione della sua politica estera alla sfera di interessi orientali.
Mentre Costantino Quinto celebrava le sue vittorie in Oriente, il dominio bizantino in Italia subì un crollo completo.
La tensione tra Roma e l’imperatore iconoclasta sul Bosforo si acutizzava continuamente.
Ma fintanto che il papato credeva di poter contare sull’aiuto dell’Impero bizantino contro la pressione longobarda, e fintanto che non c’era un’altra potenza che potesse sostituire Bisanzio, Roma metteva da parte le divergenze religiose e serbava lealtà all’Impero.
Ma nel 751 Ravenna cadde in mano dei longobardi, e l’esarcato di Ravenna cessò di esistere.
Con questo avvenimento il dominio bizantino nell’Italia settentrionale e centrale era finito e svanita l’ultima speranza del papa nell’aiuto dell’imperatore bizantino.
Ma nello stesso tempo sull’orizzonte romano apparve uan nuova potenza, la cui protezione rappresentava un aiuto più accetto che non quello della eretica Bisanzio: il giovane impero dei franchi.
Il papa Stefano Secondo attraversò personalmente le Alpi e si incontrò il 6 gennaio 754 con re Pipino, a Ponthion.
Questo memorabile incontro aprì i rapporti fra Roma e il regno dei franchi e gettò le basi dello Stato della Chiesa romana.
Il papato voltò le spalle all’imperatore bizantino e stabilì un legame con il re dei franchi, da cui meno di mezzo secolo dopo doveva sorgere l’Impero d’Occidente.
Pag. 155

Lo stesso imperatore prese parte all’attività letteraria: scrisse non meno di tredici scritti teologici, di due dei quali – ma sembra si tratti dei due più importanti – ci restano frammenti.
Gli scritti di Costantino Quinto, che dovevano indicare le linee direttive per le risoluzioni del Concilio, rappresentano un essenziale approfondimento della dottrina iconoclastica.
A differenza dei sostenitori del culto delle icone, che facevano una distinzione fondamentale tra l’immagine e il suo archetipo e intendevano l’immagine come un simbolo, nel senso neoplatonico, Costantino Quinti, influenzato da concezioni magico-orientali, postula una perfetta identità, una consustanzialità tra l’immagine e l’archetipo.
Ponendosi sul terreno delle controversie cristologiche si batte soprattutto contro la rappresentazione di Cristo e va molto più in là dei vecchi iconoclasti che combattevano il culto delle immagini soprattutto perché rappresentava uan restaurazione dell’idolatria.
Mentre i difensori del culto delle immagini, come il patriarca Germano e soprattutto Giovanni Damasceno, fondavano la rappresentazione di Cristo sulla sua incarnazione e consideravano la rappresentazione del Salvatore nella sua forma umana una conferma della sua incarnazione, Costantino impugna la possibilità di una vera rappresentazione di Cristo a causa della sua natura divina.
Così da ambedue le parti la controversia iconoclastica viene collegata alla dogmatica cristologica, e la lotta pro o contro il culto delle immagini diventa una prosecuzione, in una forma nuova, delle vecchie dispute cristologiche.
Nelle sue espressioni più radicali l’iconoclastia si intreccia col monofisismo e anche gli scritti di Costantino Quinto, che rappresentava l’ala più radicale della corrente iconoclasta, rivelavano inequivocabilmente delle tendenze monofisite.
Ciò non deve meravigliare, se si tiene presente che il monofisismo non solo predominava alle frontiere dell’Impero, in Siria e Armenia, ma – come aveva dimostrato la reazione monotelita sotto Filippico – esso conservava gli stessi territori dell’Impero.
Pag. 156-57

Con quale durezza venisse condotta questa lotta dal governo di Costantino Quinto, è dimostrato dal comportamento dello stratego tracio Michele Lacanodracone, uno dei più zelanti collaboratori dell’imperatore, che pose i monaci del suo tema di fronte alla scelta di abbandonare l’abito monastico e sposarsi oppure essere accecati e esiliati.
Vi fu una forte emigrazione di monaci, che si diressero verso il sud d’Italia, dove fondarono molti nuovi monasteri e scuole, creando così nuovi centri di cultura greca.
A Bisanzio la marea della lotta iconoclastica montava sempre più: l’imperatore radicalizzò ulteriormente la sua lotta, andando molto oltre le decisioni del Concilio del 754 ed entrando anche in aperta contraddizione con esse: si scagliò non solo contro il culto delle immagini e delle reliquie, ma anche contro il culto dei santi e  la venerazione di Maria.
La vita religiosa dell’Impero bizantino avrebbe subito uan trasformazione completa, se l’opera di Costantino Quinto non fosse crollata con la sua morte.
Nel ricordo della posterità il violento governo di Costantino Quinto venne considerato un’epoca di terrore spietato.
Per secoli il nome di Costantino Copronimo venne ricordato con un odio inestinguibile e dopo la restaurazione dell’ortodossia la sua salma venne allontanata dalla chiesa dei Santi Apostoli.
Ma anche il ricordo dei suoi successi bellici e delle sue gesta eroiche gli sopravvisse, e quando all’inizio del Nono Secolo Bisanzio si trovò sotto la minaccia bulgara, il popolo si riunì attorno alla tomba di Costantino Quinto e implorò il morto imperatore di voler uscire dalla tomba e salvare l’Impero nell’ora del pericolo.
Pag. 159

Il breve governo di Leone Quarto (775-780) rappresenta ip periodo di transizione tra l’apogeo dell’iconoclastia di Costantino Quinto e la restaurazione del culto delle icone sotto Irene.
Leone Quarto, figlio di Costantino Quinto e della sua prima moglie, la principessa cazara, era per natura un uomo incline alla moderazione.
Gli attacchi contro il culto di Maria cessarono, e anche la politica anti monastica che il suo predecessore aveva adottato nella seconda parte del suo regno, venne abbandonata; non solo, ma Leone non esitò ad affidare a monaci più importanti seggi episcopali.
Ciò nonostante non fu capace di fare una svolta completa e seguì la tradizione politica iconoclastica: molti funzionari di corte, sostenitori del culto delle immagini, vennero fustigati pubblicamente e imprigionati (780).
Questo è l’unico casi di persecuzione iconoclastica dell’età di Leone Quarto che ci è stato tramandato: paragonato ai metodi di Costantino Quinto, si trattava di una bena ben mite.
Il freno che fu posto alla persecuzione iconoclastica sotto Leone Quarto era una reazione naturale contro il massimalismo di Costantino Quinto.
A questo si aggiunse l’influenza dell’energica moglie di Leone Quarto, l’imperatrice Irene, che proveniva dall’iconodula Atene ed era essa stessa una sostenitrice del culto delle immagini.
Pag. 159-60

La morte precoce di Leone Quarto (8 settembre 780) portò al trono suo figlio Costantino Sesto, all’età di soli dieci anni.
L’imperatrice Irene prese la reggenza e divise anche ufficialmente il trono con suo figlio minorenne.
Ci fu un nuovo tentativo di usurpazione in favore del cesare Niceforo, ma l’energica imperatrice schiacciò la ribellione – che pare provenisse da elementi iconoclasti e che nelle sue file contava molti alti ufficiali – e costrinse i fratelli del suo defunto marito a farsi preti.
Con il passaggio della conduzione degli affari di governo nelle mani di Irene, la restaurazione del culto delle icone era ormai decisa.
Tuttavia essa venne preparata lentamente e con grande prudenza: un brusco rovesciamento della politica ecclesiastica non era infatti possibile: il sistema iconoclastico aveva dominato per mezzo secolo, le più importanti cariche dello Stato e della Chiesa erano in mano a uomini che, per convinzione o adattamento alle circostanze, ne erano sostenitori, e anche gran parte dell’esercito, fedele alla memoria del glorioso imperatore Costantino Quinto, continuava ad essere iconoclasta.
Pag. 161

Alla presenza di trecentocinquanta vescovi e di un gran numero di monaci, sotto la presidenza del patriarca Tarasio, si tennero a Nicea, dal 24 settembre al 13 ottobre, in rapida successione, sette sedute; il che sta a dimostrare l’accuratezza con cui il Concilio era stato preparato.
Il Concilio si trovò di fronte ad un’importante decisione di politica ecclesiastica con il problema dei vescovi che avevano partecipato ad attività iconoclastiche, ma che sotto i tre governi precedenti, avrebbero avuto molta difficoltà a comportarsi differentemente.
Come disse uno di loro, essi erano “nati, cresciuti ed educati nell’eresia”.
Con accorta moderazione, il Concilio riammise nella comunità della Chiesa quelli che erano stati iconoclasti e che avevano ritrattato la loro eresia di fronte all’assemblea conciliare.
Ma questo atteggiamento tollerante non ottenne l’approvazione dei monaci, e si giunse a discussioni molto violente su questo problema.
Per la prima volta apparve qui la divisione esistente all’interno della Chiesa bizantina, e che si protrarrà per tutto il corso della sua storia.
Da una parte c’era la tendenza radicale dei monaci, dei cosiddetti zeloti, che si attenevano rigorosamente alle prescrizioni canoniche e rifiutavano rigidamente ogni compromesso; dall’altra la tendenza dei cosiddetti politici, che sapeva sottomettersi alla ragione di Stato e alla situazione politica esistente, che collaborava lealmente con il potere temporale, fintanto che questi restava fedele all’ortodossia, e non era contrario a certi compromessi.
Al Concilio di Nicea ebbe il sopravvento la tendenza moderata.
Pag. 162-63

Bisanzio e Carlo Magno

Ma storicamente più importante di tutti gli insuccessi militari in Asia e nei Balcani fu la perdita di prestigio che Bisanzio venne a subire in seguito a quello che contemporaneamente avveniva in Occidente.
Fu una tragedia per il vecchio impero il fatto che, mentre alla testa del regno dei franchi stava uno dei più grandi sovrani del Medioevo, il suo destino si trovasse nelle mani di donne ed eunuchi.
Con la conquista della Baviera, la cristianizzazione e l’assorbimento dei sassoni, l’espansione a spese degli slavi in Oriente, la distruzione del regno degli avari, l’abbattimento e l’annessione del regno dei longobardi, Carlo Magno aveva fatto del suo regno la più grande potenza del mondo cristiano del tempo.
Abbattendo il regno dei longobardi, aveva adempiuto al compito cui Bisanzio si era dimostrata incapace, e questo aveva completamente annientato l’autorità dell’Impero bizantino in Roma.
Quindi la Chiesa romana si alleò ancor più strettamente con il regno dei franchi e si allontanò ulteriormente da Bisanzio.
Questa situazione non poteva essere alterata dal fatto che al Concilio ecumenico di Nicea era stata ristabilita la pace religiosa tra Costantinopoli e Roma, che Bisanzio era tornata all’ortodossia e difendeva con più zelo che mai il culto delle immagini.
Il Concilio di Nicea non aveva portato ad una vera riconciliazione tra le due metropoli.
Roma si aspettava una revoca di tutte le misure prese nel periodo iconoclastico, non solo di quelle religiose, ma anche di quelle politiche; voleva un completo ristabilimento dello stato quo ante, e soprattutto la restituzione dei diritti giurisdizionali di Roma in Italia meridionale e nell’Illirico.
Ma Costantinopoli non voleva saperne di tutto questo.
Al Concilio di Nicea non si era nemmeno parlato di questo problema; il passo della lettera del papa Adriano Primo all’imperatore bizantino che trattava questo problema venne semplicemente tagliato nella traduzione greca che venne letta al Concilio.
Inoltre erano stati anche soppressi i passi in cui il papa si riservava il diritto di censurare l’anti canonica elezione del patriarca Tarasio e protestava contro il titolo di “patriarca ecumenico” di cui Tarasio si fregiava; e soprattutto i passi della lettera papale in cui si parlava del diritto al primato di Roma o anche semplicemente del primato di San Pietro.
Il papato era di fatto eliminato dall’Oriente, come l’Impero bizantino era estromesso dall’Occidente.
Un’alleanza con Costantinopoli non poteva dare più alcun vantaggio alla Chiesa romana, nonostante che ora sembrasse ricostituita l’unità sui più brucianti problemi religiosi del tempo.
Invece un’alleanza con il grande vincitore dei longobardi offriva grandi prospettive, nonostante che un accordo con il re dei franchi sul problema del culto delle immagini apparisse difficoltoso e richiedesse molte concessioni.
Pag. 166-67

Per quanto l’incoronazione imperiale in San Pietro fosse opera del papa, e non del re, dopo che questo passo denso di enormi conseguenze era stato compiuto, Carlo dovette far fronte ai problemi che ne sorgevano; doveva assicurarsi il riconoscimento di Bisanzio, senza di che il suo titolo imperiale sarebbe stato campato in aria.
Ovviamente non si poteva raggiungere lo scopo limitandosi ad affermare che il trono di Costantinopoli era vacante fintanto che fosse stato occupato da una donna, o che Bisanzio – come i Libri Carolini tentavano di dimostrare – era caduta nell’eresia.
Nell’802 ambasciatori di Carlo Magno e del papa vennero inviati a Costantinopoli, con il compito di portare all’imperatrice bizantina una domanda di matrimonio da parte di Carlo, per poter così “riunificare l’Oriente e l’Occidente”.
Ma, dopo il loro arrivo, una congiura di palazzo tolse il trono ad Irene e ritardò quindi la soluzione del problema.
L’azione partiva da alti funzionari e ufficiali dell’Impero e portò sul trono Niceforo, che fino allora era stato logothetes genikou.
Irene venne prima deportata nel isola di Prinkipos e poi a Lesbo, dove morì poco dopo.
Pag. 168-69

Nei confronti dell’Impero d’Occidente l’atteggiamento del governo bizantino mutò radicalmente.
Niceforo Primo non volle saperne delle pretese di Carlo Magno al titolo imperiale; non solo, ma giunse fino al punto di vietare al patriarca Niceforo l’abituale invio al papa dei synodika.
Prese cioè un atteggiamento irriducibilmente ostile non solo nei confronti del suo vero rivale, ma anche del papa che lo appoggiava.
Intanto la potenza di Carlo Magno aumentava irresistibilmente e si estendeva anche su possedimenti bizantini.
Ai tempi di Irene aveva già conquistato l’Istria e molte città della Dalmazia; nell’810 il giovane re Pipino prese anche Venezia.
Carlo possedeva ora un mezzo di pressione che non poteva mancare di avere effetto sull’indebolita Bisanzio.
Il governo di Michele Primo era pronto a riconoscere a Carlo Magno il titolo di imperatore in cambio della restituzione dei territori occupati: nell’812, ad Aquisgrana, Carlo venne salutato basileus dall’ambasciatore bizantino.
Ora esistevano due imperi non più soltanto de facto, ma anche de iure.
Na d’altra parte il re dei franchi era stato riconosciuto soltanto imperatore, non imperatore romano, e lo stesso Carlo ha del resto consapevolmente evitato di definirsi imperatore dei romani.
Questo titolo i bizantini lo riservavano solo a se stessi, sottolineando così la differenza tra l’imperatore occidentale e l’unico vero imperatore dei romani, che risiedeva a Costantinopoli.
Ma il legame con Roma è essenziale alla concezione medievale dell’Impero.
E come Bisanzio si era sempre considerata un impero romano, anche se questo concetto appare solo raramente nel titolo imperiale prima del Nono Secolo, così anche l’Impero occidentale era legato a Roma tramite il papato, anche se ciò trova espressione nel titolo imperiale solo nell’età degli Ottoni.
Quindi, con la formazione e il riconoscimento di un secondo impero, anche il diritto esclusivo dell’Impero bizantino all’eredità di Roma veniva posto in questione.
La disintegrazione dell’Impero carolingio e il nuovo rafforzamento dell’Impero bizantino offrì più tardi agli imperatori di Bisanzio la possibilità di considerare come non avvenuto il riconoscimento dell’Impero d’Occidente dell’812.
Pag. 177

