Cap. 2. La Roma dei Tarquini

Roma emerge definitivamente dalle tenebre dalla protostoria alla fine del 6. secolo a. C. nel momento dell’istituzione della Repubblica. La monarchia lasciò in eredità la potenza politica (l’ampiezza dell’ager Romanus, l’egemonia sul Lazio), quella economica e culturale, e istituzioni civiche di una raffinatezza pari a quella delle strutture delle poleis più progredite della Grecia arcaica. Anche se poco più tardi l’egemonia sul Lazio subì una temporanea eclissi ed entro la comunità scoppiò un conflitto sociale lungo e accanito, le istituzioni politiche, l’ampiezza del territorio e le tradizioni egemoniche sopravvissero, rendendo possibile cent’anni dopo la caduta della monarchia la ripresa dell’espansione.
L’elemento cruciale di questa eredità – l’emergere di Roma come un gigante tra le città latine – fu, come abbiamo visto, opera delle prime generazioni dell’età monarchica. Gli altri elementi sono collocati dalla tradizione nei tempi dei tre ultimi re, che costituiscono una vera e propria dinastia: Lucio Tarquinio Prisco (616-578), il genero di costui Servio Tullio (578-534) e il genero, cognato (e uccisore) di Servio, Lucio Tarquinio il Superbo (534-509), figlio di Tarquinio Prisco. E’ per questo che Giorgio pasquali intitolò il suo celebre articolo del 1936, che valorizzava la tradizione della potenza romana nel 6. secolo, La grande Roma dei Tarquini. La mostra del 1990, intitolata allo stesso modo, consacrò – a quanto pare definitivamente – l’uso di questa espressione.
P. 31

Cap. 3. La prima Repubblica (509-396 a. C.)

Da tutto questo consegue che la forma romana del potere – due magistrati di pari grado, detentori del pieno imperium dei re – nacque assieme alla Repubblica. L’obiettivo degli autori di questa eccezionale soluzione costituzionale risulta chiaramente dal fatto che nel caso del dissenso tra i consoli aveva la meglio il principio della protesta: si cercava così di mettersi al sicuro dalla possibilità di un abuso del suo enorme potere da parte del console. L’altro principale mezzo di protezione fu naturalmente la limitazione dei poteri dei consoli a un anno. Il padre della Repubblica, Publio Valerio Publicola, ricoprì il consolato senza interruzione per i primi tre o quattro anni del nuovo regime, ma presto prevalse la regola per cui nessuno poteva detenere il potere supremo per due anni di seguito.
La sola eccezione al principio di collegialità fu la dittatura, attestata per la prima volta nel 501. Il dittatore, detentore del potere supremo, veniva nominato da uno dei consoli con un mandato che prevedeva un incarico concreto che esigeva il possesso dell’imperium maximum, come poteva essere un’emergenza militare o conficcare il chiodo nel muro del tempio capitolino; dopo la nomina il dittatore designava il suo magister equitum. Il dittatore poteva tenere la carica per sei mesi al massimo, ma normalmente abdicava dopo aver compiuto il suo incarico. La sola garanzia contro il potere in tutto e per tutto regale del dittatore era la regola secondo la quale il console che faceva la nomina aveva la facoltà di scegliere chiunque, anche il suo collega, ma non se stesso.
P. 60

