Introduzione

L’espansione presenta quasi sempre un duplice aspetto, militare e mercantile: l’uno o l’altro predominano a seconda delle epoche.
Nel 2. millennio, cli achei impongono la loro influenza la loro influenza a una parte del Mediterraneo orientale, ma il prodotti della loro industria penetrano molto più lontano, in terre che conservano una totale indipendenza.
Al volgere del 2. millennio  una serie di grandi migrazioni permette ai greci di conquistare al ricca frangia costiera dell’Anatolia.
L’età arcaica assiste allo sviluppo di un potente movimento colonizzatore, che porta tanto alla conquista di nuove terre, quanto all’apertura di sbocchi nel mondo barbaro.
L’epoca classica coincide con una pausa di questo slancio dal punto di vista politico, ma l’incremento del commercio offrirà alla grecità un campo di penetrazione sempre più profondo in alcune zone.
Nel momento in cui questi scambi vitali decrescono e la Grecia sembra minacciata dall’asfissia, il genio smisurato di Alessandro conquista l’Oriente achemenide.
Fin dal primo esame superficiale, la storia greca appare segnata non da uno sviluppo continuo, come nel caso così evidente del progressivo incremento della potenza romana, ma da una successione di pulsazioni in cui si manifesta un imperialismo ora politico, ora mercantile.
Sotto l’apparente improvvisazione si scorge una costante: la stretta necessità per il genio degli uomini di supplire alla povertà delle risorse naturali, d’inventare nuovi mezzi per evitare l’autarchia, generatrice di morte.
L’avventura greca è figlia della fame.
C’è dunque modo, fin quasi dai primi stanziamenti dei greci sul suolo dell’Ellade, di distinguere tra Grecia e mondo greco, che non coincidono mai, nemmeno nelle ore più buie.
In questo mondo greco bisogna includere sia i regni in cui i greci si stabiliscono come conquistatori, e le colonie, a volte unite a volte totalmente isolate in terra barbara; sia, in senso più lato, le regioni in cui, secondo un processo costante, e cioè attraverso il mezzo indiretto del commercio, penetra la grecità.
Il mondo greco anticipa molto evidentemente l’impero romano, che è stato il suo successore diretto ed ha largamente approfittato di questa unità mediterranea creata dall’ellenismo; ma si differenzia radicalmente da quest’ultimo, in particolare a causa della debolezza dei legami politici che lo stringono a una Grecia essa stessa divisa.
Scrivere la storia del popolo greco implica perciò molto sovente un ampliamento d’orizzonte, che porta lontano dal covo di Micene, dalle rive dell’Eurota e dalla collina sacra di Pallade, dove sotto forme diverse la civiltà antica conosce i suoi apogei, verso un mondo periferico che, spesso consciamente e deliberatamente, s’imbeve dello spirito greco.
Non ci si può quindi meravigliare della fortissima impressione di varietà che ne emana.
Già per natura i greci detestano l’uniformità: non hanno mai fatto due templi o due coppe che si rassomigliassero.
La storia di Atene è molto diversa da quella di Sparta o di Corinto, benché distino solo qualche decina di chilometri.
A maggior ragione è evidente che la civiltà greca sviluppatasi in Anatolia non può essere uguale a quella sviluppatasi in Egitto, in Gallia o nelle Indie.
