Introduzione

Il sito, lo sviluppo e tutta la storia di Roma sono stati condizionati, in larga parte, dalla posizione geografica.
Delle tre grandi penisole mediterranee, l’Italia è la più favorita grazie alla posizione centrale tra la penisola iberica e quella greca; è anche la meno grande e quella maggiormente protesa nel mare, pur risultando ben saldata al continente europeo attraverso la ricca pianura del Po.
Da ciò il suo ruolo di cerniera tra le correnti di scambio e le correnti culturali provenienti dai due bacini del Mediterraneo come anche tra i popoli provenienti dal nord e quelli del mare.
Il bacino orientale è da millenni il cuore di grandi civiltà e spesso di imperi che si sono contesi il controllo delle sue acque e dei suoi circuiti commerciali: a sud l’Imperi egiziano dei faraoni; a est le città fenicie che dominano la zona costiera; a nord i micenei i quali, eredi della civiltà cretese, a partire dalla seconda metà del secondo millennio a. C. si sono avventurati lungo le coste della Sicilia, dell’Italia meridionale, dell’Etruria e del mare Adriatico.
Da queste loro esplorazione derivano le descrizioni spesso precise delle coste italiche presenti nell’Odissea.
A loro volta, a partire dall11. secolo a. C., i fenici – abili commercianti – devono essere penetrati nel bacino occidentale del Mediterraneo.
In ogni caso, nell’8. secolo costoro hanno fondato basi commerciali in Sicilia, in Sardegna, nell’Africa settentrionale (Utica, Cartagine) e nella penisola iberica (Cadice).
Nella stessa Roma, una colonia di Tirii ha potuto stabilirsi nell’8.-7. secolo nel Foro Boario.
I greci li seguono facendo loro concorrenza non solo in Sicilia e nell’Italia meridionale: il loro movimento colonizzatore raggiunge anche la Gallia meridionale (Marsiglia è fondata dai focei dell’Asia Minore intorno al 600 a. C.) e quindi la penisola iberica.
Il bacino occidentale, invece, risulta circondato da genti molto diverse, che vivono per lo più raccolte in tribù o in popoli, legate ad un’economia sostanzialmente agricola, con una cultura ed una religione strettamente connesse alle loro preoccupazioni quotidiane e guerriere, ciò che non vuol dire “primitive” nel senso peggiorativo del termine.
Nelle regioni litoranee del Maghreb, i popoli berberi (libii, numidi, mauri), sedentari consumatori di cereali, non vivono, come si è creduto, completamente “ai margini della storia”; costoro hanno potuto avere, da un lato – a est – contatti con la Sicilia, dall’altro – a ovest – contatti con la penisola iberica e, in ogni caso, certamente hanno avuto contatti con i fenici: la civiltà punica (o dei fenici dell’ovest) s’impose nella Tunisia orientale con la ricca Cartagine, altrove sotto forma di basi commerciali disseminare lungo le coste da un lato fino ai confini della Cirenaica, dall’altro almeno fino all’attuale Marocco meridionale.
La penisola iberica, dove un contrasto impressionante oppone le fertili pianure costiere agli altipiani dell’entroterra, è occupata da popoli con culture assai diversificate.
Iberi e celtiberi, popolazioni del nord, raggruppate intorno ai loro castros, non hanno in comune quasi altro che l’attaccamento ai loro capi (militari) e il carattere religioso.
A partire dall’8. secolo i grandi centri minerari sono in attività, soprattutto nella valle del Guadalquivir (regno di Tartesso); sono proprio questi centri minerari che hanno attirato i fenici e poi i greci.
Nella Gallia meridionale, i popoli liguri e celto-liguri a est ed i popoli iberici e celtiberici dell’ovest, talora riuniti in confederazioni, spesso animati da un’aristocrazia di capi riconosciuti dalla collettività, a partire dal 7. Secolo sono stati messi in contatto con il mondo greco dai commercianti rodii e soprattutto dai coloni focei fondatori di Massilia, che si spingono in seguito ad ovest fino ad Ampurias (emporion = base commerciale), ad est fino a Nizza (Nikaia) e Antibes (Antipolis).
Come mostrano i rinvenimenti archeologici, relazioni commerciali furono strette da questi popoli anche con i greci della Magna Grecia e con gli etruschi.
Non va trascurato l’entroterra, per le grandi migrazioni che ne hanno spesso rivoluzionato la storia e trasformato il popolamento.
Per limitarsi agli ultimi millenni prima della nostra era e alle migrazioni di popoli che hanno interessato i territori toccati più tardi da Roma e dalla sua cultura, si ricorderanno:
- a sud l’azione die popoli del mare e del deserto
- a nord le invasioni indoeuropee e soprattutto celtiche
I “popoli del mare” sono già stati ricordati a proposito dei fenici e dei greci.
Senza dire delle tradizioni leggendarie, che spesso oscurano la storia, i testi letterari e l’archeologia evidenziano, durante l’età del bronzo, l’arrivo degli ibero-liguri e, per esempio, in Sicilia l’arrivo di sicani e siculi (forse un unico popoli di conquistatori).
Per alcuni, i siculi darebbero le popolazioni primitive dell’Italia.
Per quanto riguarda i popoli del deserto, a partire dalla seconda metà del secondo millennio si affermano gli “equidi”, allevatori di cavalli e conduttori di carri, che divenuti brillanti cavalieri (getuli e garamanti), sono gli avi dei tuareg.
La loro presenza nel Sahara e la loro attività militare e commerciale, con il controllo sovente delle relazioni tra popolazioni nomadi e popolazioni sedentarie, influiranno profondamente sulla storia del Maghreb.
A nord, sempre nel secondo millennio, le invasioni indoeuropee portano ugualmente verso i paesi mediterranei popoli incineranti che utilizzano cavalli e carri.
E’ difficile ricostruire e datare i loro movimenti.
Si constata l’esistenza di estesi campi d’urne i Slesia e in Pannonia (l’attuale Ungheria) intorno al 1300-1200 a. C.
Dopo il 1000, questa civiltà dei campi d’urne declina lentamente fino all’ottavo secolo.
Trionfa allora la civiltà di Halstatt (in Stiria) nella prima età del ferro.
In Italia, i latini sono probabilmente i più antichi popoli indoeuropei giunti nella penisola.
Solo una parte di costoro si installa nel Lazio, mentre un’altra parte si dirige in Sicilia.
Sedentarizzandosi, praticheranno d’ora in avanti l’inumazione.
All’inizio del quinto secolo a. C., quando la cultura di Halstatt è al suo epilogo, emerge una nuova cultura, detta di La Tène (dal nome di un sito archeologico svizzero), corrispondente alla seconda età del ferro.
E’ questo il momento della Dama di Vix e della formazione della “nazione” gallica, caratterizzata da una produzione artistica originale, da un artigianato evoluto e da una religione peculiare in cui si mescolano forze naturali e animali divinizzate con divinità antropomorfe, e dove i miti e i riti si conservano all’insegnamento orale dei druidi.
L’arrivo dei popoli indoeuropei, in ondate che non si arrestano nel 5.-4. secolo, è uno degli avvenimenti maggiori della storia dell’Occidente.
Esso avrà profonde ripercussioni sul popolamento dell’Italia.
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Parte prima. Dalle origini all’Impero

I conseguimenti di Roma, spesso definiti come “il miracolo romano”, consistono in questo: un semplice villaggio del Lazio inizia con il dominare gli altri villaggi latini, poi stabilisce la sua autorità sulla penisola italiana per poi imporsi all’universo conosciuto per almeno otto secoli.
Tra tutte le domande che pone il destino storico di Roma risalta immediatamente quella delle origini, problema interessante ma difficile.
Tanto più difficile in quanto contornato da numerose leggende (quella di Romè, figlia di Telefo, a sua volta figlio di Eracle, che avrebbe fatto di Roma una città etrusca; quella di Romos, figlio di Ulisse, secondo cui la città sarebbe stata greca!), l’origine del villaggio latino non è ricordata che da un numero assai ridotto di documenti certi.
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Cap. 1. L’Italia nell’8. secolo a. C., ovvero l’Italia prima di Roma

Alla metà dell’ottavo secolo, nel momento in cui la tradizione fissa la fondazione di Roma, l’Italia presenta un mosaico di popoli, di cui alcuni sono ormai da tempo stabilmente stanziati, mentre altri sono ancora in movimento.
Tra costoro si installano due popoli e due civiltà che vanno rapidamente a dominare il nord ed il sud della penisola: gli etruschi e i greci, che assai presto hanno iniziato ad esercitare una profonda influenza sul nascente villaggio che sta per diventare Roma.
Con i fenici che impiantano le loro basi commerciali e i greci che fondano le loro colonie, è l’Oriente che si assicura il predominio nel bacino mediterraneo occidentale.
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Le culture dell’Italia primitiva

Esse sono meno diversificate di quanto lo siano i popoli stessi.
Sarebbe tuttavia sbagliato opporre senza mezzi termini le culture dei popoli autoctoni o quanto meno appartenenti al sostrato mediterraneo a quelle dei popoli di origine indoeuropea.
Non si può più mantenere la divisione, ammessa ancora di recente, tra coloro che praticavano esclusivamente l’inumazione (i primi) e coloro che facevano ricorso solo alla cremazione (i secondi).
Al più, si può parlare di costume dominante; assai presto si sono avute delle fusioni.
Si trova una necropoli villanoviana a incinerazione – i villanoviani utilizzavano per le ceneri dei loro morti delle urne biconiche – a Fermo.
Ma se ne trovano anche nella Campania meridionale, nella provincia di Salerno.
Presso un popolo, la cremazione e l’inumazione talora si praticano contemporaneamente, talora si succedono nel tempo.
I riti funerari non costituiscono sempre, dunque, un criterio per definire l’appartenenza etnica.
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Regna, invece, una assai grande varietà di lingue anche se alcune mostrano affinità.
Appartengono, per la maggioranza, alla famiglia delle lingue indoeuropee.
E l’esistenza in Italia di una lingua indoeuropea molto arcaica è stata confermata dai linguisti.
Si tratta di un elemento culturale essenziale per il presente ed il futuro.
E’ in effetti significativo che il latino abbia conservato le parole indoeuropee che designano le forme più antiche della vita religiosa, della vita costituzionale e della vita familiare: è il caso di rex, flamen, credo, pater, mater, ecc.
Oltre al latino, era parlato il falisco, il veneto – noto anche per le iscrizioni delle stele votive di Este -, l’umbro delle tavole di Gubbio e, ad esso apparentato, l’osco utilizzato da tutti i popoli del sud-ovest.
Sabini, marsi, volsci e piceni avevano ugualmente loro specifici dialetti.
A queste lingue indoeuropee sono estranei il ligure (anche se permeato da elementi presi in prestito da esse) nonché il messapico e lo iapigio di cui si sono viste le affinità con l’illirico.
A parte è infine l’etrusco di cui si tornerà a parlare.
Tra queste culture diversificate ma vicine, una se ne distacca nettamente per il suo carattere avanzato e il suo splendore, ed è la cultura etrusca.
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La cultura etrusca

Questa civiltà originale nell’ambito della penisola è caratterizzata da tre elementi principali.
Innanzitutto è una civiltà urbana.
In un’Italia di villaggi, solo l’Etruria conosce la città, fondata ritualmente, dotata di uan cinta muraria, di porte, di templi in pietra (tutto questo sarà trasmesso all’urbanistica romana); essa è addirittura una federazione di dodici città-stato che hanno propri magistrati che, in caso di difficoltà, si sottomettono a un dittatore (macstrna = mastarna): è ciò che si è prodotto a Roma alla fine del regno dei primi tarquini con l’arrivo al potere di Mastarna = Servio Tullio (?).
Una struttura urbana implica naturalmente delle istituzioni politiche e sociali.
Governati all’inizio da re (lucumoni), circondati dai fasci, simboli del loro potere, e dotati di insegne ben note (la corona d’oro e lo scettro sormontato dall’aquila), i popoli etruschi sostituiscono loro, nel corso del quinto secolo, magistrati annuali o zilath (in latino praetores); ciò fa pensare naturalmente ad una successione politica monarchia-repubblica come quella che proprio agli inizi del quinto secolo ha luogo a Roma.
Quanto alla società etrusca, essa è patrizia e quasi feudale: da una parte vi è una classe id nobili che costituisce l’oligarchia dei principes, dei notabili, che detengono il potere nelle città fin quando la plebe rurale non vi si introduce con la forza, dall’altra un’immensa classe servile, con la possibilità per gli schiavi di diventare liberti e, una volta tali, di legarsi alla clientela dei grandi.
In secondo luogo, in una Italia rurale primitiva, costituisce uan civiltà materialmente e tecnicamente evoluta: gli etruschi praticano il drenaggio dei suoli e l’irrigazione grazie ad una avanzata scienza idraulica.
Inoltre, un artigianato di qualità, che non ignora le tecniche greche, permette loro di sfruttare – attraverso pozzi e gallerie – i giacimenti di stagno, di rame e di ferro dell’isola d’Elba e id utilizzarli poi a fini commerciali.
Tra i prodotti più notevoli vi sono le armi, gli utensili e gli oggetti domestici in bronzo e in ferro (soprattutto gli specchi e le ciste), ma anche la ceramica (in particolare l’impasto e il bucchero).
La loro cultura, infine, nel contempo nazionale ed eclettica, assicura loro un primato incontestabile in tre ambiti.
Innanzitutto quello religioso. Si tratta dell’ambito meglio conosciuto ma anche più enigmatico.
Per gli etruschi la religione è rivelata; e lo è stata tramite i profeti, il principale dei quali è Tagete.
Si tratta, dunque, di una religione dei  libri (e non “del” libro come la Bibbia degli ebrei): dei libri sacri che trasmettono una volta per tutte la religione fissando le prescrizioni relative al rituale e fissando la vita delle città e degli uomini (libri rituales), l’arte e il modo di analizzare i visceri delle vittime sacrificali (libri haruspicinalis), le conoscenze necessarie per la discesa dell’uomo nell’aldilà (libri acheruntici), costituendo tutto ciò una scienza, la disciplina etrusca.
Si tratta, dunque, di una religione molto ritualista: il celebre fegato in bronzo di Piacenza, immagine del cielo suddiviso in caselle, ciascuna delle quali segnata con il nome di una divinità, serviva come riferimento nell’epatoscopia, nell’esame – cioè – del fegato degli animali offerti agli dèi.
Era, infine, una religione ben organizzata: al di sotto di una triade (Tinia = Giove; Uni = Giunone; Menrva = Minerva), venerata in templi della cella tripartita (come sarà il tempio di Giove Capitolino a Roma), vi era tutto un pantheon di divinità assimilate alle divinità greche: Voltumna / Vertumnus, “la prima divinità dell’Etruria” secondo Varrone, Turan = Afrodite, Fufluns = Dionisio, Turms = Ermes, Sethlaus = Efesto, Hercle = Eracle, Maris = Marte, Nethuns = Nettuno ecc.
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La lingua etrusca non è più considerata oggi una lingua indoeuropea; si cercano affinità con il basco, il caucasico e con i dialetti preellenici soprattutto.
Certo essa rivela tracce di imprestiti anche dai dialetti greci e italici.
Ci è nota da circa 10000 iscrizioni: purtroppo, si tratta soprattutto di brevi epitaffi, di età tarda, che non permettono grandi progressi nella conoscenza della lingua.
L’ultima scoperta (le iscrizioni bilingui – in etrusco e punico – rinvenute a Parigi) è stata per tale aspetto deludente.
Gli etruschi avevano tuttavia un alfabeto che hanno diffuso in Italia, regione che da loro ha imparato a leggere.
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L’Oriente conquista l’Occidente

Mentre gli etruschi si stabilivano a nord del Tevere e rapidamente estendevano il loro controllo fino alla pianura Padana verso nord e fino in Campania verso sud, due altri popoli prendevano piede in Italia: i fenici e i greci.
I loro insediamenti testimoniano la vitalità dell’Oriente e la sua forza di espansione nel bacino occidentale del Mediterraneo.
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L’insediamento e l’influenza fenicia

Si è più di una volta insistito su uno specifico apporti dei fenici alla civiltà occidentale: l’alfabeto che era in uso a Biblo alla fine del secondo millennio è all’origine sia dell’alfabeto greco che dell’alfabeto etrusco da cui deriva quello latino.
I fenici hanno dunque insegnato a scrivere agli etruschi che, a loro volta, l’hanno insegnato ai romani.
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I greci in Italia e in Sicilia

L’arrivo dei greci in Occidente e, in particolare, nell’Italia meridionale e in Sicilia, assai meglio cnosciuto grazie alle testimonianze letterarie ed alle vestigia archeologiche, costituisce uno degli avvenimenti principali nella storia del Mediterraneo nel primo millennio a. C.
La colonizzazione greca ha avuto inizio nel corso dell’ottavo secolo nel mar Tirreno come nel mare Egeo e lungo le coste del mar Nero.
Cuma sembra essere stata, nel contempo, assieme a Ischia, la più settentrionale e la più antica delle fondazioni coloniali (intorno al 770).
Altre colonie, prima di origine calcidese, poi megarese, corinzia, achea, spartana, e quindi rodia, cretese e ionica (dell’Asia Minore), saranno fondate tra Cuma e Rhegion (Reggio Calabria) da un lato, fino oltre Taranto dall’altro così come lungo le coste della Sicilia, con una tale densità di insediamenti che Polibio, per definire questa parte dell’Italia meridionale ellenizzata, ha usato l’espressione di Magna Grecia, ripresa poi da Cicerone che ricorderà “questa antica Grecia d’Italia, che in passato fu chiamata la Grande”; ed infatti il nome deve risalire al sesto secolo.
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Il processo di ellenizzazione non ha interessato che le zone costiere e, ad un grado inferiore, il retroterra dove i calcidesi, ad esempio nell’Italia centrale, devono avere introdotto la coltura dell’olivo.
Questo processo ha riguardato anche Roma.
Si è osservato che la data tradizionale della fondazione di Roma (754/ 753 a. C.) corrisponde più o meno con la data della fondazione dell’achea Sibari (750 a, C.) e che la dine dell’età regia coincide, sempre secondo la tradizione, con la caduta di Sibari (510 a. C.).
E’ un caso?
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Cap. 2. La formazione di Roma: da Romolo ai tarquini

