Introduzione: lo sfondo del terzo secolo

E’ un segno del profondo cambiamento intervenuto nel nostro modo di concepire il mondo antico il fatto che, quando fu avviata la realizzazione di questa serie di storia antica, non fosse previsto un volume dedicato al tardo impero o, come ora si preferisce dire, alla tarda antichità; oggi, invece, una sua esclusione potrebbe apparire alquanto inopportuna.
A produrre questo cambiamento, almeno per quanto riguarda gli studiosi di lingua inglese, hanno contribuito in modo particolare due lavori di natura molto diversa tra loro, vale a dire la monumentale opera di A. H. M. Jones Il tardo impero romano, 284-602 d. C., del 1964 e la breve ma affascinante sintesi di Peter Brown Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto, del 1971.
Naturalmente, quest’epoca non è stata trascurata da altri autorevoli studiosi, né è stata trascurata dalla storiografia del continente europeo; tuttavia, solo con la generazione successiva alla pubblicazione dell’opera di Jones si è manifestato per essa un così ampio interesse.
Anzi, proprio a partire da allora è diventato uno dei periodi in cui sono stati conseguiti i progressi più significativi nell’ambito dell’insegnamento e della ricerca.
L’arco di tempo ricoperto in questo volume è esattamente quello che intercorre tra l’avvento di Diocleziano nel 284 d. C. (la data con cui convenzionalmente si fissa l’inizio  del tardo impero) e la fine del quarto secolo, quando la morte di Teodosio 1. nel 395 d. C. l’Impero fu diviso tra i suoi due figli, Onorio in Occidente e Arcadio in Oriente.
Si tratta, perciò, non tanto di un volume sulla tarda antichità in generale, un periodo che si può con buone ragioni comprendere tra il quarto e il settimo secolo e considerare concluso con le invasioni arabe, quanto piuttosto di un volume sul quarto secolo.
Fu questo il secolo di Costantino, il primo imperatore che aderì al cristianesimo e lo sostenne, e che fondò Costantinopoli, la città che doveva diventare la capitale dell’impero bizantino e rimanere tale fino alla conquista da parte dei Turchi Ottomani nel 1453 d. C.
La grande opera di Edward Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, spinge la narrazione fino a tale data, considerando questa e non il 476 d. C., quando fu deposto l’ultimo imperatore in Occidente, come la cera fine dell’Impero romano.
Pochi sarebbero oggi d’accordo con Gibbon, ma gli storici discutono ancora sul momento in cui collocare la fine di Roma e l’inizio di Bisanzio; su tale dibattito pesa ancora fortemente l’esagerata percezione del declino morale che egli pensava avesse avuto inizio una volta che era stato superato il punto più alto dello sviluppo della civiltà romana sotto gli imperatori Antonini nel secondo secolo d. C.
Tutti coloro che scrivono sul quarto secolo devono farsi un’opinione su quelle che si rivelano, in effetti, questioni estremamente soggettive: il regime del tardo impero fu un sistema repressivo che si sviluppò per porre termine al caos determinatosi nel terzo secolo?
Vi possiamo vedere i segni della decadenza che portò al crollo e alla frammentazione dell’Impero romano in Occidente nel quinto secolo?
L’adesione di Costantino al cristianesimo favorì un processo di declino con il definitivo abbandono dei valori romani più antichi, come pensava Gibbon?
Tutte queste valutazioni sono state fornite dagli storici e sono ancora ampiamente diffuse, caratterizzando la maggior parte delle opere su questo periodo.
Sarà presto evidente che questo volume adotta un diverso approccio.
Posizioni preconcette e, soprattutto, giudizi di valore non si possono completamente evitare in un’opera storica, ma certamente non aiutano né lo storico né lo studente.
Inoltre, proprio per la sfida lanciata dalla nostra società contro i valori tradizionali, oggi siamo meno portati a vedere il Principato come depositario dell’ideale classico e a ritenere che un qualsiasi allontanamento da esso dovesse necessariamente rappresentare una forma di declino.
Infine, rispetto alla precedente generazione di storici, siamo forse più consapevoli del potere e dei pericoli che comporta la retorica e meno propensi a prendere per buona l’immagine che viene dalla retorica imperiale della tarda antichità.
Il periodo che comincia con Diocleziano viene talvolta definito “dominato”, in quanto l’imperatore veniva denominato come dominus (”signore”), mentre nell’alto impero (il cosiddetto “Principato”) gli era stato assegnato, in origine, un appellativo molto diverso, quello di princeps (“primo cittadino”) semplicemente.
Ma bisogno considerare che il termine dominus non era affatto nuovo; e, oltretutto, una cosa era ciò che gli imperatori del quarto secolo volevano, o ciò che volevano apparire, una cosa alquanto diversa, invece, ara quale di tipo di società l’impero rappresentasse nel suo insieme.
Per cogliere la differenza, non bisogna partire da Diocleziano o dal sistema “tetrarchico” da lui istituito nel tentativo di ripristinare la stabilità politica – secondo il progetto di Diocleziano, il potere doveva essere diviso tra due imperatori (Augusti), ciascuno affiancato da un Cesare che ne avrebbe preso il posto al momento della successione.
Dobbiamo partire, invece, dal terzo secolo che costituisce un’evidente linea di demarcazione tra due sistemi contrapposti e che gli storici hanno tradizionalmente descritto come un’epoca di crisi (la cosiddetta “crisi del terzo secolo”), rappresentata da un continuo e rapido susseguirsi di imperatori tra il 235 e il 284 d. C., da uno stato di guerra, interna ed esterna, quasi permanente, accompagnato dal tracollo della moneta d’argento e dal ricorso da parte dello Stato ad esazioni in natura.
Una tale drammatica situazione fu riportata sotto controllo, almeno in parte, da Diocleziano, le cui riforme furono poi continuate da Costantino (306-337 d. C.), di modo che si posero le basi per la ripresa del quarto secolo.
Si è tentati di credere che in tali circostanze, sufficientemente documentate da fonti contemporanee, la gente fosse più facilmente portata a cercare un rifugio o una fuga nella religione e che lì si trovino le premesse perché il mondo della tarda antichità acquistasse quel carattere più intimamente spirituale con cui ai nostri occhi sembra presentarsi.
Ma anche questa visione è frutto, in gran parte, di giudizi soggettivi e di una lettura delle fonti troppo superficiale.
Quanto si può ricavare dalle fonti rabbiniche della Palestina e dai papiri egiziani contenenti lamentele sugli esattori fiscali è qualcosa di abbastanza scontato, in quanto è ovvio che la gente non fosse contenta di pagare le tasse; ma tali fonti non ci dicono se il peso fiscale fosse effettivamente cresciuto in misura così rilevante come potrebbe a prima vista sembrare.
Senza certamente negare l’esistenza di gravi problemi nel terzo secolo, specialmente per quanto riguarda la stabilità politica e il controllo delle emissioni monetarie, in questi ultimi anni il concetto di “crisi del terzo secolo” è stato messo in discussione sotto ogni suo singolo aspetto.
E se la crisi fu meno grave di quanto si sia finora creduto, allora è possibile che anche la portata dei cambiamenti tra il secondo e il quarto secolo sua stato dato un peso esagerato.
“Crisi del terzo secolo”, “età di transizione”, “età degli imperatori soldati”, “età di anarchia”, “monarchia militare” – comunque si voglia chiamare, gli storici sono concordi nel ritenere che il periodo critico nel terzo secolo sia cominciato con l’assassinio di Alessandro Severo nel 235 d. C. e che sia durato sino all’ascesa al trono di Diocleziano nel 284 d. C.
Il primo e più evidente sintomo con cui la crisi si manifestò fu la rapida successione di imperatori dopo Severo – in maggior parte durarono solo pochi mesi e andarono incontro ad una morte violenta, spesso per mano delle loro stesse truppe o in seguito ad un altro colpo di stato.
Il regno più lungo fu quello di Gallieno (253-275), che riuscì a reprimere il regime indipendente instaurato dalla regina Zenobia a Palmira in Siria dopo la morte del marito Odenato.
Valeriano (253-260), però, fu fatto prigioniero da Shahpur 1., re della potente dinastia dei Sassanidi, succeduta ai Parti nel 224 d. C. nel governo della Persia, mentre dal 258 al 274 la Gallia (il cosiddetto “impero gallico”) fu retta da Postumo e dai suoi successori in una forma di quasi totale indipendenza.
Con questo continuo avvicendamento di imperatori (la differenza tra imperatore e usurpatore diventava sempre più difficile da cogliere) è strettamente connesso il secondo sintomo della crisi, uan situazione di guerra permanente che permetteva all’esercito, o agli eserciti, di svolgere un ruolo ancora più importante rispetto all’epoca dei Severi.
I Sassanidi rappresentavano uan grande e inedita minaccia per l’Oriente che era destinata a durare per tre secoli, fino a quando le vittorie di Eraclio nel 628 segnarono la fine dell’Impero.
Il conflitto con i Sassanidi costò un elevato prezzo ai romani in termini demografici e di risorse.
Il loro più grande imperatore del terzo secolo, Shahpur 1. 8242-272 d. C.), creò un modello, invadendo la Mesopotamia, la Siria e l’Asia Minore nel 235 e 260 d. C., con la presa di Antiochia e la deportazione in Persia di migliaia dei suoi abitanti; le sue vittorie furono immortalate da una grandiosa iscrizione a Naqsh-i-Rustam, i cui rilievi raffiguravano l’umiliazione subita dall’imperatore Valeriano.
Le tribù germaniche continuavano ad esercitare sui confini settentrionali e occidentali la stessa pressione che aveva causato grosse difficoltà a Marco Aurelio; e, prima ancora che Valeriano fosse fatto prigioniero da Shahpur, Decio era già stato sconfitto dai Gori (251 d. C.)
Le motivazioni sottese alle continue incursioni barbariche e gli scopi reali degli invasori non sono stati ancora del tutto chiariti.
E’ certamente lontana dal vero ogni visione apocalittica di orde formate da migliaia e migliaia di barbari che dilagavano nell’Impero, dal momento che il numero effettivo degli invasori è sempre stato molto basso.
Tuttavia, non c’è dubbio che le incursioni del terzo secolo preannunciassero un problema che avrebbe assunto grandi proporzioni nel tardo impero e che è stato considerato da molti storici come la causa principale della caduta dell’Impero romano d’Occidente.
Presto o tardi furono invasi dai barbari più o meno tutte le province settentrionali e meridionali, come avvenne per la Cappadocia, l’Acaia, l’Egitto e la Siria, e neppure l’Italia fu risparmiata sotto Aureliano.
Si può quindi giustificare l’errore dei contemporanei che videro allora l’inizio della fine dell’Impero.
Le riforme di Settimio Severo avevano già assegnato all’esercito un’importanza maggiore rispetto al passato, ma la situazione critica del terzo secolo fece sì che la sua preponderanza divenisse ancora più pericolosa.
Non c’è da stupirsi che ogni esercito provinciale avesse un candidato da proporre come imperatore e che, con la stessa facilità con cui lo avesse designato, potesse poi eliminarlo.
Non c’era nessun mezzo per fermare il ripetersi di questo corso di eventi: il Senato non aveva mai controllato direttamente gli eserciti e, in tale confusione, anche se c’era un imperatore a Roma, erano scarse le possibilità che egli potesse controllare quanto avveniva nelle regioni più distanti dell’impero.
L’instabilità interna non era tanto determinata dalla minaccia di attacchi esterni (per quanto anche questi certamente vi contribuissero): il fatto è che l’impero era già fortemente instabile quando la minaccia si presentò, come dimostra chiaramente lo scoppio delle guerre civili da Marco Aurelio in poi.
Nel terzo secolo, però, vi furono altre conseguenze: l’esercito, com’era inevitabile, aumentò il proprio organico e perciò vi furono investite maggiori risorse; inoltre, mentre nelle condizioni pacifiche dell’alto impero i soldati venivano tenuti del tutto lontani dalle province interne, ora invece si trovavano dappertutto, nelle città come nelle campagne, senza la minima garanzia che potessero essere sempre tenuti sotto controllo.
Quando Diocleziano e Costantino ripristinarono un sistema militare più stabile, questa situazione fu riconosciuta in parte come definitiva e l’esercito del tardo impero, invece di essere dislocato in larga misura lungo le frontiere, fu diviso in piccole unità e disperso all’interno delle province e nelle città.
Non ci si deve sorprendere se in tali circostanze lo stipendio dell’esercito e il sistema di approvvigionamento avessero subito un crollo.
Il soldo dell’esercito era stato pagato principalmente in denarii d’argento, provenienti dagli introiti fiscali riscossi nella stessa moneta.
Il contenuto d’argento del denarius era stato ridotto già all’epoca di Nerone, ma da Marco Aurelio in poi la moneta era stata svalutata sempre più, mentre la paga militare era stata aumentata nel tentativo di mantenere l’esercito efficiente e fedele.
Il processo era ormai talmente avanzato che intorno al 260 il denarius aveva quasi completamente perduto il suo contenuto d’argento ed era praticamente composto di metallo vile.
Può sembrare strano che i prezzi non fossero saliti vertiginosamente non appena gli svilimenti avevano cominciato ad essere drastici.
Ma non si può paragonare l’Impero romano ad uno Stato moderno, dove tali misure sono annunciate ufficialmente e messe in atto con tempestività.
Le comunicazioni erano lente e il governo, se è lecito usare questo termine, anche nelle migliori condizioni aveva pochi strumenti per controllare le monete e i tassi di cambio a livello locale; ancora meno lo poteva fare in una situazione talmente confusa.
I vari svilimenti della moneta succedutisi nel corso del tempo, che avrebbero avuto così gravi conseguenze, furono assai più dei provvedimenti ad hoc, volti a garantire il pagamento alle truppe senza interruzioni, che la manifestazione di una politica di ampio respiro.
Ma, naturalmente, ci fu un rapido aumento dei prezzi, che causò reali difficoltà agli scambi ed alla circolazione dei beni.
Non si trattava di inflazione in senso moderno, quanto piuttosto del risultato della produzione di enormi quantità di monete di metallo vile da parte degli effimeri imperatori del terzo secolo per i loro scopi e della consapevolezza, che intanto la popolazione gradualmente acquisiva, che il valore effettivi dei denarii che circolavano non corrispondeva più al loro valore nominale.
Come inevitabile conseguenza vennero sottratte dalla circolazione le monete più vecchie e più pure, tanto è vero che le monete romane a noi pervenute derivano, in gran parte, da tesoretti interrati apparentemente nel terzo secolo.
Oro e argento scomparvero dalla circolazione con tale rapidità che Diocleziano e Costantino si videro costretti a introdurre particolari imposte pagabili solo in oro e argento allo scopo di recuperare questi preziosi metalli per le casse dello Stato.
Una volta che la spirale si avviò, fu ancora più difficile frenarla, per cui i prezzi, malgrado gli sforzi di Diocleziano per bloccarli, continuarono a salire vorticosamente sotto Costantino, come sappiamo dai papiri.
E’ questo il retroterra in cui si realizzò il ritorno allo scambio in natura che da molti storici è considerato come una regressione verso una forma di economia primitiva e, perciò, un sintomo cruciale di crisi.
Non erano solo le truppe ad essere pagate parzialmente in natura invece che in denaro; anche le tasse erano riscosse in natura, visto che la quota più rilevante delle entrare fiscali era stata sempre era stata sempre principalmente finalizzata al mantenimento dell’esercito.
Se proprio si volesse fare un confronto con l’esperienza del mondo contemporaneo, non dovremmo rimanere colpiti tanto  dall’arretramento dell’economia monetaria, quanto dal successo con cui fu progettato e realizzato  un complesso sistema di requisizioni a livello locale, che permise il raggiungimento di un equilibrio tra bisogni e risorse.
E’ anche importante notare che i romani avevano sempre fatto ricorso alla pratica delle riscossioni dirette per provvedere all’annona militaris, il rifornimento di grano per l’esercito, e all’angareia, il trasporto militare; il fenomeno in sé non era nuovo, ma lo erano le sue proporzioni.
A causa delle condizioni estremamente instabili, in particolar modo intorno alla metà del secolo, le popolazioni locali erano chiamate a soddisfare improvvise richieste e la mancanza di preavviso procurava effettivi disagi; spettò a Diocleziano il compito di rendere istituzionale la scadenza di queste riscossioni.
Dal fatto che l’esercito venisse pagato in natura (anche se solo in parte, poiché i pagamenti in denaro non furono mai eliminati del tutto) derivavano altre conseguenze, ad esempio la necessità di ricorrere agli approvvigionamenti in aree il più vicino possibile alle truppe, per le ovvie difficoltà causate dai trasporti su lunghe distanze.
Vediamo, allora, che nel quarto secolo l’esercito era diviso in unità più piccole situate in prossimità dei centri di rifornimento.
E vi furono anche dei cambiamenti nei posti di comando: i prefetti del pretorio, che inizialmente erano comandanti di rango equestre della guardia imperiale, avevano assunto gradualmente funzioni di comando più generali nell’esercito; con questi cambiamenti nell’annona e nelle requisizioni in genere, essi di fatto acquisirono il controllo del sistema dell’amministrazione provinciale e divennero subalterni solo all’imperatore.
In modo analogo i membri dell’ordine equestre acquisirono, in generale, un ruolo di gran lunga più importante nell’amministrazione, ad esempio come governatori delle province, una carica assegnata tradizionalmente ai senatori.
Fonti di età successiva attribuiscono a Gallieno l’esclusione per editto dei senatori da tali posti (Aur. Vitt., Caes. 33, 34), ma è chiaro che questa esclusione non fu mai ufficiale e assoluta ed alcuni senatori continuarono a ricoprirli; è più verosimile che il cambiamento fosse il naturale risultato del decentramento dei poteri e della rottura di quei rapporti di patronato tra l’imperatore e Roma e la classe senatoria sulla cui base avvenivano le designazioni.
Era più pratico, e può essere apparso più logico, per un imperatore cresciuto nelle province e proveniente dai ranghi dell’esercito, com’era nella maggior parte dei casi, nominare dei governatori estratti dalla classe che conosceva e con cui doveva trattare.
L’indubbia eclissi del Senato nel terzo secolo si può in parte attribuire al fatto che gli imperatori non risiedevano più né venivano designati a Roma; perciò lo stretto legame tra imperatore e Senato si ruppe e solo pochi imperatori videro la propria nomina ratificata dal Senato secondo l’antica tradizione.
Intanto, il Senato perdeva gran parte del suo ruolo politico, sebbene i suoi membri continuassero a godere di un certo prestigio e di considerevoli esenzioni fiscali.
In questo periodo, dunque, gli imperatori non dovevano la loro elezione al Senato, ma venivano innalzati al trono sul campo, circondati dalle loro truppe.
Si possono ancora riconoscere gli effetti di questa dispersione dell’autorità imperiale sotto Diocleziano e la tetrarchia, quando gli Augusti, invece di tenere la corte a Roma, passavano il loro tempo viaggiando e soggiornando in centri diversi come Serdica e Nicomedia, alcuni dei quali, in particolare Treviri e Antiochia, già nel terzo secolo avevano acquisito una funzione semiufficiale di sedi imperiali.
Roma non sarebbe diventata mai più una residenza imperiale di rilievo.
Inoltre, mentre in precedenza Roma e il Senato erano sempre stati associati, ora Costantino allargò ampiamente le basi di reclutamento dell’ordine senatorio, di modo che l’appartenenza ad esso non presupponeva più la residenza e lo svolgimento delle proprie funzioni a Roma, ma si diffondeva in tutto l’impero.
In effetti, intorno alla metà del terzo secolo non vi fu una crisi drammatica, ma la naturale prosecuzione di processi già avviati che, a loro volta, portarono alle misure adottate da Diocleziano e da Costantino che vengono comunemente indicate come le fondamenta del sistema tardoromano.
Come va valutata, allora, in questo momento la testimonianza offerta dal dissesto finanziario?
Questa è una delle questioni più difficili per la comprensione del processo in corso.
Dobbiamo chiederci in che misura il rialzo dei prezzi fosse dovuto a una crisi economica generale o se non fosse invece il risultato di un collasso monetario causato da ragioni alquanto particolari.
A sostegno della prima ipotesi viene spesso ricordata la fine pressoché completa della costruzione di edifici pubblici nelle città.
I maggiorenti locali che con tanto impegno avevano adornato le loro città di splendide costruzioni nel momento di massima prosperità nel corso del secondo secolo non sembravano avere più le risorse e la volontà per andare avanti.
Ora si era praticamente dissolta quella sorta di patronato civico che va spesso sotto il nome di “evergetismo” (dalla parola greca per “benefattore”), che era stata una delle caratteristiche più prominenti dell’alto impero.
Nelle fonti relative al periodo che va dal quarto secolo in poi, le difficoltà economiche delle amministrazioni cittadine diventano uno dei temi più ricorrenti.
Ma i disagi finanziari delle classi elevate rappresentano solo una delle possibili spiegazioni della crisi edilizia; la manutenzione degli edifici pubblici già esistenti, che era a carico dei governi locali, costituiva un problema già verso la fine del secondo secolo.
L’aggiunta di nuovi edifici, piuttosto che ispirare gratitudine, sarebbe stata vista come causa di maggiori problemi.
Anche l’incertezza della situazione verso la metà del terzo secolo avrebbe fatto sentire la costruzione di edifici come uan forma di beneficienza inadeguata; nelle città che correvano il rischio di invasioni o di guerre civili, la maggiore preoccupazione degli amministratori era la difesa degli edifici o il loro restauro.
Alcune città mostrarono notevoli capacità di recupero anche dopo aver subito gravi attacchi.
Antiochia ed Atene furono fortemente danneggiate, dai Sassanidi e dagli Eruli rispettivamente, eppure furono in grado di riprendersi.
Al contrario, le città della Gallia, sottoposte ad invasioni durante il terzo secolo, erano più vulnerabili di quelle dell’Oriente, più prospero e più densamente popolato, e, quando venivano ricostruite o fortificate, normalmente avveniva una contrazione del loro spazio urbano, come ad Amiens e a Parigi.
Mentre nell’alto impero non c’era stato bisogno di salde difese, ora le città cominciavano ad essere circondate da cinte murarie e il loro aspetto di trasformò in quello delle tipiche città fortificate della tarda antichità.
Nella stessa Atene l’area a Nord dell’Acropoli venne fortificata.
Ma la situazione era ancora diversa nell’Africa settentrionale, dove nel terzo secolo si continuavano a costruire edifici e le aree urbane si espandevano.
Essendo esposta al pericolo in misura minore che altrove, l’Africa settentrionale conobbe una crescita della propria economia grazie all’aumento della produzione di olio e le sue città nel quarto secolo erano tra le più sicure e prospere dell’impero.
Dato il rapido alternarsi degli imperatori, è evidente che le relazioni tra centro e periferia, che fino ad allora avevano funzionato in materia armoniosa, furono seriamente compromesse.
Fin dall’inizio l’impero si era sforzato di mantenere un saldo equilibrio interno, che veniva ora messo in pericolo.
Precedentemente, interesse imperiale e interessi locali si erano bilanciati e questa equità di rapporti aveva raggiunto la sua massima espressione nell’età degli Antonini.
Nel terzo secolo le culture locali ebbero possibilità molto maggiori di emergere.
Dalla Gallia alla Siria e all’Egitto, gli stili locali divennero più evidenti nelle arti visive e gli interessi locali ebbero l’opportunità di farsi sentire, specialmente – com’è ovvio – nel cosiddetto “impero gallico” e nella lotta di Zenobia per l’indipendenza a Palmira.
Un altro importante avvenimento del terzo secolo fu l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero sotto Caracalla attraverso la cosiddetta Constitutio Antoniniana del 212 d. C.; sebbene Caracalla potesse essere stato ispirato dall’intenzione di procurare maggiori entrate fiscali allo Stato, piuttosto che da idealismo o generosità, questo provvedimento fece si che la nozione di ciò che si considerava “romano” si estendesse fino a ricoprire una moltitudine di culture etniche e locali tra loro divergenti.
Sebbene si ritornasse verso una certa centralizzazione del potere sotto Diocleziano e la tetrarchia (284-305 d. C.), la frammentazione politica e militare verificatasi dalla metà sino alla fine del terzo secolo ebbe a lungo andare delle ripercussioni anche sui modelli culturali della tarda antichità.
In questa nuova fase sia il siriaco che il copto si affermarono come importanti lingue letterarie usate da un elevato numero di cristiani in Siria, Mesopotamia ed Egitto.
Anche la Chiesa cristiana trasse dei benefici: malgrado le persecuzioni subite sotto Decio (249-251) e Diocleziano (303-311), era riuscita a sviluppare una valida struttura istituzionale che si rivelò di grandissimo aiuto quando essa ottenne il favore di Costantino.
Certamente il terzo secolo fu un periodo difficile e non tutti i problemi sono da attribuire alla volontà degli uomini.
L’epidemia che si diffuse nell’impero sotto il regno di Marco Aurelio fu molto meno grave degli attacchi di peste bubbonica che colpirono l’impero d’Oriente nel sesto secolo e l’Europa occidentale nel quattordicesimo; e, senza dubbio, epidemie e malattie infettive furono endemiche in tutte le fasi del mondo antico.
Tuttavia, essa potrebbe aver costituito uno dei fattori, insieme agli effetti delle invasioni e delle guerre, che portò ad una riduzione della popolazione e, di conseguenza (dal momento che la terra richiede manodopera per produrre ricchezza), ad una riduzione della base economica.
La questione è estremamente controversa; sebbene la carenza di manodopera sia stata addotta come una delle cause del presunto declino dell’impero, vi sono scarsi elementi per provarlo.
Tuttavia, considerazioni generali, insieme alla testimonianza di città dove avviene una contrazione delle aree abitate, specialmente nelle province occidentali, autorizzano a parlare, se pur con cautela, di un calo della popolazione.
Ma è essenziale vedere il fenomeno nella lunga durata; in ogni caso l’impero d’Oriente fu capace di una buona ripresa e vi sono buone testimonianze del fatto che vi fu addirittura un aumento della popolazione a partire dalla fine del quarto e, certamente, nel corso del quinto secolo.
Per varie ragioni, gli storici moderni hanno messo l’accento, senza troppe discussioni, sugli aspetti negativi di questo periodo, ma il giudizio dei contemporanei non era così scontato.
La distinzione sociale e giuridica tra honestiores (“classi superiori”) e humiliores (“classi inferiori”) appare ai nostri occhi coem una caratteristica peculiare del tardo impero; questa distinzione, tuttavia, si era avviata molto tempo prima del periodo della “crisi del terzo secolo”.
E ancora, l’idea che gli imperatori gallici formassero un regime separatista è probabilmente una concezione moderna, perché, come aveva osservato tacito, già da molto tempo il fatto che i legittimi imperatori potessero essere creati lontano da Roma era considerato come uno degli “arcani dell’impero”.
Inoltre, le opinioni negative espresse dai contemporanei, a cui si affidano molte ricostruzioni moderne, di solito hanno una spiegazione specifica.
E’ certamente naturale che i mali dell’epoca venissero messi in risalto da Ciriano, vescovo di Cartagine, che subì il martirio nel 258 d. C. durante la persecuzione di Valeriano.
D’altro canto, però, vi era una fioritura dell’attività letteraria.
Le conferenze di Plotino a Roma sul platonismo continuavano ad essere di moda attirando una folla di persone che andavano a sentirlo, senza contare gli allievi che giungevano da molto lontano.
P. Erennio Dexippo, che aveva guidato la resistenza dei cittadini ateniesi contro gli Eruli, scrisse una storia delle invasioni dei Goti e degli Sciti, di cui purtroppo rimangono solo dei frammenti.
Siamo portati a dare un giudizio distorto di questi avvenimenti in quanto non ci è pervenuto alcun resoconto contemporaneo attendibile dei difficili cinquant’anni centrali del terzo secolo, così che siamo spesso costretti a ricorrere alla narrazione ricca di fantasie e banalità della Historia Augusta che suona quasi come quegli articoli pini di pettegolezzi che si leggono in un giornaletto popolare, e che una volta letti, non si dimenticano facilmente.
Soprattutto se riesaminiamo la questione dal punto di vista privilegiato del moderno razionalismo, siamo portati ad accettare la tesi di E. R. Dodds e altri secondo cui l’”epoca della spiritualità” (come è stata definita la tarda antichità) ebbe la sua genesi nell’incertezza dominante nel terzo secolo; e, in altre parole, che la gente si rivolse alla religione, e forse in modo particolare al cristianesimo, nel tentativo di sfuggire alle disgrazie presenti o per farsene una ragione.
Gli imperatori responsabili di persecuzioni, come Decio, Valeriano e Diocleziano, certamente credevano chela sicurezza dell’impero fosse messa in pericolo perché si trascuravano gli dèi e, perciò, fosse necessario richiamare alla disciplina quei gruppi, come i cristiani, che avevano deviato dalle regole.
Nello stesso modo, Costantino credette di aver ricevuto personalmente da Dio l’incarico di garantire la corretta applicazione delle norme divine.
Ma una cosa è supporre un generale collegamento tra la religione e il desiderio della gente di trovare conforto, rassicurazione e una spiegazione delle proprie sofferenze; un’altra cosa è invece immaginare che le epoche di difficoltà producano sempre dei movimenti religiosi o, capovolgendo il concetto, che lo sviluppo della religione possa essere sempre spiegato in connessione con un quadro sociale negativo.
Che la tarda antichità fosse un’epoca di maggiore spiritualità rispetto alle epoche che l’avevano preceduta è attualmente messo in questione; si tratta di un’ipotesi che tende ad essere formulata insieme all’idea che il paganesimo avesse perduto credibilità o subito un certo declino e che il cristianesimo prendesse piede per colmare questo vuoto.
Ma questo modo di vedere che è influenzato dalla prospettiva cristiana non si accorda con gli studi recenti che documentano per l ‘alto impero una vita religiosa molto intensa e composta da fedi diverse.
Solo attraverso un’analisi di ampio respiro si possono individuare le ragioni della crescita della Chiesa cristiana e della diffusione del cristianesimo, non con il semplice ricorso ad un  presunto declino del paganesimo.
La cristianizzazione, e le profonde ripercussioni provocate dall’adesione di Costantino al cristianesimo sull’impero e sulla società, costituiscono uno degli elementi che differenziano la tarda antichità dall’alto impero.
Ma ve ne sono molti altri, tra i quali meritano un posto particolare la serie di riforme e i cambiamenti amministrativi, economici e militari che si verificarono nel corso dei circa cinquant’anni (284-337 d. C.) in cui ragnarono Diocleziano e Costantino.
Sebbene vi fossero, naturalmente, notevoli differenze tra i regni dei due imperatori, che sono vividamente riflesse nella documentazione a nostra disposizione, dovremmo tentare di inserirli anche in un’ampia visione d’insieme in modo da considerare il loro cinquantennio come un periodo du ripresa e di consolidamento in contrapposizione con il precedente cinquantennio, che fu definito da Rostovzev come un’”età di anarchia”.
Tuttavia, contrariamente all’enfasi posta tradizionalmente dagli studiosi sul ruolo svolto da Diocleziano e Costantino, il successo nel normalizzare la situazione non fu dovuto tanto alla loro personalità quanto piuttosto ad una combinazione e convergenza di fattori da cui, un po’ alla volta e in risposta a specifiche convergenze, scaturirono molte delle loro  “riforme”.
Visti in questa luce, gli anni intorno alla metà del terzo secolo somigliano meno a un periodo di crisi da cui l’impero fu strappato a forza grazie agli sforzi di un imperatore forte e perfino solitario 8Diocleziano è spesso definito come “despota orientale” per aver adottato un complicato cerimoniale di corte di stile persiano) e sembrano più simili ad una fase temporanea di un sistema imperiale in evoluzione