A rischio di annoiare il lettore, dovremo sottolineare per ogni epoca delle distinzioni regionali che sono ben più che semplici sfumature.
Una tale espansione, per quanto vitale,  suppone una perseveranza poco comune nella ricerca dei mezzi più adatti per ovviare all’angustia del suolo ed alla scarsità delle risorse della Grecia vera e propria.
Simile allo scaltro Ulisse, che fu il suo eroe preferito, il popolo greco ha potuto sopravvivere solamente sviluppando una perpetua genialità inventiva.
Perché dunque meravigliarsi se all’avventura dei conquistatori o dei trafficanti si aggiunse ben presto un’avventura spirituale?
Per un lungo periodo, più o meno durante tutto il 2. millennio, solo il mito può rispondere in maniera adeguata agli interrogativi che angosciano l’uomo.
I miti dei greci formano un insieme estremamente delicato e sottile, e non è un puro caso se essi alimentano ancora oggi la riflessione dei drammaturghi e degli psicanalisti.
Poi, con un brusco risveglio del quale nessun popolo dell’Oriente ha conosciuto l’eguale, appare il pensiero razionale, padre della politica,  della filosofia e della scienza.
Ed ecco allora iniziare la meravigliosa sfilata di quegli sconosciuti che forgiano nuovi sistemi, più giusti e meno oppressivi, di vita sociale; ma anche di quegli “amici della saggezza” (poiché tale è il vero significato del termine filosofo) che fissano per l’uomo il suo posto nel cosmo e pongono le regole dell’etica, e di quei saggi innamorati della bellezza dei numeri o esegeti dell’armonia delle sfere celesti.
La letteratura e le asti, legate all’azione e opposte alla frivolezza più strettamente di ogni altra attività, si danno alle stesse ricerche e propongono l’immagine dell’uomo più profonda e più ricca di sfumature.
Se cercano la bellezza, è la ragione a comandarlo, poiché, secondo l’insegnamento di Platone, al bellezza è il risultato ultimo della dialettica.
Nell’anima greca tutto è congiunto in un’unità indissolubile, segno dell’autentica grandezza.
La tradizione non afferma forse che Talete e Platone non disdegnavano i profitti del commercio?
Sofocle non fu forse eletto stratega, per aver fatto rappresentare l’Antigone?
Profondamente innamorato della vita, che ha ancora valore poiché è di breve durata, il greco non tralascia alcun mezzo per renderla sopportabile e abbellirla.
Come Eracle seduto, secondo Prodico, all’incrocio di due strade, egli sceglie il ponos, lo sforzo doloroso e creatore.
Egli assume il suo destino d’uomo, preferisce aiutarsi che attendere l’aiuto degli dèi dell’Olimpo, detesta la rinuncia e la sottomissione.
Questo è il segreto di una vittoria unica, di una giovinezza che noi scopriamo estasiati in tutte le sue creazioni, quella che Plutarco riconosceva nei monumenti dell’Acropoli quando scriveva (Pericle, 13): “Ogni opera di Pericle, non appena conclusa, già sapeva d’antico in quanto a bellezza; e nondimeno, in quanto a grazia e vigore,  sembra ancor oggi che sia appena finita e compiuta, tanta non so qual fiorente novità si può trovare in essa, che impedisce all’ingiuria del tempo di guastarne l’aspetto.
E’ come se ognuna delle suddette opere avesse all’interno uno spirito che sempre ringiovanisse ed un’anima che giammai invecchia, da cui è conservata in questo vigore”.
Pag. 7-9