Sul piano storico è ancora molto difficile pronunciarsi sugli inizi, zeppi di leggende, di Roma.
Pure, su questo fondo di leggende, le scoperte archeologiche forniscono alcuni punti di riferimento cronologico.
Ed anche se non si possono considerare sicuri i nomi dei primi re, risulta molto chiaro che a dei re di origine latina e sabina, agli inizi del sesto secolo si sono sostituiti dei sovrani di origine etrusca ai quali si deve l’organizzazione urbana di ciò che fino ad allora non era che un insieme di villaggi.
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Alla svolta epocale del sesto secolo si collegano le straordinarie scoperte archeologiche effettuate di recente nel Lazio, a Pratica di Mare, sul sito di Lavinio: quattordici altari monumentali, di una sepoltura sacra (che si è chiamato l’heroon di Enea), iscrizioni votive tra cui la dedica arcaica in greco a Castore e Polluce ed un abbondante serie di statue e statuette di Minerva, il tutto databile al quarto-quinto secolo a. C.
A quest’epoca l’influenza greca ed il ricordo di Enea erano manifesti nel Lazio, dove Lavinio appare come un importante centro religioso che molto ha dato alla religione arcaica romana.
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Tra le ipotesi interpretative delle origini di Roma, ha rilievo quella elaborata da G. Dumézil, tanto brillante quanto criticata.
Per il Dumézil la storia dei re è pura mitologia.
E’ l’espressione storicizzata della tripartizione funzionale che si trova alla base di ogni sistema politico,  sociale e religioso dei popoli indoeuropei.
Secondo lo studioso, questi popoli hanno in comune tre organismo gerarchizzati, imposti da una struttura ideologica comune: questi tre organismi rappresentano e assicurano le tre funzioni essenziali della sovranità religiosa, della potestà militare e della forza produttiva.
Da ciò deriverebbe una società costituita da coloro che detengono il potere politico-religioso (re, magistrati, sacerdoti) la cui divinità è Giove, dio della sovranità, da coloro che assicurano la difesa militare, con Marte, dio della guerra, e da coloro che assicurano la produzione (agricoltori, pastori, artigiani) che hanno in Quirino la divinità che presiede a tale funzione.
Da questo stato di cose risalente nel tempo deriva, a Roma, il collegio dei tre flamini maggiori: di Giove, di Marte e di Quirino.
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Il grande momento della storia delle origini di Roma corrisponde al momento dell’acquisizione del controllo da parte degli etruschi nel sesto secolo, momento in cui Roma nasce come città
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La Roma etrusca

La nascita di Roma come città e come centro urbano organizzato è legata all’insediamento etrusco nell’Italia centro-meridionale e all’avvento di una dinastia proveniente dall’Etruria.
Sallustio ne ha reso conto agli inizi della sua Congiura di Catilina (6), dove contrappone l’epoca regia all’”orgogliosa tirannia” straniera che le aveva fatto seguito.
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La nascita della città

Ma il principale apporto della dominazione etrusca è stato urbano; al sesto secolo risale la “fondazione” della città di Roma
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La formazione della città

La vera rivoluzione, avvenuta nel corso della dominazione etrusca, più che nella “fondazione” di una Urbs (la parola sembra essere di origine etrusca), risiede nell’organizzazione di una città con i suoi quadri amministrativi e le sue istituzioni politiche e sociali.
La parte essenziale di questa opera è attribuita alle riforme serviane, di cui Livio (1., 43) e Dionigi di Alicarnasso (4., 16 e ss.) hanno tramandato un quadro preciso.
Così preciso che dei tre sovrani etruschi Servio Tullio è quello che si conosce meglio.
Per alcuni, Servio è uno straniero, un ex schiavo (servus) divenuto genero di Tarquinio grazie alla moglie di costui, Tanaquilla, una donna energica, che in seguito aiuterà la sua scalata al potere.
Per altri, in particolare per l’imperatore etruscologo Claudio, specialista di storia etrusca, costui era un condottiero, forse etrusco, chiamato Mastarna (= il dittatore), amico dei principi di Vulci, il quale sarebbe reso signore di Roma dopo aver eliminato il partito dei Tarquini.
In ogni caso, è a Servio Tullio che viene attribuita l’organizzazione di Roma in città, avvenimento che costituisce il fenomeno più importante della storia del sesto secolo.
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In questo modo trionfa un sistema censitario, che richiama la riforma di Clistene ad Atene.
Questo sistema si esprime politicamente nell’istituzione dei comizi centuriati (sui quali torneremo dopo) e, anche, in una nuova organizzazione militare.
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Già la salita al potere facendo uso della forza, contro la volontà dei patres e facendo leva sul popolo aveva avvicinato Tarquinio alla figura del “tiranno” greco.
Impedendo la sepoltura di Servio Tullio, Tarquinio aveva commesso, come nota Tito Livio, una grave offesa ed un sacrilegio.
In seguito il suo comportamento aveva ulteriormente accentuato l’accostamento al tyrannos, che gli autori antichi non hanno mancato di forzare (i Pisistratidi di Atene sono suoi contemporanei!).
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Malgrado Tacito, si deve ammettere che L. Bruto è un personaggio costruito che non ha nulla a che vedere con l’espulsione dei Tarquini.
Questa è il risultato di un declino della potenza etrusca, di un risveglio dei popoli italici e di movimenti interni nelle colonie della Magna Grecia (la distruzione di Sibari è contemporanea).
La partenza di Tarquinio è infatti dovuta all’intervento del re di Chiusi Porsenna, probabilmente nel 509-508.
Rifugiatosi in un primo momento a Tusculum, l’ultimo re etrusco dovette morire a Cuma nel 495.
Quanto alla nascita della Repubblica, essa è la conseguenza di un sussulto dell’aristocrazia (diciamo anzi del patriziato) di Roma contro uan dominazione straniera e tirannica e non ebbe luogo, forse, prima del 504 secondo alcuni, prima del 480-475 secondo altri.
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La religione di Roma arcaica

Da tutto ciò si ricaverà che già in epoca così risalente era organizzato un culto pubblico, quasi ufficiale, operante in diversi punti della città e che il re era, come si è detto, “molto presente nel campo del sacro” (J. Scheid).
Su questo punto l’archeologia conferma le fonti letterarie.
Detto questo, è possibile riconoscere le diverse componenti di una religione già organizzata nel settimo-sesto secolo, periodo prima del quale dobbiamo riconoscere che si ignora tutto o quasi.
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A partire dal 509 (tempio di Giove capitolino), Roma si riempie di templi: di Saturno nel 496, di Mercurio nel 495, di Cerere, Libero e Libera nel 493, dei Dioscuri nel 484.
Si è così formata una religione “nazionale” che fa di Roma una città sacra, ben cosciente della sua superiorità religiosa che utilizzerà come lievito della propria potenza.
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Cap. 3. Due secoli oscuri (e reinventati?): il quinto e il quarto secolo a. C., ovvero la giovinezza di Roma

La fortuna di Roma è stata di raggiungere la condizione urbana e lo stato di città che la misero in grado di beneficiare delle influenze della civiltà greca, poi di conoscere un primo sviluppo, nel momento in cui iniziava a declinare la potenza etrusca e scoppiavano rivalità tra le colonie greche.
Roma è stata senz’altro aiutata dalle circostanze.
Nondimeno, i due secoli che fanno seguito alla cacciata dei tarquini sono nella sua storia “secoli oscuri”.
Essi ci sono noti solo per grandi linee.
Ciò dipende non solo dalla povertà delle fonti letterarie e archeologiche ma anche dall’”orgoglio nobiliare” (J. Heurgon) delle gentes che hanno voluto riscrivere la storia per darsi antenati famosi.
Per questo motivo esse hanno interpolato dei nomi, inserendo nei Fasti, tra i generali trionfatori e i consoli, antenati fittizi.
Nonostante queste difficoltà, si può seguire la nascita, talora tumultuosa, della Repubblica segnata soprattutto dall’istituzione del consolato e dalle prime lotte contro i popoli del Lazio.
Ciò non accade senza difficoltà interne e nelle relazioni con i suoi vicini.
Anzi, tra il 450 e il 390, Roma è su entrambi i piani alla ricerca di un equilibrio.

Equilibrio che ha trovato non senza affanni nell’organizzazione delel sue istituzioni politiche e nell’organizzazione sociale attraverso la formazione di una nuova “nobiltà”.
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La nascita della Repubblica

Scoperte archeologiche recenti avvenute nel Lazio, a Lanuvio, a Satrico (40 km a sud di Roma), a Faleri (Civita Castellana) mostrano che fino agli anni 480-475 lì come nell’area etrusca (Veio, Tarquinia) operano delle officine etrusco-greche che producono statue cultuali e terrecotte architettoniche di qualità.
Si è potuto parlare  di una “febbre architettonica e religiosa” di ispirazione etrusca e greca, che prova come – nonostante i conflitti – l’influenza di questi due mondi rimanesse predominante.
Questi conflitti sono legati a questioni di frontiera.
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Difendendosi contro i suoi potenti vicini Roma ha iniziato a stabilire la sua autorità sul Lazio.
E ciò nonostante i conflitti interni talora acuti.
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Sembra che effettivamente il periodo dal 509 al 486 sia stato segnato da una forte agitazione politica: soprattutto la secessione della plebe sul monte Sacri, al di là dell’Aniene, secondo altri sull’Aventino, datata generalmente al 494.
Secessione pericolosa per il patriziato privato delle braccia dei lavoratori manuali, come per lo Stato, minacciato dalla creazione di uno Stato rivale, in grado di allearsi con i nemici di Roma visto che molti plebei erano di origine straniera.
La secessione sarebbe stata seguita dalla nomina dei primi tribuni della plebe, inizialmente due,  poi quattro nel 471 secondo Diodoro che sembra considerare questi ultimi come i più antichi.
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I Decemviri e la loro opera: la legge delle 12 tavole

La metà del quinto secolo, con la creazione del Decemvirato, segna un momento decisivo nella storia delle istituzioni e della civiltà romana.
Per ottenere una legislazione scritta ed uno statuto che mettessero fine all’arbitrio dei consoli e ai privilegi del patriziato, i plebei iniziarono una lunga lotta.
Secondo la tradizione, a partire dal 471, la plebe si sarebbe organizzata con una assemblea popolare strutturata sulle tribù territoriali (all’epoca 4 urbane e 21 rustiche); queste assemblee della plebe (concilia plebis), convocate dai tribuni, avrebbero iniziato a prendere decisioni.
Sempre secondo la tradizione, a partire dal 462, il tribuno Terentilio Arsa avrebbe agito per ottenere “leggi scritte che fissino l’imperium”, vale a dire i limiti del potere consolare.
Il patriziato finì con il cedere.
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Lo scopo dei legislatori era stato quello di far trionfare l’uguaglianza dei diritti tra tutti i cittadini.
Come si ricava dal loro titolo (decemviri legibus scribundis) si trattava anche di sostituire il diritto consuetudinario con un diritto scritto.
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La restaurazione della Repubblica nel 449 portò al potere due consoli, L. Valerio e M. Orazio che, secondo la tradizione, fecero votare tre leggi mediante le quali la costituzione romana diventò patrizio-plebea.
………………
A partire da questo momento, in pratica, si assiste a due importantissime innovazioni:
- l’introduzione della collegialità consolare
- il riconoscimento ufficiale dell’intercessione tribunizia:
i tribuni, se sono unanimi, possono ormai bloccare una decisione dei consoli se la giudicano contraria agli interessi della plebe.
Solo il dittatore, durante il suo breve imperium, sfugge all’intercessio dei tribuni.
Le tre leggi Valeriae Horatiae riconoscono ufficialmente le conquiste della plebe.
La Roma patrizia rinunciava alla sovranità dell’imperium consolare.
Si comprende che Polibio abbia datato a questo momenti la seconda fondazione della costituzione romana.
Ma un punto essenziale continuava a non essere regolato: l’accesso della plebe al consolato, la magistratura suprema.
Nulla l’impedisce, nulla lo autorizza.
Fondandosi sulla tradizione (il mos maiorum o diritto atavico), il patriziato vuole mantenere il suo monopolio.
Da parte sua, la plebe si mobilita per spezzare tale monopolio.
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Alla ricerca di un equilibrio, 449-312

L’esame dei Fasti è rivelatore dei conflitti che sul problema dell’accesso della plebe al consolato hanno opposto i plebei al patriziato fino al 367, data del compromesso licinio-sesto.
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Questa nuova nobiltà riesce a dare alla Repubblica l’equilibrio tanto ammirato da Polibio e che le doveva permettere di lanciarsi alla conquista del mondo.
Ricerche relativamente recenti hanno in effetti messo l’accento su un certo declino dell’antico patriziato e sull’apparizione di famiglie patrizie più aperte, coem quella dei Fabii, che non disdegnavano più di allearsi con le famiglie plebee (C. Licinio sarebbe diventato lui stesso genero di un Fabio!).
Contemporaneamente emergevano alcune famiglie plebee per ricchezze e considerazione.
Si costituirono in questo modo un “partito di centro” e, nella società, una nuova nobilitas composta da coloro che – patrizi e plebei – avevano un avo che avesse rivestito una magistratura curule (edilità, pretura e, soprattutto, consolato).
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Dopo le riforme decemvirali e le conquiste democratiche che le hanno seguite, le istituzioni della Repubblica romana restano quelle di una repubblica aristocratica, governata da un Senato, affiancato da magistrati che dirigono lo Stato, mentre le assemblee del popolo intervengono nell’elezione dei magistrati e nella votazione delle leggi.
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I due consoli sono per certi versi i presidenti della Repubblica.
Hanno l’imperium domi militiaeque, e cioè un potere sovrano, politico, giudiziario e coercitivo all’interno del pomerium (il confine sacro di Roma) – l’imperium domi – al quale si aggiunge un potere sovrano, militare e giurisdizionale nell’ambito extra-urbano – l’imperium militiae.
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Cap. 4. La crescita di Roma repubblicana

Agli inizi del terzo secolo a. C., dopo la terza guerra sannitica, non c’è che uno Stato che si estende dal Tevere fino a Cuma e dal mar Tirreno fino al lago Fucino.
Roma appare adesso come una città che è riuscita a dominare i conflitti politici interni e che possiede istituzioni equilibrate.
Se nell’ambito sociale non tutto è stato risolto, al sua espansione territoriale le permette già uno sviluppo economico che crescerà ancora ed un rafforzamento in termini militari via via che nuove conquiste le si aprono davanti.
Il fatto è che Roma si trova sempre più coinvolta nella politica italica, soprattutto nell’Italia meridionale.
Ciò comporta che si moltiplichino i contratti con il mondo greco, determinando sia una ellenizzazione nell’ambito artistico e religioso, in piena trasformazione, sia un coinvolgimento sempre più attivo nella politica mediterranea.
Qui gli interessi romani vanno ad incontrarsi e a scontrarsi con gli interessi cartaginesi che predominano largamente nel bacino mediterraneo occidentale.
Da ciò nasce un conflitto tra Roma e Cartagine che per la sua durata, la sua violenza, i mezzi messi in campo e il successivo coinvolgimento di quasi tutte le genti che si affacciavano sul Mediterraneo, ha assunto le dimensioni di una crisi di cambiamento decisiva per l’Occidente.
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Gli anni 348-338 hanno segnato un momento cruciale nella marcia di Roma verso il controllo della penisola e l’impegno sui mari.
Sono probabilmente le sue buone relazioni con Cere, allora la più grande città d’Italia, che l’hanno spinta ad allargare il suo orizzonte.
Dopo il 291 (fine della terza guerra sannita) i nuovi mezzi di cui dispone Roma la incitano ad estendere la sua potenza.
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Nonostante fosse impegnata nell’Italia centrale e centro-settentrionale, nel primo quarto del terzo secolo Roma si è trovata impegnata nelle complesse questioni dell’Italia meridionale.
Ciò avvenne a seguito delle rivalità tra le colonie greche e delle loro difficoltà con le popolazioni indigene.
E’ questo, in particolare, il caso di Turi, rivale di Taranto, che per resistere ai lucani, fece appello, nel 284, a Roma.
Un console, inviato sul posto, stabilì una guarnigione nella città; ciò spinse anche Crotone, Locri e Reggio ad unirsi ai romani, ma non impedì alle fazioni locali di continuare a sbranarsi tra loro, con gli aristocratici filoromani che si opponevano ai democratici antiromani.
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La presa di Taranto costituisce una conquista che ha permesso a Roma di completare la conquista dell’Italia del sud.
La Lucania si era già sottomessa e una colonia era stata dedotta a Paestum nel 273 ca.
Ma è Taranto che eccitò maggiormente la bramosia dei romani, che vi inviarono una flotta.
Le ricchezze della città e la sua posizione strategica giustificavano tali ambizioni.
Nel 272 il comandante della guarnigione epirota, Milone, consegnò la cittadella ai romani a patto di aver via libera assieme ai suoi.
Taranto ricevette la “libertà”, vale a dire lo statuto di città libera, anche se una guarnigione romana rimase acquartierata nella cittadella (!).
Dovette pagare una pesante indennità di guerra e durante il trionfo dei due consoli sfilarono le statue, i quadri e tutti i tesori strappati alla città.
Roma aveva così sottomesso l’unica città in grado di contrastarla in Italia meridionale.
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Contrariamente a quanto si è talvolta affermato, nel settimo secolo a. C. non vi fu un’ellenizzazione ma solo rapporti di scambio che hanno portato alla presenza, nelle tombe arcaiche, di ceramica protocorinzia prima, corinzia poi.
Essa fu il risultato dei contatti stretti con il greci della Magna Grecia e con gli etruschi, anch’essi influenzati dalla cultura greca.
Tutta l’Italia centrale e Roma in particolare ne hanno beneficiato, mentre “nel corso del quarto secolo l’orizzonte di Roma era rimasto limitato all’Italia centrale “ (R. Bianchi Bandinelli).
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Coem nacque il conflitto?
Essenzialmente per gli interessi economico opposti, legati da un lato, per Cartagine, al carattere marittimo e commerciale della sua potenza, dall’altro, per Roma, all’adozione di una nuova politica aperta verso l’esterno.
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Innanzitutto il possesso romano della Sicilia.
I cartaginesi dovettero abbandonare l’isola, le Lipari e le isole comprese tra la Sicilia e l’Italia.
La Sicilia divenne provincia romana.
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Dopo ventitré anni di pace armata da ambo i lati, la guerra riprende per iniziativa di Annibale, erede della grande famiglia aristocratica di Barcidi, che, divenuto stratego di Cartagine, ha ereditato le ambizioni della sua famiglia.
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La pace non fu conseguita che nella primavera del 201.