Cap. 1. Le fonti

Non tento nemmeno, a questo punto, di descrivere o di fornire una valutazione delle fonti archeologiche e della documentazione visiva di quest’epoca.
Ciò è in parte dovuto al fatto che sono talmente vaste che non si potrebbero neppure riassumere suddividendole per argomenti.
Ma l’altra ragione è che oggi sarebbe semplicemente impossibile scrivere una storia di questo periodo senza fare costante riferimento alla documentazione archeologica e figurativa.
Mentre Jones poteva basarsi su una conoscenza esaustiva delle fonti letterarie e documentarie, negli ultimi venticinque anni il campo di indagine sul tema si è enormemente ampliato.
Gli archeologi si sono occupati di questo periodo in misura sempre crescente, specialmente dopo i progressi del sistema di datazione della ceramica tardoromana; l’interesse generale per la storia urbana di tutte le epoche ha spostato l’attenzione prevalentemente sull’abbondante materiale disponibile per le città tardoromane; e, infine, in seguito al calo di interesse per la storia politica e narrativa, la maggior parte degli storici sono diventati sempre più consapevoli della necessità di usare la documentazione materiale oltre che le fonti letterarie.
Per quanto riguarda le arti visive, due fattori hanno favorito una loro più stretta connessione con i dati delle fonti letterarie e documentarie; in primo luogo, una più accentuata volontà di utilizzare le fonti cristiane, ivi compresa l’arte cristiana e, in secondo luogo, gli effetti di una tendenza riscontrabile per altri periodi della storia antica, forse sviluppatasi grazie ai confronti con l’epoca moderna, a dare rilievo al contesto visivo e al potere delle immagini in quanto strumenti di comunicazione.
Per ricapitolare, se i principali autori sono ovviamente ancora gli stessi, e tuttavia in molti casi sono stati riesaminati sotto un’ottica diversa, è l’ambito della ricerca ad essersi, viceversa, enormemente ampliato.
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Cap. 2. Il nuovo impero: Diocleziano

Nel periodo che intercorre tra l’ascesa al potere di Diocleziano nel 284 d. C. e la morte di Costantino nel 337 d. C. la situazione confusa determinatasi intorno alla metà del terzo secolo fu ripresa sotto controllo e l’impero attraversò una fase di recupero e di consolidamento, in cui si verificarono importanti cambiamenti sociali e amministrativi.
In pratica, fu messo a punto quel sistema di governo che si sarebbe affermato in Oriente fino agli inizi del settimo secolo e, sebbene con minore successo, in Occidente fino alla caduta di questa parte dell’impero nel 476 d. C.
E’ naturale che i meriti di questi risultati vengano attribuiti principalmente ai due forti imperatori che regnarono nei cinquantatré anni che formano questo periodo, soprattutto perché anche le fonti antiche seguivano questa tendenza; ma bisogna ricordare che questo processo fu assai meno il risultato di un preciso piano programmatico e assai più un susseguirsi frammentato di eventi di quanto non ci possa far pensare, a posteriori, il suo esito.
Occorre soprattutto prudenza di fronte alla tendenza delle fonti e dare una distinzione troppo netta tra Diocleziano e Costantino a causa delle loro differenze religiose e di fronte ai condizionamenti che tale distinzione ha provocato nella valutazione della politica anche non religiosa dei due imperatori.
Pag. 45

Qualsiasi giudizio sulla natura delle riforme di Diocleziano è reso difficile da due fattori: lo stato insoddisfacente delle fonti letterarie a nostra disposizione relative al suo regno e il fatto che molti singoli cambiamenti si manifestarono in un secondo momento o ci sono attestati solo più tardi.
Un altro problema è causato dall’esagerato contrasto tra Diocleziano e Costantino messo in rilievo dalle fonti; la tendenza della politica non religiosa di Costantino, e perfino alcuni aspetti di quella religiosa, dovrebbero essere visti piuttosto come quelli che portarono avanti le linee generali della politica dioclezianea.
Pag. 48

Non c’era solo questo: in teoria, anche la somma da pagare doveva essere messa in rapporto con quanto si produceva a livello locale.
Tutti questi dati venivano calcolati attraverso un censimento regolare, organizzato per periodi quinquennali, noti come indizioni, a partire dal 287 d. C.
Pag. 53

Così come fallì il tentativo di Diocleziano di introdurre un controllo dei prezzi, fallirono anche le misure ad esso collegate volte a riformare il sistema monetario.
Entrambi i tentativi abortirono perché erano imposti dall’alto, senza un’adeguata comprensione ed una verifica delle condizioni generali che di fatto causavano tali difficoltà.
La terminologia adoperata da Lattanzio rivela una diffusa incomprensione dei fatti economici (della “razionalità economica”), che condizionava pesantemente la capacità degli imperatori del quarto secolo di gestire in una qualche maniera effettiva l’economia.
I provvedimenti di Diocleziano furono di gran lunga più aderenti alle necessità del momento di quanto lo fossero stati quelli dei suoi predecessori e, in qualche misura, furono portati avanti da Costantino, ma per descriverli non possiamo fare ricorso a concetti moderni come “economia diretta” o “Stato totalitario”, altrimenti rischiamo di confondere le intenzioni con la realtà.
Piuttosto, sarebbe il caso di interpretare le minacce rivolte dai governatori le minacce rivolte dai governatori provinciali contro gli esattori delle imposte che mancavano di assolvere al proprio compito come il sintomo di una concreta debolezza del potere centrale.
Pag. 55

Vi sono molti problemi che limitano la nostra comprensione del sistema amministrativo tardoromano, che mantenne un difficile equilibrio tra burocrazia e patronato; in particolare, il numero di coloro che ne facevano parte e che, di fatto, erano sottratti alla base produttiva e dovevano, invece, essere mantenuti (“le bocche da sfamare”, per usare l’espressione di Jones) è stato spesso visto come il principale fattore del declino economico.
Tali questioni sono discusse più avanti nel capitolo quarto; intanto, possiamo notare che il sistema – così coem noi lo conosciamo nella sua forma più tarda – non si formò completamente sotto Diocleziano, sebbene a questo imperatore venga rimproverato di aver creato una burocrazia troppo numerosa, nello stesso modo in cui egli è criticato per aver accresciuto talmente l’esercito da renderne impossibile per l’impero il mantenimento.
Pag. 58