Cap. 5. La conquista dell’egemonia nel Mediterraneo

Secondo la prospettiva delle radici greco-romane della nostra civiltà i più importanti conflitti armati dell’antichità furono indubbiamente le guerre persiane e quelle puniche: le prime, in quanto salvaguardarono l’indipendenza e l’identità culturale dei greci, consentendo loro di sviluppare senza più ostacoli la loro inconfondibile civiltà; le seconde, perché decisero una volta per tutte che Roma avrebbe dominato il mondo. Le guerre puniche – e concretamente la prima (264-241) e la seconda (218-201) – furono peraltro il maggiore conflitto armato dell’antichità anche il senso letterale, in considerazione della loro durata, dell’entità delle forze impegnate e dell’ampiezza delle perdite di entrambe le parti. La terza (149-146), più che una guerra, fu l’omicidio premeditato di una vittima inerme.
Le fonti conservate delle guerre puniche sono esclusivamente romane o filoromane e dunque tendenziose; questa constatazione va riferita in egual misura al greco Polibio, che passa per un modello di obiettività, e al romano Livio, del tutto innocente nel suo sciovinismo acritico. L’aver messo sullo stesso piano i due antagonisti è forse la deformazione più grave derivante dall’ottica romana delle nostre fonti, il fatto di guardare al conflitto romano-cartaginese come allo scontro di due imperialismi equivalenti, tutti e due decisi a neutralizzare il rivale e a conquistare, in una prospettiva ulteriore, il dominio del mondo. Questi sono scopo che si potevano semmai attribuire a Roma (che però costituiva un’assoluta eccezione tra le città stato mediterranee), in considerazione non tanto delle sue smanie imperialistiche in quanto tali, ma della formazione di meccanismi che fecero della continua espansione armata un suo tratto costitutivo e che le permisero di valersi di ogni nuova conquista per potenziare il proprio potenziale militare. Cartagine, come già in passato Siracusa, Sparte o Atene, possedeva, da parte sua, un proprio impero, ma non aveva realizzato una simile macchina da espansione militare; questo significa tra l’altro che le sue possibilità – e i suoi appetiti – di conquista erano incompatibilmente più modeste. Le guerre puniche furono lo scontro dell’imperialismo romano, del tutto unico e incontenibile nella sua sete di possesso, con il più efficace degli imperialismi di tipi tradizionale, di carattere e portata limitati.
In questo scontro Roma fu fin dall’inizio superiore al rivale in quanto a potenziale demografico, economico e militare; da questo punto di vista è possibile sostenere che i destini del mondo fossero decisi già dopo Sentino e che le guerre puniche furono semplicemente il banco di prova, peraltro severissimo, che misurò la potenza dell’Impero italico della repubblica e la sua resistenza, e allo stesso tempo il momento in cui le dimensioni di quella potenza si rivelarono al mondo intero. D’altra parte, anche se i romani intrapresero le guerre con Cartagine del tutto consapevoli della propria superiorità, il loto andamento fu per loro assolutamente sorprendente e lo stesso risultato finale rimase aperto fino all’ultimo momento. I Cartaginesi si dimostrarono altrettanto resistenti dei Sanniti; oltretutto, per vincere contro di loro la prima di queste guerre, degli animali terricoli come i Romani furono costretti a dominare un elemento che fino ad allora era per loro sconosciuto e che si rivelò più che mai impegnativo, il mare. Nella seconda, invece, il loro impero venne a trovarsi sull’orlo del baratro a causa di un fattore il cui peso, nonostante il precedente di Pirro, non era prevedibile: un condottiero dell’inimmaginabile genio tattico.
P. 126-27

Quando poi il successore di Filippo, Perseo (dal 179), tentò di riallacciare le relazioni interrotte con gli stati greci, e in particolare con il più forte e autonomo di essi, la Lega achea, il senato prese le decisioni di distruggere il suo regno. La propaganda romana accusò il re di accingersi alla vendetta, ; il pretesto arrivò da una provocazione allestita grossolanamente dal compiacente Eumene di pergamo, il quale, mentre faceva ritorno nel 173 a Roma, dove era andato per aizzare la repubblica contro Perseo, mise in scena un attentato contro se stesso in prossimità di Delfi, incolpandone il re di Macedonia.
P. 161

In realtà questi casi sono solamente la prova della propria assoluta superiorità sugli altri, di cui si diceva poc’anzi. Azioni volte a salvare la faccia sono tipiche di chi è cosciente della propria inferiorità. Fu esattamente il senso della propria debolezza che nel 1914 spinse la Russia a ritenere inammissibile un’ulteriore umiliazione da parte dell’Austria-Ungheria e di conseguenza a lasciarsi trascinare in una guerra i cui effetti catastrofici per il suo impero erano ben chiari a tutti quelli che avevano preso quella decisione. Roma, invece, non lasciò mai che l’attenzione per le questioni altrui dettasse la propria politica, né a lungo né a breve termine. Tanto per ricordare un caso, a suo modo estremo, come quello che ebbe luogo in Siria nel 162: se nel 219 Annibale aveva reagito in modo sorprendentemente rapido e risoluto alle provocazioni saguntine, tanto peggio per i Saguntini. I Romani avevano preso già le loro decisioni sulla politica di quell’anno, specialmente quella di mandare entrambi i consoli in Illiria; rimasero pertanto a osservare inerti un assedio di otto mesi, finito con la distruzione dell’alleato, che essi stessi avevano spinto a muoversi contro i Cartaginesi. La coscienza della grandezza della propria potenza e della sua preponderanza sugli altri, quale era stata raggiunta nella seconda guerra punica e verificata poi a fondo nei primi decenni del 2. secolo, fece si che le decisioni romane se intervenire o non intervenire, guerra o pace, annessione o non annessione, furono dettate fondamentalmente da considerazioni interne. Questa era la sostanza dell’imperialismo romano all’epoca dell’espansione della repubblica al di là del mare.
P. 181