Cartagine consegnò tutte le sue navi da guerra, tranne dieci, e tutti i suoi elefanti; si impegnò a pagare in cinquant’anni un’indennità di 10000 talenti e a non intraprendere guerre senza l’autorizzazione preventiva di Roma.
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La prima guerra di Macedonia (215-205) fu ugualmente un contraccolpo della prima guerra punica.
Il giovane sovrano Filippo 5. volle approfittare delle difficoltà di Roma per prendersi l’Illiria dove Roma aveva stabilito un protettorato.
Nel 215 Filippo si accordò con Annibale per ottenere che Roma rinunciasse al suo protettorato illirico.
Roma, impegnata in Italia, rispose con un’alleanza con gli etoli, nemici in Grecia della Macedonia.
Alla fine nel 205 fu negoziata la pace di Fenice che permetteva a Roma di mantenere le sue teste di ponte in Illiria e che consisteva, in fin dei conti, in un patto generale di non aggressione.
Roma, tuttavia, si veniva a trovare coinvolta negli affari balcanici mentre aveva ora interessi importanti in Spagna e nel Mediterraneo occidentale.
Si apre così una nuova fase della sua storia all’interno della quale troverà posto la terza guerra punica.
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Cap. 5. Le conquiste e le loro conseguenze

Per il futuro dell’Occidente, il fenomeno storico più importante dopo la morte di Alessandro magno (323 a. C.) è stato, in Italia, il passaggio progressivo di Roma-città a Roma-capitale di un impero  territoriale mediterraneo.
Da un punto di vista evemenziale, è dunque la conquista da parte delle legioni romane (e talvolta mediante la diplomazia) dei paesi dell’Occidente considerato barbaro e dell’Oriente ellenistico.
Conquiste che portarono tra la fine della seconda guerra punica (201) e l’annessione dell’Egitto (31-30) alla formazione sotto l’egida dell’Urbs, dell’impero territoriale più potente e durevole della storia.
Tuttavia, e questo è un altro fenomeno storico essenziale, mentre l’Occidente metteva le mani per la prima volta sull’Oriente, era la civiltà greco-occidentale (ellenistica) a penetrare profondamente nell’Occidente per dar vita ad una koiné culturale, ad una comunità di cultura greco-romana, chiamata a diventare il marchio distintivo delle nazioni europee occidentali.
Il problema dell’imperialismo romano è dunque fondamentale.
E non meno l’esame di tutte le sue conseguenze.
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Una prima osservazione si impone: la parola imperium è latina, così come è realmente e originariamente romano il concetto che essa ricopre.
E questo concetto conduce al primo tentativo vero e durevole di dominio universale.
Solo che per alcuni (T. Momsen, M. Holleaux, E. Badian) questo imperialismo non è stato offensivo: Roma ha risposto a guerre che gli erano state imposte, si è difesa.
Il Senato romano, in particolare, non ha avuto uan politica espansionista.
Per altri (da ultimo W. V. Harris) le conquiste sono state volute da tutti: dai senatori avidi di “gloria” e dei mezzi finanziari necessari alla loro carriera politica, dai cavalieri attenti allo sfruttamento finanziario dei paesi conquistatori, dai semplici cittadini attirati dalla possibilità di partecipare ai saccheggi e alla divisione dei bottini.
La guerra appare allora come una “operazione di conquista che spoglia il vinto e arricchisce il vincitore”.
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Infatti, vista la composizione del Senato romano e lo stato d’animo delle classi dirigenti, sembra che nessuno o quasi progettasse a Roma, alla fine del terzo secolo, di intraprendere uan politica decisamente imperialista.
Durante la prima guerra di Macedonia (217-205) la sola preoccupazione era di impedire il congiungimento di Filippo 5. con Annibale.
E’ solo dopo Zama, tra il 200 ed il 198, che Roma inizia ad interessarsi sul serio agli affari del mondo greco.
E, di fatto, è la seconda guerra di Macedonia (200-196) che costituisce l’atto di nascita dell’imperialismo romano.
Tuttavia, è giusto dire che l’idea era germogliata durante la seconda guerra punica nell’animo di alcuni influenti senatori, come gli Scipioni.
In fondo, è Annibale il principale responsabile del sorgere di quest’idea: lo scandalo della presenza punica sul suolo italico, la minaccia che era pesata sull’Urbs, il pericolo mortale dell’alleanza di Cartagine con la Macedonia costituivano realtà capaci di incitare alcuni patres a spingere i loro sguardi al di là del mare.
L’attacco condotto da Roma contro la Macedonia nel 200 avvia una nuova politica.
Si tratta, però, ancora di un imperialismo essenzialmente difensivo: fino al 168 le sole annessioni nel Mediterraneo orientale sono quelle di Zakynthos (Zante) e Cefalonia.
E’ un “imperialismo che ancora ignora se stesso”.
Tuttavia, si deve notare che in questo periodo, nel 188, si trova per la prima volta espressa esplicitamente la teoria imperialistica romana, ad opera del console Gn. Manlio Vulsone: secondo costui, è di urgente e di assoluta necessità per Roma assicurare la pace per terra e per mare da un lato, sorvegliare tutto l’Oriente dall’altro (Livio 39).
Politica da gendarme che doveva portare all’istituzione di protettorati su città e Stati-clienti e da lì all’annessione.
L’epoca delle annessioni si apre nel 148-146 a. C.: la riduzione a provincia romana della Macedonia, la successiva presa di Corinto e l’annessione dell’Acaia, infine la presa e la distruzione di Cartagine seguita dall’annessione dell’Africa marcano questa grande svolta.
Ormai trionfa l’imperialismo conquistatore che in poco più di un secolo condurrà alla formazione dell’Impero romano.
Non manca che la Mauretania, conquistata sotto Claudio (che aggiungerà la Britannia).
Più tardi Traiano annetterà la Dacia e l’Arabia.
E per un periodo la Mesopotamia estenderà la frontiera orientale fino al Tigri.
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Dal punto di vista economico hanno giocato diversi fattori che hanno contribuito a profonde trasformazioni.
Innanzitutto il saccheggio dei paesi attraversati e di quelli vinti.
Coem nota lo storico Flora (Epit. 1. 18) “così numerose furono le spoglie provenienti da nazioni opulente che Roma non era capace di contenere il frutto della sua vittoria”.
Taranto, Volsinii e Siracusa hanno pagato un tributo pesante di opere d’arte e denaro.
Per fare un solo esempio, Pompeo prelevò in Oriente, nel corso delle sue campagne asiatiche, somme corrispondenti all’incirca a 70 milioni di euro.
Questo flusso di oro determinò un enorme movimento di capitali in una città che fino a quel momento era stata legata soprattutto all’attività agricola.
Ai bottini si aggiungevano le indennità di guerra imposte agli sconfitti e i tributi gravanti sui provinciali.
Questo enorme afflusso di masse monetarie ha determinato movimenti di capitali ai quali Roma non era abituata, con riflessi sui salari e il costo della vita (che tesero ad aumentare a danno degli strati sociali più poveri) ma soprattutto sulla vita finanziaria (svalutazione del denaro) e sull’orientamento economico generale.
Quindi l’afflusso di schiavi (per citare solo due esempi, furono 50000 i prigionieri di guerra resi schiavi dopo la presa di Cartagine, e 140000 i cimbri e i teutoni che ebbero analoga sorte nel 104) e soprattutto i cambiamenti nella condotta bellica, con l’allontanarsi dei teatri di guerra che impediva per lunghi anni ai soldati di coltivare le loro terre e la necessità di rifornire gli eserciti con grandi quantità di cereali, olio e vino, hanno comportato profonde trasformazioni nell’agricoltura italica, tenuto anche conto, peraltro, che l’afflusso di grano straniero rendeva la cerealicoltura in Italia un’attività di scarso interesse commerciale.
Per i piccoli contadini (che costituivano la maggioranza) non vi erano che due soluzioni: vendere i loro terreni (con conseguente esodo rurale e proletarizzazione della popolazione urbana e soprattutto di quella di Roma) o cambiare – con pesanti costi – le pratiche colturali, diversificando le produzioni e piantando viti e olivi.
Il risultato è una prima concentrazione di proprietà di cui profittano quanto traevano beneficio dalla guerra 8generali e negotiatores) ed una diversificazione delle colture in Italia che comporta a sua volta lo sviluppo di una attività commerciale rurale (con l’organizzazione dei mercati) laddove fino ad allora ci si era sforzati di vivere il più possibile autarchicamente.
L’evoluzione verso un’economia di scambio è peraltro uno dei tratti nuovi del secondo secolo.
L’aprirsi si Roma al mondo esterno, l’attività degli uomini d’affari, l’afflusso monetario, la crescita dei bisogni legata a nuove condizioni di vita, hanno spinto romani e italici a lanciarsi in grandi imprese commerciali.
Nel 218 uan lex Claudia ha cercato di impedire ai senatori ogni attività lucrativa basata sul commercio; la legge è stata aggirata facendo ricorso a prestanomi.
Depositi di capitali, prestiti finanziari (a tassi spesso usurarii) diventano le principali preoccupazioni dei ricchi.
L’isola di Delo diventa un grande centro commerciale e un importante mercato di schiavi.
I Romaioi sono presenti e attivi in tutti i porti del Mediterraneo.
Essi cominciano ad organizzarsi in società per azioni nelle mani dei repubblicani che spremono i provinciali.
Gli odi si accumulano!
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Nello stesso tempo si assiste all’ascesa dell’ordine equestre, che si è costituito nel corso del terzo secolo.
Tra la nobilitas senatoria tradizionale e i “proletari” è venuta ad inserirsi non una “classe media” (che a Roma non esisteva) bensì una categoria di cittadini privilegiati  - figli di senatori, funzionari, ricchi proprietari fondiari, pubblicani – ai quali lo Stato conferisce il cavallo pubblico (sono definiti equites equo publico).
Tra la classe senatoria, che ha per base una fortuna fondiaria, e la plebe si trova posto un “ordine” equestre la cui base economica può essere non necessariamente fondata sul possesso fondiario.
Nel secondo secolo questi cavalieri, che hanno sempre un ruolo fondamentale nell’assemblea centuriata per le elezioni dei magistrati, aspirano a svolgere un ruolo più attivo nella vita sociale e soprattutto in quella giudiziaria, ove i tribunali sono controllati dai senatori.
Ciò è in contrasto con i loro interessi, soprattutto dopo che nel 149 uan legge Calpurnia ha creato dei tribunali permanenti (quaestiones perpetuae) incaricati di giudicare i promagistrati (i governatori di provincia) con i quali hanno a che fare i cavalieri impegnati negli affari commerciali e finanziari delle province.
La potenza politica dei cavalieri si affermerà sempre di più a partire dai Gracchi.
Il rischio di conflitti aumenta maggiormente in quanto anche la stessa classe dirigente politica subisce delle trasformazioni.
Se la classe senatoria detiene sempre il monopolio delle funzioni maggiori (Senato e magistrature) nonché ricchezze e fortuna fondiaria (il censo minimo richiesto è di 400000 sesterzi come per l’ordine equestre), ha ormai smesso di essere un gruppo sociale omogeneo.
Vi sono sempre da una parte i patrizi e dall’altra i plebei, ma ormai adesso vi è soprattutto un gruppo di nobiles, vale a dire i magistrati superiori e i loro discendenti.
Alla fine del secondo secolo questo gruppo si riduce ai discendenti dei soli consoli.
Sono dunque le stesse famiglie (gentes) che si accaparrano le magistrature superiori.
Di fronte ai nuovi senatori e alle ambizioni dei cavalieri, questo gruppo dirigente appare come bloccato e allorché si formano fortune, queste non sono sempre nelle sue mani.
Questa disparità sempre crescente di rendite e di peso politico si accentua tanto più che la plebe libera, se beneficia di alcuni effetti sociali delle conquiste (sviluppo di un artigianato urbano e rurale; sviluppo di un piccolo commercio grazie all’estendersi degli scambi all’interno dell’Italia e con l’esterno).
In effetti, a Roma si forma una infima plebs (un proletariato libero) costituito da esclusi dal mondo rurale, da piccoli bottegai (i tabernarii), da senza lavoro – disoccupati cronici o vittime della concorrenza della manodopera servile.
Costoro formano una “classe pericolosa” di individui pronti a costituire un esercito delle sommosse.
Si vede però apparire anche un gruppo sociale che si rivelerà sempre più attivo sia prima nella vita economica che in seguito nella vita politica: sono liberti, schiavi (spesso di grandi doti o astuti) che hanno ottenuto l’affrancamento.
Divenuti liberti (cittadini liberi ma con diritti politici ridotti), restano al servizio dei loro ex padroni in qualità di clienti.
Si forma così nel secondo secolo una clientela che serve soprattutto gli interessi politici dei “padroni”: in occasione delle elezioni magistratuali sono i loro attivi sostenitori.
Quando G. Gracco scende nel Foro, è accompagnato da 3000 amici, vale a dire clienti, che gli fanno corteo.
E’ facile immaginare quali pressioni possano avere esercitato.
Da queste nuove condizioni economiche, sociali e politiche hanno avuto origine tre grandi conflitti che hanno profondamente marcato la storia di Roma e, in una certa misura, preparato il declino della Repubblica.
Pag. 113-114

La legislazione agraria graccana fu modificata piuttosto che abolita.
Il problema agrario sarebbe ritornato più di una volta nel dibattito politico.
Si deve sottolineare che essa è stata motivo dei primi scontri violenti tra cittadini.
Essa segna dunque il primo episodio delle tragiche guerre civili che avrebbero determinato rapidamente la fine della Repubblica.
Primo episodio tanto più pericoloso in quanto in quello stesso frangente cominciavano anche le guerre servili.
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Alimentate da un clima ideologico e da un supporto religioso, queste rivolte collettive furono difficili da domare.
Solo nel 134 il console Calpurnio Pisone riuscì a riprendere Messina e poté cominciare l’assedio di Enna nel 133.
La città non cadde che nel 132: Cleone fu ucciso e subito dopo analoga sorte toccò a Euno, sorpreso in una caverna.
……..
 E’ in Italia nel 73 che scoppia l’ultima e la più celebre delle ricolte servili, quella di Spartaco.
Diversa dalle altre per la sua vicinanza a Roma (che ne avvertì più forte la minaccia), per la sua origine (l’azione di un gladiatore trace che operò sulle scuole gladiatorie di Capua), per la personalità del suo animatore, Spartaco, più greco che barbaro, per l’impreparazione del movimento, la rivolta ebbe inizio con l’occupazione del cratere del Vesuvio e una vittoria sul pretore incaricato di sloggiare gli insorti.
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La rivolta di Spartaco non ebbe le stesse conseguenze dei moti servii siciliani.
Non comportò una nuova legislazione ma ci si contentò di assicurare la repressione.
Ma la paura che essa aveva prodotto era stata nem più grande in quanto ancora alimentata dal ricordo e dagli strascichi della guerra sociale.
Per tre anni, la “grande guerra” (coem la definisce Diodoro Siculo) ha visto “tutta l’Italia levarsi contro Roma” (Vell. Pat., 2, 15).
Per un motivo apparentemente sorprendente: il rifiuto di Roma d’accordare agli italici la cittadinanza romana che costoro desideravano.
La questione si poneva dalle guerre del terzo secolo.
Da allora, l’Italia si presentava come un groviglio di territori e uomini con statuti giuridici diversi.
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Nel 123 Gaio Gracco aveva avanzato la proposta di dare la piena cittadinanza ai latini e il diritto latino agli “alleati”.
Non solo il Senato respinse questa proposta ma decise anche di espellere da Roma il latini e i socii che non avevano il diritto di voto.
La questione si ripropose negli anni 95-91 quando furono prese nuove misure per combattere l’infiltrazione dei latini e degli alleati italici a Roma.
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Si è talvolta paragonata la guerra sociale alla guerra di secessione americana.
Vi furono manifestazioni feroci di odio: ad Ausculum (Ascoli), nel Piceno, le donne romane furono scalpate prima di essere uccise; a Grumento, in Lucania, la piccola guarnigione romana fu passata a fil di spada e la popolazione civile massacrata.
Molto presto, i marsi ei sanniti, i più accesi tra i rivoltosi, diedero vita a due Stati coniando moneta (segno di sovranità): presso i marsi, questa moneta recava la legenda Italia, presso sanniti, in osco, Vitalia.
Si diedero proprie istituzioni ed uan capitale, Corfinio, ribattezzata Italia.
Dinanzi a questa secessione e ad un contingente federale forte di 100000 uomini, Roma ebbe paura e adottò uan misura fortemente repressiva (lex Varia) prima di inviare contro gli insorti i suoi migliori generali, G. Mario e L. Silla, che ottennero alcuni successi.
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Le conseguenze furono considerevoli:
- la concessione agli italici della cittadinanza romana determinò una larga diffusione del diritto romano e accelerò il processo di romanizzazione della penisola.
Sola restava ancora un poco in una condizione diversa la Cisalpina, sempre provincia amministrata coem tale fino all’età di Cesare;
- a causa della guerra si formarono in Italia delle clientele talora enormi, come ad esempio quella di Gneo Pompeo Strabone nel Piceno, dove aveva proprietà assai estese. Costui era il padre di Pompeo Magno.
- si ebbe l’ingresso nella classe dirigente di cittadini provenienti dalle colonie e municipi italici che a poco a poco avrebbero sostituito nelle magistrature e nel Senato le antiche famiglie romane. Si prepara l’avvento di una nuova società.
Le conquiste hanno avuto come si vede effetti decisivi sull’evoluzione politica, economica e sociale di Roma.
Non meno importanti sono state le loro conseguenze nella vita culturale e spirituale dei romani.
I contatti diretti con ma Magna Grecia e con il mondo ellenistico, l’afflusso a Roma e in Italia di stranieri e soprattutto di schiavi, lo sviluppo dei viaggi e degli scambi nel Mediterraneo hanno avuto l’effetto di trasformare gli stili di vita soprattutto a Roma, dove si osserva nel secondo e nel primo secolo a. C. un’evoluzione nella cultura materiale come nella morale, nella vita intellettuale e spirituale.
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Già Catone, durante la sua censura, aveva preso delle misure contro il lusso delle donne, contro il lusso della tavola, ecc.
Nel 161 una legge ha vietato di ingrassare le pernici; ma di essa ci si fece beffa.
E’ senz’altro Sallustio che ha denunciato con maggior forza le ragioni morali del declino della Repubblica nella congiura di Catilina, opera in cui tira in ballo non solo l’aumento del lusso e del desiderio di piacere, ma anche il “disprezzo degli dèi” e la corruzione degli uomini di potere.
Contemporaneo di Cesare, Sallustio ha vissuto egli stesso le esperienze politiche di Silla e di Pompeo con le orribili guerre civili che avrebbero insanguinato Roma e l’Italia.
Osservatore della crisi politica nell’ultimo secolo della Repubblica, ha saputo descriverla.
A fianco di un vero “Rinascimento” delle lettere e delle arti, le conquiste hanno portato a Roma i fermenti di gravi disordini nella vita politica e sociale tradizionale e creato le condizioni di uno stravolgimento dei valori tradizionali.
Tutto ciò esploderà nell’ultimo secolo prima della nostra era.
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Cap. 6. Crisi e fine della Repubblica

Già la crisi graccana, a causa dei rivolgimenti istituzionali che aveva innescato, per il ricorso alla violenza che aveva provocato, aveva dato inizio alle gravi difficoltà che hanno investito la Repubblica romana, vittima dei suoi successi in Italia e nel Mediterraneo.
Successivamente, le guerre servili e soprattutto la guerra sociale hanno rivelato tutta la debolezza di un regime e id una società costruiti per una città-stato ma che nel frattempo era divenuta un impero territoriale dalla dimensioni inusitate.
Per Sallustio e Varrone, Gaio Gracco è all’origine delle guerre civili che insanguineranno l’ultimo secolo della Repubblica.
Diciamo almeno che i tribunati dei Gracchi costituiscono il primo episodio della grande crisi politica che scuoterà Roma, dominata da tentativi di instaurazione di poteri personali e dai conflitti tra le ambizioni di Mario Silla, di Pompeo e Cesare, e infine di Marco Antonio e Ottavio.
L’ultimo secolo della Repubblica romana è per molti aspetti un momento decisivo per la storia di Roma: non solo perché è un’epoca in cui, come scrive Appiano “la violenza regola tutto”, la sorte degli uomini e quella della res publica, ma anche perché si assiste al crollo dei valori tradizionali, sostituiti da nuove mentalità e dall’aspirazione a nuove condizioni di vita.
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Parte seconda. Roma padrona del mondo, 31 a. C.-235 d. C.

Cap. 7. Il mondo romano nel 31-28 a. C.