Diocleziano rispettò fedelmente il suo progetto: il primo maggio del 305 d. C. abdicò con il suo collega Massimiano, si ritirò nel suo palazzo di Spalato e, da quel momento, rifiutò di ritornare alla vita politica.
Lattanzio, che intendeva trovare per lui una morte esemplare a causa della sua persecuzione, sostiene che si lasciò morire di fame nel 311 o 312 d. C. (De mortibus persecutorum, 42), ma secondo altre fonti visse più a lungo.
Diocleziano non aveva eredi diretti e la tetrarchia sopravvisse per poco tempo dopo il suo ritiro.
Costantino successe a suo padre Costanzo nel 306 d. C., si assicurò la posizione di Augusto attraverso l’alleanza con Massimiano nel 307 d. C. e si mise subito all’opera per eliminare i suoi rivali.
Una delle vittime fu lo stesso Massimiano (310 d. C.) e successivamente sconfisse il figlio di Massimiano, Massenzio, nel 312 d. C.
Una volta divenuto unico imperatore, Costantino diede avvio a grandi cambiamenti che hanno spinto sia gli osservatori del tempo sia gli storici moderni a sottolineare un forte contrasto tra lui e Diocleziano; ma fu egli stesso un prodotto della tetrarchia e, per molti versi, un erede di Diocleziano – molti dei progressi in campo sociale, amministrativo ed economico verificatisi sotto il suo regno rappresentano semplicemente la logica conclusione delle innovazioni introdotte da Diocleziano.
Pag. 64

Cap. 3. Il nuovo impero: Costantino

Il giudizio sulla figura di Costantino risente, più ancora di quello su Diocleziano, dei pregiudizi che hanno condizionato i commentatori sia antichi che moderni.
Il problema è incentrato sul suo riconoscimento del cristianesimo, che ha cambiato radicalmente le sorti della Chiesa cristiana e, con buone probabilità, ne ha determinato gli sviluppi della sua storia futura come religione universale.
Eusebio di Cesarea, che è la nostra principale fonte contemporanea, fu l’autore di una Storia ecclesiastica – che finì per diventare un’esaltazione della gloria di Costantino – e più tardi divenne il panegirista dell’imperatore nella sua Vita di Costantino.
Anche Lattanzio traccia una netta distinzione tra il virtuoso Costantino e il perverso Diocleziano, sebbene almeno nel suo caso – siccome la data del trattatello De mortibus persecutorum precede comunque la vittoria di Costantino su Licinio nel 324 d. C. – sia almeno riservato a Licinio un trattamento pari a quello di Costantino.
I Panegirici Latini relativi a Costantino naturalmente gli attribuiscono grandi meriti e il materiale storico è presentato con questa funzione.
Per gli aspetti non religiosi del suo regno, dipendiamo purtroppo in buona parte dalla Storia nuova di Zosimo, la quale non solo soffre dei medesimi pregiudizi (sebbene di segno opposto), ma contiene anche ingenue forzature.
Per quanto riguarda le testimonianze di tipo documentario, gran parte delle informazioni sono contenute solo nella Vita di Costantino di Eusebio e sono, quindi, da usare con molta cautela (cfr. cap. 1).
Infine, nonostante oggi generalmente si creda all’autenticità delle lettere imperiali conservate nell’Appendice alla storia della controversia donatista di Ottato (e, in questo caso, sarebbero molto utili per rivelare la mentalità stessa di Costantino), bisogna pur sempre ricordare che esse sono state preservate in un ambiente cattolico e presentano il punti di vista  di una sola delle due parti del conflitto.
Pag. 65-66

Prima però di passare a parlare del rapporto tra Costantino e il cristianesimo, è necessario mettere in risalto quali e quanti furono gli aspetti di continuità tra questo periodo e il precedente.
Sulle scelte di Costantino in materia di politica non religiosa siamo male informati; anche in questo campo abbiamo a disposizione un maggior numero di fonti per il periodo che va dal 234 al 337 d. C.
Come si è visto, per quanto riguarda l’aspetto militare Costantino fu oggetto di rimproveri da parte degli autori pagani, in particolare da Zosimo (2., 34), per aver indebolito la difesa delle frontiere con il trasferimento di alcune truppe da utilizzare nell’esercito mobile.
Chiaramente le necessità militari degli anni 306-324 d. C. richiedevano un consolidamento delle forze di manovra mobili, ma in realtà non si trattava di una innovazione.
Anche per altri versi, ad esempio riguardo all’idea di una campagna persiana che egli carezzò negli ultimi anni della sua vita, Costantino aveva dei precedenti.
Continuò e poi consolidò il riordinamento delle province e quello amministrativo intrapresi da Diocleziano, con l’importante novità che ai prefetti del pretorio furono tolte le funzioni militari.
Si è molto discusso sulle ragioni – e sui particolari – di questa decisione, che fu presa solo verso la fine del suo regno; essa probabilmente è dovuta all’assegnazione di parti di territorio ai rimanenti figli di Costantino e ai due figli dei fratellastri nel 335 d. C., ma in ogni caso è perfettamente in linea con le riforme di Diocleziano.
Similmente, il nuovo ministro responsabile del tesoro, il comes sacrarum largitionum (letteralmente “conte delle sacre largizioni”), è attestato per la prima volta solo nell’ultima parte del regno e, probabilmente, la sua creazione è legata analogamente a motivi di opportunità.
L’inflazione andò avanti sotto Costantino esattamente come accadeva prima.
Egli riuscì ad emettere una nuova moneta d’oro, il solidus, che non fu più svalutata e rimase inalterata fino al periodo bizantino inoltrato; tuttavia, ciò non è indicativo di una politica economica sostanzialmente nuova, quanto del fatto che aveva a sua disposizione l’oro necessario.
In parte esso proveniva dai tesori dei templi pagani, che – come riferisce Eusebio – furono confiscati, ma derivava anche dalla nuove tasse in oro e in argento che furono imposte ai senatori (il follis) e ai mercanti (il chrysarfyron, “tassa in oro e in argento”).
Pag. 71-72

Il Concilio di Nicea del 325 d. C. fu nel complesso un evento molto significativo e venne in seguito registrato come il primo dei sette Concili ecumenici riconosciuti dalla Chiesa (il settimo ed ultimo si tenne anch’esso a Nicea nel 787 d. C.).
Il concilio non si occupò di uno scisma locale, ma di un importante problema dottrinale, la definizione del rapporto tra Dio Padre e il Figlio.
Molti vescovi, compreso Eusebio di Cesarea, si schierarono dalla parte di Ario, un prete di Alessandria, secondo il quale il Figlio doveva essere secondario al Padre, ma la discussione fu molto accesa; contrasti restarono anche sulla data corretta per la celebrazione della Pasqua, per la quale vi era discordanza tra la Chiesa di Antiochia e quella di Alessandria.
Costantino si era ormai reso conto che l’unità della Chiesa era un presupposto essenziale dell’impero cristiano che il suo panegirista Eusebio esalta come un ideale nell’Orazione dei Tricennalia e nella Vita di Costantino; negli anni successivi si prodigò per tentare di realizzarla.
In realtà i problemi erano troppo complicati per potersi prestare ad una rapida soluzione.
La conclusione apparentemente trionfale del Concilio di Nicea, dove Eusebio aveva rinnegato i propri principi e aveva firmato il documento, mentre altri – compreso Ario – che ancora si rifiutavano di farlo furono mandati in esilio, produsse un credo che da allora è rimasto sostanzialmente immutato all’interno della Chiesa; non molto tempo dopo, però, Ario venne riabilitato e i vincitori stessi di Nicea si sentirono in pericolo.
Il capo di questi era Atanasio, che era diventato vescovo di Alessandria solo nel 328 d. C., ma aveva partecipato a Nicea come Diacono.
Esiliato nel 335 d. C., dovette subire questo destino varie volte durante la generazione successiva in quanto principale oppositore dell’arianesimo, dal momenti che gli stessi figli di Costantino erano simpatizzanti per le idee di Ario.
Gli scritti polemici di Atanasio sono una fonte importante, sebbene difficile, per la ricostruzione di questa controversia.
Pag. 79-80

Si sostiene comunemente, ma a torto, che con la fondazione di Costantinopoli Costantino avesse stabilito di spostare la capitale in Oriente ed, effettivamente, questa città diventò più tardi la capitale dell’Impero bizantino.
Ma, nonostante mantenesse ancora il suo prestigio, Roma aveva da tempo cominciato a perdere la sua prerogativa di residenza imperiale ed era stata sostituita in questa funzione da centri come Treviri e Milano; la città fondata da Costantino, con il suo palazzo e l’annesso ippodromo, aveva tutte le caratteristiche di un’altra capitale tetrarchica.
Solo verso la fase conclusiva del quarto secolo, Costantinopoli iniziò quel processo di trasformazione che l’avrebbe condotta a diventare, alla fine del sesto secolo, una città di mezzo milione di abitanti.
Certamente Costantino volle darle un buon avvio, adornandola di opere famose di scultura come Zeus Olimpio, la colonna a forma di serpente di Delfi e la statua di Atena Promachos; c’era anche una grande strada principale (la Mese) e un foro di forma ovale dove si trovava uan statua dell’imperatore collocata in cima ad una colonna di porfido.
Assegnò alla città onori particolari, come il titolo di “Nuova Roma” e un proprio Senato, anche se i suoi senatori dovevano essere designati come clari, invece che con il normale appellativo di clarissimi (Anon. Vales. 6, 30).
I suoi detrattori, come Zosimo, lo accusarono di avere costruito edifici poco solidi e di aver sperperato tutte le sostanze dell’impero per la nuova città.
Eusebio, da parte sua, sostiene che al suo interno non si lasciò spazio ad alcuna parvenza di paganesimo, ma non si trattava certamente di quella città cristiana che egli vuol far credere o che anche i moderni spesso immaginano: il suo principale monumento cristiano era il mausoleo dello stesso Costantino.
E’ possibile che la prima chiesa di Santa Sofia sia stata cominciata da Costantino, coem vuole una più tarda tradizione, ma non troviamo la notizia in Eusebio; sorpresa desta anche il fatto che nella città restino poche tracce di chiese di epoca costantiniana – Zosimo addirittura sostiene che furono dedicati due nuovi templi a Rea e alla Fortuna.
Ma, nonostante la tendenziosità delle fonti più antiche e il groviglio delle tradizioni più tarde su Costantinopoli rendano estremamente difficile la comprensione dell’intera questione relativa alla fondazione da parte di Costantino, non ci sono dubbi sull’importanza dei suoi effetti sulla lunga durata o sul fatto che alla città Costantino fosse particolarmente affezionato; dopo la sua dedicatio, l’11 maggio 330 d. C., fino alla sua morte nel 337 d. C., vi trascorse la maggior parte del proprio tempo.
Roma non fu degradata – coem si è visto, senatori romani continuano ad essere attestati come titolari di alti uffici in questi anni, ed appaiono desiderosi di essere considerati parte del potere centrale, malgrado esso fosse ormai cristiano -, ma non era più il centro in cui l’imperatore risiedeva con la sua corte, e ciò avrebbe profondamente influenzato la sua evoluzione nel corso del quarto secolo.
Pag. 83-84

Cap. 4. Chiesa e Stato: l’eredità di Costantino

E’ incerto se Costantino sia stato cosciente delle conseguenze che a lungo termine avrebbero provocato i provvedimenti da lui presi nei confronti della Chiesa cristiana nell’inverno tra il 312 ed il 313 d. C.
La dispensa per il clero dai doveri curiali deve essere sembrata perfettamente in armonia con la tradizione dei favori imperiali nei riguardi di gruppi privilegiati, compresi i sacerdoti pagani; Costantino non doveva sapere che i cristiani stessi erano divisi in merito alla legittimità di una parte del loro clero o che i seguaci di Donato sarebbero stato così ostinati nella loro resistenza alle opinioni da lui tanto chiaramente espresse.
La sua corrispondenza sulla controversia donatista nell’arco di quasi un decennio ce lo mostra a partire dalla sorpresa ed ansietà iniziali per arrivare, attraverso l’indignazione e l’incredulità, ad una dolorosa rassegnazione; l’ultima sua lettera nella raccolta di Ottato, che si data al 330 d. C., costituisce un tentativo artificioso e poco convincente di persuadere gli insoddisfatti cattolici del Nord Africa ad essere pazienti e contiene l’invito a non attendere una soluzione imperiale e a rimettere la questione al giudizio divino.
Lo scisma donatista nel Nord Arica continuò per tutto il quarto secolo e costituiva una seria divisione nella Chiesa africana ancora ai tempi di Agostino, quando furono adottate severe misure repressive dal Concilio di Cartagine del 411 d. C.
La tattica di Costantino di mescolare la diplomazia alle minacce non aveva ottenuto nulla ed egli aveva provato l’amarezza causata dalle difficoltà che avrebbero incontrato anche i suoi successori nel tentativo di superare le divisioni all’interno della comunità cristiana.
Pag. 87

Il rapporto tra imperatore e Chiesa, pur destinato ad assumere cruciale importanza, non è di facile definizione.
Il termine “cesaropapismo” è spesso usato per definire il controllo imperiale sulla Chiesa, che alcuni studiosi moderni fanno risalire a Costantino.
In realtà, i fatti erano molto più complessi: la situazione dipendeva tanto dalla personalità dell’imperatore in questione, quanto dall’identità dei capi della Chiesa di quel dato momento.
L’imperatore non controllava la Chiesa in alcuna forma giuridica o costituzionale e tanto meno ne era il capo.
Perfino nel periodo bizantino l’imperatore, di norma, non nominava il patriarca di Costantinopoli e gli imperatori bizantini che assumevano un comportamento impopolare su specifiche questioni facilmente trovavano forti resistenze da parte della gerarchia ecclesiastica.
Nel quarto secolo, inoltre, mentre veniva riconosciuto il diritto di Roma a rivendicare la sua maggiore antichità come centro cristiano, la Chiesa era divisa in diocesi che per tradizione erano tra loro rivali.
Il Papato, come lo conosciamo per l’epoca successiva, è stata una creazione solo del primo Medioevo – e del tempo di Gregorio magno (590-604 d. C.) in particolare -, mentre in Oriente i vescovati di Costantinopoli e Gerusalemme giunsero a rivaleggiare con quelli di Antiochia ed Alessandria solo in conseguenza del patronato di Costantino su entrambe le città.
La superiorità dei vescovi di Gerusalemme, anzi, non fu subito accettata a Cesarea, la diocesi metropolitana che già c’era in Palestina, e la loro rivalità è evidentissima sotto la reggenza del potente vescovo Cirillo di Gerusalemme (349-386 circa).
Il Concilio di Nicea del 325 d. C. rappresentò un vero e proprio spartiacque.
Per la prima volta ci si sforzò di riunire insieme tutti i vescovi e si chiarì che i risultati del consilio andavano considerati universalmente vincolanti.
Il ruolo di Costantino fu ambiguo: egli partecipò a tutte le sedute e la sua apparizione nelle vesti di imperatore dovette grandemente impressionare la maggior parte dei vescovi, ma fu molto attento a rimettersi al loro giudizio.
Sebbene egli avesse manifestato chiaramente quale fosse la formula da lui preferita, voleva, evidentemente, che la decisione finale fosse presa a maggioranza e preferibilmente all’unanimità.
Ma questo non gli riuscì completamente: i pochi che ancora resistevano vennero esiliati, una sentenza imperiale più che ecclesiastica.
Ma la posizione adottata da Costantino prestava il fianco, e lo stessi fu per i suoi successori, alla pressione di vescovi influenti – come poteva l’imperatore scegliere la propria strada nel groviglio delle opinioni?
Inoltre, sebbene non vi sia alcun dubbio sulla consapevolezza della propria missione da parte di Costantino, il ritratto che abbiamo di lui lo dobbiamo in larga parte ad Eusebio di Cesarea, che era, da parte sua, estremamente desideroso di portare avanti l’idea di stretti rapporti tra impero e Chiesa.
Nella sua Orazione dei Tricennalia (336 d. C.) egli pone le fondamenta di buona parte della teoria politica cristiana successiva, dando un’interpretazione cristiana delle concezioni ellenistiche e romane sui rapporti tra il sovrano terreno e Dio .
Secondo Eusebio, l’imperatore cristiano rappresentava Dio sulla terra ed il regno terreno era un microcosmo, o un’imitazione, di quello celeste.
Tali opinioni ebbero un’enorme influenza e formarono la base della teoria politica per tutto il periodo bizantino; ma esse suggerivano anche l’idea che il Regno di Dio fosse già stato realizzato, cosicché da allora si poteva per sempre sperare in una felicità ininterrotta – un’idea ovviamente errata, di cui in seguito Agostino dové spiegare la fallacia.
Esse, inoltre, comportavano una pericolosa conseguenza, e cioè che essendo il primo dovere dell’imperatore individuato nella “pietà”, egli doveva cercare di metterla in atto nel suo regno con ogni mezzo, una potenziale giustificazione della persecuzione religiosa che anche Agostino raccolse e difese.
I pagani non erano stati, finora, oggetto di un’effettiva persecuzione – dopo tutto, essi costituivano le grande maggioranza della popolazione -, ma quei cristiani le cui opinioni religiose erano giudicate in contrasto con la linea ufficiale (sempre definita come “ortodossia”) furono ben presto soggetti a severe misure.
Il donatismo, almeno, era limitato geograficamente e, in teoria, controllabile.
Non altrettanto si può dire dell’arianesimo, un termine che maschera un fenomeno ben più complesso e difficile, destinato a causare grossi problemi per molto più lungo tempo.
Diversamente dal donatismo, che è più propriamente uno “scisma”, implicando una divisione ma non una differenza dottrinale, l’”arianesimo” era classificato come “eresia”, una dottrina errata.
Paradossalmente, il Concilio di Nicea, con il quale Costantino cercò di risolvere quelle che forse gli erano sembrate differenze di poco conto, in pratica dette il via ad un processo di ricerca di una definizione da dare alla giusta dottrina; processo che fu causa di infiniti problemi e costituì per secoli la preoccupazione della Chiesa e dello Stato.
Il termine greco hairesis (“scelta”) era, in origine, del tutto neutro, indicando semplicemente una serie di dottrine o pratiche.
Ora, tuttavia, le “eresie”, le dottrine devianti, furono catalogate e demonizzate, man mano che la Chiesa andò assumendo un ruolo sempre più autoritario nel definire che cosa dovesse essere considerato giusto e meno.
Coinvolti in prima persona, gli imperatori avevano il compito di cercare di riconciliare gli individui ed i gruppi di opposizione.
Pag. 88-91

Tutti gli imperatori del quarto secolo sostennero il cristianesimo, con la sola eccezione di Giuliano, il quale cercò di dar vita ad un’alternativa pagana (361-363 d. C., cfr. cap. 5), e la loro protezione costituì senza dubbio il fattore più importante nella crescita dell’importanza della Chiesa.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, i tentativi di bandire o di perseguitare il paganesimo furono l’eccezione e non la regola.
Eusebio dice che lo stesso Costantino promulgò una legge che proibiva i sacrifici e, mentre la legge stessa non ci è pervenuta, una legge simile di Costanzo fa ad essa riferimento.
Pag. 96