Cap. 6. Società e Stato in età mediorepubblicana

Esamineremo ora le vicende interne della repubblica che avevamo lasciato agli anni 343/341, nel momento in cui l’inizio della seconda fase dell’espansione militare di Roma, questa volta inarrestabile, rese acuto il problema delle modalità con cui sfruttare la vittoria. Il “contratto sociale” concluso attorno al 342/341, che garantiva alla comunità romana la partecipazione ai profitti derivanti dall’impero, rimase in vigore per duecento anni, prima di venire apertamente rotto da una delle parti nel 133. Nel frattempo la repubblica, da principale potenza laziale, era cresciuta fino a diventare la signora del mondo, il corpo della sua cittadinanza si era decuplicato, la sua struttura economica e sociale si era trasformata completamente, le istituzioni dello Stato e le regole della vita politica avevano subito una profonda evoluzione. Ciò nonostante gli anni 343/341.133 costituiscono per la storia di Roma un periodo profondamente unitario proprio perché fu questa l’epoca di quel “contratto sociale” dal quale derivò una relativa pace interna. La stasis (“turbolenza interna”) era iscritta nella natura della città-stato antica; Roma però per duecento anni seppe tutelarsi dalle sue troppo violente e in  particolare dallo spargimento di sangue dei suoi cittadini per ragioni di politica interna, arte che non le era riuscita in precedenza e non le riuscirà più in seguito.

 

 

 

Cap. 7. La “rivoluzione romana” e la fine della repubblica

  1. I Gracchi e la rottura del contratto sociale repubblicano (133-91 a. C.)

Gli antichi erano consapevoli del fatto che il tribunato di Tiberio Gracco fu un momento di svolta nella storia della repubblica. Dopo il 133 niente restò più come prima; ma, soprattutto, il colpo inferto con la gamba di una panca che spezzò la vita di Tiberio fu l’inizio di un secolo di lotte fratricide, alle quali pose fine l’instaurazione di un dispotismo militare detto convenzionalmente “impero”. Anche gli studiosi contemporanei guardano agli eventi del 133 più che altro secondo la prospettiva di quello che accadde più tardi, chiedendosi se i meccanismi propulsivi della rivoluzione romana che furono messi in moto dal tribunato di Tiberio avrebbero potuto svilupparsi nel quadro dell’ordinamento esistente; in altre parole la rivoluzione romana era evitabile?
P. 229

Caio, Flacco e i loro partigiani si ritirarono armati sull’Aventino, la tradizionale rocca plebea, dalla quale tentarono un accordo con il console.
[Ecco il precedente dell’Aventino del 20. secolo]
P. 243

La municipalizzazione in molti casi significava l’urbanizzazione o almeno la creazione del nucleo religioso-amministrativo del nuovo centro. Unitamente alle distruzioni della guerra sociale e della guerra civile, che ne era la continuazione, e probabilmente con al disponibilità delle somme che un tempo venivano spese per l’allestimento e il mantenimento dei contingenti per l’esercito romano, questo fatto provocò un vero boom edilizio, che durante l’ultima generazione della repubblica trasformò profondamente il paesaggio italico. L’elemento urbanistico più caratteristico delle città italiche del tempo fu non i templi e i fori, ma le raffinate fortificazioni, testimonianza non solo di orgoglio e di patriottismo locali, ma anche della condizione di inquietudine (guerre civili e servili, banditismo) nella quali la penisola sarebbe rimasta fino ai tempi di Augusto. Dei cambiamenti particolarmente importanti intervennero nei territori transpadani, dove l’acquisizione dello ius Latinum accompagnò non solo la trasformazione dei locali centri in imponenti città, ma anche la centuriazione associata a una bonifica dei terreni di campagna.
P. 254

Nel 55 e nel 54 Cesare passò in Britannia e al di là del Reno, contro i germani, ma gli eventuali piani di conquista su questi territori andarono a monte per il fermento insorto tra i Galli, che si erano resi conto che alleanza con Roma significava sottomissione. Nel 53 insorsero i popoli renani, appoggiati dai Germani, mentre nell’inverno del 53/52 si giunse persino a una sommossa generale di quasi tutta la Gallia sotto la guida di Vercingetorige del ceppo reale degli Arverni. La soluzione arrivò nel 52 ad Alesia, dove Vercingetorige si era chiuso, assediato da Cesare, La disfatta dell’armata mandata in soccorso e formata da contingenti di tutti gli stati della coalizione antiromana, oltra la capitolazione di Vercingetorige, ebbe come conseguenza la fine dell’insurrezione; nel 51 vennero liquidati gli ultimi punti di resistenza.
P. 268