Questo impressionante insieme che si articola attorno ad Azio lascia apparire le linee di forza di un’ideologia “ottaviana”.
Nel cuore di quest’ultima, l’idea di vittoria.
Essa sarà al centro della mistica imperiale.
Ottavio deve direttamente questa vittoria agli dèi olimpici e agli auspici che egli detiene.
Infine, insistendo sulla difesa dell’ellenismo di fronte alla barbarie egiziana, tirando un parallelo tra Salamina e Azio, essa dà ad Ottavio la possibilità di riconciliare abilmente l’Oriente greco e l’Occidente: è sulla riva di Azio che Virgilio farà celebrare ad Enea giochi troiani.
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Nell’agosto del 29, allorquando celebra a Roma i suoi tre trionfi, il mondo che egli domina non è più quello che esisteva due anni prima.
C’è il mondo romano prima di Azio e quello dopo Azio.
Fine dalla Repubblica romana, fine dell’epoca ellenistica; inizio del regime imperiale e dell’organizzazioni unitaria del mondo: frattura formale? Forse.
Ma già alcuni storici antichi (Cassio Dione) la consideravano fondamentale, opinione che condivide una buona parte dei moderni.
A partire dagli anni 76-75 a. C. l’apparizione sempre più frequente del globo sulle monete romane non lascia alcun dubbio: Roma aspira ad essere la garante dell’ordine del mondo.
E la pace di Ottavio, lungi dall’essere uan apce di fatalità, vuole essere conquistatrice.
Più tardi, egli si vanterà di aver raggiunto i limiti del mondo.
“Roma, alla lettera, non ha conquistato il vecchio mondo, ma tutto il vecchio mondo ha potuto venire ad essa” (C. Nicolet).
Perché tra il mondo romano e il resto del mondo, i collegamenti sono numerosi: commerciali, culturali o militari
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Cap. 8. Il Principato augusteo: nascita di un regime

31 a. C.? 29 a. C.? 27 a. C.? 23 a. C.?
Quattro date che sono state considerate da vari storici ognuna come l’inizio del nuovo regime.
Esitazione significativa: essa traduce l’imbarazzo davanti ad un modo di governare di cui ci si trova ora d’accordo nel riconoscere la natura monarchica dietro una facciata istituzionale ambigua e complessa.
E piuttosto che di un nascere, conviene parlare di un lento affiorare, tanto i tratti della monarchia augustea, quelli che riprenderanno i suoi successori, si sono disegnati poco a poco, pennellata dopo pennellata sullo sfondo repubblicano.
Perché attuato lentamente, arricchito e modificato secondo le circostanze, adattato alla volontà di Ottavio Augusto di conservare il potere, il Principato non è stato creato ex nihilo, né secondo un piano precostituito.
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Il compromesso istituzionale, 29-23

Ostacoli ed elementi a favore

Il trionfo del 29 significava la fine della guerra contro Cleopatra e il ritorno ad uno stato di diritto.
Ma quale?
Per instaurare apertamente un regime monarchico, Ottavio superare numerosi e potenti ostacoli.
- In primo luogo, il titolo di re, o tutto ciò che poteva evocarlo (il nome di Romolo, il portare il diadema) conservava a Roma uan sufficiente carica emotiva per condurre all’assassinio: era la lezione delle Idi di Marzo.
- In secondo luogo, il senato depositario del mos maiorum, aveva conservato il suo prestigio, anche se il suo potere si era indebolito.
Ignorarlo, sottovalutarlo, opporsi ad esso, significava esporsi ad un’ostilità delle grandi famiglie, ostilità tanto più vivace in quanto esse consideravano la Res Publica come una proprietà personale e in quanto la loro clientela era estesa.
- In terzo luogo, la personalità di Ottavio era contestata.
Gli si rimproverava, sulla scia di Antonio nel 43, di dovere il suo successo ad un nome, quello di Cesare.
Di fatto, il suo prestigio militare era appannato e criticato, e le sue origini familiari ispiravano chiacchiere e pettegolezzi.
In realtà, suo padre, G. Ottavio, inizialmente cavaliere, fu il primo della sua famiglia a compiere il cursus honorum.
Quanto alla sua azione, ognuno ricordava che egli era stato un capo di fazione spietato, crudele dicevano i suoi avversari, durante le guerre civili.
- In quarto luogo, la posizione istituzionale di Ottavio era vaga per il presente e incerta per il futuro.
Dal 32 i suoi poteri triumvirali erano teoricamente cessati.
Gli restavano dunque tre elementi del potere: il consolato che egli riveste ogni anno a partire dal 31, ma che non gli conferisce alcuna responsabilità militare; la sacrosanctitas dei tribuni della plebe e la potestà tribunizia (cioè il potere dei tribuni senza essere uno di loro), entrambe a cita, ricevute rispettivamente nel 36 e nel 30; il giuramento di fedeltà che gli avevano prestato l’Italia e le province d’Occidente nell’autunno del 32.
Ora, nel 28, la crisi provocata da M. Licinio Crasso rivelò la precarietà di questa situazione.
Domandando di celebrare un trionfo e di deporre delle spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio, il nipote del triumviro rivaleggiava con la preminenza militare di Ottavio.
Per converso, Ottavio disponeva di appoggi di prim’ordine.
- E’ il figlio del Divus.
Questa filiazione prestigiosa lo collega non solo a Cesare, l’unico divus di Roma, ma anche a Venere.
Due fatti rendono nuovamente attuale questa ascendenza.
Nell’agosto del 29, nel Foro, si dedica il tempio del Divo Giulio e si inaugura la nuova curia, iniziata da Cesare, la Curia Iulia.
Davanti alla facciata del tempio, una tribuna ornata dai rostri dei vascelli catturati ad Azio; in fondo alla Curia, una statua della Vittoria che Ottavio aveva portato da Taranto e davanti ad essa un altare, dunque un culto.
Due modi di celebrare il padre, richiamando i meriti del figlio.
- E’ alla testa di un esercito formidabile e unico, poiché le truppe di Antonio erano passate dalla sua parte: più di sessanta legioni, senza contare le truppe ausiliarie.
Naturalmente, egli ne smobilita rapidamente più della metà, e sistema dei veterani; ciò non impedisce che il suo peso militare reale sia schiacciante.
- E’ immensamente ricco.
Si stimano in un miliardo di sesterzi le spese fatte tra il 30 e il 29 a. C.
Questa fortuna proviene dalle eredità del padre naturale e del padre adottivo, ma soprattutto dal bottino egizio, al quale bisogna aggiungere le confische di terre e le vendite dei beni dei nemici.
E’ l’uomo più ricco della sua epoca e può criticare una politica di evergetismo su scala imperiale.
- Nel 43 a. C. Ottavio era stato acclamato imperator.
Dal 40 egli aveva trasformato questo titolo onorifico in un elemento del suo nome, collegandolo definitivamente alla sua persona, come un vero prenome, senza dubbio per manifestare “il possesso di un primato d’onore e di uan superiorità di potenza”.
- Egli appariva contemporaneamente come l’uomo della vittoria e come l’uomo della pace.
Oltre al suo trionfo del 29, una serie di iniziative prese dal Senato mentre Ottavio si trovava in Oriente, gli assegna questo doppio merito: il 1. gennaio del 20, il Senato concede la sua auctoritas a tutti i suoi atti precedenti; l’11 il tempio di Giano è chiuso per la terza volta nella storia di Roma.
Inoltre Ottavio è salutato col titolo di “salvatore dello Stato”.
Un arco è innalzato nel Foro, in suo onore, tra il tempio del Divo Giulio e quello di Castore.
Su questo primo arco di trionfo, si poteva leggere Republica conservata.
Meglio, al momento del trionfo, mentre secondo la tradizione, magistrati e Senato aprivano il corteo, per la prima volta è l’imperator, Ottavio, che lo guida.
Così gli elementi di cui dispone Ottavio sono numerosi.
Egli ha saputo utilizzarli con abilità, prendendo decisioni, o facendole prendere, con il solo scopo apparente di restaurare il passato , mentre egli sperimentava delle innovazioni che sembrano minori, ma che sono di importanza decisiva.
Il suo genio politico fu proprio quello di capire che, per meglio instaurare un potere personale, doveva ocnservare la Repubblica, consolidare anche le apparenze delle sue istituzioni al fine di meglio vuotarle del loro contenuto.
Dal 28 al 23 a. C. s’organizza, con pragmatismo e lentezza, un evidente compromesso istituzionale.
Pag. 187-189

Capitale della Proconsolare, terza città dell’Impero, Cartagine è una città importante del mondo romano.
Popolata da parecchie centinaia di migliaia di abitanti, è stata sistemata con grandiosità dagli Antonini (acquedotto, terme, teatro, foro).
Tuttavia, questa città non è isolata: almeno 200 città per la sola Proconsolare, di cui 161 come minimo nel nord-est della Tunisia attuale!
Tra essi grandi nomi: Leptis Magna, Sabratha in Tripolitania; Hadrumetum, Thysdrus (la capitale dell’olivo), Utica, Ippona, Cirta, ecc.
In totale, si stima che il quarto o il terzo della popolazione abitava in città, città agricole o città portuarie, e spesso el due cose insieme.
Si comprende allora che, attraverso il successo municipale, in Africa più che altrove, i notabili abbiano adottato uno stile di vita romano e abbiano tenuto un ruolo considerevole non solo nel quadro della loro città o della loro regione, ma sempre più in quello dell’Impero.
Due esempi molto differenti: a Ostia, intorno al piazzale delle corporazioni, le compagnie africane sono le più numerose, tra gli ufficiali e i magistrati dell’epoca di Commodo, gli africani occupano un numero elevato di posti e costituiscono un gruppo di pressione informale e potente.
Tuttavia sussistono nelle campagne numerose zone in cui il punico è ancora parlato.
Ma il suo uso scritto scompare nel corso del secondo secolo.
Pag. 325

Le Tre Gallie (la Lugdunense, l’Aquitania, la Belgica) raggruppano uan sessantina di città che si riuniscono uan volta all’anno per celebrare il culto di Roma e di Augusto, certamente, ma anche per deliberare in un Consiglio dei Galli, in una sorta di distretto federale, a Condate, sulle pendici della Croix-Rousse, tra Rodano e Saona, di fronte alla colonia di Lione.
In questo senso, formano incontestabilmente un’entità politica e territoriale su cui pesa, sempre meno via via che ci si allontana dal Reno, il peso dell’esercito in particolare nell’orientamento della produzione economica; così i cereali e la lana che producono le città del Nord (le attuali Artois e Piccardia) sono rivolti verso le legioni del Reno.
Vari prodotti agricoli (grano, legname, ricco bestiame, vini, piante tessili), tecniche moderne (falce, “mietitrice”, marnatura), un solido artigianato (ceramica, tessitura, metallurgia), uan rete stradale migliorata da Antonino, fiumi navigabili, commercianti attivi (come i mercanti di Lione o quelli di Treviri),  fanno sì che le Tre Gallie conoscano nel secondo secolo una brillante prosperità materiale che ravviva lo splendore delle città.
Al primo posto Lione, che gli Antonini arricchirono; poi Treviri, Bordeaux, che divenne nel corso del secondo secolo la capitale dell’Aquitania, Autun, Reims, e dietro, tra le grandi città, Metz, Poitiers, Limoges, Lutezia.
Dei vuoti immensi: il Sud- Ovest, il Centro, l’Ovest, il Nord dove l’urbanizzazione è molto debole.
Malgrado questi limiti, questa rete urbana modella in gran parte la rete attuale.
Pag. 326-27

In confronto all’Occidente, l’Oriente dà l’illusione di un’entità politica più monolitica.
Non è affatto vero: la varietà etnica e culturale qui può persino essere più importante.
Come le province d’Occidente, quelle d’Oriente conoscono nel secondo secolo una brillante prosperità.
Ma l’equilibrio che si percepisce alla metà del secolo tra le due parti dell’Impero nasconde in realtà un dinamismo ineguale: le province d’Occidente hanno raggiunto il loro apogeo, che esse non conserveranno molto, salvo l’Africa, al di là del secolo; quelle d’Oriente, malgrado alcuen ombre, mantengono più a lungo i loro successi economici, amplificano la loro preminenza intellettuale e diventeranno nel secolo successivo il centro vitale dell’Impero.
Così lo studio provincia per provincia si inserirà nel quadro dell’Impero nel 325.
Questo progresso globale dell’Oriente a scapito di un Occidente che si immobilizza nella sua “età dell’oro” si segnala dalla seconda metà del secolo degli Antonini.
Ma le ragioni sono più antiche.
Innanzi tutto queste terre d’Oriente sono tutti territori di antiche e grandi civiltà che non avevano mai cessato di essere virtualmente ricche, tanto la memoria, la cultura e l’esperienza degli uomini qui erano state importanti in tutti i campi (tecniche, commerci, vita sociale, politica, economica, spirituale).
Ma la pirateria e il brigantaggio, le conquiste e i loro saccheggi, le guerre civili e le loro distruzioni avevano indebolito e diviso queste regioni, conducendole ad un certo ripiegamento.
Pag. 330

Così preparata da un secolo, la prosperità della parte orientale dell’Impero poggia forse su fondamenta più solide di quelle della parte occidentale, o almeno, più estranee alla tradizione romana.
In ogni caso, le sue manifestazioni, spesso brillanti, toccarono tutti i settori dell’attività umana.
Pag. 333

Uan reale ricchezza economica.
Malgrado alcune regioni che vivacchiano (Beozia, est dell’Anatolia), l’impressione che domina è quella di un’incontestabile prosperità, perfino di un’opulenza agricola, artigianale, industriale e commerciale.
In questo settore economico, i siriani in particolare si distinguono.
Essi dominano il piccolo e grande commercio; li si trova in tutto l’Impero, da Gades a Colonia, da Ostia a Lione, dove l’iscrizione funeraria di un mercante di Laodicea precisa che egli è venuto a portare “ai celti e alla terra d’Occidente tutto ciò che Dio ha stabilito di portare alla terra d’Occidente tutto ciò che Dio ha stabilito di portare alla terra d’Oriente, feconda di ogni prodotto”.
Quanto al commercio a lunga distanza, cioè con la Cina e con le Indie, è un’esclusiva orientale e passa per Petra, Palmira o per Alessandria, secondo gli itinerari e secondo i prodotti.
Pag. 334

Si sa che esiste un pensiero economico presso i romani ma la sua razionalità non è la stessa della nostra.
Altrimenti detto: la realizzazione dell’Impero romano, in quanto spazio politico e geografico, è accompagnata da un’organizzazione economica che da liberale ai suoi inizi sarebbe diventata statalista nella tarda antichità?
Sembra di no.
Il pensiero economico, a Roma, “non è che l’elemento di una riflessione globale che mette in realtà al centro di tutto la città, nella sua totalità, concepita come il luogo ineguagliato delle relazioni umane, e di cui bisogna dunque preservare ad ogni costo la coesione e i valori.” (C. Nicolet).
E’ l’equilibrio morale della città che importa.
Ci sarà sempre confusione tra morale ed economia: così le ricchezze che apporta il commercio possono essere considerate nello stesso tempo come una risorsa economica, come il segno di un dominio politico e come un rischio di corruzione morale.
Ciò detto, la storia economica ha fatto enormi progressi in pochi anni.
Se non è possibile avere visioni generali su tutto l’Impero (gli studi economici sono per lo più generali), si arriva malgrado tutto a raccogliere sufficienti informazioni per studiare i grandi settori economici.
Non è questione di presentare qui l’insieme di questi risultati, ma di dare alcune indicazioni sulla vita economica nel secondo secolo dell’Impero.
Un richiamo, le condizioni della vita economica sono estremamente favorevoli alla sua fioritura.
C’è la pace e anche una rete di strade costantemente sottoposte a manutenzione e perfezionate, un insieme di fiumi che permettono di raggiungere l’interno dei territori a partire dal Mediterraneo, il mare stesso, divenuto sicuro, ma che non è molto frequentato da novembre a marzo (il mare è chiuso, dicono i romani), dei porti sistemati continuamente (Ostia, Cartagine, Alessandria, Leptis Magna, Seleucia di Pieria, ecc.), l’estensione stessa dell’Impero che permette di avere risorse diverse e complementari, l’esistenza di enormi centri di consumo (Roma, le grandi città, le zone frontaliere), i progressi del lusso e lo sviluppo di una società in cui si consuma sempre di più, una moneta quasi stabile (nonostante un indebolimento sotto Marco Aurelio) e un aumento della popolazione che incita a sfruttare terre nuove,
In complesso, un’era di prosperità economica così evidente che i suoi risultati impressionano uno scrittore di temperamento polemico, Tertulliano: “Constatiamo con certezza – scrive verso il 210 – che il mondo è di giorno in giorno meglio coltivato e meglio provvisto di tutto che nel passato.
Tutto è accessibile, tutto è conosciuto, tutto è lavorato, dei fondi rurali molto gradevoli hanno fatto arretrare deserti celebri, i solchi hanno domato le foreste, le greggi hanno messo in fuga le bestie feroci, le distese di sabbia sono seminate, si aprono vie nelle rocce, si prosciugano le paludi, esistono tante città quante case un tempo […].
Ovunque abitazioni, ovunque popoli, ovunque città, ovunque vita!”
Pag. 335-36

Questi traffici con l’esterno non avevano quasi contropartita.
Roma pagava in oro.
Per molto tempo si è parlato a questo proposito di emorragia d’oro.
Si sa ora che queste considerazioni si iscrivono nella tradizione romana del discorso contro il lusso e che questi cento milioni di sesterzi non mettevano in pericolo l’economia dell’Impero.
Nelle città mercantili, soprattutto d’Occidente, gli artigiani, i mercanti, i battellieri si raggruppano in corporazioni costituite sul modello delle curie municipali.
Essa hanno anche uno scopo religioso, poiché garantiscono ai loro componenti di ricevere funerali adeguati e giocano nella città un ruolo non trascurabile, come , a Lione, la corporazione dei mercanti di vino.
Pag. 342

Con Augusto era nato un nuovo esercito, l’esercito imperiale.
Questo “esercito sperimentale”, i suoi successori lo trasformano in “esercito permanente” (P. Le Roux), con una missione principale – difendere l’Impero contro ogni aggressione esterna -, una funzione secondaria –assicurare l’ordine all’interno delle frontiere (sorvegliare le strade, controllare i nomadi, prevenire la pirateria, ecc.) – e delle funzioni accessorie (compiti amministrativi, corrispondenza ufficiale, lavori pubblici).
Pag. 343

Quando, sotto i Flavii, furono nuovamente installate le legioni sul Reno, si rimpiazzarono gli accampamenti invernali rudimentali (in legno e in terra) con dei campi costruiti in pietra.
Questo cambiamento di modo di costruzione è forse il primo segno di una nuova strategia.
All’Impero “egemonico” dei Giulio-Claudii succede l’Impero “territoriale”, che inaugura uan strategia di difesa del perimetro: “avendo raggiunto le frontiere “scientifiche”, non si decide più alcuna operazione ulteriore, in ogni caso non al di là della portata delle basi fisse” (E. Luttwak).
Dopo le spedizioni di Traiano, questa concezione di difesa preventiva si impone su tutte le frontiere, cioè 10200 km contando la Dacia (9600 senza), più 4500 di coste.
Questo dispositivo si chiama limes.
Pag. 346-47

Questi elementi naturali del limes non sono che lo scheletro del sistema.
Bisogna immaginare delle pattuglie, delle azioni diplomatiche, degli scambi, dei trasferimenti incessanti di soldati, ecc., e molteplici adattamenti secondo i luoghi.
Qui si utilizzerà un fiume, là una montagna o un deserto.
Pag. 347-48

In definitiva, la potenza militare dell’Impero è in primo luogo uno strumento diplomatico; la minaccia del suo impiego dissuade il nemico che mai nel secondo secolo offre una forza in grado di inquietare le legioni.
Ma sarebbe bastato che fuori dalle frontiere apparisse uan federazione di tribù o un altro impero perché il sistema di difesa, concepito in funzione di  minacce di piccola ampiezza, non potesse farvi fronte; l’estremo dilatarsi delle unità non permette in effetti di prelevarne uan parte importante da un fronte per inviarla altrove.
Il sistema manca di flessibilità.
Che cosa accadrebbe allora se in due punti lontani l’uno dall’altro, dei popoli di frontiera organizzati attaccassero l’uno dall’altro, dei popoli di frontiera organizzati attaccassero contemporaneamente?
In fin dei conti, l’esercito sotto gli Antonini ha raggiunto il suo obiettivo: garantire una sicurezza permanente alle popolazioni che vivono all’interno delle frontiere dell’Impero.
In ciò, partecipa ai disegni supremi di questo stesso Impero: creare una nuova società in cui i barbari al di qua, sempre più integrati nel mondo romano, sempre più separati dai barbari che vivono al di là, sono sul punto di divenire i provinciali del vasto impero.
“Era un vero melting-pot”, osserva uno storico anglosassone parlando dell’Impero o ad esaminarlo molto sommariamente nella sua varietà religiosa, non si può evitare di essere colpiti dall’abbondanza di credi religiosi”.
Un’abbondanza che bisogna preservare nella sua nella sua interezza, se non si voglia correre il rischio di non comprenderne la vitalità.
E Ramsey MacMullen rifiuta nel suo studio (Paganism in the Roman Empire, New Haven, 1981) di analizzarne “(le) parti costituenti, (i) culti particolari, le loro derivazioni e la loro natura” per guardare al sistema complessivo e ai suoi cambiamenti.
Ha senza dubbio ragione.
Almeno conviene riconoscerne gli elementi essenziali: la religione romana tradizionale, i culti indigeni di sui certi superano la loro regione di origine, il culto imperiale.
Pag. 350

Sotto il termine generale per “religioni indigene” intendiamo tutte le religioni dell’Impero ad eccezione delle religioni “italiche”, pur se indigene.
Questo semplice enunciato permette di comprendere l’ampiezza di tale questione che non si può, neanche superficialmente, affrontare qui.
Entrare nel dettaglio rende necessario fare un tour dell’Impero provincia per provincia, perfino regione per regione.
E nessuna visione d’insieme è veramente pertinente: queste religioni esistono, proprio, solo per il fatto che non hanno vocazione all’universalismo e sono radicate in un territorio, in una storia e in una società precisa.
Tutt’al più si possono presentare alcuni elementi evolutivi comuni a queste religioni, religioni di popoli vinti, che persistono nel secondo secolo e anche dopo.
Pag. 355

Cap. 12. Il regno degli africani e dei siriani.