Michele Secondo era ora padrone della situazione, ma Bisanzio era uscita indebolita dalle devastazioni della quasi triennale guerra civile.
Inoltre si era visto che lo Stato bizantino, dilaniato dalle controversie religiose, era anche minato da tensioni sociali.
Il califfo, che aveva appoggiato con tutti i mezzo la sollevazione di Tommaso, non poteva lanciare un vigoroso attacco contro Bisanzio, a causa delle difficoltà interne del suo Impero; ma da altri settori del mondo arabo gravi pericoli minacciavano l’Impero bizantino.
Pirati arabi provenienti dalla Spagna, si impadronirono nell’816 dell’Egitto e vi stabilirono temporaneamente il proprio dominio; e dieci anni dopo occuparono Creta.
Bisanzio veniva così a perdere una delle più importanti roccaforti strategiche nel Mediterraneo orientale.
Tutti i tentativi di Michele Secondo e dei suoi successori per riconquistare il possedimento perduto, furono vani: per quasi un secolo e mezzo gli arabi occuparono l’importante isola, che divenne la base da cui partivano per continue imprese piratesche con le quali terrorizzavano tutta la zona circostante.
Contemporaneamente Bisanzio subiva una grave sconfitta in Occidente.
Approfittando delle discordie tra i comandanti bizantini locali, nell’827 arabi africani sbarcarono in Sicilia.
Incursioni degli arabi sulla Sicilia erano frequenti a partire dal Secolo Settimo, ma ora aveva inizio una conquista sistematica dell’isola.
Il predominio dell’Impero bizantino nel Mediterraneo e in particolare anche nell’Adriatico ne era gravemente scosso.
Costantino Porfirogenito considerò il periodo di Michele Secondo l’epoca del più grave indebolimento dell’influenza bizantina sulla costa adriatica e sulle regioni slave nella parte occidentale della penisola balcanica.
L’aver trascurato la flotta dopo la caduta del califfato degli Omayyadi e della loro potenza navale, ebbe conseguenze disastrose.
Pag. 183

Sotto Teofilo vi fu l’ultima ondata iconoclastica.
Nell’837 il capo degli iconoclasti, Giovanni Grammatico, salì sul seggio patriarcale ed iniziò nuovamente una dura persecuzione dei veneratori di icone.
Come già ai tempi di Costantino Quinto, la lotta iconoclastica culminò nella lotta contro il monachesimo.
Una forma particolare di supplizio venne inflitta a due fratelli palestinesi, Teodoro e Teofane, ai quali vennero impressi  versi iconoclastici sulla fronte con un ferro rovente, per cui vennero poi soprannominati graptoi.
Teofane era poeta, noto per i versi in lode delle sante icone; dopo la restaurazione dell’ortodossia divenne metropolita di Nicea.
Ma per quanto l’imperatore e il patriarca si sforzassero con tutti i mezzi di far rivivere il movimento iconoclastico, la loro impotenza si manifestava sempre più chiaramente.
La sua sfera di influenza si limitava praticamente alla capitale ed era solo la volontà dell’imperatore e dei suoi pochi fedeli collaboratori ad assicurare autorità a questa politica.
Alla morte di Teofilo (20 gennaio 842) l’iconoclastia crollò e così si concluse anche la grande crisi che si era espressa in questo movimento.
Pag. 185

Cap. 4. L’età d’oro dell’Impero bizantino, 843-1025

Come la lotta contro le invasioni persiana e araba fu il periodo decisivo per l’esistenza statuale dell’Impero bizantino, così la crisi iconoclastica lo fu per il suo sviluppo spirituale.
All’invasione militare dell’Oriente era seguita un’invasione spirituale che si riversò sull’Impero nella forma della controversia iconoclastica.
La sua sconfitta ebbe nello sviluppo spirituale dell’Impero bizantino un significato analogo a quello che ebbe la sconfitta militare nel suo sviluppo politico.
Il crollo del movimento iconoclasta significava la vittoria delle particolarità religiose e culturali greche su quelle asiatiche, personificate nell’iconoclastia.
Come Impero greco-cristiano, Bisanzio aveva ora anche dal punto di vista cultuale la sua ubicazione propria tra l’Oriente e l’Occidente.
Una nuova età si apriva per Bisanzio: un’età di grande risorgimento culturale, cui seguì ben presto anche un grande sviluppo politico.
Non fu la dinastia macedonica, bensì il movimentato regno dell’ultimo degli Amoriti, Michele Terzo, ad aprire la nuova età.
Barda, Fozio, Costantino, sono le tre grandi figure che annunciano l’inizio di una nuova era.
L’epoca della crisi iconoclastica fu caratterizzata da un sensibile restringimento dell’orizzonte politico.
E’ in questo periodo che ha luogo il più accentuato decadimento dell’ideale dell’impero universale e il crollo della potenza bizantina in Occidente.
La politica ecclesiastica degli imperatori iconoclasti e il loro scarso interesse per la parte occidentale dell’Impero accelerò la separazione tra Bisanzio e l’Occidente  e provocò il processo che, attraverso la fondazione dello Stato della Chiesa, portò all’incoronazione imperiale di Carlo Magno.
Ma se nell’universalismo dello Stato bizantino si erano aperte grosse falle, ora l’Oriente da parte sua doveva sottrarsi all’universalismo della Chiesa romana, e già l’iconoclasta Costantino Quinto aveva compiuto il primo passo in questo senso quando sottopose la maggior parte della penisola balcanica e l’Italia meridionale alla giurisdizione del patriarcato di Costantinopoli.
Ma solo dopo il superamento della crisi iconoclastica il patriarcato di Costantinopoli poté contrapporsi al papato come un rivale sullo stesso piano e intraprendere la lotta contro Roma.
Così come l’Impero occidentale si innalza a spese dell’universalismo statale bizantino, così ora il patriarcato di Costantinopoli si innalza a spese dell’universalismo ecclesiastico romano.
La prima fase di questo processo, che si concluse a svantaggio di Bisanzio, ebbe luogo nel periodo della crisi; la seconda, che ristabilì su nuove basi l’equilibrio a favore di Bisanzio, venne introdotta dalla grande lotta di Fozio.
Pag. 200-201

Ma di fronte ad un compio molto più importante pose lui e suo fratello Metodio l’appello del principe moravo Rotislao, che mandò un’ambasceria a Costantinopoli chiedendo l’invio di missionari.
Il fatto che Rotislao si rivolgesse a Bisanzio si spiega con il timore dell’influenza del clero franco e con il desiderio di crearsi, appoggiandosi a Bisanzio, un contrappeso contro il pericolo di un accerchiamento franco-bulgaro.
A Bisanzio si apriva invece la possibilità di portare la propria influenza in un territorio nuovo, molto lontano, e di esercitare in questo modo una pressione sulla Bulgaria, situata tra i due paesi.
Una dimostrazione dell’accortezza della direzione politica ed ecclesiastica bizantine è il fatto che essa affidò l’importante missione ai fratelli di Tessalonica e fece predicare in territorio slavo la nuova fede in lingua slava.
Condividono il merito della conquista degli slavi alla fede cristiana Costantino e Metodio insieme con il patriarca Fozio e il cesare Barda.
La cristianizzazione degli slavi abitanti nell’Impero era stata compiuta dai bizantini già da molto tempo.
Ma solo ora aveva inizio il periodo di vasta attività missionaria nell’ampio mondo slavo oltre i confini dell’Impero.
Costantino creò anzitutto un alfabeto slavo (il cosiddetto alfabeto glagolitico) e procedette quindi alla traduzione della Sacra Scrittura in slavo (nel dialetto macedonico-slavo).
Anche le funzioni religiose vennero dai fratelli di Tessalonica celebrate in slavo.
Il successo della missione era così assicurato.
Più tardi Metodio – dopo la prematura morte di Costantino, che si estinse il 14 febbraio 869 in un monastero greco di Roma, sotto il nome di Cirillo – soccombette nella lotta contro il clero franco, giacché l’appoggio di Bisanzio non aveva in quella lontana regione l’efficacia sufficiente, mentre Roma, dopo averlo appoggiato all’inizio, lo abbandonò; i suoi discepoli vennero espulsi dal paese.
Ma ciò nonostante l’opera sua e del suo grande fratello radicò profondamente la cultura bizantina nelle regioni slave e produsse ricchi frutti.
Per gli slavi meridionali e orientali essa ebbe una importanza incancellabile.
La scrittura, agli inizi della loro letteratura e cultura nazionale questi popoli li debbono ai fratelli di Tessalonica, agli “apostoli degli slavi”.
Pag. 209

Il conflitto tra Roma e Costantinopoli giunse al culmine.
Oppositore di Roma, Fozio divenne non solo il campione dell’indipendenza della Chiesa bizantina, ma anche il campione degli interessi vitali dell’Impero bizantino.
Senza riserve il cesare Barda e l’imperatore Michele Terzo si schierarono dietro il grande patriarca.
L’imperatore inviò al papa una lettera che esprime con un orgoglio senza precedenti la coscienza dell’indipendenza e della superiorità di Bisanzio.
In forma ultimativa vi si chiedeva la revoca del giudizio papale contro Fozio e veniva respinta con asprezza tagliente la pretesa romana al primato.
Il patriarca andò ancora più in là: si eresse a giudice della Chiesa occidentale, accusandola di errori in problemi liturgici e disciplinari, e soprattutto attaccò la dottrina occidentale della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio (ex patre filioque).
Fozio, che il papa credeva di poter chiamare davanti a sé in qualità di imputato, accusava Roma di eresia, in nome dell’ortodossia.
Nell’867 un sinodo riunito a Costantinopoli sotto la presidenza dell’imperatore scomunicò papa Niccolò, condannò per eresia la dottrina romana della processione dello Spirito Santo e dichiarò illegali le intrusioni romane nelle questioni della Chiesa bizantina.
Venne mandata una circolare ai patriarchi orientali in cui si trattavano e si condannavano duramente le dottrine e gli usi eterodossi della Chiesa romana e, soprattutto, di nuovo, il Filioque.
Pag. 210-11

Particolare considerazione meritano quelle novellae di Leone Sesto in cui vengono revocati gli antichi diritti delle curie cittadine e del Senato.
D’altronde l’ordine curiale era già da tempo decaduto, così come l’autorità amministrativa e legislativa del Senato esisteva solo sulla carta.
Ciò non toglie importanza alla sua definitiva abolizione per decreto legale, perché in ognuna delle tre novellae essa viene esplicitamente motivata col fatto che ormai l’intera amministrazione dell’Impero è nelle mani del sovrano.
La legislazione di Leone Sesto rappresenta la conclusione di un importante processo storico, che riunisce tutto il potere dello Stato nelle mani dell’imperatore e affida tutte le questioni statali alla cura dell’apparato dei funzionari imperiali.
L’onnipotenza dell’imperatore e la burocratizzazione della vita dello Stato giungono sotto la dinastia macedone a pieno sviluppo.
Il Senato, composto dei più alti funzionari, conduce ora un’esistenza apparente e ha ormai perso, non solo le sue vecchie funzioni, ma anche quel significato che aveva nel Settimo e Ottavo Secolo.
Lo Stato si identifica con l’imperatore e il suo apparato militare e burocratico.
L’imperatore è eletto da Dio, e sta sotto la protezione della provvidenza divina.
Egli è il capo supremo di tutta l’amministrazione imperiale, capo supremo dell’esercito, giudice supremo e unico legislatore, protettore della Chiesa e custode della fede ortodossa.
Egli decide sulla guerra e sulla pace, la sua sentenza è definitiva e irrevocabile, le sue leggi sono considerate come ispirate da Dio.
D’altra parte egli si deve attenere al diritto vigente, ma può emanare nuove leggi o revocarne di vecchie.
Coem capo dello Stato, l’imperatore possiede praticamente un potere illimitato, ed è legato solo dai precetti della morale e della tradizione.
Pag. 220

L’organizzazione dei temi giunse ad una certa conclusione verso la fine del Secolo Nono.
In conseguenza della progressiva suddivisione dei grandi temi originari in unità più piccole e dell’introduzione dell’ordinamento dei temi in altre regioni, il numero dei temi fu molto accresciuto e contemporaneamente si ottenne una notevole semplificazione nell’amministrazione civile delle province.
Dal momento che i temi del Nono Secolo erano poco più grandi delle vecchie province, , il proconsolato dei temi si fuse con il governo delle province.
Nella seconda metà del Nono Secolo venne abolito anche l’ufficio di proconsole di tema e con ciò scomparve l’ultimo residuo dell’ordinamento dioclezianeo-costantiniano.
Alla testa dell’amministrazione civile i protonotarioi dei temi, che prima dirigevano la cancelleria proconsolare, sostituiscono gli anthypatoi.
Ne risultò che il predominio del potere militare dello stratego divenne ancora più evidente.
Allo stesso modo la varietà nella più antica organizzazione dei temi lascia il posto a un sistema compatto e strettamente unificato, poiché anche le diverse minori circoscrizioni militari – cleisure, arcontie, ducati, catapanati, drungariati -  che si erano formate accanto alle unità propriamente dette dei temi, ricevono via via il rango di tema.
Pag. 221

La descrizione dettagliata di questa spedizione, contenuta nel Libro delle cerimonie di Costantino Settimo, menziona fra le forze bizantine anche settecento marinai russi, che ebbero per ricompensa un kentenarion aureo.
La partecipazione di russi ad una campagna militare bizantina è una conseguenza dei nuovi rapporti russo-bizantini.
Il principe russo Oleg, che si era stabilito a Kiev, e si era assicurata la “via dei variaghi ai greci”, era apparso nel 907 con una potente flotta davanti a Costantinopoli ed era riuscito a strappare al governo bizantino un trattato che garantiva la posizione giuridica dei mercanti russi che andavano a Bisanzio.
Questo trattato, che venne ufficialmente ratificato nel settembre del 922, segna l’inizio di regolari rapporti commerciali tra Bisanzio e il giovane regno russo.
Tra l’altro esso assicurò anche ai russi il diritto di partecipare alle campagne militari dell’Impero.
Pag. 229-30