Questi esperimenti e anche il suo aperto disprezzo per le inefficienti istituzioni repubblicane, ma soprattutto il fatto imperdonabile che un singolo esercitava e intendeva continuare a esercitare un potere che spettava a tutta l’élite lo portarono a morte per mano dei membri di una congiura organizzata da Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Longino; tra essi, accanto agli ottimati e ai pompeiani, si trovarono alcuni dei suoi amici più stretti (Decimo Giunio Bruto Albino, Caio Trebonio), incapaci di accettare le aspirazioni monarchiche del capo.
[Esempio di capo solo al comando]
P. 274

 

 

 

Cap. 8. Augusto e la formazione del principato (30 a. C.-14 d. C.)

  1. La monarchia del restitutor rei publicae

Nessuno, a quanto pare, dopo Azio si aspettava che il giovane Cesare cedesse il potere (come aveva più volte promesso durante la guerra di propaganda con Antonio); ed è anche poco probabile che fossero in molti a desiderarlo sinceramente. I gruppi che contavano – la plebe urbana, i veterani, i soldati – avevano già da prima optato per il monarca. Meno di tutti erano interessati al rovesciamento del nuovo stato di cose coloro che  a fianco dei triumviri avevano conseguito posizioni più importanti e colossali patrimoni, , dando vita a un’élite nuova ed eterogenea (gli Italici che avevano ricevuto  la cittadinanza nell’88/89 più gli eredi dei migliori cognomi storici di Roma). Ma anche costoro, ai quali gli anni che seguirono la morte di Cesare avevano portato solo perdite, probabilmente non rimpiangevano la “libera” repubblica. I lamenti per gli orrori delle lotte fratricide, la stanchezza per la guerra in generale, la nostalgia per la pace, che affiorano in quasi tutte le opere letterarie conservate di questi anni, dovevano essere universalmente condivisi.
Altrettanto universale era la consapevolezza che a recare tale pace poteva essere solo il potere di un singolo. I “liberatori” potevano ancora illudersi che, uccidendo il tiranno, avrebbero riportato la libertà; dopo le esperienze degli anni 44-30 fu chiaro che, qualora fosse andata a buon fine una delle numerose congiure contro il vincitore, ormai il suo unico risultato sarebbe stato la sostituzione del signore assoluto.
Nessuna congiura ebbe successo e il diciannovenne, che all’inizio della sua carriera era il più giovane dei signori della guerra del tramonto della repubblica, visse ancora 57 anni, 43 dei quali come signore esclusivo di tutto l’impero. Quando morì, la forma di governo da lui creata esisteva nei suoi elementi fondamentali già da una generazione. Questo lunghissimo regno (in seguito il maggior rivoluzionario porporato, Costantino, regnò “solo” 31 anni, di cui 13 su tutto l’impero) doveva essere la sua carta decisiva, quella che gli diede ciò che era mancato a suo padre: il tempo necessario per creare e rafforzare quel nuovo regime che dopo la sua morte sarebbe durato per più di 200 anni,
P. 279

L’istituzione repubblicana alla quale Augusto riconobbe il ruolo più importante del proprio sistema di potere fu il Senato. Mommsen non esitò a dichiarare che la formula che meglio esprime l’essenza del principato è quella della diarchia del principe e del Senato (beninteso, esclusivamente nell’ottica particolare, cioè giuridico-formale, del suo opus magnum, che il principato fosse de facto una monarchia assoluta egli lo sapeva non meno di Syme che su questo punto lo criticò in “The Augustian Aristocracy”). Le competenze formali della curia e la loro evoluzione sotto il principato verranno illustrate in seguito; qui è sufficiente ricordare le sue due funzioni principali. In primo luogo, come abbiamo visto, appartenervi era il segno distintivo e la condizione dell’appartenenza al gruppo che occupava tutti i posti importanti dello Stato (sotto Augusto in pratica l’unica eccezione a questa regola era il posto di prefetto dell’Egitto). In secondo luogo il Senato conservò il ruolo di principale foro del dibattito politico e dei contatti ufficiali con il mondo; e anche se le decisioni negli affari di Stato venivano prese nel “gabinetto” del principe, la loro presentazione in Senato e il relativo senatusconsultum costituiva lo stadio successivo e indispensabile della loro promulgazione (a differenza dei comizi legislativi, convocati solo per le questioni di particolare rilievo).
P. 290