Le caratteristiche di questi anni di guerra
- Il Senato con i suoi voltafaccia, le sue indecisioni, i suoi rinnegamenti scompare completamente dal novero delle forze politiche
- L’esercito provinciale, e non più i pretoriani, è la forza determinante nella scelta dell’imperatore.
Il soldato delle frontiere danubiane è divenuto il padrone dell’Impero
- Il conflitto ha preso l’aspetto di guerre interprovinciali, in cui, su scala regionale, le rivalità tra città hanno avuto un ruolo di primo piano
- Tra queste province, tre aree acquistano importanza: la Britannia, le province danubiane, l’Oriente.

Esse segnalano in definitiva il nuovo asse di scambi (Reno-Danubio-Siria) che controbilancia l’asse mediterraneo (Oriente-Roma-Occidente).
A breve termine, si profila un problema cruciale, che pressioni esterne potevano aggravare, quello dell’unità dell’Impero.
Pag. 369-70

Vitalità, energia, attivismo, le parole ritornano senza posa per qualificare l’opera di Severo che, per la sua azione personale o perché era in accordo con la sua epoca, apportò grandi cambiamenti nella pratica del potere e accentuò certi aspetti del regime: monarchia dinastica, monarchia anti senatoria, monarchia assoluta.
Pag. 372-73

A partire da Settimio Severo si svela completamente l’assolutismo intrinseco al regime imperiale ma che, fino ad allora, si nascondeva dietro un paravento di istituzioni e di abitudini, sebbene questo tendesse sempre più a sgretolarsi.
Così l’orazione del Principe al Senato diventa fonte ufficiale del diritto.
E i giuristi che circondano l’imperatore mettono la loro scienza al servizio del potere: “ciò che piace al principe ha valore di legge”, “il principe è al di sopra delle leggi”, dicono.
Migliaia di istanze (circa 1500 per anno) affluiscono da tutto l’Impero al Consiglio del Principe.
Se si aggiunge a ciò l’aumento dei posti di procuratori, si comprende che il numero degli uffici e degli impiegati aumenta.
L’Impero comincia a burocratizzarsi.
Così la res privata (l’amministrazione dei beni personali dell’imperatore), gonfiata dalla confisca dei beni degli oppositori, ha raggiunto un’estensione tale da divenire un ufficio a tutti gli effetti, distinto dai beni della corona (il patrimonium).
Altri esempi: lo sviluppo dei servizi all’annona, l’intrusione dello Stato nell’organizzazione delle società commerciali e artigianali, l’ampliamento del fenomeno associativo nel mondo contadino favoriscono lo sviluppo degli uffici centrali.
Pag. 378-79

Nondimeno non bisogna immaginarsi questa burocrazia come quella di uno Stato moderno.
La nascita di una vita di corte con uno stile inusitato testimonia ancora l’assolutismo del potere severiano.
Itinerante o fissa, essa si caratterizza per un’etichetta sempre più minuziosa, ricalcata sul modello orientale: seggio, corone, vesti, atteggiamenti sono codificati e l’adventus Augusti  (l’arrivo dell’imperatore) o l’apoteosi di Settimio Severo si svolgono secondo un cerimoniale dal formalismo mai raggiunto prima.
Quest’ultima cerimonia tuttavia non è nuova.
Il suo scopo ultimo non è fondamentalmente cambiato, si tratta sempre di divinizzare l’imperatore defunto.
Tuttavia, se la tradizione persiste, si sono notati degli elementi che prefigurano il terzo secolo.
In un certo senso, un riassunto dell’opera di Settimio Severo.
Pag. 380

Per accattivarsi la fedeltà dei partigiani sei Severi (in particolare dei soldati), prende come, cognomen Severus, fa proclamare Caracalla divus dal Senato e dà al suo giovane figlio, Diadumeniano, contemporaneamente il cognomen di Antoninus (come Caracalla) e il titolo di Cesare.
Ma nello stesso tempo, per legare a sé gli oppositori dei Severi, ritorna sulle misure di Caracalla (riporta l’imposta sulle successioni al 5%), versa al re parto un’indennità di 200 milioni di sesterzi per lasciare immutate la frontiera romano-partica e le zone di influenza (Armenia) e riduce delle metà il soldo delle nuove reclute.
Per di più, la sua origine oscura, le sue azioni maldestre (rifiuto del resto giustificato di recarsi a Roma, nomina alla prefettura della città del suo collega al pretorio, ecc.) gli alienano le poche simpatie che aveva saputo suscitare.
E vi trovava del tutto incapace di opporsi alle macchinazioni delle principesse siriache.
Pag. 284-85

Africano, siriaci, un trace alla guida dell’Impero: è evidente che le province, e in particolare quelle della parte orientale dell’Impero, forniscono il personale politico e militare, desideroso di assumere i più alti incarichi.
Questa preminenza si ritrova in campo intellettuale: così si vede un Latino di Preneste che non lascerà mai Roma, Eliano (?170-235?), scrivere in greco le sue Storie degli animali.
Due aspetti meritano attenzione – il movimento religioso, il movimento intellettuale – perché essi annunciano un altro universo mentale, un altro modo di vedere le cose.
Si è spesso attribuita ai Severi un’orientalizzazione della religione romana.
Forse si è andati troppo lontano su questa strada coem hanno fatto osservare numerosi ricercatori anglosassoni?
Ma ciò non toglie che sotto l’influenza della corte, delle imperatrici, dei mercanti, dei giuristi, un’estensione delle “religioni orientali” è percepibile in quest’epoca: nei paesi in cui erano già introdotte esse prendono più piede, mentre si diffondono là dove non erano ancora penetrate.
Tuttavia, al di fuori del caso di Elagabalo, non si colgono sempre i rapporti tra queste religioni e l’azione imperiale.
Qualche esempio.
- Si nota ovunque un ritorno di favore per Cibele.
Tauroboli e crioboli si moltiplicano alla fine dell’età degli Antonini e all’epoca dei Severi, spesso associati al culto imperiale.
- Il culto di Iside e quello di Serapide beneficiano dei favori imperiali.
Sui denarii di Giulia Domna, Iside allatta Horus, con la leggenda “Felicità del secolo”, allusione alla maternità dell’imperatrice.
Quanto a Caracalla, egli consacra un culto particolare a Serapide che figura dal 212 sul rovescio delle sue monete.
D’altronde l’imperatore è definito “beneamato da Serapide” e a questa divinità fa costruire un tempio grandioso sul Quirinale
- Giove Dolicheno conosce il suo apogeo sotto i Severi, prima di crollare brutalmente (se si presta fede alle iscrizioni) dopo il 220 circa.
Strettamente legato ai soldati, recluta i propri fedeli nell’ambiente militare da dove non esce quasi.
Lo si trova dunque sui differenti limes.
- E’ ancora sotto i Severi che le dediche mitriache “per la salvezza dell’imperatore…” sono più numerose.
Ma questa constatazione richiede due correzioni.
Da una parte tutte le  iscrizioni, quali che siano, seguono la stessa curva.
D’altra parte tra le divinità invocate per la salvezza degli Augusti, Iuppiter Optimus Maximus è di gran lunga in testa.
Si potrebbero fornire altri esempi.
Non si arriverebbe a meglio delineare l’articolazione tra l’attività dei Severi e l’orientalizzazione della religione, salvo per alcune divinità locali, legate all’origine stessa della famiglia imperiale: Aziz di Emesa, onorato a Intercisa per la salvezza di Severo Alessandro; Liber pater e Ercole di Leptis Magna, i cui nomi latinizzati nascondono divinità di origine semitica, Shadrafa e Melqart.
Più chiare sono le tendenze che questa oscura orientalizzazione rivela.
Ce ne sono due.
Semplificando, potrebbero ricondursi alle due politiche religiose di Elagabalo e di Severo Alessandro.
Con il primo è affermata a vantaggio del Sole (Helios) l’idea abbastanza comune di un dio unico la cui forza è molteplice e di cui le altre figure divine sono le espressioni.
Il Sole sarà il grande dio beneficiario del vasto movimento sincretista del terzo secolo.
Con il secondo si evidenzia un altri tipo di sincretismo, che mette le divinità sullo stesso piano, senza privilegiarne una o escluderne un’altra, perché sono tutte riflesso di una divinità superiore che i filosofi del terzo secolo cercheranno di definire.
In seno a queste due tendenze, il posto che occupano i filosofi va crescendo: le filosofie si impegnano sempre più di spirito religioso.
Infine, l’ultimo aspetto dell’”orientalizzazione” della vita religiosa, l’espansione del cristianesimo.
Dall’epoca di Marco Aurelio la situazione giuridica dei cristiani non si era modificata.
Nel 202 Settimio Severo vieta il proselitismo giudaico e cristiano.
E’ il primo atto giuridico direttamente portato contro i cristiani.
Ci fu un editto di persecuzione?
Malgrado un passo dell’Historia Augusta,  non sembra.
Si conoscono allora dei martiri a Cartagine e ad Alessandria in particolare, ma nono il risultato di pogrom locali (movimenti di folla, eccessi dei governatori) e non dell’applicazione di un editto generale che nessuna utore cristiano ricorda.
Salvo questa misura, i Severi mostrarono una neutralità, talvolta benevola, verso il cristianesimo.
E le testimonianze contemporanee segnalano il numero crescente dei cristiani in tutte le regioni ei n tutte le classi della società.
Un testo della fine del secondo secolo precisa: “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini, né per il paese, né per la lingua, né per le vesti. […].
Il loro genere di vita non ha niente di singolare […].

Essi si conformano agli usi locali per l’abbigliamento, l’alimentazione e il modo di vita”.
Partecipano dunque alla vita economica, anche politica, ma vogliono viverle da cristiani.
Cosa che non avviene senza porre qualche problema, come l’uso delle terme, certi spettacoli o anche l’istruzione dei fanciulli.
Ma, nel complesso, tranne dei cristiani intransigenti (come i montanisti o come lo scrittore Tertulliano, che creò la sua setta) che chiamano alla diserzione e invitano a rifiutare tutti i mestieri, i cristiano condividono la vita quotidiana dei loro compatrioti.
Con in più la coscienza di appartenere ad un’altra comunità, una comunità di fede, che senza sosta si ingrandisce e si organizza sempre meglio (primi cimiteri cristiani a Roma, diaconesse, prima arte cristiana, parrocchie, chierici inferiori, ecc.).
Da tre centri importanti (Roma, già alla testa di tutte le chiese, Cartagine, Alessandria) partono delle missioni.
Tuttavia è l’Oriente che resta la prima terra cristiana per importanza: l’ultimo re di Ostoene si è fatto battezzare: a Daura Europos appare il più antico edificio del culto cristiano e ad Alessandria prospera il Didaskaleion, cioè una scuola di filosofia cristiana.

Pag. 390-393

Nella sua interezza, è portato dal fermento intellettuale dell’Oriente e della corte delle principesse siriache, un vero laboratorio di idee.
Nessun campo sfugge agli autori di lingua greca.
Nella storiografia, Cassio Dione ed Erodiano dominano la loro epoca.
Il primo è di Nicea, il secondo forse dell’Asia Minore.
Tutti e due (soprattutto Cassio Dione, console due volte) hanno avuto importanti responsabilità, sono stati i testimoni privilegiati dell’epoca dei Severi, imperatori che hanno servito prima di ritornare, alla fine della loro vita, nella loro patria d’origine per mettere qui per iscritto le loro esperienze del mondo.
Nel campo del diritto, la scuola di Berito (Beirut) domina completamente con Papiniano e i suoi allievi che impongono, si è notato, le loro opinioni presso gli imperatori.
In filosofia l’apporto dell’Oriente è, ancora uan volta, fondamentale.
Poiché le filosofie danno meno certezze, ci si volge verso il passato cui si domandano precetti e modelli, che appassionano tanto più quanto più sono nascosti e rivelati ai soli iniziati.
Così Filostrato l’Ateniese scrive una Vita dei Sofisti e, su richiesta di Giulia Domna, una Vita di Apollonio di Tiana, un taumaturgo neopitagorico che era vissuto nella seconda metà del primo secolo d. C.: egli compiva miracoli, onorava la divinità suprema con la purezza del suo cuore e sapeva tutto ciò che si poteva sapere.
Il romanzo, pieno di anacronismi, conobbe un vero successo: il meraviglioso e l’irrazionale, che questa biografia svelava, si accordavano allo spirito del tempo.
Più piatte, ma derivate dallo stesso processo, sono le compilazioni di Diogene Laerzio di Cilicia (Vita, dottrine e sentenze dei filosofi illustri di ogni setta) e di Ateneo di Naucrati (Il banchetto dei Sofisti).
L’epoca conosce anche filosofi di grande personalità: Alessandro di Afrodisia, detto l’Esegeta, che cura i testi della tradizione aristotelica, con le varianti e un ampio commentario; Sesto Empirico, medico greco, che, da perfetto scettico, critica tutte le sette filosofiche per arrivare ad una filosofia dell’esperienza; Ammonio Sacca, il primo grande neoplatonico, che fonda verso il 200 uan scuola filosofica ad Alessandria e che ebbe per discepoli Plotino (204-270) e Origene (circa 185-dopo il 251), i due più grandi pensatori del terzo secolo e tr ai più grandi del mondo antico.
Con questo neoplatonico e questo cristiano intransigente, si entra in un altro universo intellettuale.
L’ultimo apporto dell’Oriente al movimento intellettuale è l’apparizione di un’importantissima letteratura cristiana in lingua greca.
Questa letteratura esisteva dagli ultimi anni del primo secolo, ma essa fiorisce alla fine del regno degli Antonini e sotto i Severi, con quattro autori: Ireneo, originario dell’Asia, secondo vescovo di Lione e fondatore della teologia cattolica (morto – martire? – sotto Settimio Severo); Ippolito (circa 170-235), un prete di Roma che compone in greco il più antico trattato esegetico che si sia giunto; Clemente di Alessandria (scrive sotto i Severi), un convertito fornito di un’erudizione strabiliante e che non esita, dice, “a utilizzare i migliori elementi della filosofia e della cultura” (Stromati, 1., 1, 15) per elaborare la prima grande sintesi del cristianesimo e della filosofia; Origene (circa 185-dopo il 251), autore di un’opera gigantesca (forse 2000 libri, di cui 800 titoli ci sono giunti), al contempo esegeta, filosofo, filologo, biblista, asceta, mistico, predicatore, insegnante, e “uno dei più potenti geni del cristianesimo antico” (C. Mondésert).
Accanto a questi giganti della letteratura cristiana greca, un autore di lingua latina si impone, Tertulliano (circa 160-circa 220).
Africano, esaltato, intransigente, polemista adombrato con il mondo intero, è anche uno scrittore e un teologo notevole.
Il cristianesimo si è dato una dimensione intellettuale.
E’ una novità fondamentale, risultato di questo crogiolo di culture che era l’Oriente.
Duecentoventi anni e sette mesi dopo la morte di Augusto si estingueva tragicamente la dinastia dei Severi.
Apparentemente l’Impero era cambiato poco.
Vi si potevano sempre ritrovare gli elementi costitutivi del governo imperiale e le sopravvivenze dei secoli  passati.
In realtà, l’Impero si era evoluto con una elasticità straordinaria.
Evitando tanto di fossilizzarsi quanto di sfasciarsi in mutamenti brutali, si era adattato alle situazioni nuove molto felicemente.
Aveva saputo aggregare l’élite delle province ai suoi senatori e ai suoi cavalieri, mantenere il prestigio di un corpo politico senza potere – il Senato -, assorbire degli omicidi di governanti e due guerre civili, estendere la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi senza sopprimere il loro legame con la “piccola patria”, dare quasi a tutti la sicurezza e una certa prosperità.
Naturalmente il sistema aveva mostrato delle debolezze.
Funzionava forse male, ma funzionava.
Una tomba modesta di un africano ucciso nel 238, durante la rivolta contro Massimino, giudicato barbaro e tirannico, dice di più sul successo di Roma che un lungo discorso.
Vi si può leggere difatti: “Morì per amore di Roma”.
Pag. 363-95