Il fatto che l’espansione degli elementi economicamente più forti si rivolgesse soprattutto all’agricoltura e all’acquisto di beni dei contadini, si spiega anche con la situazione in cui si trovava allora l’economia bizantina.
Nella città il governo pose al libero gioco delle forze economiche limiti ancor più rigidi che nella campagna.
L’economia urbana, legata e strettamente controllata non lasciava alcun posto per un’iniziativa privata di grande estensione e per i capitali eccedenti l’acquisto di terre restava in pratica l’unico investimento possibile.
Il movimento di espansione della nobiltà latifondista si manifestò in due modi.
Da una parte avvenne attraverso l’assorbimento della piccola proprietà terriera nelle province bizantine, minando l’esistente ordinamento socio-economico in Bisanzio; dall’altra estese i confini dell’Impero riuscendo a strappare terre anche ai nemici dell’Impero.
Le conquiste bizantine in Oriente furono soprattutto opera dell’aristocrazia dell’Asia Minore.
Ma allo stesso tempo esse sono un effetto di un forte entusiasmo religioso che ispirò Bisanzio nella sua lotta contro gli infedeli.
Pag. 253

Ma il periodo del poderoso sviluppo della potenza dell’Impero bizantino fu anche il periodo del rinnovamento dell’Impero occidentale.
Si risvegliò la rivalità tra i due imperi, che ideologicamente aveva le sue basi nell’idea dell’unicità dell’Impero e nel fatto che l’uno e l’altro rivendicavano a sé l’eredità di Roma; e politicamente negli interessi delle due potenze che si scontravano nel sud d’Italia.
Ottone il Grande, che aveva ricevuto a Roma la corona imperiale un anno prima dell’ascesa al trono di Niceforo Foca, e che aveva conquistato quasi tutta l’Italia, inviò nel 658 un’ambasceria a Costantinopoli allo scopo di giungere ad un’amichevole intesa sul possesso di quella parte d’Italia che non era ancora caduta nelle sue mani.
Il suo ambasciatore, il vescovo Liutprando di Cremona, che era stato a Costantinopoli già ne 949, sotto Costantino Settimo, per incarico di Berengario Secondo, sottopose al governo bizantino il progetto di un’unione matrimoniale ra il figlio di Ottone Primo e una sorella del giovane imperatore Porfirogenito di Bisanzio, la cui dote avrebbero dovuto essere i possedimenti dell’Impero bizantino in Italia meridionale.
Questa proposta venne a Bisanzio accolta come uno scherno e le si rispose con scherno.
L’imperatore bizantino vedeva che con i recenti avvenimenti in Occidente gli interessi e il prestigio del suo impero erano danneggiati sotto vari punti di vista.
Il fatto che Ottone avesse preso la corona imperiale, si fosse eretto a padrone di Roma e della Chiesa romana, si fosse impadronito di quasi tutta l’Italia, si fosse alleato con i principi di Capua e Benevento, che erano vassalli dell’Impero bizantino, che dopo gli straordinari successi delle sue più recenti imprese in Oriente, era più che mai consapevole della propria potenza.
Il coraggioso messaggero di Ottone il Grande, che a Costantinopoli venne trattato quasi come un prigioniero, si dovette lasciar spiegare che il suo signore non era né imperatore né romano, ma un semplice re barbaro e che di un matrimonio tra un sovrano barbaro e una principessa imperiale porfirogenita non era nemmeno il caso di parlare.
Pag. 254-55

Analogamente a Niceforo Foca, Zimisce, apparteneva all’alta aristocrazia.
Da parte paterna era imparentato con al famiglia dei Curcuas, da parte materna con la stessa famiglia dei Foca, e la sua prima moglie era una Sclerina.
Al contrario diversamente dai suoi predecessori egli non fu accondiscendente nella politica agraria alla nobiltà.
Si conservano due documenti che indicano come Zimisce ordinò ai funzionari dei temi di fare inchiesta nelle proprietà dei chiostri e dei latifondisti e, se ci trovavano antichi stratioti o contadini dipendenti dello Stato, immediatamente li conducessero di nuovo sotto l’amministrazione statale.
Da questo esempio si può chiaramente capire che l’amministrazione centrale bizantina nella lotta contro lo sviluppo del latifondo difendeva i suoi particolari interessi e diritti.
Per non lasciarsi scappare di mano i contadini a sé obbligati e i soldati, il governo imperiale organizzò severe misure di polizia, permise razzie sui beni dei potenti e rispedì alle loro originarie residenze con la forza quegli stratioti e contadini statali che non avessero preso domicilio in quelle terre.
Così mutò facilmente gli antichi piccoli proprietari indipendenti in paroikoi dello Stato, in quanto non solo non concesse loro il diritto della libera disposizione sui loro fondi, ma tolse anche la libertà di domicilio.
Pag. 257

Sebbene i diritti imperiali del rappresentante legittimo della dinastia macedone, come già noto sotto Niceforo Foza, fossero rimasti incontestati anche sotto Giovanni Zimisce, l’idea che il trono spettasse proprio al Porfirogenito, si era andata progressivamente spegnendo nella coscienza dei magnati bizantini.
Ci si era abituati a veder cadere il potere nelle mani di un generale appartenente alle famiglie magnatizie.
Così dopo la morte di Giovanni Zimisce, suo cognato Barda Sclero si fece avanti nella speranza di occupare il posto vacante di co-imperatore.
Sembrava che alla dinastia imperiale macedone fosse riservato il destino di essere vittima, come già i merovingi, di maggiordomi più potenti di loro, oppure, come il califfo di Bagdad rispetto a un sultanato militare strapotente, di continuare a condurre nell’ombra un’esistenza meramente decorativa.
Solo per la straordinaria energia del giovane imperatore Basilio Secondo la sua dinastia riuscì a sfuggire a questo destino.
Pag. 260

Ufficialmente il regno autocratico di Basilio Secondo inizia a partire dal 976 ma il suo regno indipendente cominciò solo dopo la caduta del grande eunuco nel 985.
Quanto assoluta fosse stata l’onnipotenza del parakoimomenos, e quanto forte e resistente sia stato il risentimento dell’imperatore per essere stato tenuto in disparte, si manifestò nel fatto che egli si considerò autorizzato a dichiarare prive di validità le leggi promulgate prima dell’allontanamento del suo prozio, a meno che non contenessero uan nota di conferma retrospettiva scritta di proprio pugno: giacché “nel periodo che va dall’inizio del nostro regno autocratico alla deposizione del parakoimomenos Basilio… molte cose accaddero non secondo il nostro desideri, ma la sua volontà disponeva e decideva tutto”.
Pag. 262

La cristianizzazione dello Stato di Kiev non rappresentava soltanto l’inizio di una nuova era per lo sviluppo della Russia, ma anche uno straordinario successo di Bisanzio.
La sfera di influenza bizantina si allargò così in un modo insperato, e lo Stato slavo più grande e dalle più grandi prospettive per il futuro si poneva sotto la direzione spirituale di Costantinopoli.
La nuova Chiesa russa era subordinata al patriarcato di Costantinopoli e venne diretta all’inizio da metropoliti greci inviati da Bisanzio.
Lo sviluppo culturale della Russia si sarebbe svolto per lungo tempo sotto una forte influenza bizantina.
Pag. 264-65

Prima della sua morte l’instancabile imperatore rivolse la sua attenzione all’Occidente.
La posizione bizantina in Italia meridionale, che sembrava minacciata a partire dai tempi di Ottone il Grande dall’avanzata dell’Impero germanico, si era venuta a trovare rafforzata in seguito allo sfortunato esito della guerra di Ottone Secondo contro gli arabi.
L’idea di una renovatio romana sotto il giovane imperatore Ottone Terzo (il figlio della bizantina Teofano) rappresentava un approfondimento dell’influenza bizantina all’interno dell’Impero occidentale.
Con l’unificazione di tutti i possedimenti bizantini in un catepanato, la posizione bizantina veniva ad avere una più forte base anche dal punto di vista organizzativo.
L’energico catepano Basilio Bioanne aveva conseguito varie vittorie sui nemici dell’Impero bizantino.
Basilio Secondo aveva l’intenzione di portare avanti questi successi e preparò una grande spedizione contro gli arabi in Sicilia.
Ma il 15 dicembre 1025 morì, lasciando un impero che dalle montagne dell’Armenia si estendeva fino all’Adriatico e dall’Eufrate fino al Danubio.
Un grande impero slavo era stato ad esso incorporato e un altro, ancor più grande, era posto sotto la sua influenza spirituale.
Ancora nel Tredicesimo Secolo uno scrittore chiamerà Eraclio e Basilio Secondo i più grandi imperatori di Bisanzio.
In effetti questi nomi, i più grandi della storia bizantina, simbolizzano l’età eroica di Bisanzio, che l’uno dei due inaugurò e l’altro concluse.
Pag. 271

Cap. 5. Il dominio dell’aristocrazia burocratica della capitale, 1025-81

La morte di Basilio Secondo segna una svolta nella storia bizantina.
Essa fu seguita da un’epoca in cui, mentre nella politica estera l’Impero vive del prestigio acquistato nel periodo precedente, all’interno lascia via libera al processo di dissolvimento.
Dopo le grandi gesta degli ultimi tre imperatori Bisanzio sembrava invincibile, ed ebbe inizio un periodo di relativa pace quale l’Impero non aveva quasi mai vissuto.
Questo periodo di pace non fu però per Bisanzio un’epoca di raccoglimento e consolidamento, bensì un’epoca di rilassamento interno.
Ha inizio la dissoluzione del sistema che Eraclio aveva creato e che Basilio Secondo aveva per ultimo mantenuto.
I deboli successori di Basilio Secondo non avevano la capacità di portare avanti la lotta contro i signori feudali.
Lo sgretolamento delle proprietà dei contadini e dei soldati procede a passi da gigante e porta alla decadenza della forza militare e del sistema tributario dello Stato bizantino.
La struttura economica e sociale dell’Impero subisce una trasformazione radicale.
Il potere imperiale di Bisanzio rinuncia non solo alla lotta contro l’aristocrazia feudale, ma diventa esso stesso il rappresentante di questa classe sempre più forte.
L’aristocrazia fondiaria ha vinto la partita e ci si domanda solo quale parte di questo settore conquisterà il predominio: l’aristocrazia burocratica o quella militare.
La storia bizantina dei prossimi decenni, che a prima vista non sembra altro che un susseguirsi di intrighi di palazzo, è determinata dalla lotta tra le potenze concorrenti della nobiltà civile della capitale e dalla nobiltà militare della provincia.
All’inizio è la seconda (che in sé era più forte, ma che era stata indebolita da Basilio Secondo) ad avere la peggio e l’aristocrazia civile della capitale prende il sopravvento.
Il suo dominio caratterizza l’inizio della nuova epoca.
I numerosi intrighi di palazzo non sono che una manifestazione secondaria di questo regime; i suoi effetti più importanti sono da una parte la fioritura culturale della capitale, dall’altra la decadenza della potenza militare dell’Impero.
Pag. 294

 Nell’ultimo anno del debole governo di Costantino Nono ha luogo un evento di rilevanza mondiale: lo scisma tra le Chiese.
Dopo gli avvenimenti dei secoli precedenti lo scisma religioso definitivo tra Roma e Costantinopoli era soltanto una questione di tempo.
L’Oriente e l’Occidente si erano sviluppati secondo direttrici troppo divergenti, troppo profonde erano la separazione tra le due metropoli e i contrasti che si accumulavano nei campi più diversi.
La finzione di un’unità spirituale e religiosa non poteva quindi durare molto tempo.
Per la conservazione dell’universalismo della Chiesa mancavano tutte le condizioni: da secoli il mondo cristiano comprendeva nel suo seno forze che tendevano in direzioni opposte sia sul terreno politico che su quello culturale.
Non fu, contrariamente a quanto si è spesso pensato, il “cesaropapismo” bizantino a provocare la rottura.
Al contrario, a Bisanzio era proprio l’Impero il fattore più forte in favore dell’unità.
Per salvare l’universalismo statale bizantino, per potere continuare a sostenere le proprie rivendicazioni sull’Italia, gli imperatori bizantini – si pensi alla politica di Basilio Primo e dei suoi successori – hanno sostenuto, contro la loro propria Chiesa, l’universalismo ecclesiastico romano.
Ma così come l’indipendenza politica dell’Occidente aveva tolto le basi all’universalismo statuale bizantino, così la conquista del mondo slavo da parte della Chiesa di Costantinopoli aveva in Oriente sottratto il terreno all’universalismo ecclesiastico romano.
All’annessione ecclesiastica degli slavi del sud si era aggiunta l’annessione della Russia al patriarcato di Costantinopoli, e non è certo un caso che poco dopo questo avvenimento avesse luogo a Bisanzio un’acutizzazione della tendenza antiromana.
La Chiesa bizantina, che si appoggiava sul forte retroterra slavo, non poteva più piegarsi davanti alla supremazia romana.
Già fin dai tempi di Basilio Secondo, non si potevano più conservare le relazioni amichevoli con Roma, che erano state tradizionali nella politica della dinastia macedone; sotto il patriarca Sergio (999-1019) il nome del papa non compare nei dittici.
Nel 1024 il debole papato accettò un compromesso pacifico, in base al quale la Chiesa di Costantinopoli avrebbe dovuto essere riconosciuta come “universale nella sua sfera”.
Ma questa soluzione di compromesso venne vanificata dal nuovo spirito che emanava dal movimento di riforma di Cluny.
Si giunse così alla divisione delle sfere d’influenza verso cui tendeva lo stesso sviluppo del processo storico, solo che essa avvenne attraverso uan rottura violenta.
Pag. 305-6

Sembrava che l’imperatore avesse vinto. Ma ben presto si vide che il patriarca morto era per lui ancor più pericoloso, come martire che come avversario vivo.
L’eccitazione del popolo, che non si era interrotta da quando il suo pastore era stato esiliato, raggiunse il culmine dopo la sua morte.
All’opposizione dell’aristocrazia burocratica si aggiunse l’inimicizia della Chiesa e il risentimento del popolo.
Le difficoltà diventarono sempre maggiori e alla fine divennero insostenibili per l’imperatore.
Così come l’alleanza della Chiesa con l’aristocrazia militare aveva due anni prima determinato la caduta militare di Michele Sesto, così ora la sua alleanza con l’opposizione dell’aristocrazia burocratica condusse alla caduta di Isacco Comneno.
Nel dicembre del 1059, in un momento di scoraggiamento, mentre era ammalato, seguendo gli insistenti consigli di Psello, depose la porpora e si ritirò a vita monacale nel monastero dello Studita.
Pag. 310