Cap. 9. Il principato e l’integrazione dell’impero

Convenzionalmente i termini temporali del principato, cioè l’autocrazia mitigata dalle forme repubblicane, sono: la determinazione da parte di Augusto della propria posizione nello Stato negli anni 27/23 a. C. da un lato e, dall’altro, il tracollo del sistema politico da lui creato nel suo punto più debole, la trasmissione del potere, negli anni 235/244/249 d. C. Questi termini coprono con buona approssimazione l’epoca della pax romana, quella della pace interna e (a partire dai successori di Augusto) del venir meno dell’aggressività verso l’esterno, quando, a parte le truppe concentrate ai confini, la popolazione dell’impero conosceva le guerre e le rivoluzioni dai racconti e dalle letture, e lo spargimento di sangue dai giochi dei gladiatori.
Esagerando un po’ si può dire che i 200 anni di storia politica dello Stato comprendente il bacino del mare Mediterraneo, l’Occidente europeo e i Balcani, si esauriscono – a parte due guerre civili (69-70 e 193-197), una fase di espansione esterna (101-117) e una grande guerra difensiva (166-180) – con le biografie dei singoli imperatori: i loro rapporti con il Senato, le occasionali spedizioni fuori Roma, la vita privata: tutti aspetti che per il ungo tempo ebbero un’influenza minima sul funzionamento della macchina statale e sulla vita della stragrande maggioranza degli abitanti dell’impero.
Nel frattempo nel quadro istituzionale e territoriale creato da Augusto ebbero luogo fenomeni dei quali almeno due avrebbero avuto un’importanza storica infinitamente maggiore – tanto in una dimensione universale che dal punto di vista dell’ulteriore storia di Roma – di qualsivoglia iniziativa dei sovrani nella sfera politica: la romanizzazione delle province, ma specialmente la nascita e lo sviluppo del cristianesimo. L’effetto cumulativo dei cambiamenti che intervennero nell’impero nel corso dei 200 anni successivi alla morte di Augusto non fu minore di quello arrecato dai 40 anni del suo regno; quelli però erano in maggioranza fondamentalmente di un’altra natura ed ebbero luogo per lo più fuori dal centro di potere, Roma, e persino fuori d’Italia.
P. 311

  1. L’esercito, i confini e la politica estera

Verso la vien del 2. secolo i territori sotto la diretta amministrazione di Roma erano decisamente più estesi che al momento della morte di Augusto. In Africa, dopo l’annessione del regno di Mauritania (40), il potere romano arrivava sino all’Atlantico e, all’interno del continente, fino a Casablanca e Atlas Tellien. In Asia la conversione in provincia Arabia del regno di Nabateo (107) fece avanzare l’impero fino ai margini della zona semi desertica, su tutta l’area compresa fra l’Eufrate e il Mar Rosso oltre l’Eufrate, sui territori compresi tra l’odierna frontiera siriano-irachena a sud (Dura Europos) quasi fono al Tigri a nord (SIngara), sorsero le province di Osroena (195) e di Mesopotamia (198); a sua volta l’annessione di Cappadocia (17) e del Ponto orientale (64) sottomise al potere di Roma tutta l’Asia Minore fino ai confini con l’Armenia. In Europa vennero ad aggiungersi nuove province: nel 43 la Britannia, nel 44 la Tracia e nel 107 la Dacia (Transilvania); contemporaneamente, sotto l’amministrazione romana si venne a trovare un cuneo tra l’alto Reno e l’alto Danubio (85), i cosiddetti agri decumates (“terre sottomesse alla decima”).
Dall’altro lato, in conformità con l’antica concezione dell’impero composto di province e di regni, l’unica acquisizione territoriale di Roma nel Vicino Oriente fu la Mesopotamia; nei rimanenti territori, un tempo sottoposti ai re-clienti, avvenne un passaggio da un controllo indiretto a uno diretto. Identica natura ebbe l’espansione romana in Asia Minore, Africa e Tracia. Nel giro dei 200 anni successivi alla morte di Augusto l’impero si accrebbe in termini reali della Mesopotamia, della Dacia, della Britannia e degli agri decumates. Fatto il paragone con il ritmo delle conquiste dei secoli precedenti, abbiamo pertanto il diritto di affermare che l’avvento del principato significò l’abbandono della politica di espansione svolta per 400 anni.
Abbiamo visto in precedenza che Augusto aveva le sue ragioni per porre un freno alle sue conquiste. Ma perché i suoi successori, con poche eccezioni, continuarono questa stessa politica? La domanda è tanto più opportuna se si riflette che la causa principale dell’arresto dell’espansione negli anni 6-9 d. C. – l’impossibilità di continuare le conquiste e allo stesso tempo di controllare i territori già conquistati con el stesse forze, relativamente esigue – ben presto cessò di esistere. Il processo di romanizzazione delle élites locali sotto il principato fu talmente rapido che la necessità di mantenere degli eserciti di occupazione nelle province veniva meno in media nel corso della terza generazione dopo la conquista. Nella seconda metà del 1. secolo era già possibile concentrare quasi tutto l’esercito sui confini dell’impero senza il timore che scoppiasse la rivolta tra i popoli battuti. Dalla volontà dell’imperatore dipendeva il suo impiego come strumento di ulteriori conquiste o come guardia di frontiera. Per quale ragione quasi tutti gli imperatori lo utilizzassero come guardia di frontiera è la domanda più importante di tutta la storia del principato. Il tentativo di rispondervi richiede però in primo luogo una presentazione di questo stesso esercito e dei modi della sua utilizzazione, cioè in pratica la presentazione della politica estera dell’impero.
P. 352-353