Parte terza. Un altro mondo romano, 3. -5. secolo

Il periodo inaugurato dall’anno 235 non può più essere studiato oggi come lo è stato fino a qualche decennio fa: i progressi della ricerca hanno radicalmente modificato l’idea che se ne facevano gli storici.
Certo, esso corrisponde essenzialmente alle tre tappe ben distinte dalla tradizione storiografica.
L’innovazione va dunque cercata non nelle cesure cronologiche, ma nelle caratteristiche di ciascuna di queste fasi.
Così, gli anni dal 235 al 284, che attualmente sono in genere considerati come l’ultima parte dell’Alto Impero, furono segnati da molteplici e gravi crisi, che colpirono tutti i campi della vita pubblica (politica, difesa, economia, società, mentalità collettive, ecc.).
Ma ai nostri giorni si insiste di più sui limiti di queste crisi, che furono più o meno profonde secondo le regioni e le epoche: l’Africa e la penisola iberica, per esempio, ebbero a soffrire meno della Gallia.
Inoltre, sono bene attestate reazioni che la maggior parte degli storici attribuisce agli “imperatori illirici”.
A partire dal 284 iniziò quello che prima veniva chiamato “Basso Impero”, definizione talvolta ancora adoperata.
Questa espressione aveva finito per prendere un senso deteriore, ed era diventata sinonimo di decadenza profonda e generale, o di declino.
Di fatto oggi gli studiosi insistono, al contrario, sulla rinascita che ha riguardato un gran numero di settori: si instaura un altro ordine.
Così, alcuni studiosi preferiscono ora parlare di “tarda antichità” piuttosto che di “Basso Impero”.
Lo Stato fu riorganizzato; il potere politico, l’esercito, le istituzioni presentarono un volto differente, quello di una monarchia rafforzata, ancora più sacrale e personale che nei secoli precedenti.
Molti settori dell’economia ritrovarono il loro dinamismo, mentre i contrasti sociali si accentuarono senza per questo provocare gravi agitazioni.
Allo stesso modo, la cultura e la vita religiosa conobbero un nuovo slancio, e il conflitto tra cristianesimo e paganesimo diede uan grande vitalità all’uno e all’altro.
Con gli anni 370-400 si assiste all’apparizione di una divergenza di destini che separò l’Oriente dall’Occidente.
Ad Ovest cominciò uan nuova crisi, grave e profonda, simboleggiata da due date: nel 406 vandali, alani e svevi attraversarono il Reno senza che nessuno li potesse arrestare; nel 410 Alarico si impadronì di Roma.
Ciononostante, in alcune zone esisteva ancora una certa vitalità, e organi come la Chiesa, per esempio, riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni create dalla storia, prolungando così la “tarda antichità”.
L’est, al contrario, vide levarsi l’alba di una nuova civiltà; è certamente a prezzo di qualche dolore che nasce il mondo bizantino.
Pag. 399-400

Ma la grande innovazione di quest’epoca è lo straordinario sviluppo della letteratura cristiana.
La crisi ariana ha permesso ad Eusebio di Cesarea e a sant’Atanasio di manifestare il loro talento.
Ma in questo campo si possono distinguere vere e proprie “scuole” regionali o locali, fiorite in Cappadocia (san Basilio, san Gregorio di Nazianzio, san Gregorio di Nissa), ad Antiochia (san Giovanni Crisostomo), ad Alessandria (Origene, Claudiano), in Africa (san Cipriano, Arnobio, Lattanzio, sant’Agostino) e in Spagna (Orosio e Prudenzio).
Un po’ in disparte da questo movimento, per l’importanza del loro messaggio teologico, sant’Ambrogio, vescovo di Milano, e il dalmata san Girolamo, sono un esempio dei cosiddetti “Padri della Chiesa”.
Utili sono anche le letterature periferiche, giudaica (Talmud di Babilonia e soprattutto di Gerusalemme), siriaca ed armena, e la letteratura tarda (bizantina).
Pag. 401

Presentare l’archeologia è ancora più difficile, nella misura in cui la massa dei documenti si presenta schiacciante.
Un’unica parola designa, in effetti, discipline molto differenti, dai mille progetti, che vanno dal fermaglio e dalla fibbia di cinturone, alla villa e alla città, passando per la ceramica e ogni tipo di monumento; si parlerà in seguito di statue (gruppo dei tetrarchi a Venezia), di monumenti (arco di Tessalonica), di abitazioni (Piazza Armerina, Montmaurin), di palazzi (Spalato), di chiese (san Clemente, san Martino ai Monti), di campi militari (Luxor, forti della Siria), ecc.
Questo quadro permette di comprendere quello che è, dal punto di vista delle fonti, il compito appassionante dello storico, in particolare quando studia il terzo e quarto secolo; per ricreare in realtà, egli deve utilizzare tutti i tipi di documenti che si trovano a sua disposizione, non senza averli preliminarmente passati al setaccio della sua critica: egli deve sapere quello che può attendersi e quello che non deve attendersi.
La principale difficoltà risiede proprio qui, e presenta due aspetti: molti documenti sono poco conosciuti, e molti altri ancora non sono mai stati studiati scientificamente.
Ci sono ancora molte ricerche da fare.
Pag. 403

Cap. 13. Un certo equilibrio: l’anno 235

Nel 235, quando muore l’ultimo dei Severi, l’Impero ha raggiunto un certo equilibrio (oggi non si crede più che l’avvento di Settimio Severo, nel 193, abbia segnato l’inizio di una grande crisi).
Si è persa la memoria dell’allarme e degli anni terribili di Marco Aurelio, e le difficoltà che si presentano qua e là sono generalmente percepite come seccature tutto sommato normali e provvisorie.
Quando al pessimismo visibile negli scrittori, esso deriva da un luogo comune letterario, il rimpianto die tempi passati.
Certo, questo equilibrio è minacciato; ma in quel momento non se ne accorge nessuno, tranne alcuni spiriti elevati che sentono di vivere in un periodo di crisi che è, ai loro occhi, biologica e morale.
Pag. 405

Rimasta relativamente stabile nelle sue linee essenziali a partire da Augusto, la società aveva la tendenza a cristallizzarsi.
I senatori avevano perduto il loro ruolo politico, ma conservavano il loro posto nell’amministrazione provinciale e nell’esercito.
Nel consiglio dell’imperatore e nei grandi servizi statali, il loro ruolo diminuiva a vantaggio dei cavalieri in piena ascesa.
Inoltre, si distinguevano sempre più le élite provinciali i cui membri entravano in Senato e nell’ordine equestre.
Dal secondo secolo si era manifestata una reazione contro questa mobilità.
Ulteriore fermento di disunione: l’espansione del cristianesimo.
Pag. 406

L’Oriente di lingua greca era stato organizzato, come l’Occidente, in diversi, vasti comprensori, quattro dei quali sono chiaramente distinguibili: la penisola balcanica, l’Anatolia, la Siria e l’Egitto.
Sottomesse al potere di Marco Antonio durante la guerra civile conclusa nel 31 a. C., durante il regno di Augusto queste regioni non sempre furono privilegiate dal potere centrale.
Ma Atene, la Macedonia, Pergamo, il paese dei Galati, la Siria, l’Egitto beneficiavano di un retaggio culturale ed economico e nel 235 si trovavano in una situazione generale molto buona.
Pag. 413

Dunque, il peso del clima e della storia, il ruolo del potere politico e le relazioni interprovinciali si adoperavano a cancellare le differenze tra le parti dell’Impero.
E’ però difficile parlare dell’Impero nel terzo secolo senza parlare dei suoi vicini.
Conviene distinguere, a questo proposito, tre grandi settori, e l’evoluzione degli effettivi militari romani mostra quali nemici temeva lo stato maggiore (il che non vuol dire che quest’ultimo qualche volta non si sbagliasse).
I nemici forse più pericolosi, in proporzione al loro numero, erano senza dubbio i Britanni, che vivevano a nord dei valli di Adriano e Antonino Pio; Pitti e Scoti potevano facilmente attaccare sia da terra che dal mare.
Contro di loro era stato necessario mobilitare (e tenere bloccate) tre legioni, più di un decimo dell’esercito imperiale.
Sul continente, oltre il Reno e il Danubio, vivevano i Germani.
La loro demografia e la loro efficacia in combattimento ne facevano dei nemici terribili.
Fino ad allora essi erano vissuti in piccole comunità, molto aggressive e, per fortuna, per lo più prive di coordinamento.
Ma ecco che all’inizio del terzo secolo si costituirono delle leghe; gli Alamanni affacciavano sull’angolo formato dai corsi superiori del Reno e del Danubio; i franchi erano stanziati al di là del corso medio ed inferiore del Reno.
E non è tutto: il goti, ai quali soprattutto il re Kniva diede un’organizzazione unitaria, scendevano verso sud e sud-est.
Non è sicuro che i movimenti di popolazioni attestati per quest’epoca in Estremo Oriente, possano aver avuto ripercussioni profonde e rapide sul settore renano-danubiano del limes.
Ma è certo che la situazione di degradava.
Pag. 418-19

La seconda maggiore fonte di pericolo si trovava in Asia.
Forse meno terribile  sui campi di battaglia, l’Iran era però il solo grande Stato organizzato capace di controbilanciare la potenza di Roma, e il numero di legioni incaricate di sorvegliarlo (nel terzo secolo era arrivato a dieci) non aveva cessato di crescere dall’epoca di Augusto.
Il problema era tanto più importante, in quanto il grande commercio di prodotti pregiati dall’Estremo Oriente passava in parte per il territorio iraniano.
Tra Iran e Roma c’era un eterno pomo della discordia: l’Armenia.
Pag. 419

Quando si occupava della sua “frontiera” meridionale, l’imperatore era meno preoccupato.
Gli eventuali nemici non avevano nessuna unità politica, né potenziale demografico, e non rappresentavano un pericolo militare, se non per la mobilità legata al nomadismo.
Pag. 420

Nel 235 l’Impero sembrava aver raggiunto un certo equilibrio; malgrado alcune difficoltà, l’ordine e la prosperità regnavano in maniera molto generalizzata.
Si potrebbero tuttavia rilevare due possibili fonti di inquietudine.
Da una parte, l’Oriente e l’Occidente, che costituivano due entità differenti, non erano progrediti con la stessa velocità; l’Occidente latino era forse partito prima dell’Oriente greco, dall’età augustea.
Ma ad essere precisi, la fase di sviluppo durava da molto più tempo, e si affievolì, mentre l’Oriente conobbe un grande dinamismo nel secondo secolo e all’inizio del terzo secolo.
D’altra parte il limes che separava Roma e i barbari funzionava ancora in modo soddisfacente.
Ma germani e iranici modificarono le proprie strutture politiche, sociali, militari.
Da questi due lati difficoltà si erano manifestate a partire da Marco Aurelio; l’ultimo dei Severi dovette combattere contro persiani e alamanni.
Gli assassini di Severo Alessandro – i suoi stessi soldati – ignoravano che essi aprivano una nuova era.
Pag. 421

Cap. 14. Un ordine che si sfalda: le crisi, 235-284

A partire dal 235 l’Impero precipitò in una crisi che gli autori contemporanei hanno descritto con accenti tragici.
Di fatto, è impossibile negarne la gravità e la portata generale.
La ricerca recente, tuttavia, tende a mettere in rilievo alcuni limiti di questo crollo, e constata l’esistenza di reazioni.
Forse conviene non cedere al pessimismo assoluto degli scrittori di quest’epoca.
Pag. 423

Ma l’Impero non era ancora arrivato al fondo della rovina: è con il regno di Valeriano (253-259/260) che conobbe i momenti più difficili.
Il nuovo sovrano apparteneva alla crema dell’aristocrazia; di origine illustre, aveva percorso la carriera senatoria, il che non gli aveva risparmiato le critiche dei suoi pari.
Senza dubbio, Valeriano fu più sfortunato che male intenzionato.
Pag. 426

E’ certamente attorno al 260 che si situò la fase più tragica della crisi; invasioni e usurpazioni si sommavano in uan sinistra contabilità.
I Rossoliani e i Sarmati avevano investito la Pannonia; gli Alamanni avevano invaso la Gallia, minacciando l’Italia dove Gallieno riuscì a fermarli solo dopo che avevano invaso il nord della penisola.
Sotto la monarchia di Odenato, Palmira si era staccata dall’Impero; sempre in Oriente, conosciamo almeno due usurpatori, Macriano e Quieto.
Sul Danubio, Regaliano, dopo aver sconfitto i Rossolani, si proclamò imperatore.
A Colonia, Postumo aveva voluto anche lui vestire la porpora, ma limitava il suo impero alla Gallia.
Valeriano il giovane, figlio e nipote dei sovrani, era assassinato.
Ma non finisce qui.
Doveva consumarsi l’umiliazione suprema: l’imperatore Valeriano, che era stato catturato dai persiani forse nel 529, fu messo a morte al più tardi nel 260, e le sue spoglie (o le vesti da schiavo che era stato costretto ad indossare) furono esposte nelle principali città dell’Iran (il bassorilievo di Bishapur permette di comprendere meglio questa storia).
Sapor si poté vantare di questa vittoria totale nella celebre iscrizione di Naqs-i-Rustem, chiamata Res Gestae Divi Saporis (“Le imprese del divin Sapor”), per analogia con le Res Gestae Divi Augustii (“Le imprese del divino Augusto”).
Pag. 427

Caratteri e limiti della crisi

Si conoscono da molto tempo i principali caratteri della grande crisi del terzo secolo.
Si tratta in gran parte di una crisi di origine militare.
Per la prima volta il nemico attaccò simultaneamente o quasi su due fronti, e con attacchi incessanti.
Bisognava respingere i germani a nord, sia sul Reno che sul Danubio, e i persiani a est.
Gli imperatori dovevano correre senza sosta da un capo all’altro dell’Impero e sguarnire una provincia per difenderne un’altra.
Questa situazione incoraggiò alla rivolta altri popoli, che, senza questo contesto, sarebbero rimasti tranquilli.
La sconfitta rivelò inoltre altre due debolezze della strategia augustea.
Da una parte, uan volta sfondato il limes, i barbari non incontravano più alcun ostacolo: l’insieme dell’esercito era stato disposto lungo una stretta linea di demarcazione che separava il mondo romano dal mondo barbaro.
D’altra parte il comando non disponeva di nessuna riserva di effettivi, per cause sia economiche che demografiche: la politica di qualità praticata al momento del reclutamento o restringeva le scelte e costringeva a pagare salari congrui.
Le sconfitte trascinarono con sé uan crisi politica: alla guerra esterna, contro i barbari, si aggiunse la guerra civile, tra romani.
I soldati intervenivano spesso, poiché ritenevano il loro capo supremo responsabile delle loro disgrazie;  essi eliminavano il sovrano in carica e gli davano un successore secondo un processo ben noto: il prefetto del pretorio faceva assassinare l’imperatore, prendeva il suo posto e nominava un prefetto del pretorio che, a sua volta,  lo faceva mettere a morte.
L’Impero, privo di una dinastia, era diventato “una monarchia assoluta regolata dall’assassinio”, di qui la brevità dei regni.
Questa situazione, per giunta, eccitava gli appetiti, e gli ambiziosi che avevano truppe a disposizione rivestivano la porpora, a volte non senza successo: un imperatore legittimo spesso non era che un usurpatore vittorioso.
In queste condizioni nessuno poteva godere della continuità necessaria a una politica di ripresa.
Le sconfitte militari trascinarono con sé anche una crisi economica.
Per tradizione nell’antichità gli invasori si abbandonavano al saccheggio: il bottino costituiva il loro obiettivo dichiarato e distruggevano quello che non potevano portare con sé.
Dopo essersi serviti, i barbari devastavano le città, sterminavano le greggi, incendiavano i raccolti.
La mancanza di sicurezza tagliava le vie commerciali.
I disordini facevano rinascere brigantaggio e pirateria.
L’evoluzione della moneta permette di seguire l’evoluzione della crisi: in effetti le invasioni, per il blocco degli scambi che causavano, costituivano un primo fattore di inflazione,  al quale si aggiungevano le promesse sconsiderate fatte ai soldati dagli usurpatori, le spese inerenti a guerre lunghe e dure, e i tributi versati ai barbari.
La situazione finanziaria dell’Impero si trovava in un equilibrio instabile da molto tempo: il commercio con i paesi al di là del limes era deficitario ei salari versati ai militari divoravano già in tempi normali il grosso del bilancio statale.
Pag. 427-28

Queste difficoltà economiche trascinarono con sé, come ci si doveva aspettare, una crisi sociale.
I poveri furono resi ancora più poveri dalle invasioni e dalla crescente pressione fiscale.
L’iscrizione di Scaptopara, in Tracia, dell’età di Gordiano 3., trova un’eco nei lamenti dei coloni imperiali di Aragoé di Frigia, durante il regno di Filippo l’Arabo; tutti protestavano contro requisizioni giudicate abusive.
I notabili municipali, resi responsabili del prelievo dell’imposta, prima rallentarono, quindi interruppero completamente i loro atti di evergetismo.
Anche i ricchi patirono per le circostanze, ma non tutti.
Infine, indici di un’epoca di crisi, brigantaggio, pirateria e peste fecero la loro riapparizione.
Queste sciagure, ancora più gravi nella percezione dei contemporanei, provocarono una crisi morale.
Non sapendo come scongiurare la rovina, gli uomini vivevano nello smarrimento.
Le loro incertezze furono trasportate sul piano religioso, , come è normale trattandosi di romani.
Ma ben pochi misero in dubbio la volontà degli dèi e, a più forte ragione, la loro esistenza.
La domanda che ci si poneva era semplice: “Perché gli dèi (che senza dubbio esistono) non ci proteggono più?”.
La risposta veniva da sé: “La pace degli dèi è stata infranta perché esiste nel seno dell’Impero uan setta ampia, che non li onora”.
Il lettore avrà indovinato che si tratta dei cristiani.
Di qui le persecuzioni.
Pag. 429

La guerra su due fronti ebbe dunque l’effetto di disarticolare la vita politica, economica, sociale dell’Impero, e di provocare le persecuzioni.
A questa origine, largamente accettata tra gli studiosi, bisogna forse aggiungere altre cause di crisi.
In primo luogo, ci si deve domandare se non bisogna chiamare in causa quella che gli economisti chiamano la congiuntura, soprattutto riguardo alle province di Occidente.
L’economia, a partire dall’età di Augusto, non aveva smesso di crescere, ad un ritmo sempre più rapido: al lento sviluppo dell’età giulio-claudia era seguita l’accelerazione dovuta all’opera dei Flavi e un apogeo che si situò sotto gli Antonini e i Severi.
E’ risaputo che normalmente uan lunga fase ascendente (di sviluppo) è seguita da una fase discendente (di crisi).
Ma, da una parte, non disponiamo ancora di una documentazione dettagliata che ci consenta di circoscrivere bene questo fenomeno; d’altra parte, non è per niente sicuro che le economie antiche abbiano strettamente seguito quello schema.
La congiuntura non è, dunque, che un’ipotesi.
In secondo luogo, e questo punto sembra più sicuro, la crisi del terzo secolo appare anche come una crisi di adattamento.
Le istituzioni politiche, l’amministrazione territoriale e locale, così come l’esercito, risalivano, nelle linee generali,  all’epoca di Augusto che a sua volta aveva raccolto l’eredità della Repubblica.
Ora si ponevano problemi completamente nuovi: al principato era seguito il dominato, la guerra era stata aperta su due fronti, e non si sapeva come comportarsi con i cristiani, che bisognava integrare poiché non era possibile sterminarli, ecc.
L’anima romana era tutta impregnata di diritto: per apportare nuove soluzioni a questi nuovi problemi, essa sentiva il bisogno di nuove istituzioni.
Le ricerche recenti impongono comunque di marcare bene i limiti di questa crisi del terzo secolo.
La messa a punto riguarda tre aspetti principali.
SI tratta in primo luogo della cronologia.
Oggi non si ritiene più che il regno dei Severi vada compreso nell’età della crisi, salvo per qualche caso eccezionale: è anzi vero il contrario, l’epoca severiana corrisponde per molte province ad un apogeo, per esempio in campo economico.
Le difficoltà cominciarono solo nel 235 e l’Impero sprofondò sempre più nella crisi fino al 260.
Tuttavia, anche alle prese con le peggiori difficoltà, il potere non rimase mai inattivo; alle reazioni militari, bisogna aggiungere altre misure come, per esempio, la creazione di zecche periferiche a partire dal 250.
Il secondo aspetto di cui bisogna tener conto è la geografia.
Non c’è alcun dubbio che i nemici più pericolosi siano stati da una parte i persiani, dall’altra i germani, in particolare i franchi, gli alamanni e i goti.
Le province più esposte ai loro attacchi soffrirono di più e più precocemente delle altre.
L’Egitto, per esempio, fu seriamente coinvolto solo a partire dal 260; le campagne si spopolarono, le terre ai margini del deserto furono abbandonate: anche il Fayoum fu interessato.
Tuttavia, anche di fronte al nemico, alcuni settori seppero resistere meglio di altri: la città di Olbia nel Ponto non fu abbandonata che alla fine del terzo secolo.
Tra le regioni meno toccate dalla crisi bisogna segnalare l’Africa e la penisola iberica, in particolare, rispettivamente, l’Africa Proconsolare centrale e meridionale, e la Lusitania, allora in pieno sviluppo.
Tuttavia, in Africa, un’onda di ribellione partì dalla Mauretania Cesariense e debordò in Numidia; disordini sono ancora attestati nel 260.
Usurpazioni e secessioni, quella di Postumo in Gallia e di Odenato a Palmira, in particolare, mostrano sia la debolezza del potere centrale che la volontà di resistenza dei provinciali.
Non è infatti un caso che le due secessioni più importanti siano scattate là dove la pressione era più forte: in Gallia e a Palmira, esposte agli attacchi, rispettivamente, di germani e persiani.
Pag. 430-32