Molto più carica di conseguenze questa invasione delle popolazioni turche del Settentrione fu per la storia dell’Impero l’avanzata dei turchi Selgiuchidi in Oriente.
I residui della potenza araba in Asia vennero eliminati dai Selgiuchidi con una rapidità che fa impallidire al confronto le glorie delle antiche conquista bizantine.
Sottomisero il territorio persiano, attraversarono la Mesopotamia e si impadronirono si Bagdad, la capitale del califfato, cui ora non restava che una supremazia religiosa.
Il califfato cadde sotto il protettorato del potente sultanato militare, che d’ora in avanti domina politicamente il mondo musulmano in Asia.
Ben presto tutto il Vicino Oriente fino ai confini dell’Impero bizantino e del califfato fatimida d’Egitto era caduto nelle mani dei Selgiuchidi, che ora si dirigevano verso Bisanzio.
Come la conquista della Bulgaria aveva eliminato lo Stato cuscinetto tra l’Impero e i popoli nomadi del Settentrione, così con l’annessione dell’Armenia sotto Costantino Nono si era offerto ai Selgiuchidi una nuova base di attacco.
Ma la debolezza interna dell’Impero e il collasso della sua potenza militare aprì loro ben presto anche la via per penetrar nel cuore del territorio dell’Impero.
Sotto Alp Arslan, il secondo dei sultani selgiuchidi, i turchi percorsero l’Armenia e occuparono Ani (1065), saccheggiarono la Cilicia, irruppero in Asia Minore ed espugnarono cesarea (1067).
Con questo la politica dei contemporanei governanti bizantini si era condannata da sé.
Pag. 312

Il crollo avvenne contemporaneamente ai due estremi del mondo bizantino.
Il destino volle che nello stesso anno 1071 in cui ebbe luogo la catastrofe di Mantzikert, Bari cadde nelle mani di Roberto il Guiscardo.
La conquista normanna dei possedimenti bizantini in Italia si era così completata e un grande pericolo incombeva anche da questa parte.
In questa situazione il governo di Michele Settimo si rivolse a Gregorio Settimo alla ricerca di aiuto, favorendo così l’aspirazione del grande papa all’unione ecclesiastica sulla base della supremazia romana.
Pag. 314

Cap. 6. Il dominio dell’aristocrazia militare, 1081-1204

Nel triste periodo che va dalla morte di Basilio Secondo all’ascesa al trono di Alessio Comneno, la politica estera dell’Impero registrava il crollo completo della potenza bizantina in Asia, la perdita definitiva dei possedimenti italiani e un notevole indebolimento dell’autorità bizantina sulla penisola iberica.
La situazione interna era caratterizzata da una grave paralisi del potere centrale, da serie difficoltà economiche, dalla svalutazione della moneta e dalla disgregazione del sistema economico-sociale dell’Impero bizantino del periodo precedente.
Alessio Primo (1081-1118) fu costretto a porre su nuove basi la sua opera restauratrice e nuovi elementi divennero i pilastri dell’edificio statuale da lui costruito.
Ma la sua opera di restaurazione poté avere un successo soltanto apparente e provvisorio.
Già nel primo Medioevo, al tempo di Eraclio e di Leone Terzo, era sembrato che Bisanzio fosse sull’orlo del crollo.
Ma allora l’Impero possedeva forze interne inutilizzate, che resero possibile una lunga politica di ricostruzione, e attraverso tutte le tempeste esso riuscì a conservare l’Asia Minore, il vero cuore dell’Impero.
Così esso riuscì non solo a risorgere, ma anche a riconquistare gradualmente l’egemonia  - sia per terra che sul mare – in tutto il bacino orientale del Mediterraneo.
Ora invece l’Impero era internamente esausto: il sistema su cui nei secoli precedenti si era basata la sua forza, era crollato e la base principale della sua potenza, l’Asia Minore, era stata abbandonata quasi senza resistenza proprio per questa ragione.
L’opera restauratrice dei Comneni si limitò qui ai territori costieri, mentre il dominio sul mare venne definitivamente perso da Bisanzio proprio in questo periodo.
Sia dal punto di vista strategico, sia da quello commerciale l’egemonia passò alle repubbliche marinare italiane; questo fatto rappresenta la svolta storicamente più importante di questo periodo e rivela la superiorità delle forze che si sviluppavano nell’Occidente, che avrebbero provocato la catastrofe bizantina del 1204.
La posizione di grande potenza che Bisanzio volle assumere sotto i Comneni mancava di solidità interna, e per questo i sia pur imponenti risultati dell’accorta politica dei Comneni mancarono di un effetto durevole.
Pag. 326-27

Qui apparve con tutta chiarezza il fattore che d’ora innanzi determinerà la politica militare e diplomatica di Venezia.
La repubblica marinara doveva assicurarsi a qualsiasi prezzo la libertà di movimento sull’Adriatico e, per questo, evitare ad ogni costo l’insediamento di una potenza su ambedue le coste del mare.
Per tale ragione in quel momento Roberto il Guiscardo era il nemico e Bisanzio la naturale alleata di Venezia.
Ma per Bisanzio l’appoggio della potenza marittima di Venezia era particolarmente importante, giacché la flotta bizantina si era indebolita ancor più dell’esercito di terra e sul mare l’Impero appariva praticamente impotente.
Pag. 328

Infatti, durante gli anni difficili della minaccia dei Selgiuchidi e dei Peceneghi come pure in altre occasioni, l’imperatore bizantino aveva cercato di reclutare truppe ausiliarie in Occidente: tra l’altro sembra che egli abbia allora scritto al conte Roberto di Fiandra, che gli aveva fatto visita alla fine del 1089 o all’inizio del 1090 in occasione di un pellegrinaggio e gli aveva prestato giuramento di fedeltà e la promessa id inviare cinquecento cavalieri fiamminghi.
Allo stesso scopo serviva in fondo anche la sua richiesta di aiuto a Roma e le trattative con Urbano Secondo per la riunificazione ecclesiastica.
Non desiderava né si attendeva la svolta che presero gli avvenimenti.
Vide avvicinarsi i crociati in un momento in cui la situazione del suo impero era migliorata in modo decisivo e in cui lo stesso avrebbe potuto intraprendere una crociata.
La sua posizione di protettore della cristianità orientale veniva usurpata dai crociati, il suo impero, che dopo quindici anni di lunga e spossante guerra difensiva era riuscito a liberare dai pericoli più urgenti, veniva ricacciato in nuove e impreviste difficoltà.
Nessuno poteva ancora prevedere che alla lunga la guerra santa dell’Occidente contro gli infedeli si sarebbe convertita in una guerra a morte contro la scismatica Bisanzio, ma fin dall’inizio i fratelli occidentali vennero ricevuti con la più profonda diffidenza.
Già allora si credeva spesso ad una nuova invasione straniera e la comparsa dei crociati sembrò giustificare questa interpretazione.
Il loro arrivo venne preannunciato dal cosiddetto eremita Pietro d’Amiens.
Lo seguiva una torma di gente raccogliticcia e già il loro passaggio per l’Ungheria e le regioni balcaniche queste orde indisciplinate e affamate si erano abbandonate a tali saccheggi che fu necessario più di una volta combatterli a mano armata.
Il Primo Agosto giunsero a Costantinopoli, dove proseguirono i loro saccheggi, per cui l’imperatore li fece trasportare al di là del Bosforo.
Ma in Asia Minore queste orde male armate vennero sconfitte dai turchi e solo una piccola parte riuscì a fuggire a Costantinopoli sulle navi che l’imperatore bizantino aveva posto a loro disposizione.
Pag. 331-32

Dopo una serie di guerre durata quasi quattro decenni, Alessio Comneno era riuscito a ristabilire in misura notevole la potenza dell’Impero bizantino.
In ogni sua fase questa lotta è una testimonianza della grandezza politica e dell’incomparabile arte diplomatica dei Comneni.
Contro Roberto il Guiscardo aveva saputo servirsi di Venezia, contro Tsacha degli emiri rivali; aveva sconfitto i Pecenighi con l’aiuto dei Cumani, si era servito dei crociati contro i turchi e dei turchi contro i crociati.
Ma oltre a questa accorta utilizzazione di forze straniere, sapeva anche utilizzare in misura maggiore le forze proprie.
Di guerra in guerra e di anno in anno si assiste ad un aumento della forza militare bizantina.
Una potenza marittima bizantina ai tempi della guerra contro Roberto il Guiscardo non esisteva nemmeno; invece nella guerra contro Tsacha e soprattutto in quella contro Boemondo prese parte attiva una flotta bizantina, che conseguì notevoli successi.
Le sconfitte della prima fase vennero compensate dalle vittoriose campagne contro Cumani e Selgiuchidi e il rafforzamento dell’armata bizantini si vede con tutta chiarezza se si confrontano i due scontri con i normanni sulla costa orientale dell’Adriatico.
Alessio Primo non solo allargò i confini, ma rafforzò l’Impero anche internamente e restaurò la sua forza militare.
Ma d’altra parte il sistema statale che costruì era del tutto diverso dal rigido regime statale dei periodo bizantino di mezzo.
I preoccupanti fenomeni apparsi nel Secolo Undicesimo, come l’appalto dell’esazione dei tributi, la concessione di immunità a proprietari terrieri laici ed ecclesiastici, la svalutazione della moneta, continuano a sussistere e acquistano perfino più vaste proporzioni.
Un nuovo fattore che vi si aggiunge è la penetrazione delle repubbliche marinare italiane nel commercio bizantino: a partire dal 1082 Venezia diventa onnipotente nelle acque bizantine, e con un trattato dell’ottobre 1111 Alessio Primo concesse importanti privilegi commerciali anche a Pisa.
Pag. 335

La decadenza dell’esercito e la grave mancanza di denaro sono i due momenti che caratterizzano la situazione interna dell’Impero bizantino a partire dalla metà del Secolo Undicesimo e dai quali è condizionata in primo luogo anche la politica interna di Alessio Primo.
La svalutazione della moneta, che era iniziata alla metà dell’Undicesimo Secolo, si aggravò notevolmente sotto Alessio Comneno, sicché, accanto ai vecchi nomisma d’oro di valore pieno, circolavano nuove monete di lega inferiore e di vario valore.
Questa situazione provocò naturalmente una grande confusione nella vita economica, ma allo stesso tempo diede anche certi vantaggi al fisco, che emetteva denaro di basso conio, ma pretendeva che i tributi venissero pagati in nomisma di pieno valore.
Ma una tale situazione non poteva durare a lungo e ben presto lo Stato fu costretto ad accettare anche monete di basso conio.
All’inizio il valore di scambio delle monete fu soggetto a straordinarie oscillazioni e gli appaltatori dell’esazione dei tributi lo calcolavano secondo i loro interessi, arricchendosi così nel modo più scandaloso; ma poi l’imperatore stabilì che un nomisma venisse scambiato con quattro milaresia, ammettendo così ufficialmente che ormai la moneta aurea bizantina non possedeva più che la terza parte del suo valore originario.
Ma alle tasse principali vennero aggiunte un gran numero di tasse supplementari, chiamate dikeraton, exafollon, synetheia e elatikon, e che, tutte insieme, corrispondevano a circa il 23% dell’importo delle tasse principali.
Nello stabilire la tassa principale, si attribuiva alla moneta aurea un terzo del suo valore originario, ma per quanto riguarda le tasse supplementari, essa veniva calcolata all’inizio secondo il vecchio rapporto di scambio.
Se coloro che pagavano le tasse protestavano, l’imperatore adottava uan soluzione intermedia e autorizzava il dimezzamento delle tasse supplementari.
Questo metodo permise di aumentare del 50% l’importo delle tasse supplementari, ma in pratica il guadagno del fisco era ancora più grande, giacché queste tasse venivano calcolate sulla base di un ammontare fisso delle tasse principali e a causa della svalutazione della moneta aurea l’importo nominale sulle tasse era proporzionalmente aumentato, con la conseguente imposizione del pagamento delle tasse supplementari anche ai ceti più poveri che prima ne erano esentati.
L’imperatore poté così trarre accortamente un notevole vantaggio dalla svalutazione della moneta.
Pag. 337

Non solo l’Impero stesso, ma anche l’autorità dell’imperatore si rafforzò sotto il regno di Alessio Comneno.
Ma per la sua struttura l’Impero si differenzia notevolmente dallo Stato rigidamente centralizzato del periodo bizantino di mezzo.
L’età dei Comneni portò ad un approfondimento del processo di feudalizzazione, e le forze feudali delle province, contro le quali avevano lottato con la massima energia gli imperatori del Secolo Decimo, divennero i veri pilastri della nuova struttura statale.
Alessio diede la preminenza a quei potenti fattori sociali che si erano affermati e avevano continuato a sussistere nonostante l’opposizione del potere centrale dell’età bizantina di mezzo e basò su di loro la costruzione del sistema statale e militare.
In questo sta il segreto del suo successo, ma in questo stanno anche i suoi limiti.
Bisanzio si era definitivamente privata delle sue antiche solide fondamenta, la sua forza militare, economica e finanziaria non era più quella di una volta.
E’ questo che bisogna tener presente per comprendere perché lo splendore dell’epoca dei Comneni non durò a lungo e perché alla fine di questa epoca abbiamo il crollo dello Stato bizantino.
All’approfondimento del processo di feudalizzazione contribuì anche il contatto con l’Occidente.
Il destino volle che Bisanzio entrasse in più stretto contatto con il mondo occidentale quando la comunità ecclesiastica – e in questo periodo comunità ecclesiastica significa comunità spirituale in generale – si era già scissa.
Odio e disprezzo erano i sentimenti che i Bizantini e gli Occidentali provavano gli uni per gli altri, e con la più stretta conoscenza reciproca questi sentimenti non fecero che approfondirsi.
Ciò nonostante a partire da questo periodo l’influenza dell’Occidente su Bisanzio comincia a farsi sentire in diversi modi, sia sul terreno culturale che su quello statale.
La feudalizzazione dello Stato bizantino fu certamente un portato dello sviluppo interno dell’Impero.
Tuttavia non poteva restare senza conseguenze sullo sviluppo ulteriore il fatto che in Asia Minore si era formata tutta una serie di regni latini, in cui il feudalesimo trovava la sua forma più tipica.
Il legame stabilitosi tra i principi crociati e l’imperatore Alessio Primo, modellato sugli esempi occidentali, introdusse un nuovo principio nel mondo politico bizantino.
Ben presto questo rapporto di vassallaggio venne applicato anche nei rapporti con altri principi della sfera d’influenza bizantina e divenne così un elemento permanente statale tardo-bizantino.
Pag. 341