I sussidi per i sacerdoti ed il culto pagani furono ritirati e gli anni successivi videro la distruzione dei templi e violenti scontri tra pagani e cristiani in numerose province.
Alcuni vescovi cristiani, tra i quali Giovanni Crisostomo ed Agostino, trassero grande vantaggio dalla situazione per sollecitare, o almeno per raccomandare, le violenze dei cristiani; l’imperatore d’Oriente, Arcadio, che con suo fratello Onorio era successo al padre Teodosio nel 395 d. C., cercò di limitare questi casi di azione di massa.
Bande di monaci (cfr. cap. 7.) erano in prima linea tra i cristiani che attaccavano templi o statue pagane, e l’ostilità mostrata nei loro confronti da un certo numero di autori pagani, tra i quali Libanio e Eunapio, non ci sorprende affatto.
Nello stesso periodo vediamo anche segni di una crescente ostilità cristiana verso gli ebrei, espressa non solo nelle prediche cristiane, soprattutto quelle di Giovanni Crisostomo, ma anche nella legislazione.
Il giudaismo non era proibito in quanto tale; al contrario, gli imperatori cristiani legiferarono per frenare gli attacchi alle sinagoghe da parte dei cristiani del luogo (CTh. 16., 8, 9, 393 d. C.; 16., 8,2,423 d. C.).
Ma i cristiani che si convertivano al giudaismo perdevano le loro proprietà, mentre gli stessi ebrei furono banditi dal servizio imperiale, dalla pratica dell’avvocatura e, nel 438 d. C., da tutti gli honores e dignitates.
La grande comunità ebraica in Giudea, con base in Galilea, era guidata dal patriarca ebraico e ci è rimasta una cospicua corrispondenza tra Libanio e il preposto a quell’ufficio in quel periodo.
Prospere e importanti comunità ebraiche esistettero anche in molte città dell’Impero, delle quali Antiochia ed Apamea in Siria sono buoni esempi.
Misure come quelle prescritte nella legislazione della fine del quarto secolo non si possono definire come persecuzioni su vasta scala.
Le omelie di Giovanni Crisostomo contro gli ebrei rivelano, per la verità, una situazione in cui molti cristiani sembrano effettivamente essere stati attratti dal culto ebraico.
Ma gli stessi sermoni, insieme ad altri accenni presenti nella letteratura cristiana, testimoniano la crescente intolleranza della Chiesa e il suo desiderio di porre fine ad una tale promiscuità tra le comunità.
Pag. 98-99

A livello intellettuale, come vedremo nel prossimo capitolo, l’alternativa più seria al cristianesimo era il neoplatonismo.
Questa versione tardoantica e più spiritualizzata della filosofia platonica era associata, in particolare, con il filosofo del terzo secolo Plotino e con il suo discepolo Porfirio (autore di un attacco al cristianesimo che fu ufficialmente distrutto); questo sistema attrasse profondamente Agostino.
Come i manichei, seguaci di mani, il maestro del terzo secolo, i neoplatonici erano asceti; essi citavano Pitagora, il filosofo greco del sesto secolo a. C., il quale insegnava che la saggezza si otteneva con l’astinenza.
Pag. 102-3

L’altro capolavoro di Agostino, La Città di Dio, scritta verso la fine della sua vita, tra il sacco di Roma da parte del Visigoti Alarico nel 410 d. C. e la sua morte nel 430 d. C., costituisce un’impegnata discussione sui rapporti tra affari religiosi e secolari e, in particolare, tra Chiesa e Stato.
Non a caso la prima metà della lunga opera è una trattazione del pensiero di alcuni autori classici latini, Sallustio e Cicerone in particolare.
Essi erano, dopo tutto, gli scrittori sulle cui opere Agostino stesso si era formato come maestro di retorica; ai fini del proprio progetto per Agostino era essenziale poter dimostrare l’inadeguatezza del loro pensiero a paragone dell’insegnamento cristiano.
Ciò che mancava, secondo lui, nella precedente storia di Roma, e soprattutto nella Repubblica, nonostante i successi militari, era la giustizia, che comportava il giusto riconoscimento del divino; al contrario, lo Stato romano era basato soltanto sulla ricerca della gloria (Civ. Dei, 19., 21-4)
I pagani dell’epoca potevano replicare che il sacco di Roma dimostrava che il Dio cristiano, dopotutto, non proteggeva il suo regno, come sostenevano i cristiani; e tuttavia la loro storia, egli rispondeva, non era stata quasi altro che una serie di disastri, mentre il regno cristiano non doveva ancora essere eguagliato al Regno dei Cieli ed era ancora nel suo periodo di prova.
Questa era una visione meni ottimistica di quella di Eusebio di Cesarea, con il suo entusiasmo per Costantino; si aggiunge una maggiore asprezza per il fatto che Agostino compose la sua grande opera alla vigilia dell’invasione e della riuscita conquista della propria provincia del Nord Africa da parte dei vandali ariani.
Laggiù, il periodo di prova per i cattolici come lui doveva durare un secolo e doveva essere seguito, quando Costantinopoli la riconquistò nel 533-534 d. C., da un ulteriore divisione dottrinale, questa volta imposta da un imperatore d’Oriente nel nome dell’unità della Chiesa.
Pag. 106-7

Cap. 5. Il regno di Giuliano

Giuliano (361-363 d. C.) era il figlio più giovane di Giulio Costanzo, uno dei fratellastri di Costantino assassinati dall’esercito a favore dei figli di Costantino nei mesi successivi alla sua morte nel maggio del 337 d. C.
Soltanto Giuliano e suo fratello maggiore Gallo scamparono al massacri e furono lasciati in vita; a quel tempo Giuliano aveva soltanto sei anni circa.
Dei tre figli di Costantino che si divisero l’impero quando diventarono Augusti il 9 novembre 337, Costantino  2. fu ucciso nel 340, mentre cercava di invadere il territorio del fratello Costante nel Nord Italia, e Costante stesso, lasciato a capo dell’Occidente, fu ucciso da uan congiura di palazzo nel 350.
Così Costanzo 2. rimase unico imperatore e senza un erede.
Quando partì per vendicare l’assassinio di suo fratello contro Magnenzio, l’ufficiale dell’esercito che era  stato responsabile delle morte di Costante, e che ora si rifiutava di venire a patti, Costanzo fece Gallo Cesare e gli affidò l’Oriente.
Magnenzio venne infine sconfitto in Gallia nel 353 d. C., lasciando Costanzo unico ed incontrastato imperatore.
Pag. 109

Le caratteristiche ed il vigore di storico che Ammiano e, in particolare, la sua ammirazione per Giuliano, nel cui esercito servì come ufficiale, influenzano inevitabilmente la nostra percezione dell’intero racconto delle vicende che seguono, ma per fortuna, pur essendo di gran lunga lo scrittore più importante, non è la nostra unica fonte e può spesso essere integrato con opinioni differenti.
Abbiamo, per esempio, gli scritti dello stesso Giuliano, che ci mostrano un aspetto dell’imperatore su cui Ammiano non insiste, e quelli degli scrittori cristiani i quali, anche se pervenuti contro Giuliano, sono particolarmente importanti.
Pur essendo pagano, Ammiano non riteneva che la religione dovesse occupare il ruolo centrale nella sua opera, riconoscendo la priorità degli altri aspetti.
La sua più tradizionale attenzione per gli eventi politici e militari significa, peraltro, che la sua storia ci offre il quadro di gran lunga migliore dell’esercito tardoromano in azione.
I libri successivi sono alquanto diversi; a differenza della precedente narrazione, essi si concentrano si Roma e sono estremamente importanti per comprendere la classe senatoria tardoromana (cfr. cap. 9.).
Infine, la sua storia è piena di istruttive digressioni su tutti gli argomenti, che, oltre a fornire certi dettagli curiosi, alcuni relativi ai lunghi viaggi di Ammiano, ci consentono di individuare qualcosa del suo modo di ragionare.
Pag. 110

Giuliano era un idealista con opinioni e aspirazioni molto condivise e che molto oltre a lui stesso sentivano con passione.
Egli sembra aver avuto, inoltre, una personalità magnetica che attirava alcuni così come respingeva altri.
Se avesse avuto senso politico come imperatore in misura tale da corrispondere alla fiducia suscitata dalla sua carriera come Cesare, le cose sarebbero apparse molto diverse.
Il quadro del carattere dell’imperatore che ci offre Ammiano dopo la sua morte (25., 4) è ricco di lodi e risparmia le critiche; egli arriva a discolpare Giuliano dell’insuccesso militare imputando le responsabilità della ripresa della guerra contro la Persia a Costantino.
Ma questa interpretazione è in contrasto con la testimonianza del suo dettagliato resoconto e le critiche di Ammiano sulla superstizione di Giuliano e sulla sua passione per i sacrifici, sebbene suonino come una sostanziale condanna, tralasciano il fatto innegabile che egli si era alienato anche la propria funzione.
Inoltre, il ritegno di Ammiano quando vengono  affrontati i problemi religiosi lascia totalmente in ombra la violenza della reazione cristiana contro Giuliano, espressa da contemporanei come Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo ed Efrem Siro, il quali avevano tutte le ragioni di temere durante il suo regno che la sua politica avesse successo e di manifestare tutta la loro soddisfazione quando non ebbe buon esito.
Pochi contemporanei poterono permettersi di essere neutrali riguardo a Giuliano.
Ciò spiega perché le fonti a nostra disposizione su di lui sono in modo sproporzionato abbondanti, vista la breve durata del suo regno, e nella maggior parte dei casi estremamente tendenziose, una situazione che di per sé ha favorito lo sviluppo di romantiche opinioni moderne.
Pag. 117-18

Il mito di Giuliano aveva cominciato a formarsi quando l’imperatore era ancora vivo ed il suo breve regno lasciò un’impressione indelebile sia sui pagani che sui cristiani.
Ciò che aumenta l’intensità della sua storia non è tanto il suo interesse o la sua importanza intrinseca, quanto i sentimenti che egli ispirò negli scrittori contemporanei e in quelli successivi e la quantità di scritti che essi hanno prodotto.
Come ispiratore di Ammiano e soggetto della più drammatica e ampia sezione di quella parte della sua storia che è sopravvissuta, Giuliano acquista anche una statura maggiore di quella che effettivamente ebbe.
Con uno di quegli interrogativi impossibili della storia, ci chiediamo se sarebbe riuscito a restaurare il paganesimo qualora fosse vissuto più a lungo.
L’ironia sta nel fatto che non furono tanto le cause che egli aveva sposato, né la situazione storica contemporanea a provocare le difficoltà, quanto piuttosto il suo carattere e, in particolare, la sua indimenticabile e irritante combinazione di nobiltà d’animo ed arroganza.
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Cap. 6. Lo Stato romano tardoantico: da Costanzo a Teodosio

Sebbene in vari momenti diversi Augusti si siano trovati nello stesso tempo al potere, l’impero in sé non subì alcuna divisione formale nel periodo che va dalla morte di Costantino nel 337 a quella di Teodosio 1. nel 395 d. C.
Alla morte di quest’ultimo i suoi due figli, Onorio e Arcadio, ancora in giovane età, assunsero rispettivamente il controllo dell’Occidente e dell’Oriente.
Anche in questo caso, dal punto di vista costituzionale, non vi fu alcuna divisione ed il periodo tetrarchico forniva un precedente per una tale sistemazione.
La differenza principale fu che la divisione venne ora mantenuta senza interruzioni dal 395 d. C. fino a quella che è convenzionalmente considerata la fine dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d. C.
Singoli imperatori potevano subire l’autorità di un vescovo influente, come nel caso di Graziano e Teodosio con Ambrogio.
Infine, questo periodo è caratterizzato sia dalla crescente pressione delle invasioni barbariche, sia dall’uso sempre più massiccio di personale barbarico perfino nei ranghi più elevati dell’esercito romano (cfr. cap. 8.); dalla fine del quarto secolo in poi i generali di origine barbarica, tra cui uno dei primi fu il vandalo Stilicone, magister militum dotto Teodosio 1. e futuro reggente per i suoi due figli, giunsero ad avere un ruolo determinante nella politica imperiale che, nella parte occidentale dell’impero, finì per essere addirittura superiore a quello degli stessi imperatori.
Un importante fattore per spiegare la sopravvivenza dell’impero d’Oriente dopo il 476 d. C. consiste nel fatto che nella parte  orientale, durante il quinto secolo, si riuscì nel complesso ad evitare una simile situazione, con gli imperatori d’Oriente che fecero affidamento su funzionari civili piuttosto che su generali.
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Vi era insomma un esercito di funzionari: il sistema tardoromano sembra, ad un primo sguardo, corruzione sfrenata.
Ogni cosa era in vendita, incluso l’esercizio stesso del potere.
La ricerca dei codici e le colorite storie delle fonti letterarie, non ultimo Ammiano, gettano una luce fosca sul periodo che ancora costituisce, per molti storici moderni, soltanto il preludio del declino e della caduta dell’Impero d’Occidente.
Nel secondo secolo d. C., tuttavia, il principe nordafricano Giugurta aveva rivolto la medesima critica alla società romana e, a un più attento esame, viene da chiedersi se la situazione fosse veramente così negativa come sembra.
Molti degli organi propri di uno Stato moderno erano semplicemente inesistenti: per esempio, non vi erano forze di polizia per la caccia ai criminali o per far rispettare la legge, così come non vi era un sistema organizzato per l’assistenza legale o la rappresentanza delle parti nei processi (nonostante fossero innumerevoli le leggi da osservare).
Non vi era un sistema bancario in quanto tale e la protezione della salute era affidata ai personaggi che si trovavano sulla piazza: dai medici per i pochi, ai maghi e i guaritori per la massa; nonostante lo Stato avesse maggiore riguardo per l’istruzione, i suoi benefici erano riservati ad una stretta cerchia.
Alto era il numero  degli impiegati statali nel tardo impero romano: se però il loro numero viene confrontato con la percentuale di cittadini impiegati direttamente dallo Stato nelle moderne società sviluppate, esso si rivela insignificante.
Una larga fetta della popolazione non aveva alcun genere di rapporto diretto di “impiego” (lavoro salariato): o si apparteneva al gruppo dei patroni, soprattutto in qualità di ricchi proprietari terrieri, o a quello dei dipendenti (schiavi, affittuari, coloni); quest’ultimo gruppo comprendeva anche i diseredati delle città, la cui sussistenza era garantita dalle pubbliche distribuzioni o dalla carità religiosa.
L’Impero romano non differiva molto, eccetto che per la sua estensione, da altre società da altre società premoderne: le masse ricorrevano allo stesso tipo di espedienti, per lo più forme di patronato e di dipendenza, per riuscire ad aggirare i più elementari problemi di sussistenza.
Nella pratica questo sistema era accettato da tutte le componenti della società, ma alcune procedure messe in atto finirono per modificare il modello prestabilito, provocando la condanna degli imperatori.
L’orazione di Libanio, Sui sistemi di protezione, probabilmente del 301-392, si rivolge all’imperatore Teodosio affinché siano adottate da parte sua delle misure contro quegli ufficiali dell’esercito che riescono ad ottenere dai coloni di grandi villaggi denaro o pagamenti in natura in cambio di protezione, i quali, in seguito, fanno uso della protezione dei militari, da loro acquistata, per terrorizzare e sfruttare i loro vicini.
Secondo il punto di vista di Libanio, il rapporto di protezione tra il proprietario terriero e l’affittuario era da considerarsi scontato, ma una simile ingerenza da parte dell’esercito turbava lo status quo in misura intollerabile.
Nelle società con caratteristiche simili all’Impero romano tardoantico lo Stato viene considerato come un’entità distante e ostile ed è del tutto naturale che i suoi funzionari si servano di organizzazioni che estorcono denaro per la protezione, al fine di incrementare i propri guadagni.
Mutando prospettiva, però, abbiamo anche modo di notare come, nel tardo Impero romano, i ceti ricchi facessero a gara nell’esercitare il patronato diminuendo, o perché gli organi del governo non funzionavano in maniera adeguata, sembra infatti che fossero in crescita in questo periodo il bisogno di protezione, subordinazione e patronato e, con esso, le opportunità per i protettori.
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Se perfino gli Stati moderni hanno grandi difficoltà nell’escogitare sistemi di governo realmente efficienti, sarebbe anacronistico ipotizzare che gli imperatori tardoantichi o i loro ministri fossero in grado di concettualizzare i problemi del loro tempo, e assurdo supporre che essi avessero la capacità di dar corso a cambiamenti della portata che una tale concettualizzazione implicherebbe.
Il governo tardoromano tentava di gestire un vasto impero, in condizioni economiche e militari difficili, ma senza poter contare su nessuno degli strumenti che sarebbero stati necessari.
Gli imperatori avevano un ruolo religioso, morale e simbolico; rivolgevano molta attenzione alla sicurezza militare e cercavano di mantenere l’ordine: per ciascuno di questi scopi essi avevano bisogno di incamerare proventi.
Questo era quanto uno avrebbe potuto aspettarsi e fu, in molte occasioni, più di quanto si potesse veramente conseguire.
Considerate le precedenti consuetudini del mondo antico, la crescente complessità dei problemi che gli imperatori tardoantichi dovettero affrontare e la permanente carenza di un organismo governativo efficiente, ne consegue necessariamente la crescita del sistema delle protezioni con i molteplici riferimenti a forme di corruzione che noi troviamo nelle fonti: questi fenomeni, tuttavia, non sono estranei nemmeno agli Stati moderni che si ritengono sviluppati.
E’ stato perfino ipotizzato che il peggioramento delle condizioni economiche abbia provocato l’estendersi del fenomeno del patronato nel momenti in cui le classi più ricche entrarono in competizione per procurarsi ricchezza e prestigio, e i poveri ebbero un più forte bisogno di protezione.
Ma ciò vuol dire, ancora una volta,  dare per scontata la “decadenza”.
Gli storici moderni, poiché sanno a posteriori che la “decadenza” incombeva, tendono a concentrare il loro interesse sulle testimonianze negative.
“Decadenza”, però, può avere parecchi significati diversi; già solo i problemi organizzativi affrontati dall’amministrazione tardoantica erano enormi: qualsiasi lettore di Ammiano può avvertire si ala radicalità della contrapposizione tra gli estremi nella società, sia la consapevolezza dei rapidi mutamenti.
Tuttavia, mentre vi può essere stata uan qualche contrazione economica (cfr. cap. 7.), nessuno potrebbe figurarsi, attraverso Ammiano, che questa fosse una società in grave decadenza.
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Ad un primo sguardo, l’immagine della situazione che, in termini di libertà individuale, sembrano offrire le leggi che limitano la libertà di movimento è fosca.
Ancora una volta, comunque, viene da chiedersi se le cose fossero nei fatti veramente molto diverse da come lo erano state nel periodo imperiale precedente.
Infatti, immaginare l’esistenza di una sensibilità verso principi moderni quali i diritti umani sarebbe qualcosa di assolutamente anacronistico.
Né si può parlare di qualcosa che si avvicini vagamente alla nostra idea di democrazia: G. E. M. de Ste Croix, infatti, ha pienamente ragione a considerare la storia dell’Impero romano in termini di progressivo autoritarismo.
Per un altro verso, invece, i pasticci e l’inettitudine del governo e della legislazione tardoantica lasciavano aperte molte scappatoie: la massa delle fonti non giuridiche sembra indicare che l’esistenza di leggi, nei fatti, non facesse molta differenza.
Il problema, pertanto, può darsi che stia più nell’interpretazione della legislazione tardoromana, che non in ciò che di fatto poi avveniva.
Come anche per ciò che attiene le questioni relative alle leggi sul matrimonio, la dote e l’eredità (cfr. cap. 7.), sapere come si debbano valutare gli effetti pratici e la rispondenza alle situazioni reali di tale massa di provvedimenti legislativi spesso in conflitto tra loro e, di certo, frequentemente modificati, è uno dei problemi più difficili che gli studiosi di questo periodo storico sono costretti ad affrontare.
La politica degli imperatori del tardo quarto secolo rappresenta, in sostanza, la continuazione ed elaborazione del sistema creato da Diocleziano e Costantino.
Lo Stato romano della fine del quarto secolo differiva da quello del periodo precedente per quanto riguarda la sua spontanea evoluzione o il mutamento di fattori esterni, piuttosto che in conseguenza di un qualche importante mutamento di indirizzo.
Tra le trasformazioni più ovvie che un conservatore avrebbe notato ve ne sono due di cui abbiamo già parlato: l’accresciuto ruolo della Chiesa come istituzione e l’aumento di importanza dei vescovi, sia a livello centrale che nelle comunità di cui erano a capo.
Altre trasformazioni riguardano lo sviluppo della città di Roma nel quarto secolo, l’ascesa di Costantinopoli come capitale e, in particolare, l’impatto crescente delle invasioni barbariche nonché le difficoltà emerse nel tentativo di arginarle, il qual problema ingenerò in molti l’idea che si fossero indebolite le possibilità difensive di Roma o dell’esercito romano in generale.
Di ciò si discuterà nei prossimi capitoli, mentre il successivo affronterà alcune delle questioni di interpretazione emerse nel corso di questa discussione: ci si domanderà in quale modo possa valutarsi l’economia romana tardoantica nel suo insieme e si concentrerà l’attenzione su alcuni aspetti specifici dell’economia e della società del quarto secolo.
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 Cap. 7. L’economia e la società romane tardoantiche