Interzo luogo, bisogna osservare che non tutti i settori di attività furono investiti con la stessa durezza.
La ricchezza fu in parte redistribuita.
La vita è cambiata.
Certo, alcune città si cinsero di mura che comprendevano uan superficie inferiore a quella dei secoli precedenti.
Ma, è questo il punto, esse sono state in grado di costruire queste informazioni.
Si assiste inoltre all’inizio di un ritorno alla terra,  che si manifesterà chiaramente solo nel secolo seguente; i potenti si stabilirono in maniera più duratura nelle loro proprietà fondiarie.
Infine, malgrado le persecuzioni, o forse a causa di queste persecuzioni, il cristianesimo continuò a svilupparsi.
Nella seconda metà del terzo secolo Dionigi di Alessandria (apologeta e vescovo) e la “scuola” di Antiochia contribuirono all’approfondimento della dottrina.
La stessa gnosi può essere interpretata come un segnale di vitalità: divisa in più sette, questa teologia eterodossa proponeva la conoscenza (in greco: gnosis) perfetta di un dio puro spirito, essa affermava che la ricerca del bene conduce la rifiuto della materia, fonte del male.
Ma la migliore prova di vitalità del mondo romano è fornita dal comportamento del potere centrale.
Pag. 432

La reazione del potere centrale, 260-284

In effetti, il periodo che va dal 260 al 284 è segnato da una reazione continua contro questa crisi.
Lo stesso Giuliani, che visse in un momento così fosco, non restò inattivo, contrariamente a quando pretendeva la tradizione storiografica senatoria.
E i suoi successori, designati con la definizione generale di “imperatori illirici” per l’origine geografica della maggior parte di loro, ristabilirono gradatamente la situazione.
Pag. 433

Eredità di una crisi

Germani e persiani avevano fortemente intaccato l’organizzazione del 235.
Il potere imperiale aveva dovuto rafforzarsi, l’esercito acquisire maggiore mobilità.
L’organizzazione economica era stata sconvolta, allo stesso modo delle strutture sociali e delle mentalità collettive.
Ma restavano ancora molti problemi da risolvere e bisognava tener conto di tutta un’evoluzione.
Spettava al vincitore di Carino assumersi il compito di stabilire un nuovo ordine.
Pag. 436

Cap. 15. L’instaurazione di un altro ordine, 284-361

I disordini e le distruzioni del terzo secolo ebbero come conseguenza l’instaurazione di un altro ordine e permisero di costruire o ricostruire un mondo differente.
Utilizzando e sistematizzando l’opera dei loro predecessori, Diocleziano e poi Costantino riorganizzarono lo Stato, l’economia, la società.
Un nuovo equilibrio fu raggiunto a metà del quarto secolo, sotto Costanzo 2.
Nello stesso tempo si sviluppò una cultura materiale e spirituale riconosciuta oggi come a un tempo originale e brillante.
Diocleziano e la Tetrarchia, 284-305

Nato verso il 245 in Illiria, in una famiglia umile, Diocleziano percorse una carriera militare che lo portò al comando dei protectores di Caro; dopo l’assassinio di questo imperatore, nel 284, egli non era che l’ultimo di una lunga serie di usurpatori.
Ma Diocleziano seppe approfittare del vuoto creato dalle distruzioni del terzo secolo, come anche delle prime misure di salute pubblica applicate dai suoi predecessori, gli “imperatori illirici”, di cui lui stesso none ra che l’ultimo rappresentante.
Agendo con ingegno e spirito empirico, godette di un lungo regno (venti anni di potere).
La sua politica, in apparenza contraddittoria, fa di lui da una parte un riformatore e persino un creatore (istituzioni, esercito), d’altra parte un reazionario nel senso preciso del termine (nel campo religioso egli volle tornare ad una fase precedente).
Fu tuttavia il salvatore dell’unità dell’Impero.
Pag. 439

Costantino, 306-337

Anche Costantino poté contare su un lungo periodo di regno; all’inizio proseguì l’opera riformatrice di Diocleziano e la completò prima di ristabilire l’unità del potere, ma se ne scostò, e in maniera radicale, nel campo religioso.
Figlio di Costanzo Cloro e di Elena, che forse era stata cameriera in una taverna, Costantino nacque a Nis verso il 280.
Come Diocleziano, era un soldato (guerra in Egitto nel 295-296, quindi contro i sarmati) e un pragmatico.
Non possedeva l’attitudine del teorico e le sue capacità di concettualizzazione sembrano essere state molto limitate; malgrado lunghe sedute di spiegazione, vescovi che lo consigliavano non sembrano essere riusciti a fargli ben comprendere la differenza che separava l’ortodossia dall’arianesimo.
In breve, un uomo “di fronte stretta, ma forte mascella” (J.-P- Callu).
Pag. 443

Ad ogni modo, questa conversione fu preceduta da un atteggiamento di reale simpatia per il cristianesimo: le persecuzioni furono abbandonate.
Galerio aveva promulgato un editto di tolleranza nel 311 e Massimino Daia un editto di persecuzione nel 312.
Con l’editto di Milano Licinio e Costantino stabilirono nel 313 la “pace della Chiesa”: la libertà di culto era assicurata e i beni confiscati furono restituiti.
In più, il potere intervenne in due conflitti: il donatismo fu condannato come scisma dal sinodo di Arles del 314 e l’arianesimo come eresia dal concilio di Nicea del 325.
Pag. 443

I figli di Costantino

La storia, alla metà del quarto secolo, fu dominata da tre problemi: il potere, la cristianizzazione, i barbari.
Dal punto di vista politico la grande impresa dell’epoca consistette nel ristabilimento dell’unità, in un primo momento con l’eliminazione di tutti gli imperatori legittimi, finché non ne restò che uno.
Nel 337, e dopo tre mesi di intrighi, Dalmazio du assassinato.
Ci si divise allora l’Impero in tre: : Costantino 2., che esercitava la sua autorità sul collegio imperiale, si occupava della Gallia, della Britannia e della Spagna, Costante dell’Africa, dell’Italia e dell’Illirico e Costanzo 2. dell'Oriente.
Nel 340 Costante riunificò l’Occidente a suo vantaggio dopo aver sconfitto e ucciso Costantino 2., che aveva cercato di allargare il suo potere a spese del primo.

Costante fu a sua volta sconfitto ed ucciso da un usurpatore, Magnenzio, lui stesso sconfitto a Mursa nel 351 ed eliminato solo nel 353.
Pag. 447

Cronologia dei figli di Costantino

337                 salgono al trono Costantino 2., Costanzo 2. E Costante
338                 assedio di Nisibi
340                 Morte di Costantino 2.
343                 Costanzo 2. in Adiabene
350                 usurpazione di Magnenzio
354                 esecuzione di Gallo Cesare
355                 Giuliano nominato Cesare
357                 battaglia di Strasburgo; viaggio di Costanzo 2. a Roma
360                 Giuliano proclamato Augusto
361                 morte di Costanzo 2.

Tre imperatori e la loro opera

Il periodo che va dal 284 al 361 è stato dominato da tre personalità, quelle di Diocleziano, di Costantino e di Costanzo 2.
Le misure prese da ciascuno di loro hanno contribuito a far nascere un altro modo romano, con nuove istituzioni, con un’economia, strutture sociali e una civiltà originali.
Il pericolo, in particolare quello rappresentato dai barbari, si era fatto, malgrado tutto, meno pressante.
Pag. 448

Cap. 16. Altre istituzioni: la riorganizzazione

L’Impero romano nel quarto secolo più che mai, restò uan monarchia assoluta.
Ma la finzione del principato era stata abbandonata e non si esitava a parlare apertamente di “dominato”.
Il sovrano diventò onnipresente attraverso uan burocrazia capillare; nelle sue mani l’esercito restava uno strumento di potere fondamentale.
Tuttavia, davanti alle difficoltà che si accumulavano, egli era sempre più costretto alla divisione del potere, divisione dell’impero.
Pag. 449

La crisi del terzo secolo, che aveva provocato uan profonda modificazione dello Stato, aveva avuto conseguenze anche sull’esercito, tanto più che essa era stata in primo luogo una crisi militare.
Dal punto di vista dell’organizzazione non si può dimenticare l’eredità di Gallieno: egli aveva sviluppato la cavalleria e creato una riserva mobile alle spalle della frontiera.
Non bisogna neanche dimenticare il ruolo dell’esercito, che interveniva in numerosi settori della vita pubblica, e soprattutto nella politica.
Era l’esercito che aveva fatto e disfatto gli imperatori, ma il rafforzamento dell’autorità del sovrano e il parallelo degrado di questo stesso esercito, gli avevano a poco a poco fatto perdere questo potere.
Comunque, la sola presenza di una guarnigione modificava le strutture economiche, culturali, religiose del territorio di pertinenza.
Pag. 455

I figli dei soldati, “nati nel campo” (castris) , formavano una buona parte degli effettivi e, quando mancavano le reclute tradizionali, si accettavano volontari barbari.
Pag. 457

Con il tempo il reclutamento fece sempre più spesso appello ai barbari, in particolare a gruppi di franchi; costoro scalarono lentamente la gerarchia, fino a raggiungere i gradi più alti.
Pag. 461

L’esercito romano del quarto secolo sembra comunque aver perso parte dell’efficacia che aveva posseduto il suo antenato alto imperiale.
Questa evoluzione è certamente la conseguenza di un certo indebolimento del reclutamento, a sua volta conseguenza delle difficoltà finanziarie in cui versava lo Stato.
L’autore del De rebus bellicis ha senza dubbio visto giusto su questi argomenti.
Lo Stato doveva assicurare l’ordine alle frontiere e anche all’interno dell’Impero.
A questo fine, e conformemente al gusto dei romani per il diritto, esso ricorse ad un sistema complesso di istituzioni, in parte ereditate dall’Alto Impero; ma il contenuto di ciascun organo poteva variare, e i nomi corrispondevano spesso a realtà differenti.
Così, esisteva ancora un’organizzazione dello spazio in province.
Per di più, l’Italia stessa aveva perso tutti i suoi privilegi ed era stata equiparata al modello amministrativo delle altre parti del mondo romano.
Diocleziano aveva spezzettato le province,  portandone il totale da 47 a 85.
Si sa che Byzacena e Tripolitania, sottratte all’Africa, furono create tra il 294 e il 305.
Il primo praeses di Byzacena porta il titolo supplementare di perfecissimus, i suoi successori, tra il 312 e 322, diventarono clarissimi, e sono chiamati talvolta “consolari”.
Invece, tutti i loro omologhi attestati in Tripolitania restarono perfectissimi.
I governatori ebbero il titolo di praeses; quelli di Asia e Africa restarono proconsoli, gli altri furono chiamati consulares o correctores.
Essi persero definitivamente e completamente i loro poteri militari con Costantino.
Non restava loro che un’importante funzione giudiziaria, che essi rivestivano d’altronde da molto tempo: la loro presenza è attestata ancora all’inizio del quinto secolo (in particolare in Africa, contrariamente a quanto si riteneva fino ad ora).
Si deve ancora a Diocleziano il raggruppamento delle province in diocesi.
A capo di ciascuna si trovava un personaggio importante, in un primo momento semplice collaboratore del prefetto del pretorio, che ebbe in seguito il titolo di vicario.
Il numero e la composizione di questi raggruppamenti hanno variato nel corso del tempo, per restare all’incirca tredici.
Pag. 463

Il quarto secolo, come l’Alto Impero, ha conosciuto il regime della monarchia assoluta.
Ma ora il potere diventa più presente, pressante o oppressivo.
Il personale al servizio dello Stato, senza raggiungere le cifre del 21. secolo, diventa certamente più numeroso e la burocrazia più pignola.
Soldati e funzionari occupavano uno spazio crescente nella società del tempo.
Pag. 469

Cap. 17. Un altro contesto socioeconomico: la ripresa e la statalizzazione

Percepibile negli anni fra il 275 e il 300, la ripresa economica si affermò nettamente con l’epoca di Diocleziano.
I segni di una nuova crisi fecero tuttavia la loro apparizione dopo il regno di Giuliano (361-363): bisogna quindi stabilire i limiti, nel tempo e nello spazio, di questo sviluppo.
La situazione particolare così creatasi, ma anche l’eredità dei disordini del terzo secolo e le esigenze, tanto civili che militari, dello Stato, spiegano i caratteri specifici della società del quarto secolo.
Pag. 471

Così, dal punto di vista della cronologia, si conosce bene il caso dell’Africa.
La ripresa si manifestò dal 276, e fu molto netta sotto Diocleziano; la guerra civile provocò un rallentamento, seguito da una nuova fase di sviluppo sotto Costanzo 2., con un apogeo sotto Giuliano.
Una prosperità certa durò fino all’epoca di Teodosio.
Ma la fine del quarto secolo vide il ritorno della crisi, ben evidente sotto Onorio.
Quanto alla diversità geografica, essa permette di distinguere regioni più minacciate, la Gallia, la Britannia e le province che confinavano con Reno e Danubio, particolarmente bersagliate dalle invasioni barbariche.
L’Egitto, con l’eccezione di Alessandria, non aveva mai conosciuto una vita municipale molto attiva.
Italia e Spagna si mantennero relativamente bene.
In Anatolia e anche nella Siria di Libanio, ad Antiochia, c’erano ancora uomini che si appassionavano all’amministrazione della propria città.
L’Africa, infine, offre un esempio di buona salute municipale; sono stati enumerati 332 cantieri per il quarto secolo e in Proconsolare e Numidia anche le montagne erano romanizzate.
Ma si trattava si trattava soprattutto di lavori di restauro, e le Mauretanie e la Tripolitania seguivano a fatica il movimento generale.
Pag. 472

La prima vera e grande riforma si deve a Diocleziano nel 294.
Si mise in piedi un nuovo sistema, con nuovi pesi e nuove denominazioni; il fatto che si sia ufficialmente conservato il sistema bimetallico non deve far dimenticare la realtà: l’oro acquistò uan parte crescente negli scambi, il che si spiega con un maggiore dinamismo dell’Oriente in materia di commercio.
L’instaurazione di questo sistema provocò uan grave crisi finanziaria segnata da un aumento generalizzato del costo della vita.
Lo Stato si sforzò di reagire.
Nel 300 si ordinò uan indagine estesa a tutto l’Impero per stabilire il valore di merci e lavoro.
Quindi l’editto sui prezzi massimi (301), conosciuto grazie all’epigrafia, fissò un tetto da non superare per ciascun prezzo e ciascun salario.
Il testo, esposto in greco e in latino, doveva essere applicato in tutte le province e i contravventori rischiavano la pena di morte!
Contrariamente a quanto sostenuto da certi commentatori, questa misura conobbe un successo almeno relativo: i ricchi furono soddisfatti perché essa contribuiva alla stabilizzazione dei prezzi, i poveri perché ritoccava i bassi salari.
Pag. 472-73

Spesso soggetti al regime del colonato, i barbari stanziati nell’Impero erano inquadrati in differenti categorie giuridiche: 1: i deditici, sconfitti in guerra, dovevano pagare la capitazione e prestare servizio militare; essi vivevano su proprietà imperiali o private; 2: i federati, quelli che avevano ottenuto da Roma un trattato (foedus), avevano ricevuto il diritto di proprietà (commercium); 3: i leti (i franchi rientravano in questa categoria) fornivano reclute in cambio di terre; essi occupavano dunque una posizione intermedia tra deditici e federati; 4: i gentiles (soprattutto sarmati) avevano lo stesso statuto dei leti.
Questi nuovi venuti presentavano un vantaggio, fornire un rinforzo alla manodopera, ma ponevano un problema, poiché non si assimilavano.
Pag. 475

In linea di generale, lo Stato riflette la società del suo tempo.
L’Impero romano nel quarto secolo conobbe una situazione originale: lo Stato si sforzò di modificare la società affinché essa soddisfacesse i suoi bisogni.
Beninteso, lo Stato non conobbe un successo totale in questa impresa.
Ma solo il fatto che ci fosse questa volontà fece sì che la società del quarto secolo fu una società per ordini più di quanto lo fosse stata in passato.
L’imperatore, con una legislazione sempre più abbondante, definiva con sempre maggior precisione le gerarchie e i posti in queste gerarchie.
Dal punto di vista giuridico si operò la fondamentale opposizione tra l’élite degli honestiores e la massa degli humiliores, in virtù della quale le due categorie non avevano diritto ad un trattamento uguale davanti ai tribunali; per uno stesso delitto i primi erano puniti meno severamente dei secondi.
E’ innegabile che si trattasse anche di una società divisa in classi.
E’ chiaro che la concentrazione fondiaria, cui già si è fatto cenno, implicava, con tuta evidenza, una concentrazione di ricchezze.
Uan minoranza sempre più ristretta accaparrava una parte crescente dei beni; per quanto motivo la maggioranza diventava contemporaneamente più numerosa e più povera.
Pag. 477

Questa società del quarto secolo appariva insomma come molto legata al potere politico che interveniva dappertutto: era questa la statalizzazione.
Questa società sembra anche più frammentata in gruppi, in cellule, che ordinatamente disposta in strati orizzontali.
Un’altra originalità dell’epoca attiene ai nuovi rapporti che si stabiliscono tra città e campagna.
Esiste un’immagine tradizionale del quarto secolo, su questo argomento: declino delle città e ripiegamento sulle campagne.
Le ricerche recenti hanno rimesso in discussione questo schema.
Pag. 485

Dall’epoca di Costantino sono attestate grandi basiliche, San Pietro e soprattutot il Laterano, più tardi Santa Maria Maggiore.
Fuori della città le catacombe, come quelle di Domitilla e di San Callisto, permettevano di onorare tutti i defunti e in particolare i martiri.
Il caso di Costantinopoli è già stato ricordato prima.
Pag. 486