 

 

Libro primo. Preelleni e elleni: incontri e sintesi fino alla fine del 2. millennio.

Cap. 1. Il sorgere della Grecia, fino al 1580

E’ soprattutto partendo dallo studio dei toponimi che si è potuto determinare l’estensione della civiltà anatolica in Grecia.
In effetti, un certo numero di nomi di luogo, utilizzati in modo continuato nel 1. millennio a. C., e in molti casi fino ai nostri giorni, comportano dei suffissi inspiegabili in greco, che devono dunque rappresentare un substrato linguistico anteriore.
Largamente diffusi nel continente, come a Creta e nelle isole del mar Egeo, questi toponimi sono altrettanto numerosi in Anatolia.
Tali, per esempio, i suffissi in –nthos (Corinto, Tirinto, Erimanto, Zacinto…) o in –sso o –tt,  semplificati in –s o –t (Cnosso, Amniso, Tilisso, Ialiso, Parnaso, Imetto…), che si ritrovano nei nomi anatolici (come Labraundo, Alicarnasso, Asso).
Il terzo millennio rappresenta dunque il momento in cui montagne, fiumi e città ricevettero nomi che l’imposero malgrado le ulteriori invasioni.
Questi nomi, a lungo designati col comodo termine di preellenici o di egei, sono riconosciuti oggi come specificamente anatolici.
Essi permettono di seguire sul terreno quelle vaste migrazioni che, varcando il mare Egeo, hanno assicurato un nuovo popolamento non solo alla Grecia continentale, ma anche alle isole (in particolare le Cicladi) ed a Creta.
Grazie ad esse, il Mediterraneo egeo prende, nel terzo millennio, una nuova fisionomia: la Grecia continentale non è più isolata, come nel periodo neolitico, ma diviene partecipe di un’unica civiltà, originaria dell’Asia Minore, che regna dalla Macedonia fini a Creta.
Pag. 16-17

Per quanto riguarda le forme superiori della civiltà, conviene ancora essere prudenti; tuttavia un punto è sicuro: l’esistenza di palazzi, a volte già fortificati (Lerna, Egina), presuppone una forte organizzazione monarchica.
Ciascuno di questi regni doveva essere indipendente dai vicini ed anche questo fatto prelude al frazionamento politico della futura Grecia.
La lingua degli anatolici non è del tutto sconosciuta, non foss’altro che a causa dei toponimi.
Essa doveva d’altronde essere molto simile al cretese, del quale avremo occasione di riparlare.
Sulle credenze spirituali non possediamo molti dati.
Gli idoli femminili steatopigi restano numerosi e quelli delle Cicladi, che mostrano a volte la forma stilizzata di un violino, sono giustamente famosi.
La dea viene rappresentata nuda, a volte con un bimbo sul capo o fra le braccia.
Queste sculture testimoniano il permanere del culto di una grande dea madre, dispensatrice di fertilità e fecondità.
Altri tipi, come quello del suonatore di flauto o di arpa, sono molto più rari.
Gli usi funerai di quest’epoca sono abbastanza noti, mentre quelli del Neolitico ci sfuggono quasi completamente.
Le necropoli sono situate fuori dagli insediamenti umani: le offerte sono numerose, cosa che attesta una salda credenza nella sopravvivenza del morto.
Al termine del terzo millennio, in una data che gli specialisti fissano tra il 2000 e il 1950, la civiltà anatolica dell’Ellade doveva crollare sotto i colpi dei nuovi invasori: i greci, che fanno così la loro prima apparizione nella storia della Grecia.
Pag. 19

Non si crede più, come una volta, che gli indoeuropei abbiano costituito, all’origine, una razza unica, e nemmeno che essi abbiano avuto una civiltà materiale comune.
Infatti, l’archeologia non permette di ritrovare la loro culla, che si è tentato di scoprire da un secolo a questa parte in tante direzioni differenti.
Gli indoeuropei sarebbero piuttosto degli aggregati, delle cristallizzazioni di popolazioni, senza dubbio già fortemente mescolate, tra le quali, in una data molto lontana (5.-6. millennio), si sarebbe prodotta un’innovazione linguistica capitale, forse analoga a ciò che sono, nel mondo vegetale, le mutazioni: la lingua di base, ancora molto fluida, dell’Europa mesolitica – lingua di tipo agglutinante che doveva servire di substrato non solamente al gruppo indoeuropeo, ma ad altri gruppi che lo continuano più direttamente: gruppo ugro-finnico, basco… - si sarebbe trasformata in una lingua a flessione: l’indoeuropeo.
Pag. 21