Durante il regno di Costantino l’inflazione continuò a crescere ad un ritmo vertiginoso a dispetto degli sforzi fatti da Diocleziano per ottenere il controllo dei prezzi e riformare il sistema monetario.
Il pilastro centrale dell’economia era ancora rappresentato dall’agricoltura per cui, sebbene Costantino imponesse nuove tasse a senatori e commercianti, v’era ben poco da fare per determinare un globale mutamento.
Né delle considerazioni di carattere generale, né gli indicatori esistenti sembrano suggerire che l’effettiva contrazione della base economica, che probabilmente ebbe luogo nella metà del terzo secolo, abbia subito una significativa inversione di tendenza.
Se anche si nutre dello scetticismo circa le elevatissime cifre relative all’ammontare delle forze armate nelle fonti letterarie (cfr. capp. 2 e 8), resta comunque il fatto che si trattava di uno Stato fortemente oberato dalle spese militari.
Non sembra verosimile, inoltre, che l’imposizione fiscale potesse effettivamente portarsi ad un livello significativamente più elevato per il semplice fatto che la maggior parte dei contribuenti non avevano alcun modo efficace di incrementare il proprio surplus.
Né, comunque si sostenga spesso il contrario, la confisca dei beni dei templi operata da Costantino può davvero essere stata responsabile di una ripresa economica di vasta portata.
Si può osservare, infine, che, se è vero che, come un aspetto della sua manovra fiscale, Diocleziano introdusse le “fabbriche statali” (fabricae) che sono menzionate nella Notitia Dignitatum, e di cui quelle a Carnutum e a Ticinum erano specializzate, rispettivamente, nella costruzione di scudi e di archi, è anche vero che tali fabbriche furono istituite per far fronte alla necessità militari, piuttosto che per ragioni economiche di carattere più generale.
Se, dunque, si verificò un certo miglioramento economico nella prima metà del quarto storico, il merito va attribuito in larga misura al miglioramento dei sistemi di esazione in concomitanza con il ritorno a delle condizioni di relativa stabilità.
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L’effetto della svalutazione della moneta d’argento nel terzo secolo e delle varie misure fiscali di Diocleziano e Costantino fu quello di lasciare l’impero, nel quarto secolo, con un sistema basato essenzialmente su due tipi di monete: una in oro (solidus) ed una in rame.
La moneta d’argento, che pur continuava ad essere coniata, fu progressivamente soppiantata, come principale unità di conto, dal solidus.
A differenza dei denarii argentei del periodo più antico, il solidus non venne mai svilito e continuò ad essere adoperato fino all’epoca bizantina avanzata.
Ciò, comunque, dipendeva dalla disponibilità di regolari approvvigionamenti di oro che in un primo momento furono favoriti dalla combinazione di particolare circostanze e da misure allora prese, tra cui l’acquisizione, da parte di Costantino, delle ricchezze dei rivali sconfitti, la confisca dei tesori d’oro e d’argento appartenenti ai templi pagani nonché l’esazione di nuove tasse da pagare in oro ed il forzoso acquisto dell’oro dei ceti abbienti da parte dello Stato.
Ma un siffatto sistema monetario era ancora lontano dall’acquisire stabilità: un papiro del 300 d. C., per esempio, fissa il prezzo di una libbra d’oro a sessantamila denarii; il suo valore, però, salì poco dopo a centomila denarii e raggiunse i duecentosettantacinquemila alla fine del regno di Costantino.
Eppure una tale situazione, che sembrerebbe essere sostenibile, era di per sé in gran parte artefatta e non rappresentava le condizioni reali degli scambi di mercato.
Il problema consisteva nel fatto che circolavano troppe cattive monete, i nummi o folles (i denarii erano in questo periodo una semplice unità di conto teorica); inoltre, la responsabilità effettiva era, in gran parte,  del governo centrale dato che alle regolari coniazioni di rame esso non faceva corrispondere una manovra di prelievo fiscale nello stesso tipo di moneta.
Anzi, ne furono poste in circolazione ancor di più quando lo Stato decise di acquistare oro, in cambio di rame, dai cambiavalute.
Risulta per noi difficile concepire un sistema in cui monete dalle differenti denominazioni non erano, a rigor di termini, scambiabili fra loro; il fatto è, però, che gli imperatori tardoantichi erano ancora interessati alla circolazione monetaria in larga misura per scopi che li riguardavano direttamente: l’esazione di tasse, alcuni tipi di pagamenti, l’accantonamento di ricchezze nonché il prestigio.
La moneta d’oro e quelle di metallo cattivo non facevano parte di un sistema unificato e, finché la situazione non sfuggiva al suo controllo, l’autorità centrale non era troppo preoccupata di ciò.
In ogni caso, le soluzioni da seguire erano limitate; Valentiniano ricorse al comune espediente di emanare delle norme in questo campo (CJ 9., 11, 1, 371 d. C.), ma tale misura non equivaleva a mettere in pratica il controllo dello Stato in materia.
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L’istituzione della schiavitù (ci riferiamo in particolare all’uso della manodopera servile nella produzione agricola) ha assunto un posto di primaria importanza in ogni discussione relativa all’economia tardoromana.
In particolare, il ruolo della schiavitù nei sistemi economici del mondo antico ha rappresentato un punto di riflessione assai importante per la storiografia marxista, che ha sempre ritenuto che esista un’interdipendenza tra l’esistenza della schiavitù e il fatto che l’antichità classica finì per tramontare.
Recenti contributi  hanno portato il dibattito ad un livello di maggiore complessità, per cui non solo il concetto di un tipico “modo di produzione schiavistico” è stato sottoposto ad una critica radicale, ma si è fatto osservare come l’uso di schiavi nei latifondi privati non sia mai stato la regola al di fuori dell’Italia, e perfino qui lo è stato solo per un breve periodo e con molte limitazioni.
Allo stesso tempo, contrariamente a quanto si sosteneva in passato, è oggi assodato che nel tardo impero gli schiavi non furono sostituiti con lavoratori liberi, ma il loro numero continuò a mantenersi alto.
Tuttavia, dal momento che tra gli storici circola con persistenza da tempo (malgrado gli argomenti desumibili, comparativamente, da altri periodi storici) l’ipotesi che le grandi proprietà a conduzione schiavile debbano necessariamente esser state più produttive, è necessario domandarsi non soltanto se nei latifondi erano ancora impiegati gli schiavi, ma anche come questi fossero impiegati e in che cosa le loro condizioni differissero da quelle dei liberi.
Pag. 149-50

Molti aspetti riguardanti la schiavitù nel tardo impero restano incerti e la loro importanza non dovrebbe essere sopravvalutata né sminuita.
Dobbiamo ricordare che, in questo periodo, il numero degli schiavi poteva divenire elevato in alcune occasioni a seguito di conquiste (anche se i barbari prigionieri di guerra potevano anche essere utilizzati come coloni) e che, nel solco delle premesse gettate da Roma, la schiavitù continuò ad essere un’istituzione ben salda nell’Occidente medievale.
Però, come abbiamo osservato (cfr. cap. 6), la condizione degli schiavi impiegati nell’agricoltura e quella dei liberi coloni andò via via assimilandosi.
Per quanto attiene la conduzione delle grandi tenute nel tardo impero, non v’è dubbio che questa variò notevolmente.
Se per un verso la schiavitù, in questo periodo, non va vista secondo l’agghiacciante prospettiva di torme di uomini incatenati, non dobbiamo nemmeno abbandonare l’idea che l’azienda agricola basata su una conduzione centralizzata (domanial farming) abbia continuato ad esistere.
Pag. 152-53

Fu inevitabile che la Chiesa, quando il suo patrimonio prese ad includere proprietà terriere, facesse proprio lo stesso tipo di regole e comportamenti: in fin dei conti, la gran parte dei vescovi proveniva proprio dalla classe cui appartenevano i ricchi latifondisti.
 E’ dunque possibile vedere come, in questo periodo, la Chiesa di Alessandria sia impegnata in operazioni commerciali, proprio come si trova notizia nelle fonti di proprietari terrieri che registrano lauti guadagni grazie alla vendita di prodotti agricoli.
Infine, il modello di scambio non mercantile caratterizzava anche il sistema statale delle forniture ed elargizioni in natura.
Lo Stato aveva addirittura intrapreso la realizzazione di proprie strutture per la produzione di oggetti d’uso indispensabili, come le armi: anche se non possiamo assolutamente definirle come delle fabbriche in uan qualsiasi accezione moderna, trattandosi piuttosto di artigiani che lavoravano insieme, non di meno furono in grado di aggirare gli assai limitati processi di scambio di mercato effettivamente esistenti.
Pag. 153-54

Fu dunque la combinazione di molti fattori, in aggiunta a quanto osservato in generale circa il carattere rurale della società romana dell’impero e sulla natura delle città antiche, ad avere come effetto la diminuzione del livello degli scambi commerciali su vasta scala.
Gli storici che si interessano degli aspetti economici del mondo antico vanno, in questi ultimi tempi, dedicando sempre più attenzione agli scambi commerciali, come risulta chiaro dalla seconda edizione del libro di Finley The Ancient Economy, pubblicata nel 1985: in essa è stato dedicato al commercio uno spazio maggiore di quanto fosse nella prima e molto autorevole, edizione.
Pag. 155-56

Gli studi relativi a questo settore vanno evolvendosi con rapidità, per cui le generalizzazioni circa l’economia romana tardoantica sono necessariamente grossolane.
E’ tuttavia possibile, oggi, dare almeno inizio ad un più sicuro raffronto tra i dati oggettivi forniti dall’indagine archeologica ed il gran numero di indicazioni, che in taluni casi risultano fuorvianti, presenti nelle raccolte di leggi: in tal modo possiamo giungere ad avere un quadro della situazione più preciso di quanto non fosse possibile solo qualche tempo addietro.
Pag. 156-57

Anche i padri della Chiesa ebbero, per lo più, un giudizio negativo della donna, per quanto potessero coltivare singole ricche nobildonne; le donne erano viste come fonte della tentazione degli uomini, e molti scrittori cristiani erano dell’idea che non solo i rapporti sessuali, ma anche il matrimonio fosse di per sé un peccato.
Un vivace dibattito accesosi alla fine del quarto secolo concerneva la questione se Adamo ed Eva fossero stati esseri con pulsioni sessuali nell’Eden; molti sostenevano di no e che la sessualità, negli uomini, era stato il risultato del peccato originale.
Appassionata era anche la discussione circa gli esatti dettagli della nascita di Cristo, dato che erano in molti ad affermare che Maria aveva mantenuto la sua verginità durante e dopo il parto.
Per quanto inutili o assurdi possano sembrare, questi erano i fondamentali argomenti di discussione nell’interpretazione che la scienza teologica del tempo tentava dell’Incarnazione; questi argomenti, pertanto, avevano una parte rilevante nella controversia sulla natura di Cristo; la condizione della Vergine Maria fu il punto centrale della discussione al Concilio di Efeso del 431 d. C.
Tuttavia, sebbene sia vero che celibato e verginità venivano imposti agli uomini altrettanto che alle donne, si può facilmente notare come in genere fossero le donne ad avere il ruolo delle seduttrici e ad essere incolpate, coem Eva, per la debolezza sessuale degli uomini, non da ultimo per il fatto che gli autori di molti dei trattati sulla verginità ed il matrimonio erano, invariabilmente, degli uomini.
E’ di gran lunga più difficile stabilire quale fosse mai l’effetto che una simile campagna di predicazione e moralizzazione ebbe sulle abitudini sessuali dei singoli individui e delle coppie: sembra molto improbabile che idee tanto austere fossero messe in pratica già allora da una cerchia poco più ampia di una sparuta minoranza.
Ma anche nel caso in cui se ne sminuisca di parecchio l’importanza, è certo che le idee prevalenti di un élite che sia pronta a far sentire la propria voce alla fine influiscono, come è noto sulla base dell’esperienza moderna, sulle idee e sull’agire stesso dei singoli.
Pag. 164

I fattori chiave individuati sono l’accresciuta presenza di fattori coercitivi e la supposta alienazione dallo Stato di gran parte della popolazione: si afferma che fu questo l’elemento che, con altri, spinse la gente a fuggire in massa verso le popolazioni barbariche e ridurre lo Stato all’incapacità di trovare una soluzione ai problemi di carattere militare: “ci si abituò a considerare i barbari un male minore rispetto all’ordinamento statale romano”.
Il prossimo capitolo avrà come argomento di discussione le relazioni tra lo Stato romano tardoantico ed i barbari.
Per quanto riguarda le questioni generali, tali considerazioni di carattere storico dipendono non soltanto dalla prospettiva del singolo, ma anche da ciò che si va a guardare.
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Cap. 8. Le vicende militari, i barbari e l’esercito romano tardoantico

I mutamenti economici e sociali che si verificarono nel quarto secolo si successero su uno sfondo di continui conflitti militari di un tipo o di un altro.
Per quanto il regno di Diocleziano e la tetrarchia siano riusciti a dare un certo sollievo dalle difficoltà del terzo secolo, è difficile trovare un momento, all’interno del periodo preso in considerazione, in cui l’impero poté godere di una pace in qualche modo duratura; le inverosimili affermazioni dei panegiristi tendono più ad esprimere dei pii desideri che la realtà dei fatti.
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Le campagne di Gallia, sebbene presentate da Ammiano in maniera da accrescere il credito di Giuliano come militare, hanno comunque il merito di farci comprendere i problemi che Roma affrontava, causati dalle tribù barbare nella Gallia e nelle Germania.
Anzitutto, per Giuliano le cose non furono facili: le armi ci cui disponevano i romani non erano, di per sé,  superiori a quelle dei barbari; gli alamanni si erano spinti assai all’interno del territorio gallico e si erano sparpagliati di un così vasto numero di aree, che i romani potevano verisimilmente trovarsi accerchiati; infine, questi ultimi non potevano sempre contare su una benevola accoglienza da parte delle comunità locali, i cui abitanti non avevano imparato ad essere pronti ad aspettarsi qualsiasi cosa.
Nel suo racconto, Ammiano adombra la tesi che i barbari erano incapaci di condurre a termine un assedio con successo (16., 4): eppure è indubbio che molti centri, compresa Colonia, furono presi e distrutti o danneggiati.
Se anche i romani potevano conseguire un successo, come a Strasburgo, in grado di scardinare una pericolosa alleanza di tribù, il problema era di quelli a lungo termine, e già comportava la necessità di una difficile commistione di azione militare, iniziative diplomatiche e concessioni.
Pag. 170-71

Ma il più grave disastro di questo periodo nella parte occidentale dell’Impero, proprio quello che Ammiano considerò come sufficientemente importante da usarlo come il punto conclusivo del suo racconto storico, fu la sconfitta e la morte dell’imperatore Valente ad Adrianopoli nel 378 d. C. (31., 12-13), uno shock che diede un aspetto diverso alla situazione generale e che era stato causato da un certo numero di fattori diversi.
Apparsi per la prima volta intorno agli anni cinquanta del terzo secolo, al tempo in cui il racconto di Ammiano prende avvio, nel 354 d. C., i franchi ed altre popolazioni della Germania occidentale come gli alamanni sono un elemento con cui dover fare i conti: alcuni franchi, individualmente, hanno perfino trovato la via d’accesso ai quadri superiori dell’esercito romano.
Una cosa diversa fu lo spostamento verso Occidente, nel quarto secolo, dei tervingi, quelli che sarebbero divenuti i visigoti, degli ostrogoti ed altre genti germaniche provenienti da Oriente.
Già durante il terzo secolo queste genti avevano portato attacchi nel territorio romano dalle loro sei situate nella parte nord del Mar Nero, in specie durante gli anni cinquanta del terzo secolo, quando esse attraversarono proprio il Mar Nero e fecero incursioni nel Ponto, sulla costa turca del Mar Nero (Zosimo 1., 27, 31-6).
Nel quarto secolo, essi certamente controllavano ormai vaste aree a nord del Mar Nero tra il Danubio e il Don (la provincia romana di Dacia era già stata abbandonata da tempo); anche questi popoli servivano nell’esercito romano, per esempio durante la spedizione persiana di Giuliano (indicati come “sciti”).
Il vescovo ariano Ulfila, con il beneplacito di Costanzo 2., trascorse sette anni della sua vita a convertire i goti, fino a che non fu costretto ad abbandonare il loro territorio alla fine degli anni quaranta del quarto secolo: a lui viene attribuita la creazione di un alfabeto gotico e la traduzione della Bibbia in questa lingua (Filostorgio HE, 2., 5).
In breve, questo gruppo di goti venne ora spinto a mutare le proprie sedi dagli spostamenti verso sud e verso Ovest di un diverso popolo nomade, gli unni: essi provenivano dalle steppe dell’Asia centrale ed il loro aspetto era così insolito che i romani ne avevano un terribile e profondo terrore.
Ciò risulta evidente dalle osservazioni di Girolamo così come dalla famosa descrizione di Ammiano, in cui essi appaiono come esseri che hanno ben poco di umano, che si cibano di radici e carne cruda messa a frollare durante le loro marce, tra il dorso del cavallo e le cosce del cavaliere (31., 2).
Pag. 173