Il piano di una spedizione bizantino-tedesca in Italia fallì per le fortunate manovre diplomatiche di Ruggero Secondo [ma si può parlare di “tedeschi” per quest’epoca?].
Egli concluse un’alleanza con il duce Guelfo e lo appoggiò nella lotta contro il dominio degli Staufen.
Corrado dovette quindi affrettarsi a tornare in Germania, dove per tutto il periodo successivo verrà trattenuto dalle lotte interne.
Contro l’imperatore bizantino Ruggero appoggiò gli ungheresi e i serbi e già nel 1449 Manuele dovette far fronte ad una ribellione dello zupan di Rascia, cui seguì uan guerra contro l’Ungheria, che aprì la lunga serie delle lotte ungaro-bizantine.
Un alleato naturale di Ruggero Secondo era inoltre il re di Francia Luigi Settimo che, pieno di risentimento contro l’imperatore bizantino, preparava una nuova crociata.
Questo piano trovò l’appoggio sia di Bernardo di Chiaravalle che di papa Eugenio Secondo, che cercava di far recedere il re tedesco dall’alleanza con la scismatica Bisanzio.
Si formò così uan forte coalizione antibizantina sotto la direzione di Ruggero Secondo.
Ma il piano della crociata – che questa volta non sarebbe stata che un’aggressione franco-normanna contro Bisanzio – fallì per l’opposizione dei cavalieri francesi, e Corrado restò fedele al suo alleato.
Gli Stati europei erano divisi in due blocchi: da una parte erano Bisanzio, la Germania e Venezia; dall’altra i normanni, i guelfi, al Francia, l’Ungheria e la Serbia e, sullo sfondo, il papato.
Era iniziata la formazione di un vasto sistema di alleanze tra gli Stati europei, che tuttavia nel successivo sviluppo degli avvenimenti sarebbe stato soggetto a nuovi raggruppamenti e avrebbe portato altre potenze nel proprio ambito.
L’inimicizia tra Bisanzio e l’Ungheria ebbe le sue ripercussioni perfino nella lontana Russia: le due potenze intervennero nella lotta tra i principati russi e mentre l’Ungheria si alleava con Izjaslav di Kiev, Bisanzio appoggiava i principi Jurii Dolgorukij di Suzdal’ e Vladimirko di Galic.
Nella direzione opposta la longa manus di Manuele giungeva fino in Inghilterra e negli anni Settanta egli ebbe un intenso carteggio con il re Enrico Secondo.
Pag. 348-49

Come l’attacco dei bizantini ad Ancona aveva posto fine alla cooperazione con Venezia contro i normanni in Italia, così l’annessione della Dalmazia pose fine anche alla comunione di interessi bizantino-veneziana nei confronti dell’Ungheria.
D’altra parte la posizione privilegiata che i mercanti veneziani avevano nell’Impero rappresentava un onere insostenibile per il commercio bizantino.
Manuele cercava di rafforzare il legame con le altre città marinare italiane e nel 1169 concluse un’alleanza con Genova e nel 1170 con Pisa.
I rapporti con Venezia si fecero quindi sempre più tesi e nel 1171 scoppiò un aspro conflitto.
Il 12 marzo, in un solo giorno – e questo mostra l’accurata preparazione di questa misura e la forza dell’apparato di governo bizantino -, tutti i veneziani, in tutto l’Impero, vennero arrestati, e i loro beni, le loro navi, e le loro merci confiscate.
La risposta di Venezia non si fece attendere a lungo: una forte flotta attaccò la costa bizantina e saccheggiò le isole di Chio e Lesbo.
Dopo ciò si discusse per lungo tempo, ma i negoziati sembravano non dover giungere a fine.
Per ben dieci anni i rapporti tra Bisanzio e Venezia rimasero interrotti.
Pag. 352-53

L’esercito assorbiva tutte le forze dell’Impero.
La popolazione veniva ridotta in miseria dagli intollerabili gravami.
Le richieste tributarie dello Stato crebbero, e gli abituali soprusi degli esattori, tra i quali ora c’erano – esasperando il risentimento dei contribuenti – stranieri, portarono al colmo la misura della loro miseria.
Perfino nelle città molti vendevano la loro libertà per passare al servizio e sotto la tutela di un gran signore: fenomeno che anche in altre situazioni non era raro a Bisanzio.
Manuele si oppose a questa pratica con una legge che restituiva la libertà a coloro che, nati liberi, si erano venduti come schiavi e cioè pare che l’imperatore li avesse riscattati – almeno nella capitale – con denaro dello Stato.
Ma era in tutto l’insieme dello sviluppo, nella crescita delle grandi proprietà fondiarie da una parte e dell’immiserimento e indebitamento delle classi inferiori dall’altra, che aveva le sue radici il fenomeno della perdita della libertà di settori sempre più ampi che, se non diventavano schiavi, diventavano almeno servi.
Ma il processo di feudalizzazione che avanzava vittoriosamente, portò alla fine all’indebolimento dell’organizzazione statale bizantina e ruppe la capacità di resistenza della terra.
Bisanzio era ancora capace occasionalmente di raggiungere grandi vittorie, a condizione di applicarvi tutte le proprie forze.
Ma gli mancava la forza di sopportare i contraccolpi e le sconfitte.
All’epoca dello splendore apparente sotto Manuele seguì ben presto il crollo interno dello Stato bizantino.
Pag. 356

L’Impero occidentale si era disgregato, l’Italia si era sottratta al dominio tedesco e in Germania a Filippo di Svevia, fratello di Enrico, si era contrapposto un altro pretendente alla corona reale nella persona di Ottone di Brunswick.
L’egemonia dell’imperatore tedesco  venne sostituita da quella del grande papa Innocenzo Terzo: la conseguenza di questo fatto fu che nella politica orientale dell’Occidente tornò in primo piano l’idea della crociata.
Secondo il progetto del papa, Bisanzio non avrebbe dovuto essere abbattuta con la forza delle armi: avrebbe dovuto invece essere sottoposta al seggio di San Pietro attraverso l’unione ecclesiastica e partecipare con la cristianità occidentale alla crociata.
Pag. 371

Molte teorie sono state costruite per tentare di spiegare la diversione contro Costantinopoli della quarta crociata; ma in realtà la spiegazione è semplice: la diversione è il risultato quasi inevitabile degli avvenimenti precedenti.
A partire dallo scisma ecclesiastico e soprattutto dopo l’inizio delle crociate, in Occidente era andata costantemente crescendo l’avversione nei confronti di Bisanzio.
La politica aggressiva di Manuele nei confronti dell’Occidente e il provocante atteggiamento antilatino di Andronico contribuirono a che questa avversione diventasse ostilità aperta.
Di fronte all’evidente debolezza e impotenza dell’Impero bizantino sotto gli Angeli, in Occidente l’ostilità nei confronti di Bisanzio assume la forma di un piano di conquista.
L’idea della conquista di Costantinopoli era una vecchia eredità normanna, e già durante la seconda crociata veniva discussa nell’entourage di Luisi Settimo; durante la crociata di Federico Barbarossa la sua realizzazione sembrò imminente; l’erede di Barbarossa e del re normanno, Enrico Sesto, la pose al centro della sua politica.
Ed ora che Venezia gettava sul piatto della bilancia i suoi interessi commerciali e politici, l’idea divenne realtà.
La progressiva secolarizzazione dell’idea di crociata giungeva alla sua conclusione logica: la crociata diventava uno strumento di conquista e si rivolgeva contro l’Impero cristiano d’oriente.
Uan combinazione di circostanze facilitò questo processo e contribuì al fatto che i crociati si mettessero al servizio degli interessi veneziani.
Pag. 372-73

Dopo la presa di Galata venne infranta la catena che sbarrava l’ingresso del Corno d’Oro, le navi dei crociati entrarono nel porto e allo stesso tempo cominciava l’assedio delle mura della città dalla terraferma.
Nonostante la resistenza disperata opposta dalla guarnigione bizantina, e soprattutto dalla guardia variaga, il 17 luglio del 1203 Costantinopoli cadde nelle mani dei crociati.
L’infingardo imperatore Alessio Terzo era fuggito con il tesoro e i gioielli della corona.
Il cieco Isacco Secondo venne rimesso sul trono e sui figlio Alessio Quarto, il protetto dei crociati, veniva nominato co-imperatore.
Pag. 374

Ancora una volta a Bisanzio trionfava la tendenza antilatina, ma il suo trionfo accelerò l’atto finale della tragedia.
I crociati presero di nuovo le armi contro la capitale bizantina.
Si trattava di assediare nuovamente Costantinopoli, ma questa volta non per insediarvi un governo bizantino, bensì  per instaurare un impero proprio sulle rovine di quello bizantino.
Nel marzo,  sotto le mura della capitale bizantina, i crociati e i veneziani conclusero un trattato che contemplava ogni minimo dettaglio sulla divisione dell’Impero che bisognava conquistare e sulla fondazione di un impero latino a Costantinopoli.
Poi cominciò l’assalto e accadde quel che doveva accadere: il 13 aprile 1204 la capitale bizantina dovette cedere alle superiori forze degli aggressori.
I conquistatori entrarono a Costantinopoli.
Così la città, che dai tempi di Costantino il Grande era sempre rimasta inespugnata, che aveva resistito ai poderosi assalti dei persiani e degli arabi, degli avari e dei bulgari, era diventata la preda dei crociati e dei veneziani.
Per tre giorni il saccheggio e la strage regnarono in Costantinopoli.
I tesori più preziosi del più grande centro di cultura del mondo di allora vennero distribuiti trai conquistatori e in parte barbaramente distrutti.
“Dalla creazione del mondo non è mai stato fatto un tale bottino in una città”, dice lo storico dei crociati (Villehardouin).
Perfino i musulmani sono “umani e benevoli” in confronto a questa gente “che porta la croce di Cristo sulle spalle”, annota il cronista bizantino.
Alla divisione del bottino seguì la divisione dell’Impero bizantino, che suggellò il crollo e confinò per più di mezzo secolo le forze restauratrici di Bisanzio fuori del centro, nelle province periferiche.
Pag. 374-75 

Cap. 7. L’Impero latino e la restaurazione dell’Impero bizantino, 1204-93

Raramente nella storia si è proceduto in modo così pianificato come nella spartizione dell’Impero bizantino.
Bisognava costruire un nuovo sistema statale nell’Oriente greco secondo il trattato concluso dai crociati e dai veneziani nel marzo del 1204 sotto le mura di Costantinopoli.
Il grande doge Enrico Dandolo, che aveva determinato gli avvenimenti degli ultimi anni e che aveva ispirato il trattato di spartizione, fu l’elemento decisivo anche nell’applicazione dell’accordo.
Anzitutto bisognava eleggere un imperatore e a questo scopo – in applicazione al trattato – si riunì una commissione composta da sei franchi e da sei veneziani.
Tutto lasciava prevedere che la scelta sarebbe caduta sul marchese Bonifacio di Monferrato, per il fatto di essere stato capo dell’esercito crociato, per le relazioni che aveva a Bisanzio e per le sue capacità politiche.
Ma il doge preferiva una figura meno in vista, e poiché i francesi erano divisi, mentre la delegazione veneziana era compatta, egli riuscì a imporre che la scelta cadesse sul conte Baldovino di Fiandra, che il 16 maggio venne incoronato in Santa Sofia imperatore dell’Impero latino di Costantinopoli.
Sulla cattedra di Santa Sofia quale primo patriarca latino di Costantinopoli venne nominato il veneziano Tommaso Morosini poiché, sulla base del trattato di marzo, se l’imperatore veniva scelto dalle file della cavalleria, il nuovo patriarca di Costantinopoli avrebbe dovuto essere scelto dai veneziani.
Pag. 388

Poi riprese la lotta contro i latini.
Sembra che già allora Teodosio Lascaris – che già da qualche anno disponeva di una flotta – pensasse ad un attacco contro Costantinopoli.
Ma in realtà ci furono soltanto scontri di scarsa importanza nelle regioni occidentali dell’Asia Minore, in cui la fortuna arrise all’imperatore latino.
Enrico vinse una battaglia sul Rindaco (15 ottobre 1211) e avanzò fino a Pergamo e Ninfeo.
Tuttavia questa piccola guerra, che de ambedue le parti veniva condotta con scarsi effettivi, non poteva portare ad un esito decisivo.
Ambedue le parti erano esaurite c così verso la fine del 1214 a Ninfeo venne concluso un trattato di pace che definì i confini tra l’Impero bizantino e quello latino: i latini conservavano la parte nordoccidentale dell’Asia Minore fino ad Adramittio verso sud,, il resto del territorio fino al confine con i Selgiuchidi restò in mano all’Impero di Nicea.
In questo modo ambedue gli imperi avevano riconosciuto il diritto all’esistenza dell’altro.
Nessuno di loro era abbastanza forte per annientare l’altro.
Si creò una situazione di equilibrio e una certa stabilizzazione dei rapporti.
Pag. 394

Così sull’antico territorio bizantino si erano formati tre imperi: uno latino e due greci, e sullo sfondo ce n’era un quarto – l’Impero degli zar bulgari.
L’ulteriore sviluppo degli avvenimenti nell’area culturale bizantina sarà determinato anzitutto dall’azione di queste quattro potenze.
Pag. 397

Come quasi tutti gli imperatori bizantini degli ultimi secoli, Giovanni Vatatze intavolò trattative con la Chiesa romana per l’unificazione.
Come condizione per l’unione egli pretendeva dal papa l’abbandono dell’Impero latino.
Inizialmente le trattative furono altrettanto sfortunate quanto lo erano stati tutti i precedenti tentativi unionisti, e l’avvicinamento dell’imperatore greco a Federico Secondo rese ancor più difficile il raggiungimento di un accordo.
Ma sotto il pontificato di Innocenzo Quarto e soprattutto dopo la morte di Federico Secondo le trattative presero una piega favorevole.
Innocenzo Quarto era un uomo politico troppo acuto per non avvedersi che la conquista del sempre più potente Impero bizantino di Nicea alla causa romana sarebbe stata più utile che non la conservazione del declinante Impero latino.
Come l’imperatore greco era disposto a sacrificare l’indipendenza della sua Chiesa alla conquista di Costantinopoli, così il papa era disposto a sacrificare l’Impero latino all’unione ecclesiastica con i greci.
Sembrò che le due parti si fossero avvicinate coem mai era avvenuto prima.
Ma anche questa volta l’ultimo passo non venne compiuto.
L’appoggio di Roma che si sarebbe dovuto pagare con gravi concessioni, non era più indispensabile: i giorni dell’Impero latino erano contati comunque grazie alle grandi vittorie di Giovanni Vatatze la restaurazione dell’Impero bizantino sul Bosforo era solo una questione di Tempo.
Pag. 403