Questa decisione trasformò uno dei più grandi – e pagati a più caro prezzo – trionfi militari della storia di Roma in una delle sue maggiori sconfitte. Per 150 anni, avendo fissato per i barbari la frontiera non oltrepassabile sul Reno e sul Danubio, Roma era stata costantemente presente in Europa centrale, specialmente nella sua parte meridionale, tra i Carpazi e il Danubio, facendo sì che questa piano piano si integrasse politicamente ed economicamente, anche se non culturalmente (in mancanza di urbanizzazione), con il resto dell’impero. Le guerre marcomanne costituirono la crisi generale del sistema di stati vassalli, che Marco Aurelio aveva deciso di risolvere con la loro annessione. La decisione di suo figlio significò de facto la ritirata dell’Europa centrale. Reno e Danubio divennero il confine non solo per i barbari ma anche per i Romani.
P. 363

Per la maggior parte dell’epoca del principato il cristianesimo compare come fenomeno secondario: una setta diffusa, ma non troppo numerosa, fuori dal comune più che altro per il fatto che anche la sola appartenenza ad essa era un crimine, punibile in linea di principio con la morte. D’altra parte, appena 15 anni dopo la morte di Alessandro Severo, la Chiesa venne riconosciuta dal potere imperiale quale nemico degno della prima azione generale contro un gruppo religioso dai tempi della sanguinosa repressione sei seguaci di Bacco nel 186 a. C.; del resto vale la pena di aggiungere: stavolta con scarsi risultati per lo stesso potere (a dire il vero i mezzi usati furono completamente diversi). Senza sopravvalutare quindi il grado di penetrazione del cristianesimo nella società dell’impero fino all’inizio del 3. secolo, sono almeno due le questioni di fondo che occorre cercare di affrontare: i meccanismi che provocarono il costante sviluppo della Chiesa, nonostante la generale ostilità verso di essa (in altre parole: che cosa spingeva la gente verso il cristianesimo e faceva sì che perseverasse, nonostante i problemi e i pericoli che ciò comportava?), e la reazione nei suoi confronti della società e del potere imperiale (altrimenti detto: che cosa fece sì che essi vedessero nei cristiani i loro nemici, come manifestarono la propria ostilità nei loro confronti e perché le persecuzioni furono così poco efficaci?).
P. 392

Cap. 10. La crisi, la ristrutturazione e la spartizione (235-295)