Lo stesso Valente rimase ucciso sul campo (31., 13; Zosimo 4., 20-24).
Alcuni autori hanno di recente sostenuto che per lo Stato romano la battaglia di Adrianopoli non fu, di per se stessa, un momento così cruciale o una tale catastrofe come si è spesso sostenuto, in primo luogo proprio da quegli scrittori delle generazioni successive al fatto, inclini a ricavarne uan morale religiosa o politica.
Così Ruffino, nella sua opera che è la prosecuzione in latino della Storia ecclesiastica di Eusebio, definisce questa sconfitta come “l’inizio delle calamità che ci furono in quel tempo e delle successive” (11., 13), mentre Zosimo la attribuisce all’opera del fato (4., 24).
Pag. 174

L’orazione di Temistio è però assai tendenziosa e se mai il tributo ai barbari subì una qualche interruzione, esso venne ristabilito dopo poco.
La politica di Teodosio non era altro che un palliativo che poco riusciva a fare per allontanare il pericolo o trovare una soluzione ai problemi basilari; questi problemi si complicarono durante gli anni tra la morte di questo imperatore nel 395 ed il 410 d. C., quando salì alla ribalta Alarico come condottiero dei visigoti.
Vi era ormai, in questa fase, la separazione tra l’amministrazione imperiale occidentale e quella orientale, la qual cosa rese più semplice per i capi barbari metterle l’una contro l’altra; durante questi anni, Alarico domandò coerentemente un pagamento annuale in denaro e vettovaglie, nonché per se stesso il grado di magister militum.
Stilicone cercò, in un primo tempo, di servirsi di lui, ma fu poi costretto a venire a battaglia con Alarico in Italia presso Pollenza (402 d. C.).
Cinque anni più tardi, nel 407 d. C., Stilicone stipulò un accordo con Alarico, di cui accettò le richieste in cambio della fedeltà; ma tali concessioni finirono per costare a Stilicone l’imputazione di “nemico pubblico” da parte dell’Impero orientale (Zosimo 5., 29; Olimpiodoro fr. 5).
Il governo orientale si volse ad osteggiare l’uso di generali barbarici e la guarnigione del goto Gainas fu massacrata a Costantinopoli.
Pag. 175-76

Quando però egli stesso cominciò a perdere il sostegno di altri goti, il suo esercito si abbandonò al saccheggio della città per tre giorni, verso la fine dell’agosto del 410 d. C.
Pag. 176

Dobbiamo anche tener presente il fatto che i contemporanea consideravano le invasioni in termini di scorrerie di singole genti, piuttosto che alla stregua di un processo a lungo  termine (effettivamente, i motivi che hanno determinato le invasioni sono, ai nostri giorni, lungi dall’essere chiari).
Il vecchio concetto delle orde barbariche “spinte” contro le frontiere dell’impero si è dimostrato completamente falso: anzitutto, l’effettiva consistenza di questi popoli doveva probabilmente essere alquanto ridotta; in secondo luogo, questo modello interpretativo non spiega perché gli unni stessi abbiano abbandonato le loro sedi nell’Asia centrale.
Allo stesso modo, l’”impero unni” di Attila (morto nel 453 d. C.) è un fenomeno appartenente al quinto secolo che si data a epoca successiva rispetto alle migrazioni e non ne fu la causa.
Un diverso tipo di spiegazione vorrebbe vedere lo spostamento degli ostrogoti in termini di mutamenti di condizioni economiche nell’area tra il Don e il Dniester, e vorrebbe situare l’intero fenomeno nel contesto del apporto tra comunità stanziali e comunità nomadi.
Gli uomini del tempo erano più inclini ad indicare, quale giustificazione alle incursioni barbariche, l’indebolimento della frontiera romana.
In pratica, gli imperatori del quarto secolo fino all’età di Teodosio 1. Furono, per lo più, in grado di tenere testa alla situazione creatasi, quantunque ciò richiedesse molto tempo e spesa; solo nel quinto secolo gli invasori riuscirono ad insinuarsi così profondamente entro il territorio romano da esigere di potervisi stanziare e da minacciare l’unità delle province occidentali.
E tuttavia, una volta che il processo ebbe inizio, proseguì con una facilità e velocità sorprendenti, considerato che una masnada di ottomila vandali era riuscita ad impadronirsi dell’intero Nord Africa romano nel 439 d. C.
In quel periodo, l’esercito romano occidentale era in serie difficoltà: su quest’argomento torneremo a breve.
Pag. 177-78

L’impegno romano nei territori della frontiera con l’Oriente, che era andato costantemente aumentando sin dal periodo della dinastia dei Severi, durante il quale essi riuscirono ad annettere la Mesopotamia settentrionale, area in cui si svolsero anche tutte le operazioni di guerra promosse da Costanzo 2., fu in questa fase estremamente intenso.
Non esisteva una frontiera naturale: nel quarto secolo, dopo la riorganizzazione ad opera di Diocleziano, le truppe romane vennero acquartierate in forti situati lungo la cosiddetta strata Diocletiana, una strada militare che andava dall’Arabia nord-orientale e Damasco fino a Palmira e l’Eufrate, e lungo un’altra strada da Damasco a Palmira.
Pag. 179

Quali che ne fossero le ragioni, concentrare l’attenzione sulle zone orientali di frontiera aveva implicazioni culturali oltre che militari: se ne discuterà nel capitolo 10.
Quanto alla presenza militare romana in Oriente nel periodo preso in considerazione, Isaac pone l’accento su tre importanti elementi distintivi.
Si tratta, anzitutto, di un’accresciuta attenzione verso la regione nordorientale dell’impero, a partire dalla fine del quarto secolo; questo interesse è connesso con la comparsa sulla scena degli unni, che già durante la metà del quarto secolo erano entrati in territorio persiano, e dopo il 394 avevano invaso Persia, Melitene, Siria e Cilicia.
L’Armenia era stata il centro di operazioni militari già sotto Diocleziano e nel 335 d. C. fu nuovamente invasa dai persiani; poiché era cristiana, dal 314 d. C., come lo era l’Iberia caucasica fin dal periodo subito dopo il 324 d. C., i fattori religiosi avevano reso queste regioni oggetto di disputa tra Roma e la Persia, e ciò era ancora un punto di controversia nel sesto secolo.
La stessa popolazione cristiana della Persia compariva nelle relazioni diplomatiche tra le due potenze sin dal regno di Costantino, la cui lettera a Shahpur 2. su questo argomento è conservata da Eusebio (VC 4., 8-13).
Pag. 181

Malgrado ciò, comunque vadano valutati i suoi scopi, l’intervento militare romano in Oriente continuò fino al sesto secolo; nel settimo secolo, l’imperatore Eraclio fu addirittura in grado (benché con grande difficoltà) di invertire gli effetti negativi della recente e disastrosa invasione persiana guidata da Cosroe 2.
Questa situazione è in netto contrasto con quanto avveniva in Occidente dove, già all’inizio del quinto secolo, le forze armate romane cominciavano a disgregarsi.
Le truppe di Roma furono ritirate dalla Britannia e da gran parte della Spagna; la facilità della conquista del Nord Africa da parte dei vandali può spiegarsi solo con l’assenza di una reazione romana: invero, non molto tempo prima, i soldati erano stati fatti affluire vi amare in Italia per essere impiegati nella guerra civile che qui si svolgeva.
Nella Gallia il progressivo stanziamento di gruppi di barbari, a partire dai visigoti in Aquitania nel 418 d. C., ridusse l’area geografica di competenza propria dell’esercito romano, i cui effettivi erano anche scesi.
la complessa situazione di questi anni, per i quali dobbiamo basarci su delle cronache galli che e spagnole, mostra chiaramente che il governo di Ravenna non era in grado di far altro che utilizzare un gruppo di barbari contro l’altro e, infine, stare a guardare la Gallia andare gradualmente in pezzi.
Un tratto distintivo di questo periodo fu l’avvenuto utilizzo, come mercenari, degli unni; un altro fu la rapida crescita dell’importanza di potenti generali come Flavio Aezio, colui che in pratica guidò l’impero d’Occidente dal 433 al 454 d. C.
Gli unni riuscirono ad estorcere un pagamento annuale anche dagli imperatori d’Oriente e quando l’imperatore Marciano (450-457 d. C.) mise fine ad esso, gli unni mossero verso Occidente ed invasero l’Italia nel 452; malgrado ciò, a seguito di uno straordinario colpo di fortuna per Roma, Attila, il re di questo popolo, morì improvvisamente l’anno seguente, dopo di che l’impero unno si sfaldò.
Cap. 183-84

Più volte gli studiosi hanno pensato (e Ferrill ha argomentato la questione come se si trattasse di una novità) che l’esercito romano fosse anche inefficiente dal punto di vista delle capacità di combattimento, ma ciò è difficile da provarsi.
Il declino delle capacità di combattimento dell’esercito romano viene ipotizzato in base a varie argomentazioni: anzitutto l’argomentazione, a priori, che i mercenari barbarici dovevano essere meno efficienti di un esercito formato da cittadini, specie se usato contro altri barbari; in secondo luogo, in ragione del fatto che la gran massa della popolazione che include, per definizione, la truppa, era malcontenta ed estraniata; in terzo luogo, in ragione del fatto che i cosiddetti limitanei posti alle frontiere erano dei contadini-soldati part time, che non ci si poteva aspettare che fossero di molta utilità in periodi di guerra aperta; infine, in ragione del fatto che, in sostanza, l’esercito romano tardoantico era spesso sconfitto.
Molte di queste argomentazioni sono altamente soggettive, sebbene scaturiscano da punti di vista diversi; tipica è l’affermazione che “il fatto che nel quinto secolo l’Impero romano d’Occidente non si trovò più in grado di tenere testa alle popolazioni barbare … fu soprattutto la conseguenza dell’allontanamento tra Stato e società (G. Alfoldy, Storia sociale dell’antica Roma, p. 297).
Per quanto riguarda i limitanei, siano essi stati dei buoni o dei cattivi soldati, il termine stesso non compare, a indicare le truppe di frontiera, prima della fine del quarto secolo e anche allora non denota una “milizia contadina”, ma solo “le truppe in una zona di frontiera”.
Questi soldati, pertanto, non possono avere la responsabilità, che è stata spesso loro addossata, del declino.
Pag. 187

Come J. H. W. G. Liebesschuetz ha fatto notare, la differenza stava nel fatto che nella parte orientale l’episodio di Gainas produsse una duratura avversione a dipendere da estesi reclutamenti di barbari; quando Uldin invase la Tracia nel 408 e venne sconfitto, i suoi uomini piuttosto che essere arruolati come federati, furono sistemati qua e là come coloni (CTh. 5., 6,3).
Il contrasto con la parte occidentale non poteva essere maggiore: alla caduta di Stilicone fecero seguito, nello stesso anno, la marcia di Alarico su Roma ed ulteriori anni di minacciosa ostilità ad opera dei vari capi barbarici e dei loro eserciti.
Ma la differenza va imputata anche a fattori strutturali più basilari, sia politici che economici; durante il quinto secolo, mentre l’Impero d’Occidente si andava frammentando e i suoi imperatori andavano divenendo più deboli e sempre più a corto di mezzi, la parte orientale vennero facendosi uniformemente sempre più prospera,. In grado di tenere a freno col denaro i barbari, se ve ne fosse stato bisogno.
Infine, la classe senatoria orientale, meno pomposa ma più integrata, permise che si sviluppasse un più stabile sistema di governo, basato essenzialmente su personale civile, coem possiamo osservare durante il regno di Teodosio 2. E il periodo successivo.
Pag. 189-90

Cap. 9. La cultura nel tardo quarto secolo

Per semplicità, questo volume separa nettamente i vasi aspetti sotto cui  osservare la struttura sociale tardoromana: l’economico, il militare, il religioso, il politico senza entrare nel merito della questione se questo tipo di classificazione è effettivamente il modo migliore di studiare il processo storico.
Con il termine “cultura” intendiamo quel nesso di idee e conoscenze da cui ogni società dipende per conseguire la propria identità di comunità e che vengono trasmesse attraverso il processo di apprendimento e di istruzione.
Questo, in pratica, comprende gran parte del materiale di cui ci siamo occupati nei capitoli precedenti: per esempio, la conoscenza del modo in cui la propria società è organizzata politicamente viene acquisita con l’apprendimento, non è innata, ed il consenso generale circa la struttura politica costituisce l’elemento che tiene insieme una società.
La religione appartiene  certo al regno della cultura e presuppone un certo punto di vista riguardo al modo in cui l’organizzazione del mondo è, o dovrebbe essere, strutturata.
Ma il termine “cultura” è anche generalmente adoperato in un senso più limitato, per indicare i campi del sapere, dell’educazione, dei costumi e dei gusti.
Ci si è abituati, nel mondo attuale, all’idea di una pluralità di culture e a considerare una società multiculturale come un auspicabile obiettivo; può riuscire difficile, tuttavia, che questo concetto (“i terrori della molteplicità”, secondo le recenti parole di uno scrittore) vada bene sia ai singoli individui che a gruppi sociali.
Al contrario, le società tradizionali sono, in genere, dominate da una sola cultura.
Sebbene fosse uan società tradizionale, tuttavia l’Impero romano, assai esteso geograficamente, comprendeva un gran numero di culture diverse.
Per di più, proprio la società tardoimperiale era in rapida mutazione sotto vari aspetti importanti: i barbari (stranieri) acquistavano un’importanza via via maggiore, servendo nell’esercito o insediandosi entro l’impero; la diffusione del cristianesimo comportava dei cambiamenti sociali ma anche religiosi; il divario tra ricchi e poveri si andava facendo, per certi aspetti, più consistente.
Tutto questo conduceva ad una realtà molteplice, ma talvolta allo scontro.
Pag. 191-92

Il travaglio afflisse a livello individuale: Girolamo si sentiva colpevole per il fatto che prediligeva Cicerone, mentre Agostino provò per tutta la vita questa lacerazione tra la cultura classica di cui si era imbevuto e che aveva lui stesso insegnato, e la sua più tarda convinzione che la conoscenza non poteva provenire dall’istruzione laica, ma solo da Dio.
Egli discusse direttamente di questo problema in due importanti opere, il De Doctrina Christiana (“Sull’istruzione cristiana”) e il De Magistro (“Sulla figura del docente”).
Un ulteriore motivo di tensione fu il fatto che il cristianesimo, di per sé, si rivolgeva ad uomini e donne di tutte le classi.
Questo non era certo il caso dell’istruzione classica e, per l’appunto, provavano disagio per la “semplicità” della letteratura cristiana che si ritiene si fosse sviluppata da ciò che essi chiamavano il sermo piscatorius (“la lingua dei pescatori”).
Arrivare da farsi capire anche da quei membri della congregazione non forniti di istruzione era visto come un importante dovere; vescovi come Ambrogio si preoccupavano dei mezzi per effettuare la conversione dei rustici (la popolazione rurale), Agostino possedeva una vivida consapevolezza di come giungere fino a loro in un sermone.
Si è giustamente fatto notare, però, che ciò non condusse ad un qualche programma di istruzione cristiano in quanto tale.
Gli uomini di Chiesa volevano operare delle conversioni, ma pensare di farlo nel contesto delle scuole o dell’innalzamento del livello di alfabetizzazione è un’idea moderna.
Per l’appunto, il livello generale dell’alfabetizzazione non crebbe in questo periodo: è più probabile che scendesse con il disgregarsi dell’impero d’Occidente.
Pag. 194

La cultura classica era una cultura elevata, limitata alle classi più ricche.
I libri, come l’istruzione, avevano un costo elevato e si potevano reperire con difficoltà; un’altra percentuale della popolazione più povera sarà stata analfabeta o quasi.
La limitatezza della cultura d’élite fu anche l’elemento che maggiormente ostacolò ogni possibile processo di amalgamazione tra romani e barbari.
Con l’affermarsi del cristianesimo i poveri e le classi inferiori furono oggetto di maggiore attenzione.
Pur stando così le cose, le tensioni culturali tra pagani e cristiani di questo periodo che ci vengono illustrate dalle fonti letterarie sono, in gran parte, quelle tra membri diversi della stessa classe.
Su costoro siamo ben informati, laddove scarsi sono i dati circa i molti cristiani delle classi inferiori facenti parte delle congregazioni cittadine, o quelli relativi all’estrazione sociale dei gruppi monastici che provocarono un tale stato di turbamento verso la fine del quarto secolo.
In maniera analoga, ad esempio, il paganesimo di Giuliano fu un fatto fortemente intellettualistico e, laddove abbiamo molteplici informazioni su problematiche come il neoplatonismo, sappiamo assai meno, a livello personale, sulla figura del pagano medio.
Pag. 197

La principale alternativa, sul piano intellettuale, al cristianesimo era il neoplatonismo, che possedeva anch’esso una sua particolare sfumatura distintamente religiosa e superstiziosa, specie in virtù delle pratiche teurgiche, una tecnica per invocare gli dèi con mezzi magici ed occulti; la teurgia si associò in particolare ad un filosofo degli inizi del quarto secolo, originario di Apamea di Siria, Giamblico, e fu trasmessa a Giuliano da Massimo di Efeso.
Scopo ultimo della teurgia, così come del neoplatonismo in generale, era l’unione dell’anima con Dio; le pratiche magiche ed i miracoli quotidiani erano semplicemente il primo gradino della scala che portava l’adepto alla sua unione mistica, dato che l’abilità del teurgo gli dava la conoscenza e la capacità di controllo del mondo fisico.
Nella sua opera Le vite dei sofisti, scritta intorno al 399 d. C., Eunapio ci descrive come Massimo poteva dar camminare le statue e come Giamblico poteva evocare le divinità.
Quest’ultimo scrisse un ampio commentario sui cosiddetti Oracoli caldaici, un insieme di scritti ritenuti rivelazioni oracolari in versi, concernenti Dio e la natura dell’universo, che egli presentò anche nell’opera Sui misteri, quale chiave ultima di comprensione della filosofia di Platone.
Ed invero in tal maniera le opere di Platone finirono per trovarsi nella condizione di libro sacro, una serie cioè di scritture filosofiche.
Pag. 207-8

Tra le opere di Platone, quelle che riuscivano più delle altre interessanti per i cristiani erano, dunque, il Simposio e il Fedro, che trattano il tema dell’ascesa dell’anima a Dio.
Altro tratto comune al cristianesimo e al neoplatonismo era l’enfasi posta sull’ascetismo ed il controllo delle passioni; Porfirio compose un’opera intitolata De Abstinentia ed una Lettera a Marcella (sua moglie), consigliandole l’astinenza sessuale.
Il De Abstinentia, come l’opera di Giamblico La vita pitagorica, propugnava il vegetarianismo, sul modello degli insegnamenti di Pitagora, predecessore di Platone.
Pag. 208