Particolare considerazione meritano le misure economiche di Giovanni Vatatze, che introdussero un benessere quale l’Impero bizantino non conosceva più da molto tempo.
L’imperatore dedicò particolare cura allo sviluppo dell’economia agricola e dell’allevamento del bestiame e fu lui stesso a dare l’esempio.
I possedimenti dell’imperatore dovevano servire da modello per dimostrare ai sudditi una coltivazione accurata e intelligente possa procurare grandi guadagni nell’agricoltura, nelle viticoltura e anche nell’allevamento di bestiame.
L’imperatore regalò a sua moglie una corona tempestata di perle e di pietre preziose acquistata con il denaro ricavato dalla vendita delle uova prodotte nelle sue fattorie.
Questa “corona di uova”, come lo stesso imperatore la chiamava, significava per lui tutto un programma.
Infatti il principio fondamentale della sua politica economica era la conquista dell’autosufficienza economica del paese.
Egli cercò di liberare l’Impero dall’importazione di merci straniere e quindi anche dalla sottomissione economica alle città italiane.
Proibì rigorosamente ai suoi sudditi di comprare merci di lusso straniere.
Ognuno avrebbe dovuto accontentarsi di quel “che produce il suolo romano e fabbricano mani romane”.
Anche se aveva un’origine etica, questo protezionismo era diretto contro Venezia.
Misure doganali contro le importazioni veneziane avrebbero portato a gravi complicazioni, giacché avrebbero rappresentato una sconfessione degli accordi commerciali che portavano la firma di tutti gli imperatori bizantini da Alessio Primo Comneno a Teodoro Primo Lescaris; invece nessuno poteva negare all’imperatore di proibire ai suoi sudditi un lusso eccessivo.
Ma grandi quantità di metalli preziosi e di stoffe di lusso venivano esportate nel vicino sultanato di Iconio.
L’invasione mongola, che non aveva toccato l’Impero niceno, ma che aveva gravemente devastato gli Stati vicini, procurò un considerevole vantaggio economico ai bizantini.
I turchi acquistavano viveri nell’Impero niceno e li pagavano ad alto prezzo con oro e merci.
Così, nonostante le numerose guerre, a Nicea non esisteva la minima penuria di denaro.
La situazione finanziaria ed economica dello Stato niceno sotto Giovanni Vatatze era molto più sana che non quella dell’Impero bizantino sotto gli ultimi Comneni e gli Angeli.
Anche lo Stato stesso era molto più sano, il che mostra come le linfe vitali dei bizantini non si fossero ancora esaurite e come la rigenerazione dell’Impero bizantino fosse sempre possibile.
Giovanni Vatatze, che nei suoi ultimi anni soffriva di gravi attacchi epilettici, morì il 3 novembre 1254.
I suoi eccezionali meriti ebbero anche un altissimo riconoscimento: mezzo secolo dopo la sua morte egli venne santificato e fino ai tempi più recenti il santo imperatore Giovanni il Misericordioso veniva commemorato ogni anno nella chiesa di Magnesia, che egli stesso aveva costruito e dove venne seppellito, e nel Ninfeo, la sua residenza favorita.
Pag. 404-5

La fulminea ascesa del Paleologo non si spiega solo con la sua straordinaria abilità, ma anche con l’acutizzazione della situazione internazionale, che esigeva un governo forte.
A differenza di Federico Secondo, suo figlio Manfredi, re di Sicilia, era nemico dell’Impero Niceno.
La crescente potenza dell’Impero bizantino, che a partire dalla metà del secolo marciava a passi di gigante verso la restaurazione e aveva ridotto l’Impero latino ai dintorni di Costantinopoli, indusse Manfredi a riprendere la politica antibizantina di Enrico Sesto e dei normanni siciliani.
Nel 1258 aveva già occupato Corfù e le più importanti città della costa epirota: Durazzo che poco prima era stata conquistata da Teodoro Secondo Lascaris, e Avlona e Butrinto che appartenevano al despota Michele Secondo.
Michele Secondo era disposto a pagare questo prezzo per ottenere l’amicizia del re di Sicilia: gli concesse la mano di sua figlia, gli lasciò, quale dote, le città conquistate, e concluse con lui un’alleanza contro l’Impero niceno.
Anche Guglielmo Secondo di Villehardouin di Acaia sposò una figlia di Michele Secondo e si associò all’alleanza.
La stella del principe di Acaia era allora in ascesa: il vicino ducato di Atene e i tre principi dell’Eubea erano diventati suoi vassalli.
Si formava così una forte coalizione che all’ultimo momento minacciava di far fallire l’opera di restaurazione dei Lascaris.
Le forze separatiste dello Stato rivale della Grecia occidentale, tutte le forze latine della Grecia e il re di Sicilia su univano per distruggere l’Impero di Nicea.
La triplice alleanza trovò un appoggio anche nella nascente potenza del re di Serbia Uros Primo.
Le sue truppe occuparono nel 1258 Skoplje e Kicevo.
Pag. 408

Ormai non esisteva più alcuna potenza continentale in grado di opporsi alla restaurazione bizantina.
La sola potenza che fosse capace di intervenire era la repubblica marinara di Venezia, che era stata la vera creatrice dell’Impero latino a Costantinopoli e che aveva tratto il massimo vantaggio dalla situazione del 1204.
Per far fronte a questo pericolo, Michele Ottavo entrò in trattative con i rivali di Venezia, i genovesi.
Il 13 marzo 1261 venne firmato nel Ninfeo l’importante trattato che poneva i fondamenti della grandezza di Genova, così come a suo tempo il trattato del 1082 aveva segnato l’inizio della potenza veneziana.
I genovesi si impegnarono a dare aiuto militare all’Impero contro Venezia, e in compenso vennero loro concessi ampi privilegi, vennero esentati dalle imposte e dai dazi in tutti i territori dell’Impero, furono loro concessi basi commerciali nei porti più importanti, e, dopo il compimenti della restaurazione, anche a Costantinopoli.
In breve, Genova avrebbe avuto la supremazia commerciale in Oriente, che dalla fine del Secolo Undicesimo era stato un diritto acquisito di Venezia.
Ma in realtà Bisanzio divenne prigioniera di ambedue le repubbliche, che sempre più scalzavano la sua potenza marittima e il suo commercio.
Pag. 409

Inoltre il periodo del dominio latino aveva lasciato tracce profonde, nel corpo dello Stato bizantino erano state inferte ferite che la riconquista della testa non poteva sanare.
La grande testa, Costantinopoli, si appoggiava su un corpo indebolito e attaccato da tutte le parti.
Le repubbliche marinare italiane dominavano i mari bizantini, le loro colonia erano sparse su tutto il territorio dell’Impero, la maggior parte delle isole del Mediterraneo orientale erano loro sottomesse.
La Grecia restava sotto il dominio franco e anche l’Epiro, che era sotto un governo greco, e la Tessaglia, si erano sottratti all’unificazione e conservavano il loro atteggiamento di ostilità nei confronti dell’Impero bizantino.
La parte settentrionale della penisola balcanica restava in mano ai due regni slavi di Bulgaria e Serbia, che si erano ingranditi a spese dell’Impero bizantino.
Nessuna di queste potenze era ancora in grado di intraprendere un assalto in grande stile contro Bisanzio, ma erano pronte ad appoggiare un’impresa antibizantina guidata dall’Occidente.
In Occidente non mancavano certo i nemici del restaurato Impero bizantino: lo erano tutte le potenze che avevano avuto interesse all’esistenza dell’Impero latino.
Ci si poteva quindi aspettare un’aggressione in qualsiasi momento.
L’alleanza tra le potenze avversarie di Bisanzio in Occidente e sui Balcani avrebbe potuto significare un pericolo mortale per l’Impero appena restaurato.
Soltanto le manovra diplomatiche potevano evitare questo pericolo e per fortuna la diplomazia era una delle qualità più spiccate di Michele Ottavo.
Pag. 411

In questa situazione le minacce di Gregorio Decimo acquistarono un peso schiacciante: per l’imperatore l’unica via d’uscita era la sottomissione al volere papale.
Nonostante l’ostinata opposizione del clero bizantino, Michele Ottavo si accordò con il legato papale che nel 1273 soggiornava a Costantinopoli e riuscì alla fine a convincere anche una parte del suo clero ad accettare l’unione.
Lo storico atto venne concluso il 6 luglio 1274 al Concilio di Lione.
Il grande logotete Giorgio Acropolita, in nome dell’imperatore, giurò di accettare non solo il primato romano, ma anche la fede romana e i membri ecclesiastici della delegazione bizantina, l’ex patriarca Germano e il metropolita Teofane di Nicea, apposero le loro firme alla dichiarazione imperiale.
L’unione delle Chiese, che da più di due secoli era uno degli obiettivi principali della politica romana ed oggetto di numerose, ma sempre inutili trattative, era diventata realtà.
Pag. 418-19

Ma per mantenere in piedi l’unione romano-bizantina non solo l’imperatore, ma anche il papato si trovava in gravi difficoltà.
Dopo la morte di Gregorio Decimo (1276) a Roma si rafforzò l’influenza del re di Sicilia e la collaborazione romano-bizantina si interruppe.
Niccolò Terzo (1277-80) diede nuovo slancio all’universalismo romano e quindi anche alla politica dell’unione delle Chiese.
Tentò di stabilire in Oriente un equilibrio tra gli Angiò e l’imperatore di Bisanzio analogo a quello che aveva stabilito in Occidente tra Rodolfo Primo d’Asburgo e Carlo d’Angiò, per poter porre al di sopra di tutte le potenze temporali la supremazia della potenza universale della Chiesa romana.
Durante il suo pontificato Michele Ottavo si sentiva sicuro dalla parte dell’Occidente ed è infatti proprio in questo periodo che ebbero luogo i più importanti successi bizantini in Morea e nell’arcipelago.
Ma nel conclave seguente l’influenza di Carlo d’Angiò fu determinante e la situazione cambiò completamente.
Il 22 febbraio 1281 salì sul seggio papale il francese Martino Quarto, un cieco strumento del potente re di Sicilia.
La curia rinunciò alla sua posizione di arbitra sovrana e si pose al servizio della politica di conquista dell’angioino.
Sotto il patrocinio del papa, Carlo d’Angiò e l’imperatore titolare latino Filippo, figlio di Baldovino Secondo, conclusero il 3 luglio 1281 ad Orvieto un trattato “per la restaurazione dell’Impero romano usurpato dal Paleologo”.
Non solo: Martino Quarto si era talmente allontanato dalla politica dei suoi predecessori nel suo cieco asservimento a Carlo d’Angiò, che condannò come scismatico l’imperatore bizantino che si era pronunciato per l’unione e che per questo doveva sostenere una difficile lotta contro il suo stesso popolo, lo dichiarò deposto e interdisse ai principi cristiani di tutti i paesi di avere rapporti con lui.
La politica unionista di Michele Ottavo era così completamente fallita.
Lo stesso papato l’aveva abbandonata.
Le potenze occidentali si unirono per la lotta contro Bisanzio.
Venezia prestò agli Angiò la sua flotta e il papa diede il proprio appoggio morale.
I sovrani balcanici si unirono al fronte antibizantino.
Nel 1282, d’intesa con Carlo d’Angiò, Giovanni di Tessaglia e il nuovi re di Serbia, l’energico Stefano Uros Secondo Milutin (1282-1321), irruppero in Macedonia.
Il re di Serbia occupò l’importante città di Skoplje, che i bizantini non riuscirono più a riconquistare.
In Bulgaria il protetto dei bizantini, lo zar Ivan Terzo Asen, aveva perso la corona nel 1280.
Il suo successore, Giorgio Primo Terter (1280-92), discendente da una famiglia cumana, che, a capo dei boiari bulgari gli aveva strappato i poteri, si schierò naturalmente contro Bisanzio e si alleò con gli angioini e con Giovanni di Tessaglia.
Carlo d’Angiò non si era mai trovato così vicino alla sua meta,  e mai la situazione di Michele Ottavo era stata più difficile: la caduta dell’Impero bizantino sembrava imminente.
Nel momento più critico la situazione mutò radicalmente: une tremenda catastrofe colpì gli Angiò quando erano già sicuri della loro vittoria, e l’arte diplomatica del Paleologo conseguì il suo più grande trionfo.
Un piano di congiura in grande stile contro il dominio angioino in Sicilia era già da alcuni anni in preparazione ed in esso ricopriva il ruolo di intermediario Giovanni da Procida, il dotto medico emigrato dall’Italia meridionale e più tardi cancelliere di Aragona.
Durante il pontificato di Niccolò Terzo, Michele Ottavo con la sua mediazione aveva stretto alleanza con Pietro Terzo d’Aragona, il genero di Manfredi.
Pietro avrebbe dovuto attaccare l’angioino alle spalle e togliergli il regno, così come nel 1266 Carlo lo aveva tolto al re Manfredi.
L’imperatore bizantino gli avrebbe messo a disposizione i mezzi per costruire la flotta.
Nello stesso tempo agenti bizantini e aragonesi, largamente provvisti di denaro bizantino, provocarono in Sicilia la rivolta contro il dominio straniero degli Angiò.
Un profondo fermento agitava il paese esaurito dai continui preparativi bellici dell’angioino ed esasperato dagli arbitri dei funzionari locali.
Ma solo il denaro bizantino poté far esplodere la crisi latente, così come aveva reso possibile i preparativi del re d’Aragona.
“Se volessi dire, - afferma Michele Ottavo nella sua autobiografia -, che Dio diede loro [ai siciliani] la libertà e che lo fece attraverso le mie mani, direi la verità”.
Nel momento più difficile per il Paleologo, il 31 marzo 1282, a Palermo scoppiò la rivolta, che si estese immediatamente a tutta la Sicilia: il dominio angioino ebbe una fase sanguinosa nei famosi Vespri Siciliani.
Nell’agosto apparve Pietro d’Aragona con la sua flotta.
Si fece incoronare a Palermo con la corona di Manfredi e divenne sovrano della Sicilia, mentre solo con grandi sforzi Carlo d’Angiò riusciva a conservare i suoi possedimenti sull’Italia continentale.
Di una campagna contro Bisanzio non era più nemmeno il caso di parlare: il regno dell’Italia meridionale si era disgregato, Carlo d’Angiò abbandonava la lotta dopo una catastrofe senza precedenti, il papa era stato gravemente coinvolto nella catastrofe, l’imperatore titolare latino Filippo non veniva più preso sul serio da nessuno, mentre Venezia si avvicinava all’Impero bizantino e al re d’Aragona.
La tempesta che da venti anni si andava addensando sul restaurato Impero bizantino, era stata scongiurata dal genio diplomatico del Paleologo.
Pag. 421-23