La profonda crisi politica e militare il cui inizio, come si è visto, si può datare al 235, si aggravò nel terzo quarto del 3. secolo a tal punto da mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’impero. Ciò costrinse gli imperatori a ricorrere a misure straordinarie, con conseguenze economiche e sociali di ampia portata che, a loro volta, resero necessarie altre riforme. Risultato finale di questo processo furono una completa trasformazione delle strutture dello Stato e, per conseguenza, un cambiamento radicale del modo di governare. La creazione di un “nuovo impero”, per molti aspetti interamente diverso dal vecchio, non fu tuttavia la sola novità rispetto all’età del principato: la novità più importante fu l’impetuosa espansione del cristianesimo, contemporanea alla crisi e alla ristrutturazione dello Stato che ebbe come risultato, prima della fine del secolo 4., la quasi totale cristianizzazione dell’impero.
La nuova forma statale continuò a esistere fino agli inizi del 7. secolo ; anche l’organizzazione urbana della società si mantenne in molte parti dell’impero almeno sino alla catastrofica pestilenza della metà del 6. secolo (non meno rovinosa di quella che avrebbe devastato l’Europa verso la metà del 14. secolo). Fino a quel tempo non possiamo ancora parlare di una civiltà cristiana; gli abitanti dell’impero erano ancora, culturalmente, dei Romani di fede cristiana. Tuttavia, per quell’organismo politico che era lo Stato romano, la cesura decisiva fu l’anno 395. La divisione dell’impero che fu fatta in quell’anno – di per sé non dissimile dalle divisioni che erano state fatte più volte a partire dalla fine del 3. secolo allo scopo di rendere più efficiente il governo di un territorio immenso – si rivelò duratura a causa delle invasioni barbariche che inondarono una delle parti dell’impero quasi immediatamente dopo quella data.
Il caso fece sì che la divisione amministrativa decisa nell’anno 395 coincidesse quasi perfettamente con la divisione linguistico-culturale dell’impero che esisteva da secoli, e cioè con la divisione in una parte occidentale in cui dominava la lingua latina e in una parte orientale in cui dominava la lingua greca. L’inaspettata decadenza dell’Occidente latino intensificò le differenze culturali, ebbe dunque come conseguenza una divaricazione sempre maggiore delle due parti, tanto più che l’Oriente greco disponeva ormai di un proprio centro politico e ideale, di una nuova Roma: Costantinopoli. L’Impero romano, il cui centro si trovava nel Bosforo, mentre sulle rive del Tevere comandavano, dapprima de facto, più tardi de jure, capi, più o meno romanizzati, di bande germaniche, era cosa radicalmente diversa dall’impero di una volta: di qui la scelta dell’anno 395 come data finale di questo libro.

Il mezzo secolo di crisi tra il 235 e il 284 può essere diviso in tre fasi. Gli anni 235-249/51 sono quelli dei prodromi della crisi, l’epoca dell’erosione del precedente sistema di successione nella misura in cui cresceva la minaccia esterna e, collegata ad essa, un senso di impotenza fino ad allora ignoto ai Romani. Nella fase delle più gravi sconfitte militari, cominciata con la sconfitta di Decio nel 251 e che durò fino alla vittoria di Nasso nel 267, quando fu evidente che l’esercito non era l’unica istituzione a mantenere in vita l’impero, il patriottismo o l’istinto di autoconservazione indussero la maggior parte di esso a restare al fianco della famiglia imperiale, la cui autorità rese possibile la concentrazione delle forze per il raggiungimento del fine più importante: battere i nemici esterni. L’ultima fase fu la conseguenza della presa del potere supremo da parte di un gruppo di militari professionisti, che non possedeva un meccanismo definito di conquista o di trasmissione del medesimo; questo fece sì che i vittoriosi anni 268-284 fossero di nuovo una catena di cesaricidi e usurpazioni che resero difficile l’opera della restituzione dell’ordine nello Stato dopo le convulsioni degli anni precedenti.
P. 413

Cosa altrettanto importante, nonostante la perdita del controllo su parte del territorio e la disorganizzazione provocata dalle invasioni, lo Stato fu un grado anche negli anni peggiori di mantenere un enorme esercito, il quale, se pure non crebbe numericamente, richiedeva spese sempre maggiori, se non altro a causa del ruolo crescente della cavalleria, particolarmente costosa nel mantenimento. Tenendo presenti le condizioni nelle quali si era trovato l’impero, questa necessaria impennata delle spese statali doveva aver luogo nell’ambito del sistema fiscale esistente. In questa situazione l’unica via d’uscita era l’aumento dell’emissione di moneta, cosa che, di fronte alla mancanza di riserve di metalli pregiati, significò la drastica riduzione del loro contenuto nelle monete, specialmente quelle d’argento, la vera base della circolazione monetaria. La spirale della svalutazione messa in moto in questo modo in poco più di 10 anni distrusse il sistema monetario dell’impero.
P. 415