Un carattere generale del quarto secolo è costituito dallo sviluppo di centri economici di altra natura, le ville rustiche, soprattutto in Occidente.
Non bisogna certo immaginare un esodo immenso dalla città verso la campagna, nondimeno lo sviluppo della villa rustica rappresenta la manifestazione del dislocarsi dei centri di gravità in più luoghi.
In Africa l’archeologia ha portato in luce numerose fattorie fortificate e ville a torre, che sfoggiano gli stessi grandi mosaici di Cartagine e di Tabarka.
A Piazza Armerina, in Sicilia, un’immensa dimora decorata da bei mosaici potrebbe essere stata occupata da Massimiano fino al 309, secondo alcuni studiosi; di fatto, non esistono prove che la villa sia stata la dimora del tetrarca dopo il suo ritiro.
La famosa villa di Mantmaurin, in Gallia meridionale, si estendeva per quattro ettari nella sua parte centrale, per più di 200 ambienti e 18 ettari in tutto.
Si potrebbero citare molti altri esempi di questo genere di residenze, la “piccola eredità” di Ausonio o la villa di Nennig: il fenomeno raggiunse in effetti le Germanie.
Pag. 487-88

Cap. 18- Una civiltà diversa: tra paganesimo e cristianesimo, la rinascita

Da qualche decennio, gli storici che studiano il terzo e quarto secolo arrivano, nella loro maggioranza, ad una stessa conclusione: dopo la crisi – di cui conviene, anche e soprattutto qui, sottolineare i limiti – non si assiste ad un declino ma a una rinascita.
E’ bene comunque fare alcune distinzioni.
Per cominciare, si deve sottolineare che le difficoltà del terzo secolo, militari, politiche, economiche, non hanno comportato un arretramento generale delle attività intellettuali ed artistiche.
Al contrario, in certi campi, si constata che i creatori hanno continuato a perfezionare le loro tecniche di produzione: è in particolare il caso dei busti e dei sarcofaghi scolpiti: alcuni storici considerano proprio quest’epoca come un apogeo.
E il quarto secolo vide la prosecuzione di questo sviluppo, in particolare per il mosaico: immensi tappeti di tessere decorano le grandi dimore; essi si caratterizzano per le loro dimensioni, la pesantezza delle decorazioni ed una crescente indifferenza per la prospettiva.
La produzione del Maghreb, in particolare a Cartagine ea Tabarka, ha permesso di credere nell’esistenza di una scuola africana alla quale è stata attribuita, tra altre realizzazioni, la decorazione di Piazza Armerina, in Sicilia (qui hanno operato almeno cinque maestri, all’inizio del quarto secolo).
E’ comunque necessario notare i limiti di questa rinascita che non ha interessato in egual misura tutti i settori della produzione; lo si vedrà in seguito.
Pag. 489

Se tutti gli spiriti partecipavano dello stesso gusto per il passato e l’irrazionale, alcuni elementi di diversità cominciano a diffondersi.
Durante l’Alto Impero le tendenze unificatrici avevano prevalso: l’Urbe, Roma, l’imperatore e la sua famiglia costituivano modelli universali.
Si è osservato nelle produzioni artistiche un cambiamento che si produsse all’epoca di Costantino, un’epoca di transizione; dalla metà del quarto secolo, le opere presentano uan grande varietà, non solo da una regione all’altra, ma anche da una bottega all’altra.
Bisogna d’altra parte rilevare un certo numero di contrasti, che traggono origine dall’Alto Impero, ma che si accentuarono nel corso del quarto secolo.
Artisti e intellettuali erano presi tra indipendenza e servitù.
Pochi uomini disponevano di mezzi sufficienti per essere veramente liberi: molti dipendevano da benefattori.
E tutti dovevano fare i conti con il peso del potere politico, della Chiesa e delle mentalità dominanti, tutte costrizioni più soffocanti che nei secoli passati.
Bisognava sempre più scegliere tra greco e latino.
Ma gli abitanti della parte orientale si disinteressavano progressivamente al latino mentre si contavano sempre meno occidentali che usavano il greco.
Infine c’è il conflitto, più che il contrasto, che oppose pagani e cristiani.
La lotta non impediva tuttavia le influenze reciproche.
I pagani, allontanandosi dalla gaiezza dell’epicureismo volgare, gareggiarono in austerità con la morale cristiana; essi giustificavano allora questo atteggiamento con il neoplatonismo più che con lo stoicismo.
I cristiani, dal canto loro, si sforzavano di recuperare tutte le forme di arte o di pensiero possibili: piuttosto che distruggere, essi “battezzavano”.
Pag. 491

 Bisogna evitare un facile anacronismo: all’inizio del quarto secolo non tutto era perduto per il paganesimo, che si trovava ancora in posizione di persecutore e che poggiava su una filosofia sempre più elaborata.
Pag. 492

Anche se aderì completamente al cristianesimo solo molto tardi e senza averlo compreso a fondo, Costantino inferse al paganesimo un colpo discreto ma ben più duro di quanto non si sia detto  talvolta.
Ispirata dalla pietà o dall’interesse, o da entrambi, la legge del 331 che ordinava l’inventario dei beni dei templi, comportò confische che permisero la costruzione di Costantinopoli.
Ma la legge distrusse il potere economico del paganesimo, indebolimento che ebbe notevoli conseguenze.
Pag. 493

Agli occhi dei romani, l’appartenenza al giudaismo si definiva come l’appartenenza al tempo stesso ad una nazione e ad una religione.
Pag. 494

Niente autorizza a pensare che, dal punto di vista economico, i giudei si siano distinti dagli altri abitanti dell’Impero.
E’ in campo religioso che essi impiegavano le loro energie.
Si ammise che la Bibbia era giunta al termine: dal secondo al quarto secolo si cominciò a commentarla: quesot fu il Talmud.
Due scuole, una a Tiberiade, l’altra in Mesopotamia, raccolsero i pareri dei rabbini, raggruppandoli in numerosi trattati; la scuola di Tiberiade elaborò il Talmud di Gerusalemme (di fatto, di Tiberiade), quella mesopotamica il Talmud di Babilonia, l’uno e l’altro opere maggiori della spiritualità giudaica.
Pag. 498

La conversione dell’imperatore al cristianesimo ha costituito, per le sue conseguenze, uno degli aspetti principali del quarto secolo, lo si è visto.
Tra cristiani, giudei e pagani le relazioni erano complesse e arrivavano a volte allo scontro a volte alla pacificazione, ma erano sempre gravide di influenze reciproche.
Tutto dipendeva dai rapporti di forza.
Per quanto riguarda la “nuova fede”, la situazione variava in ragione della geografia (essa ebbe successo molto più presto in Oriente), e anche in funzione della cronologia: perseguitata durante la Tetrarchia, lo si è visto, la Chiesa conobbe “la pace” con Costantino, poi si trasformò a sua volta in organo di persecuzione, in particolare Graziano e Teodosia, come si vedrà ancora nel capitolo successivo.
Pag. 499

Nei campi della religione, della vita intellettuale e delle arti, la situazione non fu la stessa di quella descritta per l’economia.
Pagani, giudei e cristiani si opponevano gli uni agli altri, ma così si arricchivano reciprocamente.
Non c’è dubbio che furono il paganesimo, e in misura minore il giudaismo, a riuscire sconfitti: ma il loro declino fu lungi dall’essere totale.
Dal punto di vista delle lingue, si deve distinguere l’Occidente latino dall’Oriente greco.
Se rottura ci fu, essa riguardò soprattutto l’Occidente, in particolare dopo gli avvenimenti del 406 e 410; queste date, che non hanno un grande significato per il cristianesimo, riguardano soprattutto le questioni politiche e militari.
Pag. 508

Cap. 19. Verso la fine del mondo romano?

Nonostante le convenzioni accademiche, è difficile fissare una data per chiudere una storia romana.
Si può solamente osservare un processo complesso, differente secondo i settori di attività e secondo le regioni.
Si deve constatare tuttavia l’importanza almeno simbolica di alcuni avvenimenti e l’emergere di una crisi a partire dal 363.
Pag. 508

Il periodo che fu caratterizzato da una crisi analoga a quella del terzo secolo: essa traeva origine dalle guerre.
La nuova ondata di invasioni presentava caratteri particolari: in generale, ma ci furono delle eccezioni, si trattava di infiltrazioni lente e progressive.
I Barbari ammiravano Roma, ma si rivelarono incapaci o poco desiderosi di assimilarsi.
Questa situazione ebbe come conseguenza una divisione dell’Impero; ma mentre l’Occidente sprofondava nei disordini, l’Oriente fece passare la tempesta e preparò l’emergere di una nuova civiltà.
Il solo elemento d’unità venne dalla politica dinastica che fu allora seguita: a partire dal 364 e fino all’inizio del quinto secolo, uno stesso sangue continuò a scorrere nelle vene degli imperatori, eccezion fatta per Teodosio.
Per comodità espositiva si distingueranno tre epoche caratterizzate ciascuna da una personalità, Valentiniano 1., Teodosio e Stilicone.
Pag. 512

Fu dunque il tutore Stilicone a passare allora in primo piano.
Flavio Stilicone era nato verso il 360 in una famiglia di vandali stabilitasi nell’Impero e convertita al cristianesimo, ma di tendenza ariana.
Questa personalità è stata molto discussa, presentata da alcuni come un barbaro amico del capo dei goti, Alarico, da altri come un romano, difensore dell’Urbe; di fatto, egli si comportò come un barbaro romanizzato.
E’ questo ciò che mostrano la sua carriera e le sue relazioni con Claudiano.
Pag. 516

La fine di Roma?

Lo storico si trova sempre in difficoltà quando deve scegliere una data per chiudere una storia di Roma.
In effetti al momento della scelta si pongono tre domande: che cos’è successo? In che modo ciò è successo? E solo alla fine: in quale momento ciò è successo? Per riassumere: cosa, come e quando?
Alla prima domanda (“che cosa?”) sono state date molte risposte, dagli studiosi, tre tesi tengono oggi il campo.
Molti studiosi, e da molto tempo hanno parlato di decadenza.
Dall’antichità, questa idea costituiva un luogo comune della letteratura, e i cristiani rincararono la dose: la fine di Roma era una punizione inviata da Dio.
Durante il Rinascimento sono state cercate di nuovo cause morali: Biondo e Machiavelli vi aggiunsero il declino demografico; ancora nel Settecento Montesquieu e Gibbon non davano risposte diverse.
Alcune ricerche più recenti accusano l’inadeguatezza delle istituzioni, con G. Ferrero, o un crollo generale, secondo J. Carcopino, secondo cui l’Impero romano era morto di morte naturale.
Da ultimo un libro di M. Le Glay adopera di nuovo il termine “decadenza”, anche se a proposito della Repubblica, è vero.
La “teoria dell’assassinio” è più recente.
Costatando che la situazione delle province, secondo i dati archeologici, si presentava sotto una luce meno cupa di quanto si fosse creduto, A. Piganiol sostenne nel 1947 una tesi originale: erano stati i barbari ad assassinare un mondo romano in buona salute.
H. I. Marrou, che aveva parlato di decadenza nel 1938, ritrattò nel 1949, e si allineò all’idea di A. Piganiol, criticato nel frattempo da J. Carcopino, come si è detto.
Questa storia rinviava ogni crisi od ogni declino all’Alto Medioevo, al che si sono opposti alcuni medievisti.
Infine, recentemente, alcuni ricercatori, senza dubbio ispirati da una concezione del progresso, che non soffre di alcuna restrizione, si sono sforzati di dimostrare che non ci sarebbero state altro che trasformazioni e che si poteva rinunciare alle nozioni di declino e, a maggior ragione, di decadenza.
Per meglio rispondere alla prima domanda, bisogna porsi la seconda: come è successo? Il quarto secolo si caratterizza di fatto con la sua complessità: vi coesistono elementi dell’Alto Impero e novità; queste possono sia sembrare creazioni, e sarebbero dunque elementi di forza, o al contrario esse possono costituire elementi di debolezza, di crisi.
Questa complessità stessa impone di stabilire distinzioni, e da questo punto di vista tre coppie attirano la nostra attenzione.
In effetti, non bisogna considerare allo stesso modo Oriente e Occidente: mentre a est nasceva l’Impero bizantino, i provinciali dell’Occidente vedevano lo Stato indebolirsi e l’esercito sparire (esso non ha potuto impedire ai barbari di traversare il Reno nel 406 né di prendere Roma nel 410).
La forza dei germani spiega in parte questo declino.
I rinforzi ricevuti (popoli dell’est) e la loro migliore organizzazione (federazione di popoli) hanno contribuito al loro successo, allo stesso modo della burocrazia e della crisi economica (carenza di moneta e squilibrio città-campagna) che indebolivano Roma.
Seconda coppia da mettere in opposizione, la città e la campagna hanno in effetti conosciuto destini contrapposti e non più complementari.
Si ammette in generale una permanenza almeno relativa delle città, ma la ripartizione ineguale delle imposte pesava più sulle fasce rurali che sui cittadini,  per di più, allo stesso modo, pesava più sui poveri che sui ricchi, in linea di massima (almeno era così che la situazione era vissuta e percepita).
Allo stesso tempo, una minoranza di privilegiati dilapidava sempre più senza risparmio.
Bisogna infine distinguere due culture, il paganesimo e il cristianesimo, che certo non sono totalmente estranee l’una all’altra, ma che talvolta si sono scontrate con durezza.
La tradizione fu preservata, certo, ma per diventare un oggetto di studio; essa non creò più, se non opere universitarie (Marziano Capella); il paganesimo conobbe un declino  ma sopravvisse.
Il cristianesimo, al contrario, non smise mai di progredire, e questo sviluppo era accompagnato dalla nascita di nuove forme di arte e di pensiero.
Inoltre, secondo A. Piganiol, questa religione “favoriva la formazione di un’ideologia internazionalista che non conosceva più frontiere”.
Beninteso, tutti questi cambiamenti non sono avvenuti simultaneamente. DI qui la terza domanda: quando?
Durante l’ultimo terzo del quarto secolo, si assiste allo svolgimento di una crisi economica che accompagna il rallentamento dell’evergetismo.
Ma già Oriente e Occidente andavano incontro a destini diversi.
Per l’epoca successiva, alcuni avvenimenti principali hanno attirato l’attenzione degli storici.
Questi avvenimenti si situano sia all’inizio che alla fine del quinto secolo.
Gli ultimi anno di Stilicone furono segnati da un dramma che si consumò la notte del 31 dicembre 406: vandali, alani e svevi attraversarono il Reno che si era gelato.
Percorsero la Gallia, al Spagna e l’Africa (passaggio dello stretto di Gibilterra nel 429); i vandali finirono per fare di Cartagine la loro capitale.
Niente poté arrestarli.
Questa invasione provocò l’usurpazione di Costantino in Gallia, una nuova offensiva dei visigoti di Alarico, più fortunata, ed una reazione generale; il consigliere Olimpio, Galla Placidia, sorella dell’imperatore e l’esercito si unirono contro Stilicone che fu arrestato e decapitato, insieme alla moglie e ai figli, il 23 agosto del 408.
Galla Placidia emerse allora come un personaggio importante, al centro della sua epoca.
La morte di Stilicone non impedì ad Alarico di prendere Roma nel 410; la città fu abbandonata al saccheggio, che rappresenta anch’esso una data essenziale ai nostri fini.
Ormai l’Occidente romano era diventato di fatto l’Occidente barbarico.
Per quasi tutto il quinto secolo  (dal 410 al 471-472) i destini delle due parti dell’Impero presero direzioni opposte.
In Occidente il debole Onorio, morto nel 432, aveva lasciato passare in primo piano Costanzo (411-421), l’effimero Costanzo 3. (421).
Fu poi il turno di Valentiniano 3. (425-455), con Ezio magister militum, comandante supremo dell’esercito; essi dovettero affrontare subito il capo degli eserciti d’Africa, Bonifacio, poi Attila, re degli unni, che fu sconfitto nel 451 al campus Mauriacus.
Ma questo potere centrale funzionava solo ad intermittenza: i visigoti passarono dall’Italia all’Aquitania; i franchi e i burgundi si insediarono in Gallia; vandali, alani e svevi proseguirono nella loro avventura.
Dal 457 al 472 fu il magister militum RIcimero, uno svevo, ad imporre il suo protettorato sull’Occidente.
In Oriente, anche se la situazione presentava talvolta caratteri analoghi a quelli descritti per l’Occidente, le condizioni generali, interne ed esterne, migliorarono durante il regno di Teodosio 2. (408-450), in particolare per le molteplici imprese di Antemio.
A quest’epoca risale l’elaborazione del Codice Teodosiano.
La tregua alle frontiere permise comunque dei conflitti interni: massacro della filosofa pagana Ipazia da parte della folla di Alessandria nel 415, disputa monofisita (i monofisiti credevano nella “unità di natura” del Cristo, contro Nestorio, il quale affermava che Gesù possedeva sia la natura umana che quella divina); il Concilio di Efeso nel 431 condannò i nestoriano.
Ma dal 450 al 471 l’Oriente conobbe la stessa sorte dell’Occidente, con una sola differenza: fu un alano, Aspar, ad imporre il suo protettorato.
La fine del secolo fu segnata da due avvenimenti di forte valore simbolico.
Nel 475 Oreste, già segretario di Attila, aveva cacciato da Roma l’imperatore Nepote e dato la porpora a suo figlio, Romolo Augustolo, dai nomi quanto evocativi!
Lo Sciro Odoacre, che aveva anche lui frequentato la corte di Attila, diventò re degli eruli e chiese lo status di federato.
Davanti al rifiuto che gli fu opposto, cacciò Romolo Augustolo e rispedì a Costantinopoli le insegne imperiali (476).
Odoacre diventò “patrizio”, “re dei popoli barbari” e costituì un proprio dominio (Italia-Sicilia-Dalmazia).
L’imperatore Zenone, nel 488, incaricò l’ostrogoto Teodorico di riconquistare l’Occidente; quest’ultimo, dopo l’assassinio di Odoacre nel 493, si impadronì di Roma e dell’Italia.
Ormai l’Occidente romano era diventato, di diritto, l’Occidente barbaro.
Ma il quinto secolo non rappresentò una fine in tutit i campi, poiché lasciò un’eredità.
In oriente si diede forma ad un impero romano originale, che era legato alla civiltà bizantina e che sparì solo nel 1453.
In Occidente l’idea imperiale restò molto forte; ne sono testimonianza la creazione del “Sacro Romano Impero Germanico” e la diffusione del titolo di “Cesare”.
Esso perdurò fino al 1917 in Russia (assassinio dell’ultimo “Czar” Nicola 2.), fino al 1918 in Germania (abdicazione dell’ultimo “Kaiser” Guglielmo 2.) e addirittura fino al 1946 in Bulgaria.
La Francia all’inizio del terzo millennio porta ancora, anch’essa, l’impronta di Roma; i nostri contemporanei non se ne rendono sempre conto.
E tuttavia, noi parliamo una lingua latina.
I principi del nostro diritto vengono dal diritto romano.
La nostra urbanizzazione e i nostri paesaggi rurali hanno venti secoli di storia.
La nostra vita quotidiana (festività, nomi propri…) reca l’impronta del cristianesimo.
La nostra arte, la nostra letteratura e la nostra filosofia, dopo il Rinascimento, che fu rinascita di Roma, si ispirano molto spesso ad opere della Repubblica e dell’Impero.
I nostri valori infine (Libertà, Giustizia, Diritto, Onore, Coraggio…) hanno venti secoli.
In certo modo, Roma vive ancora.
Roma vive in noi.