Nel secondo secolo, il periodo di maggiore floridezza dell’Impero romano, la cultura dell’élite fu straordinariamente omogenea per un’entità politica così vasta.
L’ideale di un’istruzione retorica era condivisa in tutte le province; ovviamente i suoi contenuti potevano cambiare a seconda che si fosse acquisita in latino o in greco ma, nel complesso, tra un’area ed un’altra c’era poca differenza di stili e concezioni.
Col tardo quarto secolo, anche se la retorica continuava ad avere il posto d’onore, vari fattori avevano cominciato ad avviare una diversificazione culturale di livello più ampio.
Uno di questi elementi fu il cristianesimo: da un aparte, con esso si prospettarono dei valori diversi e stili di vita alternativi; dall’altra, esso fornì nuove opportunità per mantenere in funzione l’istruzione retorica.
Altro fattore che mise in crisi le tendenze tradizionali fu la pressione esercitata dai barbari, sia a livello individuale che collettivo; a lungo andare, ciò avrebbe impedito la conservazione del vecchio sistema.
Un terzo fattore fu l’insorgere delle culture locali, che era stato un tratto caratteristico degli sconvolgimenti del terzo secolo.
Pag. 210

Se consideriamo il grado di mutamenti sociali e politici nell’Impero d’Occidente, risulta sorprendente la decisa continuità della cultura latina; ovviamente, nella parte orientale dell’Impero, dove esisteva una continuità di governo e di amministrazione e non vi erano insediamenti barbarici paragonabili a quelli dell’altra parte, esistevano condizioni più favorevoli perché continuasse ad esistere una letteratura classicheggiante in greco, sebbene anche in quest’area i mutamenti nella lingua parlata siano evidenti già nel sesto secolo.
Anche nel quarto secolo vi furono importanti mutamenti di ordine culturale che, per esempio, arrivarono a toccare il pur lieve aumento di importanza riconosciuto alle donne (cfr. cap. 7).
Non si trattò certo di rinascita o rivoluzione; nella società romana tardoantica non si stava attuando alcun fondamentale movimento economico o politico che possa paragonarsi a quelli che si verificarono in periodi successivi della storia europea.
E tuttavia, neppure il modello interpretativo convenzionale del declino corrisponde esattamente a ciò che si stava verificando.
Di certo, la gran massa di leggi nei codici sembra suggerirci che il governo, o gli imperatori, avevano la spiacevole consapevolezza che accadevano fatti i quali sfuggivano al loro controllo.
Le iperboliche espressioni retoriche cui essi facevano ricorso rappresentano il tentativo da loro messo in atto di arrestare i mutamenti di cui non riuscivano a scorgere le cause profonde.
Ma ciò, più che a totalitarismo, equivale ad una non invidiabile condizione di impotenza.
Volgersi ad altri testi e ad altre testimonianze può fornire un’immagine alquanto diversa di che cosa significasse vivere nel quarto secolo d. C.
Pag. 212-13 

Cap. 10. Costantinopoli e l’Oriente

Sorprende il grado di mistero che circonda gli inizi della storia di Costantinopoli, dai motivi personali che Costantino aveva per fondare la città col suo nome all’aspetto fisico di questa (cfr. cap. 3).
Ciò è dovuto in gran parte al comprensibile desiderio degli abitanti di epoche successive, i quali vivevano in un mondo diverso, di scrivere o riscrivere la storia delle proprie origini.
Poiché l’esatta conoscenza storica del periodo di Costantino era andata perduta a partire dal settimo secolo, se non da prima e Costantino stesso era divenuto una figura del mito e della leggenda, gli sforzi di costoro potevano ben condurre a risultati bizzarri.
Già nel sesto secolo la gente riteneva che la battaglia prima della quale si diceva che Costantino avesse avuto quella sua visione premonitrice fosse uno scontro con i “barbari”; ben presto i suoi antagonisti divennero i mitici giganti Byzas e Antes da cui, secondo l’opinione comune, l’esistente Bisanzio derivava il suo nome.
Possiamo vedere che gran parte delle motivazioni che stanno alla base di queste storie derivano dal fatto che con gli inizi del sesto secolo il ruolo e le funzioni di Costantinopoli avevano sostituito quelle di Roma, ormai sotto la dominazione ostrogota; gli abitanti di Costantinopoli, pertanto, avevano bisogno di credere che la loro città fosse stata destinata da sempre a tale ruolo.
Allo stesso modo si riteneva che anche l’antico Palladio di Roma, che, secondo la tradizione, Enea aveva portato lì da Troia, fosse stato trasportato a Costantinopoli, dove giaceva sepolto sotto la colonna costantiniana di porfido quale portafortuna della città.
Pag. 215

Abbiamo, ora, testimonianze di un’incipiente prosperità in alcune aree, che divenne così impressionante in Oriente nel corso del quinto secolo, proseguendo nel sesto.
Anzitutto, la Terrasanta stessa trasse dei benefici, durante il quarto secolo, dai viaggi dei pellegrini e da quei ricchi personaggi che vi fondarono monasteri e li dotarono di beni; a parte le proprie fondazioni, la stessa Melania inviò quindicimila solidi d’oro alla Palestina.
La Chiesa di Gerusalemme ricevette donazioni assai ricche già alla metà del quarto secolo, e la città stessa divenne un affollato centro cosmopolita, il cui trambusto fu successivamente criticato da Girolamo (Ep. 58., 4, 4, diretta da Paolino da Nola).
Egeria rileva che a Gerusalemme le funzioni si svolgevano in greco, ma con interpreti per la popolazione del luogo, di lingua aramaica, e traduzioni latine fornite da monaci e suore bilingui; la stessa cosa accadeva a Betlemme.
Gerusalemme e i luoghi sacri raggiunsero l’apice della loro prosperità nel quinto secolo, con il regno dell’imperatore Teodosio 2. e la protezione dell’imperatrice Eudossia.
Pag. 225
Tutte le valutazioni circa l’ampiezza della popolazione nell’antichità sono penalizzate dalla mancanza di dadi di carattere statistico e dalla fragilità delle argomentazioni basate sulle fonti letterarie, sull’archeologia degli insediamenti e sul numero e l’ampiezza delle chiese; le tendenze sottostanti della dinamica della popolazione sono solo imperfettamente comprese.
A partire dal tardo sesto secolo devono aver cominciato a farsi sentire gli effetti della grande pestilenza che colpì l’Oriente nel 451 d. C.
Ma per il periodo precedente al verificarsi di essa, ci sono testimonianze abbastanza solide id un consistente numero di insediamenti nell’Oriente in questo periodo, tali da dimostrare che le tesi espresse in passato di un universale declino demografico quale fattore responsabile del declino dell’antichità semplicemente non stanno in piedi.
Arrischiando una ipergeneralizzazione, si può dunque contrapporre Oriente ed Occidente non solo in termini di stabilità di governo e di debolezza di fronte alle incursioni barbariche, ma anche in termini di organizzazione economica.
Laddove in Occidente vi è una concentrazione delle grandi tenute con le loro economie basate sulla villa (cfr. cap. 7), nelle provincie orientali esiste un maggior numero di testimonianze sull’esistenza, in questo periodo, di piccoli contadini e di un’economia di villaggio, con paesi di una certa estensione, più piccoli di una “città”, e privi dello status di comunità cittadina (sebbene alcune “città” fossero molto piccole secondo i parametri moderni), ma che mostrano tracce di organizzazione e diversificazione sociale.
Anche all’interno delle categorie di “villaggi”, vi era grande diversità di dimensioni, dai ricchi villaggi nei pressi di Antiochia agli insediamenti molto più piccoli nell’Asia Minore ed in altre aree.
Inoltre, un villaggio poteva anche trovarsi all’interno di una tenuta assai estesa.
Queste comunità avevano degli “uomini eminenti”, attestati su iscrizioni e in fonti letterarie, e potevano fare offerte presso i santuari locali o costruire chiese o sinagoghe loro proprie.
Una semplice chiesa di villaggio di questo tipo, della metà del quarto secolo, è quella di Qirk Bizze, ad est di Antiochia, costruita secondo uno stile locale non diverso da quelli delle abitazioni appartenenti allo stesso periodo.
Alla fine del quarto secolo questo tipo di edificazioni cominciavano a farsi più ampie e più elaborate, un segno, di  per sé, che il villaggi andavano prosperando.
Una preziosa serie di papiri da Nessana, nel Negev, dove c’era anche una guarnigione, ci permettono di intravvedere le complicazioni della proprietà fondiaria in queste comunità in un periodo appena più tardo.
Sebbene molti siano ancora i problemi che devono essere risolti,  la continuità di tali insediamenti fino al sesto ed al settimo secolo e, in molti casi, il loro declino dopo questa data,  resta uno dei tratti più singolari delle province orientali nella tarda antichità.
Fu questo fenomeno, più che l’esistenza delle grandi città, che rese possibile all’Impero d’Oriente di evitare la frammentazione che ebbe a soffrire l’Impero d’Occidente; per di più, quando cominciarono a mostrarsi i segni di un declino appare avere alla sua base tanto fattori esterni quali la pestilenza ed un riaccendersi delle operazioni belliche, quanto ragioni specifiche ed esclusive delle province orientali.
Pag. 226-27

La condanna dell’arianesimo nel Concilio di Nicea del 325 d. C. non aveva risolto il problema dell’unità dei cristiani; al contrario, nel corso del quarto secolo, questo fatto portò ad una serie continua di dispute sulla natura di Cristo (“dispute cristologiche”) all’interno delle quali si svilupparono due correnti note come monofisismo e nestorianismo: entrambe furono condannate al Concilio di Calcedonia nel 451 d. C.
La prima corrente di pensiero sosteneva che Cristo aveva una sola natura, quella divina, mentre la seconda, che si identificava in Nestorio (eletto vescovo di Costantinopoli nel 428 d. C. e deposto dal Concilio di Efeso nel 431 d. C.), insisteva sulla separazione esistente tra le due nature, quella umana e quella divina.
Il problema stava nel fornire adeguate giustificazioni alla dottrina cristiana ortodossa secondo la quale la natura di Cristo era una e indivisibile, umana e divina allo stesso tempo, la qual cosa poneva grandi problemi di definizione.
Queste dispute, che si svolsero a partire dalla fine del quarto secolo, coinvolgevano un buon numero di questioni personali e locali, non ultima la supremazia di un seggio episcopale sull’altro.
Una delle prime fu la controversia intorno alla figura di Origene, un pensatore cristiano del terzo secolo di Cesarea di Palestina, cui si attribuiva, nei circoli antiocheni, di aver portato all’eccesso l’interpretazione allegorica alessandrina delle scritture, nonché di avere opinioni errate su altre questioni dottrinali.
Uno dei protagonisti principali delle controversie del quinto secolo fu Cirillo d’Alessandria, un abile uomo politico che era già vescovo quando Ipazia, filosofa pagana maestra di Sinesio, fu linciata nel 415 ad Alessandria da un gruppo di fanatici cristiani.
Non è un caso che, nel momento in cui molti personaggi contemporanei, da Giovanni Crisostomo a Girolamo, si trovavano impegnati nella questione origeniana, i due maggiori concili del quinto secolo, relativi alla natura di Cristo, abbiano avuto luogo in Oriente; essi furono e sono considerati dalla Chiesa come vincolanti: è comunque significativo il fatto che le controversie da cui essi furono determinati abbiano avuto origine nell’Impero d’Oriente.
Pag. 229-30

La caduta dell’Impero di Roma si colloca, convenzionalmente, nel 476 d. C.; dopo questa data in Occidente non vi furono più imperatori romani.
In maniera altrettanto convenzionale, viene in genere messo in evidenza il fatto che la linea di successione legittima continuò ad esistere nell’Impero d’Oriente, col suo centro in Costantinopoli, fino alla conquista delle città, nel 1453, da parte die turchi guidati da Maometto il conquistatore.
Il 476 d. C. risulta essere, più che altro, una data comoda per gli storici dato che, come si è già osservato, la debolezza degli imperatori del quinto secolo si era manifestata ben prima: in molti casi essi non furono che degli strumenti nelle mani dei generali che ricoprivano la potente carica di magister militum.
Fu l’ultimo di questi, Odoacre, a deporre il giovane Romolo Augustolo, imperatore per meno di un anno, e si autonominò rex (re) , titolo che a Roma per tradizione si detestava fin dalla cacciata dei re e la fondazione della Repubblica nel 510 a. C.
Già agli inizi del sesto secolo si erano venuti a formare parecchi regni barbarici che, in alcuni casi, furono i definitivi precursori degli Stati d’età medievale in Occidente.
Tra i regni più importanti ci fu quello degli ostrogoti in Italia, sotto il comando di re Teodorico (493-526 d. C.); dei franchi (detti anche merovingi), che venne a formarsi dopo la vittoria di Clodoveo nella battaglia di Vouillé del 507 d. C. e dei visigoti che, nonostante la sconfitta in quella battaglia e le successive disfatte ad opera dei franchi, riuscirono a fondare un regno unitario in Spagna alla metà del sesto secolo.
Perfino dopo che questi regni si furono costituiti continuò ad esistere un tale numero di tradizioni ed istituzioni romane che talvolta li si definisce società “subromane”.
In particolare, dalle famiglie romane di possidenti terrieri, con la loro forte tradizione culturale, vennero molti degli energici vescovi di questo periodo, ed il latino continuò ad essere adoperato come lingua amministrativa e della cultura.
Nell’ultimo capitolo abbiamo visto come in Oriente vi fossero già, alla fine del quarto e certamente nel quinto secolo, segni della prosperità e della crescita demografica che sono una caratteristica così marcata delle province orientali agli inizi del sesto secolo; il divario tra Oriente e Occidente, infatti, si andò allargando in maniera tale che l’imperatore Giustiniano (527-565 d. c.) fu perfino in gradi di porre in atto una serie di campagne militari finalizzate a ristabilire il controllo imperiale sull’Occidente.
La “riconquista” ebbe successo per un certo periodo, anche se Giustiniano aveva dovuto schierare le sue truppe pure contro la Persia lungo la frontiera orientale; tuttavia, c’erano stati troppi cambiamenti per un periodo eccessivamente lungo per permettere uan duratura restaurazione dell’impero ed i successori di Giustiniano ebbero addirittura difficoltà a mantenere un numero di forze adeguate sul fronte orientale.
Dopo le invasioni persiane agli inizi del settimo secolo e le conquiste arabe che ebbero luogo subito dopo, Oriente ed Occidente furono separati in maniera ancor più netta.
Agostino trascorse un periodo di 35 anni come vescovo di Ippona, sulla costa oggi algerina del Nord Africa, quasi al confine tra l’Algeria e la Tunisia: egli morì proprio quando i vandali erano passati dalla Spagna nel Nord Africa ed avevano iniziato la loro conquista della provincia.
La città di Dio è una delle sue ultime opere, scritta in arco di tempo di circa 14 anni e conclusa nel 427 d. C.
Alcuni degli aristocratici cristiani erano fuggiti da Roma nel Nord Africa quando Roma era stata saccheggiata da Alarico nel 410 d. C.; essi necessitavano di una risposta per le sarcastiche osservazioni dei pagani, secondo cui Dio aveva permesso che un tale disastro accadesse nonostante Roma fosse una città cristiana.
La risposta di Agostino si articolò si articolò in 32 libri di lunghe e spesso difficili argomentazioni.
Egli cercò sia di mostrare che la cultura pagana era manchevole e basata sull’errore, sia di convincere i cristiani dotti che costituivano il suo pubblico per quest’opera che anch’essi erano in errore se pensavano che il solo essere cristiani avrebbe loro garantito la felicità e la prosperità sulla terra.
Anzi, la città celeste, Gerusalemme contrapposta ad Atene, era un concetto spirituale che esiste in noi stessi e nella vita futura.
L’ultimo libro analizza in dettaglio il tipo di vita che le persone virtuose possono attendersi in paradiso dopo il giudizio che separerà i credenti dai non credenti.
Ma La città di Dio è anche  una grande opera di teoria politica che passa in rassegna ed interpreta la storia di Roma dal suo anno di fondazione secondo la tradizione, il 753 a. C., fino all’epoca cui viveva Agostino.
Egli intendeva dimostrare che il mondo era governato secondo un modello provvidenziale cristiano; pertanto, Agostino doveva dare una spiegazione del passato pagano di Roma agli occhi dei cristiani e rigettare le argomentazioni dei pagani, ossia che il sacco di Roma del 410 d. C. invalidasse la dottrina della provvidenza cristiana.
Così Agostino, egli stesso imbevuto di cultura classica, sostenne che la Roma pagana era basata sull’errore; non solo: neppure la Roma di Cicerone e di Livio era stata in grado di realizzare il modello di Stato che Cicerone teorizza nel De repubblica; ciò accadde, secondo l’opinione di Agostino, perché lo Stato romano non era basato sulla giustizia, il che vuol dire dare a Dio il dovuto come pure agli uomini.
Un’ampia sezione de La città di Dio è, in effetti, dedicata ai grandi scrittori latini classici, in specie Cicerone e Virgilio, dato che Agostino stesso conosceva la forza di attrazione che la loro opera esercitava sulle persone colte.
I lunghi passi relativi a Platone ed i suoi recenti seguaci, i neoplatonici, sono anche un riflesso delle simpatie intellettuali di Agostino, mentre si indirizzano alla principale alternativa di pensiero al cristianesimo.
Nondimeno, la posizione di Agostino non mostra cedimenti: Platone ed il platonismo possono rappresentare la forma più raffinata di pensiero filosofico, ma hanno torto, per il fatto che non hanno avuto la capacità di riconoscere il vero Dio.
Nel passato, insomma, i pagani erano stati indotti in errore, laddove l’Impero cristiano rientra nei progetti che Dio ha nei confronti del genere umano.
I cristiani, però, non possono aspettarsi automaticamente felicità e successo sulla terra.
Dio continuerà a metterli alla prova e a saggiare le loro qualità; per di più, gli esseri umani sono innatamente inclini al peccato, quindi devono lottar per agire rettamente con l’aiuto della grazia divina: i giusti riceveranno solo in cielo la ricompensa che meritano.
La città di Dio è insieme opera di storia, di filosofia, di teoria della politica e di teologia: queste varie componenti sono combinate in un unico, vasto disegno.
Ma, così come essa respinge in ultima analisi la validità di quella cultura classica nell’insegnamento della quale Agostino aveva speso la prima fase della sua vita, così essa rigetta il valore del passato di Roma e della sua  storia a paragone del presente cristiano, e rifiuta ogni genere di indagine critica sostenendo fermamente che sia la provvidenza divina a dirigere la storia.
Secondo tale concezione, il primo dovere di un governante cristiano è quello di imporre la vera fede.
Agostino giustifica, espressamente, le persecuzioni cristiane.
La città di Dio venne scritta perché Roma fu saccheggiata: il suo punto focale è Roma, il passato di Roma e gli scrittori di Roma.
Coloro che risiedevano in Oriente non lessero Agostino, sia durante la sua vita che successivamente: anche se il greco che egli conosceva era di un livello migliore di quello che alcuni studiosi vogliono riconoscergli, egli non si sentiva a proprio agio con questa lingua.
Un aspetto molto importante dell’eredità di Agostino è rappresentato dalla sua dottrina del peccato, destinata ad essere fondamentale per le idee della cristianità occidentale nel Medioevo e nelle età successive.
Egli riteneva che gli uomini e le donne fossero intrinsecamente peccaminosi e necessitassero della grazia divina per la remissione dei peccati; e contestò appassionatamente l’accentuazione posta dal monaco Pelagio, originario della Britannia, sul libero arbitrio.
La psicologia di Agostino può essere di una modernità sorprendente, così come la sua comprensione filosofica del linguaggio: le sue Confessioni sono uan pietra miliare nella storia del genere autobiografico.
Fu però la sua insistenza sulla fragilità umana e sulla subordinazione della storia al volere di Dio che ebbe un’influenza tanto straordinaria sull’Occidente medievale.
Tanto grande è la statura di questo personaggio che si tende a trascurare il fatto che la Chiesa orientale si sottrasse alla sua influenza per questo particolare aspetto, così come per altri e ancora rifiuta l’insistenza agostiniana sul peccato originale.
L’aspetto amaro della sua personale situazione di Agostino fu che, come anche il suo biografo Possidio sottolinea, dopo aver formulato la propria interpretazione cristiana della storia ne La città di Dio, la sua esistenza continuò fini a vedere addirittura la sua provincia invasa, le chiese profanate ed i fedeli uccisi o imprigionati.
Alcuni vescovi erano inclini ad abbandonare le proprie sedi vescovili per motivi di sicurezza, ma Agostino asserì con fermezza che il dovere di un vescovo era quello di stare con i suoi fedeli.
Gli venne, comunque, risparmiata la distruzione di Ippona: egli morì verso la fine del 430, un anno prima che la città fosse evacuata e parzialmente incendiata.
L’esercito romano in Nord Africa era diventato debole al punto da non poter offrire nessun tipo di difesa reale nei confronti dei vandali; per quella che era stata una delle più floride e tranquille province iniziò il periodo della dominazione dei vandali ariani, che durò finché Belisario, generale di Giustiniano, non vi giunse con l’esercito bizantino nel 533 d. C.
Il Nord Africa ci fornisce una vivida immagine del crollo del sistema imperiale in Occidente; in pratica i vandali entrarono in questa provincia, con le proprie mogli, i propri bagagli e i propri dipendenti – non si trattava proprio, globalmente, di forze molto numerose – ed incontrarono una scarsa, o addirittura nessuna forma di resistenza sia da parte delle truppe romane che da parte della popolazione locale.
Recenti ricerche hanno dimostrato che i motivi di quanto accadde sono da ricollegarsi più al progressivo indebolimento del governo centrale ed ai problemi generali che affliggevano l’esercito romano che non al declino economico a livello locale, dato che le città nordafricane e la stessa economia nordafricana erano fiorenti alla fine del quarto secolo.
Questo fatto ci riporta inevitabilmente a considerare il problema del perché l’Impero romano d’Occidente “decadde” o “cadde” nel quinto secolo.
Sono ormai inaccettabili quelle antiquate spiegazioni di carattere moraleggiante (sebbene ve ne siano ancora molte in circolazione), così come risulta troppo semplicistico attribuire la colpa alle invasioni barbariche (quantunque sia intrigante l’ipotetica questione di che cosa sarebbe potuto accadere se non ci fossero state le invasioni barbariche).
Una teoria più recente raffronta la caduta dell’Impero romano con quella di altre importanti culture della storia mondiale e cerca di darne una spiegazione in termini di crollo delle società complesse.
In breve, secondo questa teoria, a mano a mano che una società cresce, diviene sempre più differenziata da un punto di vista sociale e più complessa: solo perché questa possa stare in piedi si verifica un aumento proporzionale delle sue necessità.
Viene però un momento in cui il profitto marginale delle strategie di massimizzazione come la conquista o la tassazione, diminuisce sotto la pressione di “sollecitazioni continue, impreviste sfide e del prezzo eccessivo dell’integrazione sociopolitica”.
Segue, caratteristicamente, un periodo di difficoltà (stagnazione economica, declino politico, riduzione del territorio), cui succederà il vero e proprio crollo, a meno che non intervengano nuovi fattori.
Nel caso dell’Impero romano, delle sfide impreviste facevano parte la pressione permanente che proveniva da effettivi e da potenziali invasori, problema che l’impero non riuscì a risolvere o a contenere.
Molto, in questa analisi, ci è familiare, anche se essa poggia sulla discutibile ipotesi che lo sviluppo storico delle società sia di per sé in un certo senso storicamente determinato.
Tale teoria, perlomeno, permette agli storici romani di avere un atteggiamento più obiettivo nei confronti del proprio campo di indagine, nonché di vedere che i problemi affrontati dallo Stato tardoromano non erano unici nel loro genere e che nemmeno lo erano i tentativi, spesso inefficaci, di trovare delle soluzioni ad essi.
In questo caso particolare, bisognerebbe aggiungere a questa equazione la relativa mancanza sia di comprensione dei fatti economici che di strutture economiche, nonché l’incapacità del governo centrale, perfino dopo Diocleziano, di assicurare il benessere all’impero nella sua interezza.
L’Impero romano era da sempre in una situazione di equilibrio precario tra centro e periferia: la sua sopravvivenza era dipesa non solo dalla pace esterna, ma anche da un elevato grado di buona volontà all’interno.
Tra la fine del quarto secolo ed il quinto secolo tutti questi fattori furono messi a repentaglio.
Considerazioni come quelle svolte incitano a compiere dei confronti con il mondo moderno: questa operazione può aiutarci a capire il mondo antico solo a condizione che badiamo a stabilire paragoni tra gli elementi che si somigliano.
Nelle pagine di questo libri abbiamo notato che dietro le generalizzazioni usuali sulla società romana tardoantica si cela una grande varietà e diversità di fenomeni.
La tarda antichità fu un’epoca di rapidi cambiamenti che si manifestarono in aree diverse secondo modalità diverse.
Questa è anche una componente di rilievo per riuscire a spiegare la sopravvivenza dell’Impero d’Oriente dopo la caduta di quello d’Occidente.
Certo, nella parte orientale la ricchezza era distribuita in maniera più equilibrata e du maggiore il successo nell’allontanare la minaccia portata dai barbari del nord (a detrimento della parte occidentale).
A questo dobbiamo aggiungere il fatto che in questo periodo si impose un certo equilibrio delle forze tra l’Impero d’Oriente ed il suo maggiore rivale, la Persia sassanide; per quanto penoso od oneroso possa essere stato un singolo episodio, nessuna delle due parti cercò seriamente di distruggere l’altra.