Riassumendo: negare la crisi o metterla tra virgolette è il frutto di una profonda incomprensione, derivante dall’assolutizzazione di certe categorie di dati – secondo Tamara Lewit non ci fu nessuna crisi, dal momento che (secondo lei!) gli studi del territorio dimostrano che l’estensione delle aree coltivate nel 3. E nel 4. secolo rimase fondamentalmente la stessa – oppure dalla limitazione dell’ottica di indagine ai territori dove si manteneva la prosperity: come se l’interrotta espansione delle esportazioni in Africa fosse in grado di cancellare lo stato di rovina nel quale nello stesso tempo era caduta la Gallia. Sembra che il merito principale dei revisionisti sia la messa in discussone della convinzione – condivisa da autori che hanno una visione storica assai differente, come Mario mazza da una parte e Gèza Alfoldy dall’altra -  secondo cui la catastrofe che si abbatté sull’impero alla metà del 3. secolo dovette essere provocata prima di tutto da profonde cause interne, alle quali la peste, i barbari e i Persiani, consentirono di venire ala luce. Non sembra che la crisi delle strutture statali negli anni 235-284 fosse l’effetto inevitabile di una crisi sociale ed economica più fondamentale; al contrario: la crisi sociale ed economica fu il risultato di una crisi politica e militare, suscitata da un unico fattore esterno – la comparsa di organismi aggressivi nei confronti dell’impero, dotati di una forza superiore alla capacità di resistenza del sistema militare esistente – al quale se ne sovrappose un altro, la peste.
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  1. La ristrutturazione: il nuovo impero (284-395)

La crisi dell’impero fece si che le considerazioni militari, prioritarie solo in alcuni momenti eccezionali nel periodo della pax romana, si venissero a trovare permanentemente in primo piano, subordinando a sé tutte le altre. L’adattamento delle istituzioni politiche dell’impero alla nuova situazione, iniziato da Diocleziano, venne fondamentalmente portato a termine sotto Costantino e, dunque, durò per due generazioni (284-337 circa). Effetto dell’azione degli imperatori riformatori fu quella fase dell’impero che tradizionalmente viene definito come “dominato” e, secondo la feconda definizione di Timoty Barnes, come “nuovo impero”. Il potere imperiale era quanto mai pronto a questo mutamento: gli imperatori erano sempre prima di tutto imperatori, bastò mettere definitivamente da parte la maschera dei principes con la quale per tre secoli si erano presentati all’élite e alla società. Per il Senato, invece, il processo di ristrutturazione non fu così facile; Costantino, a dire il vero, lo tirò fuori dalla soffitta nel quale era rimasto da Gallieno a Diocleziano, ma al prezzo di un significativo rovesciamento dei ruoli: una volta, per far carriera, bisognava diventare senatore; adesso l’ingresso in Senato era il segno della carriera compiuta. Ma soprattutto il nuovo impero metteva in discussione il paradigma, risalente ancora all’epoca ellenistica, del grande stato territoriale, che si accontentava in pratica di due soli livelli istituzionali: al vertice un centro autoritario, sotto di esso centinaia di migliaia di comunità autonome, le città. Le soluzioni dell’epoca della crisi – l’affidamento dell’amministrazione delle province agli ufficiali e la copertura dello sforzo militare mediante le requisizioni, pseudo-ricompensate con una moneta che si svalutava a un ritmo pauroso – erano semplici palliativi. Dopo che la situazione politica si stabilizzò, il gruppo al governo cominciò a creare una struttura intermedia, il cui compito era quello di trasmettere alla popolazione la volontà di potere e di vigilare che essa venisse eseguita, ma soprattutto di tenere sotto controllo i partner del potere da esso accettati a malavoglia e cioè le élites locali. La comparsa di un apparato burocratico, un vero e proprio corpo estraneo al mondo della civiltà greco-romana, fu la novità maggiore, dalle ripercussioni importantissime, anche se spesso contrarie a quelle volute, tanto per la società che per il potere.
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Ciò nonostante l’impotenza militare dell’Oriente durò in pratica fino alla fine del secolo, il che fece sì che esso non fosse in grado di impedire la caduta dell’Occidente. La caduta dell’Occidente sarebbe stata un processo lungo e a tal punto di difficile percezione (“la caduta senza rumore di un impero”, come scrisse Arnaldo Momigliano) che, anche se siamo d’accordo con l’opinione tornata nuovamente di moda che tra le date in lizza per segnare la sua fine il 476 è quella migliore, fu necessaria ancora una generazione, prima che a Costantinopoli qualche intellettuale riconoscesse che in quell’anno era successo qualcosa di importante. L’equivalente dello shock che sarebbe stato per l’Europa medievale l’anno 1453, per gli antichi fu il sacco di Roma da parte die Goti del 410. Ed è anch’esso una data simbolica: gli eventi che resero inevitabile la caduta dell’antica Roma occorsero principalmente negli anni 395-408
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