E’ certo che l’occupazione della Grecia da parte delle orde ioniche avvenne in modo violento.
Le popolazioni anatoliche, che vi si erano d’altronde stabilite nello stesso modo, furono sommerse e senza dubbio ridotte in schiavitù.
La frattura in campo archeologico è quasi dappertutto molto netta, ed i luoghi come Lerna, dove esiste continuità fra gli anni precedenti e seguenti il 1950, sono molto rari.
Inizia allora un nuovo periodo, che corrisponde ai primi secoli dello stanziamento dei greci su di una terra in cui resteranno fino ai nostri giorni.
E’ l’età del bronzo medio, o elladico medio, che durerà all’incirca quattro secoli, fin verso il 1580.
La conoscenza che ne abbiamo è ancora molto limitata, dato che non possiamo contare che sulla documentazione archeologica proveniente dagli scavi.
Ci troviamo ancora nella protostoria e non entreremo nella storia nel senso stretto del termine, che col periodo seguente, quello dell’Elladico recente, che vedrà l’introduzione in Grecia della scrittura.
Pag. 25

Il commercio mediterraneo, che caratterizzava l’Elladico antico, sparisce con le invasioni greche.
L’unità etnica del mare Egeo non esiste più: nella Grecia continentale i greci si sono sovrapposti alle popolazioni anatoliche, mentre Creta non è stata ancora toccata dalle loro invasioni e le isole continuano a vivere nella sua orbita.
Certamente essi non ignorano del tutto le rotte mediterranee, che forse hanno già usato per raggiungere la Grecia, se è vero che passarono dapprima per l’Anatolia.
In particolare li si trova abbastanza presto nelle Cicladi a Milo, dove vanno a cercare l’ossidiana entrando così in contatto con i cretesi.
Questa prima iniziazione dei greci, fino ad allora strettamente legati alla terra, al mondo del mare, è uno dei grandi avvenimenti dell’Elladico medio.
E’ altrettanto vero che tra i due periodi )Elladico antico ed Elladico recente) di grande apertura sul Mediterraneo, i primi secoli del secondo millennio rappresentano un’epoca in cui la Grecia vive ripiegata su se stessa, chiusa, nell’insieme, alle influenze fecondatrici venute d’oltre mare.
Possiamo parlare solo in modo ipotetico dello stato sociale della Grecia in quest’epoca, e per analogia con le altre società indoeuropee primitive meglio conosciute.
Il nuovi venuti sono guerrieri, organizzati in una società di tipo militare, nella quale si è sovente voluto vedere, non senza esagerazioni, un’anticipazione del feudalesimo.
Essi riconoscono l’autorità di capi che, forse imitando i re dell’Elladico antico, stabiliscono ben presto la propria dimora in un palazzo.
Il popolo conduce una vita egualitaria e vi sono validi motivi per ritenere che il sistema agrario, che vedremo testimoniato nell’Elladico recente, in cui la terra è in comune, ripartita in lotti uguali tra i capi famiglia, risalga alle prime invasioni greche.
Pag. 26-27

Per lungo tempo mancò ai greci quel non so che, che permetterà loro, verso il 1580, di elevarsi al di sopra di questa civiltà rudimentale e di accedere all’apogeo dell’epoca micenea.
Prima di seguirli nella loro ascesa, è opportuno volgere la nostra attenzione verso Creta, dove i greci non si sono ancora installati e dove sopravvive, con uno splendore incomparabile, la civiltà anatolica che le invasioni ioniche del 1950 avevano fatto sparire dalla Grecia continentale.
Pag. 29