Cap. 8. Decadenza e caduta dell’Impero bizantino, 1282-1453

Michele Ottavo uscì vincitore dalla guerra difensiva contro l’aggressione occidentale ma, nonostante tutti gli sforzi, non riuscì che a conseguire successi assai limitati nei suoi tentativi di riprendere l’offensiva e di riconquistare le antiche province bizantine.
La metà settentrionale della penisola balcanica era in mano agli slavi, e anche se Michele Ottavo riuscì a strappare qualche territorio alla Bulgaria indebolita, la crescente potenza serba lo minacciava di ulteriori perdite di territorio.
Sul mare continuavano a dominare le repubbliche marinare italiane.
Con uno sforzo supremo l’Impero bizantino era riuscito a riconquistare una parte del Peloponneso, ma la maggior parte del suo territorio continuava ad appartenere ai franchi.
Sotto il dominio franco restavano anche l’Attica e la Boezia con le isole adiacenti.
La Tessaglia e l’Epiro, l’Etolia e l’Acarnania erano sotto il dominio degli Angeli e si opponevano ostinatamente all’autorità imperiale.
In nessun altra regione i tentativi di rioccupazione del Paleologo avevano meno successo che in questi Stati greci separatisti.
Così come la catastrofe del 1204 era stata preparata da un processo di disgregazione interna dello Stato bizantino, così anche ora proprio le forze greche separatiste si opponevano con la massima energia all’opera unificatrice.
Ed era infatti la Tessaglia, con i suoi potenti latifondi greci, alla testa della lotta contro i tentativi dell’imperatore di riprendere il controllo sulla penisola balcanica.
Intanto le continue guerre sui Balcani e l’estenuante lotta difensiva contro il pericolo angioino avevano completamente esaurito le forze dell’Impero bizantino.
La politica di Michele Ottavo aveva qualcosa in comune con quella di Manuele, soprattutto nei principi e nei metodi, nell’arditezza e nell’ampiezza della loro concezione, nel comune orientamento verso l’Occidente della loro politica estera, sia nelle imprese positive che nelle conseguenze negative.
Era una politica imperiale di grande stile, che influenzava il corso degli avvenimenti mondiali dall’Egitto fino alla Spagna.
Ma essa imponeva gravami intollerabili allo Stato bizantino.
Così come cento anni prima l’ambizione di Manuele Comneno di creare un impero universale aveva privato l’impero delle sue ultime forze, lo stesso avveniva ora come conseguenza del tentativo di Michele Paleologo di fare di Bisanzio una grande potenza.
Come cento anni prima, così anche ora la capacità difensiva dell’Impero bizantino in Asia era stata annientata, e ora questo avrebbe portato a conseguenze ancora più gravi.
Come allora, anche adesso le risorse militari e finanziarie dell’Impero si erano esaurite, e anche ora ciò provocò un violento contraccolpo: ha inizio la decadenza dell’Impero bizantino senza alcuna speranza di ripresa.
C’è una differenza netta tra il superbo impero di Michele Ottavo e il misero Stato del suo successore.
Sotto i successori di Michele Ottavo Bisanzio diventa un piccolo Stato e alla fine null’altro che un obiettivo della politica dei suoi confinanti.
Pag. 435-36

L’incremento delle entrate avrebbe dovuto servire da una parte a coprire le spese amministrative ordinarie, dall’altra per tributi ai più potenti vicini e infine per il mantenimento di uan flotta di venti triremi e per un esercito permanente di tremila cavalieri; di questi, duemila avrebbero dovuto stazionare in Europa e mille in Asia.
L’imperatore cercò così di correggere l’affrettata riduzione degli effettivi militari che aveva deciso sotto la pressione delle necessità finanziarie.
Ma quanto misero era il programma che si proponeva di realizzare.
Nulla di strano quindi se i tributi delle potenze confinanti diventavano una voce di uscita sempre più importante nel bilancio bizantino.
Si cercò di pagare la pace con denaro risparmiato alla meglio, dal momento che non ci si poteva difendere dai nemici con la forza delle armi.
Niceforo Gregora paragona causticamente questo comportamento con quello di chi “per comprarsi l’amicizia dei lupi, si apre le vene in varie parti del proprio corpo e lascia che i lupi succhino e si sazino del suo sangue”.
Bisanzio è diventato un piccolo Stato, che si nutre di un grande passato e che va in rovina perché non può più rispondere ai compiti che ha ereditato, e perché nella sua posizione geografica non può più difendere la propria esistenza.
Pag. 441

La lotta tra il vecchio ei l giovane Andronico iniziò una lunga serie di guerre civili, che rivelò tutta la sua disgregazione interna dell’Impero bizantino.
Con questa lotta dinastica ebbe inizio un’epoca di gravi lotte interne che tolsero all’Impero ogni residua forza e aprirono le porte all’espansione dei turchi e dei serbi.
Il contrasto tra avo e nipote ebbe inizio  per questioni personali.
Andronico Terzo, il maggiore dei figli di Michele Nono, un giovane molto dotato e di aspetto attraente, era stato prima il prediletto del vecchio imperatore; ebbe precocemente la corona di co-imperatore e veniva considerato come il secondo erede presuntivo al trono, dopo suo padre.
Ma col passar del tempo da ambedue le parti nacque un’avversione reciproca: la vita frivola del giovane Andronico, le sue stravaganze e i suoi sperperi significavano una dura prova per la pazienza del vecchio e austero imperatore.
Allo stesso tempo per il giovane principe la tutela del padre e dell’avo diveniva sempre più gravosa.
L’esito sfortunato di una delle sue avventure amorose accelerò la rottura.
Gli uomini di Andronico, avendo teso un agguato al rivale del loro padrone, uccisero, per un tragico equivoco, suo fratello Manuele.
La tremenda notizia accelerò la morte di Michele Nono che risiedeva, gravemente malato, a Tessalonica (12 ottobre 1320), e fece infuriare a tal punto il vecchio imperatore da indurlo a privare Andronico dei suoi diritti alla successione al trono.
Pag. 452-53

La situazione internazionale era caratterizzata dalla costante avanzata degli ottomani in Asia Minore e dei serbi in Macedonia e inoltre dall’ulteriore indebolimento degli Stati separatisti greci e latini.
Mentre Bisanzio si trova impotente di fronte agli ottomani e ai serbi, nella Grecia settentrionale e nel Mar Egeo l’Impero riesce a conseguire certi successi, anche grazie all’appoggio dei Selgiuchidi.
Quel che soprattutto caratterizza la politica del nuovo governo e gli conferisce un aspetto particolare è la collaborazione di Cantacuzeno con l’emiro selgiuchida che si vedeva minacciato dall’espansione degli ottomani non meno dell’Impero bizantino.
Invece ci si cerca di liberare dall’alleanza con Genova, per poter riconquistare l’indipendenza marittima e commerciale.
Per questo è necessario il rafforzamento della forza navale bizantina: la costruzione di navi diventa quindi uno dei compiti principali dell’imperatore Andronico Terzo e del megas domestikos Giovanni Cantacuzeno.
Non essendo a questo scopo sufficienti le risorse dello Stato, Cantacuzeno e altri magnati contribuirono con i loro mezzi alla costruzione della flotta.
La conseguenza fu che lo Stato e il suo apparato difensivo dipendeva anche finanziariamente dai magnati dell’Impero.
Pag. 456-57

Intrighi di corte e lotte id funzioni riempivano la vita della capitale bizantina.
Ma intanto i pericoli esterni incombevano: i turchi saccheggiavano la costa tracia, i serbi erano nuovamente avanzati fino a Tessalonica e anche i bulgari minacciavano guerra.
Cantacuzeno mosse contro i nemici con truppe reclutate a proprie spese, e ben presto riuscì a ristabilire la pace.
Non solo, ma gli si offrì anche la possibilità di rafforzare la posizione bizantina in Grecia.
I signori feudali dell’Acaia inviarono un’ambasceria al megas domestikos, per annunciargli che erano disposti a riconoscere la sovranità bizantina; nella regione regnava infatti un forte fermento e i baroni francesi preferivano sottomettersi all’imperatore bizantino piuttosto che ai rappresentanti degli Acciaiuoli, la famiglia di banchieri fiorentini che avevano recentemente preso il potere nel principato come governatori dell’imperatrice titolare Caterina.
Cantacuzeno accarezzava più grandi speranze: “Se, con l’aiuto di Dio, - disse nel consiglio di guerra – riusciamo a sottomettere all’Impero i Latini che abitano il Peloponneso, anche i Catalani che abitano in Attica e Beozia dovranno necessariamente unirsi a noi, sia volontariamente sia attraverso la violenza.
Allora la potenza dei Romei tornerà ad estendersi, come ai tempi antichi, dal Peloponneso fino a Bisanzio ed è chiaro che allora sarà facile ottenere soddisfazione dai serbi e dagli altri popoli barbari confinanti per tutti gli insulti che hanno gettato su di noi nel corso di un così lungo periodo di tempo”.
Pag. 461-62

Bisanzio si trovava sulla soglia di una delle più gravi crisi della sua storia.
La guerra civile degli anni Venti aveva notevolmente indebolito l’Impero; la guerra civile degli anni Quaranta gli tolse le ultime forze che gli restavano.
Questa volta le potenze straniere intervennero in misura maggiore nelle lotte intestine dei bizantini e la lotta dei partiti politici venne approfondita da contrasti sociali e religiosi.
Bisanzio passò attraverso una grave crisi non solo politica, ma anche sociale.
Con il movimento dei zeloti si affermò una forte tendenza sociale rivoluzionaria e alle lotte politiche e sociali si intrecciò la più importante controversia religiosa del periodo tardo-bizantino: la controversia esicastica.
Esicasti erano definiti a Bisanzio fin dai tempi più antichi i monaci che in santo silenzio (en esychia) conducevano una rigida vita di eremiti.
Nel Secolo Quattordicesimo il movimento esicastico assunse il significato di una particolare tendenza mistico-ascetica che indirettamente risaliva al grande mistico del Secolo Undicesimo, Simeone il Nuovo Teologo, le cui dottrine e la cui prassi hanno molto in comune con quelle degli esicasti.
L’origine di questa tendenza risale direttamente all’opera di Gregorio Sinaita, che nel quarto decennio del Secolo Quattordicesimo viaggiò attraverso i territori dell’Impero.
Le dottrine mistico-ascetiche del Sinaita vennero entusiasticamente accolte nei monasteri bizantini.
Particolarmente grande fu l’entusiasmo sul Monte Athos: l’antica culla dell’ortodossia bizantina divenne il centro del movimento esicastico.
Il fine più alto degli esicasti era la visione della luce divina e la via per giungervi era per essi al prassi ascetica.
In solitudine e ritiro l’esicasta doveva recitare la cosiddetta preghiera di Gesù (“Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me”), e mentre recitava la preghiera doveva trattenere il respiro: in questo modo l’orante avrebbe avvertito gradualmente un senso di beatitudine ineffabile e si sarebbe visto circondato dai raggi di una luce divina ultraterrena, di quella luce increata che i discepoli di Gesù videro sul Monte Tabor.
Pag. 462-63

Al tempo della sua massima fioritura, l’assolutismo fiorentino aveva costruito, sulle rovine dell’antica amministrazione cittadina municipale, il suo onnipotente apparato burocratico e aveva costretto la cita cittadina sotto il suo centralismo totalitario.
Con l’indebolimento del potere centrale le forze locali avevano cominciato a riprendere vigore anche la vita indipendente delle città sembrò risvegliarsi.
Questo risveglio dell’autogoverno urbano non era però dovuto al sorgere di nuove forze sociali, ma piuttosto all’indebolimento del potere centrale, minato dal feudalesimo; la vita cittadina del tardo Impero non era dominata da una nuova classe di mercanti e di industriali, come in Occidente, bensì dall’aristocrazia terriera locale.
Bisogna tener ben presente questa differenza, anche se è vero che gli avvenimenti che sconvolsero la vita delle città bizantine intorno alla metà del Secolo Quattordicesimo trovano molti paralleli nella storia contemporanea delle città italiane o anche di quelle fiamminghe e vanno situate nel quadro generale delle lotte sociali nelle città europee.
Questa differenza fondamentale spiega perché la potenza economica di Bisanzio, che una volta si trovava in posizione dominante, potesse venir minata e infine sostituita così rapidamente dalle città commerciali italiane.
Pag. 465

Ma il trionfo della dinastia dei Cantacuzeni non durò a lungo.
L’opposizione si faceva sempre più forte.
Del resto lo stesso svolgimento della guerra tra Giovanni Paleologo e Matteo Cantacuzeno era una chiara dimostrazione del cambiamento che era avvenuto nell’opinione pubblica dell’Impero.
Grazie ai turchi, Giovanni Cantacuzeno aveva nuovamente vinto sui suoi avversari, ma l’aiuto dei turchi era un’arma a doppio taglio.
L’epoca delle incursioni turche condotte senza un piano si avvicinava alla fine e aveva inizio l’epoca del definitivo insediamento degli ottomani sul suolo europeo.
Nel 1352 avevano già preso possesso della fortezza di Tzympe, presso Callipolis, e nel marzo del 1354 – dopo un terribile terremoto che indusse i bizantini ad abbandonare la regione – il figlio di Orkhan, Sulaiman, prese possesso della stessa Callipolis (Gallipoli).
Invano Cantacuzeno fece appello all’amicizia di Orkhan offrendogli, nonostante l’immiserimento dello Stato,  grandi somme in compenso dell’evacuazione della città occupata.
Gli ottomani non pensavano affatto a restituire la fortezza che offriva loro un’ottima base di operazioni per le ulteriori conquiste in Tracia.
A Costantinopoli la popolazione era presa dal panico, si pensava che la città fosse già direttamente minacciata dai turchi.
La posizione di Cantacuzeno era diventata insostenibile, il terreno era maturo per la sua caduta.
Pag. 477-78

L’impotenza dell’Impero bizantino era ora ancora più grave che non al tempo in cui Cantacuzeno era salito al trono di Costantinopoli.
Lo spezzettamento del territorio dell’Impero era proceduto ancora oltre e ancor più disperata era la sua situazione economica e finanziaria.
Per l’Impero, che nel corso di una generazione era passato attraverso tre guerre civili, non c’era più salvezza.
I pilastri di quella che era stata la potenza dello Stato bizantino erano stati la sua ricchezza monetaria e il suo eccellente sistema amministrativo.
Ora la cassa dello Stato bizantino era vuota e il sistema amministrativo era in pieno disfacimento.
La moneta era svalutata, le fonti di entrate erano esaurite e anche gli antichi tesori erano stati in gran parte già dissipati.
Dei temi e dei distretti governati dai logoteti, che erano stati la pietra angolare dell’amministrazione provinciale e centrale, non restavano che i nomi.
Le cariche più importanti erano diventate nient’altro che dei vuoti titoli,  e si perdette persino il ricordo delle loro antiche funzioni: possiamo infatti vedere in Codino che non si sapeva più cosa fossero state in realtà le cariche di logothetes ghenikou e del logothetes tou dromou.
Se si richiama alla memoria l’importanza che avevano avuto queste cariche e si tiene presente che ancora nel terzo decennio del Quattordicesimo Secolo Teodoro Metochite era stato logothetes ghenikou e poi megas logothetes sotto Andronico Secondo, si può misurare tutta l’ampiezza e anche la rapidità della decadenza dell’ordinamento amministrativo bizantino nei fatali decenni delle guerre civili.
Con il crollo della sua forza finanziaria e la disgregazione dell’apparato amministrativo erano state eliminate le salde basi dell’esistenza dell’Impero bizantino.
Il processo di decadenza durò ancora a lungo, giacché fino alla fine Bisanzio conservò la sua sorprendente tenacia.
Ciò nonostante la storia degli ultimi cento anni di Bisanzio non è che la storia di una decadenza inarrestabile.
Pag. 479