Erano però le infinite piccole variabili locali che determinavano il quadro d’insieme.
Inoltre, sebbene ciò esuli dall’argomento di questo libro, nessuna di queste argomentazioni è in grado di dar conto della persistente capacità di sopravvivenza di Bisanzio alle disastrose catastrofi che ebbe a soffrire nel settimo secolo e nelle epoche seguenti, quando l’equilibro si infranse, sino al costituirsi dell’Impero ottomano.
Il senso del fluire ampio – ossia la longue durée – della storia si trova anch’esso celato dietro un tipo di approccio in qualche misura diverso da questo tipo di questioni.
Piuttosto che porre l’accento sulle divisioni e fratture sia l’Impero d’Oriente che quello d’Occidente possono essere considerati come qualcosa che appartiene alla più lunga storia dell’Europa e del Mediterraneo.
Questo particolare modo di affrontare i problemi ha anche il vantaggio di allontanare per un po’ le nostre menti dal problema dibattuto fino all’eccesso della fine del mondo antico, fornendoci invece la possibilità di volgere lo sguardo a particolari argomenti di discussione quali gli insediamenti, il clima, gli scambi e l’organizzazione politica all’interno di un periodo molto più lungo.
Le ricostruzioni degli storici moderni hanno anche molto a che fare con il tipo di dati che essi hanno adoperato: le fonti letterarie portano a concentrare l’attenzione su una serie limitata di questioni, tra cui quella, rilevante, del rapporto che esiste con il passato classico, mentre uno studio più ampio, basato maggiormente sulle testimonianze archeologiche e soprattutto quelle delle indagini di superficie, riesce a far sì che emergano tipi di problematiche alquanto diversi.
Visti da questa prospettiva molto più ampia, sebbene debbano certo essersi verificati dei sostanziali mutamenti politici in determinati momenti (la “crisi del terzo secolo”, seguita dalle riforme di Diocleziano, la frammentazione del governo romano in Occidente, l’invasione araba in Oriente), nessuno di questi fatti in sé modificò fondamentalmente lo status quo.
Invero, in alcune regioni dell’Impero d’Oriente si era raggiunta un’assai elevata densità di insediamenti al tempo dell’invasione araba, mentre l’effetto che quest’ultima ebbe fu all’inizio molto più limitato di quanto non si supponga di solito.
Piuttosto, questi momenti politici di svolta rappresentano delle fasi si un’evoluzione molto più lunga, alla fine della quale il baricentro si spostò verso il Nord Europa, mentre si stavano sviluppando le condizioni che portarono all’espansione ed alla crescita economica dell’età altomedievale.
In Oriente il trasferimento della capitale islamica da Damasco a Baghdad alla metà dell’ottavo secolo fu non solo di portata cruciale nel determinare il carattere del dominio islamico d’ora in avanti, ma pose anche fine agli effetti benefici dell’investimento effettuato per lungo tempo dall’Impero tardoromano nel Vicino Oriente.
In Occidente il governo imperiale romano fu sostituito da regni che gli successero, nei quali molti dei tratti peculiari del primo vennero mantenuti.
Ugualmente, in Oriente, la vita nelle regioni conquistate non fu immediatamente o totalmente cambiata dall’invasione araba.
In qualsivoglia momento la si collochi cronologicamente, la “caduta” dell’Impero romano non fu un singolo, drammatico evento che mutò l’aspetto dell’Europa e del Mediterraneo.
Il tema di questo volume è stato soprattutto il quarto secolo.
In questo periodo possiamo vedere tanto la capacità di ricupero del sistema imperiale romano, quanto l’inerzia tipica di una società premoderna.
La “crisi del terzo secolo” non sfociò in una rivoluzione, ma neppure, alla fine, gli imperatori del quarto secolo furono in grado di superare gli ostacoli che si frapponevano all’esercizio di un efficace potere.
Nello stesso periodo il cristianesimo ottenne il sostegno degli ambienti ufficiali, mentre il suo potente sistema istituzionale venne rafforzato da vantaggi legali ed economici.
Costantino aveva inconsciamente creato una Chiesa che per secoli avrebbe rivaleggiato col potere statale.
Durante il tardo impero non ebbe luogo alcuna fondamentale trasformazione economica: certo, ora la Chiesa assorbiva buona parte del surplus produttivo, proprio nel momento in cui le difficoltà di mantenere un esercito adeguato crebbero, per effetto delle pressioni esterne, ad un livello tale che il governo della parte occidentale finì per arrendersi.
I problemi politici, economici e militari che si conobbero in quest’ultima fase del sistema imperiale romano erano senz’altro, perciò, molo grandi e le fonti letterarie conservano un’eco di essi.
Da un punto di vista culturale, tuttavia, la tarda antichità fu molto diversa da ciò che questo modello suggerisce.
Diverso, mutevole, innovativo, contraddittorio: tutti questi aggettivi possono legittimamente attribuirsi al tumultuoso mondo di Ammiano Marcellino.
Per alcuni versi, si tratta di un mondo come il nostro, con i suoi rapidi cambiamenti ed il senso di trovarsi fuori posto che ad essi si accompagna.
Non è il mondo classico a noi familiare, ma è proprio questo che ne costituisce il fascino.

Bibliografia

Il tardo impero romano / A. H. M. Jones. – Il Saggiatore, 1973. – 3 v.
Il tramonto del mondo antico / A. H. M. Jones. – Laterza, 1982
Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto / P. Brown. – Einaudi, 1974
Storia sociale dell’antica Roma G. Alfoldy, . Il Mulino, 1987
Storia del mondo antico: evoluzione e declino dell’Impero romano. – Il Saggiatore/Garzanti, 1982
Storia del mondo medievale, vol. 1.: La fine del mondo antico. – Garzanti, 1983
Società romana e impero tardoantico / a cura di A. Giardina. – Laterza, 1986. – 4 v.
Storia di Roma /  a cura di A. Carandini … et al. – Einaudi, 1993

Introduzione

L’Impero romano e i popoli limitrofi / a cura di F. Millar. – Feltrinelli, 1968
Storia economica e sociale dell’Impero romano / M. I. Rostovzev. – La Nuova Italia, 1976
Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel terzo secolo d. C. / M. Mazza. – Laterza, 1973
Pagani e cristiani in un’epoca d’angoscia / E. R. Dodds. – La Nuova Italia, 1970
Pagani e cristiani / R. Lane Fox. – Laterza, 1991
I cristiani e l’Impero romano / M. Sordi. – Mondadori, 1990

Cap. 1. Le fonti

Lo spazio letterario di Roma antica. – Salerno, 1989-1991. – 5 v.
Storia dell’educazione nell’antichità / H. I. Marrou. – Studium, 1966
Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo quarto / a cura di A. Momigliano. – Einaudi, 1968
Il pensiero storico classico / S. Mazzarino. – Laterza, 1965-66

Cap. 2. Il nuovo impero: Diocleziano

La corruzione e il declino di Roma / R. MacMullen. – Il Mulino, 1991

Cap. 3. Il nuovo impero: Costantino

Roma: profilo di una città / R. Krauthheimer. – Edizioni dell’Elefante, 1981

Cap. 4.: Chiesa e Stato: l’eredità di Costantino

Religione e società nell’età di Sant’Agostino / P. Brown. – Einaudi, 1975

Cap. 6. Lo Stato romano tardoantico: da Costanzo a Teodosio

L’economia romana / A. H. M. Jones. – Einaudi, 1984
La schiavitù nel mondo antico /a cura di M. I. Finley. – Laterza, 1990
Egitto e storia antica dall’ellenismo all’età araba / a cura di L. Criscuolo e G. Geraci. – Il Mulino, 1989

Cap. 7. L’economia e la società romane tardoantiche

L’inflazione nel quarto secolo d. C. – Istituto italiano di numismatica, 1993
L’economia degli antichi e dei moderni / M. I. Finley. – Laterza, 1977
Nuove questioni di Roma antica. – Marzorati
Povertà ed emarginazione a Bisanzio / E. Parlagean. – Laterza, 1986
Pellegrinaggio in terra santa / J. Wilkinson. – Nardini, 1989

 

Cap. 8. Le vicende militare, i barbari e l’esercito romano tardoantico

Una cultura barbarica: i germani / E. A. Thompson. – Laterza, 1976
Storia di Attila e degli unni / E. A. Thompson. – Sansoni, 1978
La grande strategia dell’Impero romano / E. Luttwak. – Rizzoli, 1987
Per la storia dell’esercito romano in età imperiale / E. Gabba. – Patron, 1974

Cap. 9. La cultura nel tardo quarto secolo

Lettura e istruzione nel mondo antico / W. V. Harris. – Laterza, 1991
Cristianesimo primitivo e paideia greca / W. Jaeger. – La Nuova Italia, 1974
La fine dell’arte antica / R. Bianchi. – Rizzoli, 1976

Cap. 10. Costantinopoli e l’Oriente

Studi sulla città imperiale romana nell’Oriente tardoantico / A. Lewin. – New Press, 1991
La società e il sacri nella tarda antichità / P. Brown. – Einaudi, 1988 

Cronologia

Anni

Occidente

Oriente

224

 

Comincia la dinastia sassanide

241-272

 

Shahpur 1.

253-260

Valeriano

 

253-268

Gallieno

 

259-274

Impero gallico

 

272

Aureliano prende Palmira

 

284-305

 

Diocleziano

301

 

Editto dei prezzi

306

Costantino proclamato imperatore a York

 

312

Battaglia di Ponte Milvio

 

313

 

Editto di Milano

314

Concilio di Arles

 

324

 

Costantino sconfigge Licinio

 

325

 

Concilio di Nicea

 

330

 

Dedicatio di Costantinopoli

 

337

 

Morte di Costantino

 

350-353

 

Gallo Cesare

 

350-353

Magnenzio in Britannia

 

 

357-359

Giuliano Cesare in Gallia

 

 

359

 

Shapur 2. Cattura Amida

 

361-363

 

Regno di Giuliano

 

362-363

 

Spedizione di Giuliano contro la Persia

 

364

 

Gioviano cede Nisibi

 

364-375

Valentiniano 1.

 

 

364-378

 

Valente

 

378

 

Battaglia di Adrianopoli

 

379-395

 

Teodosio 1.

 

381

 

Concilio di Costantinopoli

 

382

Teodosio insedia i goti come federati

 

 

384

Graziano fa rimuovere l’altare della vittoria dal senato

 

 

387

 

Sommossa di Antiochia

 

392

Rivolta di Eugenio

 

 

394

Battaglia del fiume Frigido; suicidio di Nicomado Flaviano

 

 

395

Onorio regna in Occidente

Arcadio regna in Oriente

 

395-430

Agostino vescovo di Ippona

 

 

398

 

Giovanni Crisostomo vescovo di Costantinopoli

 

403

 

Primo esilio di Crisostomo

 

404

 

Crisostomo viene deposto

 

408

Caduta e morte di Stilicone

 

 

410

Alarico e i visigoti prendono Roma

 

 

429

I vandali si spostano in Africa

 

 

430

Morte di Agostino

 

 

           

Imperatori da Gordiano 1. a Teodosio 2.

I nomi in parentesi quadre sono quelli degli usurpatori, cioè degli imperatori non ritenuti legittimi; non tutti sono stati inclusi.
Le dare che si sovrappongono indicano regni congiunti

238

Gordiano 1.

238

Gordiano 2.

238

Balbino

238

Pupieno

238-244

Gordiano 3.

244-249

Filippo l’Arabo

249-251

Decio

251-253

Treboniano Gallo

251-253

Volusiano

253-260

Valeriano

253-268

Gallieno

259-268

[Postumo]

267-268

[Vittorino]

270-274

[Tetrico]

268-270

Claudio 2. Gotico

270

Quintillo

270-275

Aureliano

275-276

Tacito

276

Floriano

276-282

Probo

282-283

Caro

283-285

Cario

283-284

Numeriamo

284-285

Diocleziano

286-305, 307-310

Massimiano

286-293

[Carausio]

293-296

[Alletto]

305-306

Costanzo 1. Cloro

305-311

Galerio

306-307

Severo

306-337

Costantino 1., f. di Costanzo 1.

308-324

Licinio

308-313

Massimino, nipote di Galerio

337-340

Costantino 2., f. di Costantino 1.

337-350

Costante., f. di Costantino 1.

337-361

Costanzo 2. ., f. di Costantino 1.

350-353

[Magnenzio]

350

[Vetranione]

350

[Nepoziano]

361-363

Giuliano

363-364

Gioviano

364-375

Valentiniano 1.

364-378

Valente, fratello di Valentiniano 1.

365-366

[Procopio]

367-383

Graziano, f. di Valentiniano 1.

379-395

Teodosio 1.

383-387

[Magno Massimo]

392-394

[Eugenio]

383-408

Arcadio, f. di Teodosio 1.

393-423

Onorio, f. di Teodosio 1.

408-450

Teodosio 2., f. di Arcadio