Verso il 2000 appaiono i “primi palazzi”, sicuro segno dell’avvento di un forte potere centrale almeno in tre luoghi: a Cnosso, a Festo e a Mallia.
Intorno al 1700 questi palazzi vengono distrutti da un cataclisma generale in cui si è voluto vedere un terremoto, ma che sembra piuttosto essere stato un’invasione di popolazioni venute dal continente per saccheggiare e razziare.
Dopo aver distrutto ogni cosa, i greci si ritirarono, poiché è sicuro che non si stabilirono a Creta: non intervengono infatti dei cambiamenti notevoli nella civiltà dell’isola.
Questa calamità fornì l’occasione per ricostruire palazzi più vasti e più belli: è l’epoca dei “secondi palazzi” (1700-1400), che vede la ricostruzione di Mallia, di Festo e soprattutto di Cnosso.
Ben presto il re di Cnosso prende il sopravvento sui suoi vicini: distrugge Mallia e costringe il principe di Festo ad accettare la sua signoria.
E’ il trionfo di Cnosso, che, approfittando della sua posizione attuale, unifica tutta Creta e costruisce uan rete di strade per consolidare e imporre la sua egemonia.
Pag. 31

La ricchezza di Creta permise lo sviluppo di una splendida arte, che trovò la sua più bella espressione nei palazzi.
Si tratta di vasti complessi non fortificati costruiti attorno ad una corte centrale.
I tetti a terrazze sono sostenuti da colonnati di preferenza mediani, e comportano una porta laterale.
L’illuminazione è assicurata da numerose finestre e da piccoli cortili interni, che sono altrettanti pozzi di luce.
L’idraulica è perfettamente conosciuta: le fogne raccolgono  delle piogge torrenziali e quella di scarico: l’acqua delle fonti viene convogliata fino al palazzo per le numerose sale da bagno o per le cisterne.
Non esiste un focolare fisso e in caso di bisogno si utilizzano i bracieri.
Ciò che colpisce è il perfetto adattamento al clima mediterraneo, la cura per le comodità e un profondo senso del bello, che trova soddisfazione tanto nella ricerca dei dettagli raffinati quanto negli ingressi monumentali, nelle terrazze sovrapposte, negli scorci su vasti paesaggi, tutte cose che Gustave Glotz definisce come “un gusto sicuro del teatrale  e del pittoresco”.
Pag. 33

In attesa della decifrazione dei documenti, non conosciamo bene la religione dei cretesi, che manifestavano un così acuto senso del bello.
Tuttavia sembra verosimile che si trattasse di una religione ottimista, che invitava a comunicare con le forze intime della vita e che offriva felici speranze ai suoi fedeli.
Si è parlato a lungo di un feticismo primitivo e, in realtà, la pietra sacra, il palo, la doppia scure (labrys), lo scudo bilobato, gli alberi o animali sacri appaiono numerosi nelle rappresentazioni culturali, testimonianze di un tempo in cui si adoravano le forme elementari della natura e il valore magico delle armi.
Ma ormai tutti questi oggetti sono concepiti solo più come simboli delle divinità.
Pag. 37

V’è dunque tutto un insieme di prove che permettono di attribuire ai cretesi delle precise credenze in un aldilà benefico, ove alcuni morti, resi simili agli dèi dal titolo di eroi, godevano della felicità eterna sotto la protezione, che si protraeva anche dopo il trapasso, della indulgente Terra-Madre.
Non si insiste mai abbastanza sull’importanza storica della religione cretese, che attraverso la mediazione di quella achea, ha dato un contributo così notevole alla religione greca del primo millennio.
E non si tratta solo della sopravvivenza di alcuni nomi di divinità: Britomartis (la Buona Vergine), Dittinna, Ilitia, Velchanos (il dio con il gallo, del quale i greci faranno uno Zeus Velchanos) o di alcuni nomi di eroine: Arianna, Europa; è tutta l’atmosfera dei culti egei che sarà presente nei culti ctonii e mistici del mondo ellenico.
E’ la loro spiritualità, infatti, il loro ottimismo, la loro preoccupazione dell’oltretomba, che ritroveremo costantemente nel nostro studio della religione greca.