Il 6 agosto 1354, ambasciatore veneziano a Costantinopoli, aveva informato il doge Andrea Dandolo che i bizantini, minacciati dai turchi e dai genovesi, erano pronti a sottomettersi a qualunque potenza: a Venezia, al sovrano serbo, o anche al re d’Ungheria.
E il 4 aprile del 1355 Marino Faliero consigliò che la repubblica annettesse semplicemente l’Impero, altrimenti, data la situazione miserevole in cui si trovava, sarebbe caduto vittima dei turchi.
Non era un segreto che Bisanzio si trovava alla vigilia del crollo e sembrava che l’unico problema consistesse nel decidere se i resti dell’Impero dovessero toccare ai turchi oppure ad una potenza cristiana.
Pag. 480

La guerra veneziano-genovese per Tenedo intanto continuava e da ambedue le parti venne condotta con asprezza crescente, ma non portò ad alcuna soluzione.
Alla fine i due contendenti stanchi conclusero con la mediazione del conte Amedeo di Savoia un trattato di pace a Torino, l’9 agosto 1381.
Si venne ad un compromesso: Tenedo non sarebbe toccata né ai veneziani né ai genovesi, le sue piazzeforti dovevano essere distrutte, gli abitanti trasportati a Creta e nell’Eubea e l’isola demilitarizzata doveva essere affidata a un delegato del conte di Savoia.
In tutto ciò Bisanzio rimase fuori dal gioco, come se l’isola non lo fosse mai appartenuta.
Invece rifiutò la consegna il bailo veneziano di Tenedo, cosicché le dichiarazioni del trattato vennero rese effettive soltanto nell’inverno 1383-84 e anche in seguito i veneziani utilizzarono l’isola ancora per lungo tempo come base navale d’appoggio.
Pag. 388

Non solo la posizione politica di Bisanzio, ma anche la sua autorità spirituale era stata scossa fino alle fondamenta dagli avvenimenti degli ultimi anni.
Perfino il principato di Mosca, che era sempre rimasto fedele alle tradizioni, osò rifiutarsi di riconoscere il vassallo turco come erede di Costantino il Grande e capo spirituale del mondo ortodosso.
Il granduca Basilio Primo, figlio del grande vincitore dei Tatari Demetrio Donskoj, proibì di menzionare il nome dell’imperatore bizantino nelle chiese russe e coniò la frase: “Abbiamo una Chiesa, ma non un imperatore”.
La sovranità della Chiesa greca restava intangibile per il sovrano dello Stato russo – allora in possente sviluppo -, ma pensava che non avrebbe più potuto riconoscere la supremazia ideale del miserando imperatore bizantino.
Qui si manifestava ancora una volta quel che si era visto già spesso negli ultimi decenni della storia bizantina: il prestigio della Chiesa bizantina aveva nei paesi ortodossi basi più solide che non quello dello Stato bizantino.
La protesta bizantina non si fece attendere a lungo, ma non fu l’imperatore a prendere la parola, bensì il patriarca di Costantinopoli.
Mentre una volta era la Chiesa bizantina che nei confronti del mondo esterno si appoggiava all’autorità del potente Stato, ora è il diminuito prestigio dell’Impero bizantino ad essere sostenuto dall’autorità del patriarca di Costantinopoli.
Le parti si erano invertite: non era lo Stato a proteggere la Chiesa ma la Chiesa a sostenere lo Stato.
“Non è affatto una buona cosa, figlio mio,  - scrisse il patriarca Antonio al granduca Basilio Primo Dimitrevic, - quel che tu dici: Abbiamo una Chiesa, ma non abbiamo un imperatore”.
E’ assolutamente impossibile per i cristiani avere una Chiesa e non avere un imperatore.
Giacché Impero e Chiesa costituiscono un tutto unico ed è impossibile separarli…
Ascolta il principe degli apostoli Pietro, che dice nella prima epistola: “Temete Dio, onorate l’imperatore”.
Egli non disse “gli imperatori”, perché nessuno pensi ai cosiddetti imperatori dei singoli popoli, ma disse ”l’imperatore”, per indicare che nel mondo esiste un solo imperatore…
Se però anche alcuni altri cristiani si sono appropriati del nome di imperatore, questo è accaduto contro natura e legge, attraverso la tirannia e la violenza.
Quali padri, quali concili, quali leggi canoniche parlano di questi imperatori?
Sempre e dappertutto invece essi parlano dell’unico imperatore naturale, le cui leggi, ordinanze e decreti hanno forza di legge in tutto il mondo; ed è solo questo imperatore e nessun altro che i cristiani sempre menzionano.
Pag. 494-95

Invece du procurare un aiuto contro il nemico esterno, l’unione gettò Bisanzio in preda a lotte intestine, seminò inimicizie e odio tra la popolazione bizantina e privò l’Impero di quel che gli restava del suo prestigio al di fuori dei suoi confini, nel mondo slavo.
Il principato di Mosca, lontano com’era dai pericoli che minacciavano Bisanzio, e che era stato educato dagli stessi bizantini nell’odio antiromano, vide nella conversione dell’imperatore e del patriarca di Costantinopoli, un inconcepibile tradimento.
Il greco Isidoro, che era stato nominato metropolita di Mosca, ed era un eminente esponente del partito unionista, dopo il suo ritorno da Firenze venne deposto e imprigionato dal granduca Basilio Secondo.
Da allora in poi Mosca nominò essa stessa il suo metropolita e voltò le spalle all’apostata Bisanzio, che, con il suo tradimento della vera fede, aveva perduto il diritto di essere la massima autorità del mondo ortodosso.
SI era così persa la Russia e provocata un’aspra lotta nella stessa Bisanzio, ma non si era ottenuto pressoché nulla da Roma.
La campagna salvatrice che Bisanzio si attendeva non ebbe luogo, così come a Costantinopoli l’unione non venne messa in pratica.
Continuavano a contrapporsi una Chiesa romano-cattolica e una Chiesa greco-ortodossa.
E mentre la popolazione bizantina restava tenacemente fedele alla sua fede, i più importanti sostenitori dell’unione passarono coerentemente del tutto dalla parte di Roma: il capo del partito unionista greco, il dotto Bessarione e Isidoro, che era fuggito dalla prigionia in Russia, diventarono cardinali della Chiesa romana.
Senza aver portato ad un risultato politico positivo, le trattative di Ferrara e di Firenze suscitarono il sospetto di Murad Secondo, e Giovanni Settimo dovette calmare il sultano spiegandogli che queste trattative avevano scopi puramente religiosi.
Pag. 502-3

Né il coraggio, né l’energia politica dell’ultimo imperatore di Bisanzio poterono salvare l’Impero dall’inevitabile crollo.
Quando, dopo la morte di Murad Secondo (febbraio del 1451), salì sul trono suo figlio Maometto Secondo, per l’Impero bizantino era suonata l’ultima ora.
La Costantinopoli bizantina era situata nel cuore del territorio ottomano, separando i possedimenti asiatici dei turchi da quelli europei.
Il primo obiettivo del giovane sultano fu quello di eliminare questo corpo estraneo e di dare al sempre forte Impero ottomano un forte centro in Costantinopoli.
Con tenace energia e grande circospezione egli preparò la conquista della capitale, per portare così alla sua naturale conclusione l’opera dei suoi predecessori.
La corte bizantina non poteva farsi alcuna illusione sulle intenzioni degli ottomani, soprattutto dopo che il sultano fece costruire uan ben munita fortezza (Rumili Hissar) sul Bosforo nelle immediate vicinanze della capitale.
Pag. 506

Nei primi giorni di aprile del 1453 Maometto Secondo radunò un possente esercito sotto le mura della città.
Dalla parte bizantina, a fargli fronte non c’erano che circa cinquemila difensori greci e forse duemila stranieri: il contingente principale delle forze occidentali era costituito da settecento genovesi che, sotto il comando di Giustiniani, erano giunti su due galee a Costantinopoli poco prima dell’inizio dell’assedio, con grande gioia dei bizantini.
Si può calcolare che le forze degli aggressori superassero di dieci volte quelle dei difensori.
La forza di Costantinopoli non stava nell’eroica, ma numericamente del tutto insufficiente schiera di difensori, bensì nella particolare posizione della città e della saldezza delle sue fortificazioni, che Giovanni Ottavo e anche Costantino Undicesimo avevano fatto del loro meglio per restaurare.
Pag. 507

Maometto Secondo decise di sferrare l’attacco generale il 29 maggio.
La vigilia, mentre il sultano preparava le sue truppe alla battaglia, i cristiani, greci e latini assieme, celebravano in Santa Sofia la loro ultima funzione religiosa.
Dopo la funzione i soldati tornarono ai loro posti e fino a tarda notte l’imperatore ispezionò le fortificazioni.
Alle prime ore dell’alba ebbe inizio la battaglia: la città veniva attaccata da tutti e tre i lati.
Ma gli eroici difensori resistettero a lungo all’assalto e respinsero i nemici.
Allora il sultano ricorse alla sua riserva, le schiere di Giannizzeri, e dopo una dura lotta queste truppe scelte dell’armata ottomana riuscirono a scalare le mura.
Al momento decisivo Giustiniani, che combatteva a fianco dell’imperatore, venne mortalmente ferito e dovette essere portato via.
La sua scomparsa creò confusione nel campo dei difensori e accelerò l’espugnazione da parte dei turchi.
Poco dopo la città era nelle loro mani.
Costantino Undicesimo combatté fino all’ultimo momento e nella battaglia trovò la morte che cercava.
Tre giorni e tre notti durò il saccheggio che il sultano aveva concesso ai suoi soldati mentre li preparava per l’attacco finale, allo scopo di elevare il loro morale che andava cadendo.
Si distrussero beni di inestimabile valore, monumenti d’arte, preziosi manoscritti, immagini sacre e arredi ecclesiastici.
Maometto Secondo entrò solennemente nella città conquistata.
Costantinopoli divenne la capitale dell’Impero ottomano.
L’impero bizantino non esisteva più.
Con la fondazione della capitale sul Bosforo sotto Costantino il Grande era cominciata l’esistenza dell’Impero bizantino, con la sua caduta sotto l’ultimo Costantino, l’Impero moriva.
Tuttavia la Morea meridionale greca e anche l’Impero di Trebisonda sopravvissero per alcuni anni alla caduta di Costantinopoli.
Ma la loro conquista non era più un problema per i turchi.
La conquista di Costantinopoli aveva gettato un ponte tra i possedimenti asiatici e quelli europei degli ottomani, creò l’unità dell’Impero ottomano e diede nuovo slancio alla sua espansione.
L’Impero turco assorbì rapidamente i residui possedimenti greci, come pure latini e slavi nei Balcani.
Nel 1456 Atene cadde nelle mani degli ottomani e il Partenone, che da un millennio era una chiesa dedicata alla Santa Vergine, divenne una moschea turca.
Nel 1460 la bizantina Morea cessava di esistere; Tommaso fuggì in Italia, mentre Demetrio, che era ostile ai latini, si recò alla corte del sultano.
Nel settembre del 1461 cadeva anche l’Impero di Trebisonda e così l’ultimo lembo di territorio greco cadeva sotto il dominio turco.
Il despotato di Serbia era stato conquistato già nel 1459 e nel 1463 la stessa sorte toccò al regno bosniaco e prima della fine del secolo anche gli altri territori slavi e albanesi fino alla costa adriatica caddero in preda ai conquistatori.
Esisteva nuovamente un impero che andava dalla Mesopotamia fino all’Adriatico, e che aveva il suo centro naturale in Costantinopoli: l’Impero turco che, nato sulle rovine dell’Impero bizantino per molti secoli seppe riunire ancora una volta in un unico Stato gli antichi territori bizantini.
Bisanzio cadde nel 1453 ma la tradizione spirituale e politica sopravvisse.
La sua fede, la sua cultura e la sua concezione dello Stato continuarono a vivere, influenzando e fecondando la vita politica e culturale dei popoli europei sia sull’antico territorio bizantino, sia oltre gli antichi confini dell’Impero.
La religione cristiana nella sua specifica forma greca, come manifestazione della spiritualità bizantina e allo stesso tempo come antitesi del cattolicesimo romano, restò la cosa più sacra sia per i greci che per gli slavi meridionali l’espressione della loro individualità spirituale e nazionale; essa preservò i popoli balcanici dall’assorbimento dell’ondata d’immigrazione turca e rese così possibile la loro rinascita nazionale del Secolo Diciannovesimo.
L’ortodossia fu anche la bandiera sotto la quale ebbe luogo l’unificazione delle regioni russe e il patriarcato di Mosca raggiunse la sua posizione di grande potenza.
Poco dopo la caduta di Bisanzio e dei regni slavi meridionali, Mosca si ribellò al giogo tataro e divenne, quale unica potenza indipendente di fede ortodossa, il centro naturale del mondo ortodosso.
Ivan Terzo, il grande unificatore e liberatore delle regioni della Russia, sposò la figlia del despota Tommaso Paleologo, nipote dell’ultimo imperatore di Bisanzio, assunse l’insegna bizantina dell’aquila bicipite, introdusse a Mosca costumi bizantini, e ben presto la Russia svolse nell’Oriente cristiano il ruolo di guida che in passato era stato dell’Impero bizantino.
Se Costantinopoli era stata la nuova Roma, Mosca divenne la “terza Roma”.
L’eredità spirituale di Bisanzio, la sua fede, le sue idee politiche e i suoi ideali spirituali continuarono a vivere per secoli nell’Impero degli zar russi.
Una forza d’irradiazione ancora più grande ebbe la cultura bizantina, che giunse a penetrare di sé l’Oriente e l’Occidente.
Anche se l’influenza bizantina nei paesi neolatini e germanici non fu così ampia come in quelli slavi, ciò nondimeno la cultura bizantina influì e fecondò anche la vita dell’Occidente.
Lo Stato bizantino era stato lo strumento attraverso il quale la cultura dell’antichità greco-romana aveva continuato a vivere attraverso i secoli.
Per questo Bisanzio era la parte che dava, l’Occidente la parte che riceveva.
Soprattutto nell’età del Rinascimento, in cui così forte era la passione per la cultura classica, il mondo occidentale trovò in Bisanzio la fonte attraverso la quale attingere ai tesori culturali dell’antichità.
Bisanzio conservò l’eredità classica e adempì in questo modo ad una missione storica di importanza universale.
Salvò dalla distruzione il diritto romano, la poesia, la filosofia e la scienza greche, per trasmettere questa inestimabile eredità ai popoli dell’Europa occidentale, divenuti maturi per riceverla.
Pag. 508-510