Un’evocazione così sommaria non può far rivivere lo splendido mondo dei minoici,
Pace, prosperità, armonia nell’organizzazione sociale, amore per la vita, passione per la bellezza e in particolare per la grazia, queste sono le sue caratteristiche più evidenti.
Una grande vittoria umana quindi per un popolo così piccolo, le cui creazioni riescono a stare alla pari, nel nostro giudizio, con quelle delle civiltà per tanti versi disumane dell’Egitto e dell’Oriente.
Il mistero delle sue origini è perciò ancor più irritante per lo storico; Insoddisfatto di ripetere che essi venivano dall’Anatolia, egli vorrebbe risalire più lontano nel loro passato.
Tentativi intesi ad analizzare gli scarsi resti della lingua cretese, detta anche convenzionalmente “pelasgica”, sono stati compiuti.
Usando il metodo dei residui ed estraendo dal vocabolario greco le parole che non possono essere spiegate per mezzo del greco stesso, s’è potuta costituire una base di vocabolario cretese, al quale si aggiungono numerosi toponimi e ora i primi risultati della decifrazione del lineare A.
In contraddizione con l’opinione corrente, secondo la quale i cretesi rappresentavano il substrato mediterraneo anteriore all’arrivo degli indoeuropei, studi recenti hanno dimostrato come il “pelasgico” fosse imparentato con le lingue indoeuropee dell’Asia Minore (luvio ed ittita).
I cretesi sarebbero dunque dei proto-indoeuropei, dei cugini, per così dire, dei greci, staccatisi prima di loro dal tronco indoeuropeo comune.
verso il 1400 il palazzo di Cnosso viene interamente distrutto.
SI tratta dell’invasione degli achei  giunti al continente? Si pensa piuttosto che sia stato un cataclisma dovuto all’eruzione del vulcano di Santorino.
La conquista di Creta da parte degli achei, che trasforma la grande isola in un principato greco, deve essere anteriore.
Ritorniamo ora alla Grecia continentale, che abbiamo abbandonato agli inizi dell’Elladico recente.
Creta non disparve con la rovina di Cnosso: essa “vinse il suo selvaggio vincitore” e fu il lievito che fece fermentare la pasta, fino ad allora amorfa, della civiltà ellenica, e la sua influenza emergerà di continuo durante lo studio del mondo acheo.
Pag. 39

Cap. 2. L’elaborazione del mondo acheo, 1580-1200

Questa trasformazione non è segnata, sul suolo, da un profondo iato archeologico, come quello che all’inizio del secondo millennio corrisponde all’arrivo dei greci, o come quello delle invasioni doriche alla fine dello stesso millennio.
Non si tratta chiaramente dell’irruzione massiccia di nuove popolazioni, quanto piuttosto di un’evoluzione rapida e persino brutale, che si potrebbe paragonare a quella che intorno al 500 fa passare la Grecia dall’arcaismo al classicismo.
Al mondo scialbo dell’Elladico medio, senza grandi aperture sul Mediterraneo, succede lo splendido mondo dell’Elladico recente, aperto verso Creta, verso l’Oriente e verso Occidente.
Con ogni probabilità è l’influenza di Creta minoica a dar uscire la Grecia dal suo letargo. Secondo A. Evans ci sarebbe stata una conquista del continente da parte di Creta, ma oggi questa teoria è totalmente abbandonata.
Grazie alle relazioni diplomatiche e al commercio, ed anche in occasione di alcuni scontri militari, la Grecia viene iniziata alla civiltà mediterranea dei cretesi; importa oggetti  minoici e si limita, fa venire artisti da Creta, adotta le credenze di una religione molto differente dalla sua.
Essa è sedotta e questa seduzione la trasforma in tutti i campi.
Pag. 41

Molti di questi luoghi avranno fornito delle tavolette con curiose iscrizioni in una scrittura della lineare B.
Esse rimasero a lungo lettera morta per lo storico, fino alla decifrazione proposta nel 1953 da M. Ventris e J. Chadwick.
Da quel momento i lavori relativi alle tavolette si moltiplicarono e, benché le iscrizioni achee pongano ancora molti problemi di lettura e d’interpretazione, si può asserire che è stato compiuto un passo decisivo in questa direzione.
Analizzeremo più avanti tutto ciò che la nostra conoscenza del mondo acheo deve a questi archivi di palazzo.
Per finire, le due epopee omeriche, che si riferiscono ad avvenimenti situati alla fine del periodo acheo, possono spesso essere prese a testimonianza, ma bisogna diffidare della loro natura equivoca.
Si tratta infatti di testi che in alcune loro parti risalgono ancora all’epoca achea, ma che hanno subito in seguito la lunga deformazione di una tradizione puramente orale, d’innumerevoli alterazioni ed aggiunte, e infine la “composizione” definitiva eseguita da poeti del secolo 9. o dell’8.
Certo la veridicità d’innumerevoli dettagli è stata provata in maniera sorprendente dagli scavi; ciò nonostante non si può mai datare esattamente un episodio o un’indicazione particolare.
L’Iliade e l’Odissea sono troppo composite per permettere allo storico d’intraprendere il loro studio senza un’estrema cautela.
Pag. 42-43

E’ caratteristico che, esclusa Creta, siano tutti Stati peloponnesiaci.
Micene è al primo posto con cento vascelli e bisogna inoltre aggiungere che il suo re Agamennone ha ceduto sessanta navi agli arcadi “ché quelli non sanno di cose marine” (2., 614).
Pag. 43

D’altra parte certe imprese militari non potevano essere portate a termine senza la collaborazione di tutte le forze achee.
Fu il caso della conquista di Creta, per la quale non disponiamo di alcun documento scritto; e fu anche il caso della guerra di Troia, per la cui testimonianza di Omero è chiara: tutti i capi achei ammettevano l’egemonia di Agamennone, re di Micene, la cui autorità di impose in ogni modo, benché fosse schernita dalla violenza di altri eroi come Achille.
Allo stesso modo il muro, che fu costruito alla fine dell’epoca micenea per sbarrare l’istmo di Corinto a eventuali provenienti da nord, dovette essere opera di tutti i peloponnesiaci uniti.
Una conciliazione fra queste due tesi è impossibile, ma è evidente che non si può parlare di un impero nel senso stretto del termine.
I differenti reami achei sono, in larga misura, indipendenti gli uni dagli altri; tuttavia, uniti da comuni interessi, spinti dalla stessa sete id potenza che la loro coalizione fa supporre, essi ammettono bene o male in caso di bisogno l’autorità di un solo re, il re di Micene, che ha il ruolo di primus inter pares.
Il frazionamento politico della Grecia del primo millennio è dunque già in germe nella Grecia achea, allo stesso modo delle confederazioni di più Stati di fronte a un nemico comune.
Pag. 44

A quanto sembra, fin dal 1700 essi erano giunti dal continente e avevano operato un metodico saccheggio, a cui corrisponderebbe la rovina dei primi palazzi (cfr. p. 31).
Più tardi ci fu una vera conquista con l’installazione a Cnosso di un principe acheo.
E’ ormai possibile datarla al 1400, da una parte perché la distruzione dei secondi palazzi alla fine del secolo 15. è, a quanto sembra, dovuta a un cataclisma (cfr. pp. 58-59).
La conquista deve dunque risalire almeno al secolo 15.
Le conseguenze di questa sconfitta furono considerevoli.
Anzitutto la fine dell’autonomia del mondo minoico, che aveva creato una civiltà originale e sviluppato un vasto impero marittimo, riuscendo, con mezzi assai deboli in confronto a quelli delle grandi monarchie d’Oriente, ad imporsi come una delle nazioni più potenti del Mediterraneo orientale.
Poi la creazione di uno Stato acheo a Creta, conosciuto grazie agli archivi di palazzo del wanax greco di Cnosso; esso era, a quanto sembra, totalmente indipendente dai reami del continente.
Questo avvenimento causò inoltre l’arricchimento dei re peloponnesiaci, che avevano preparato e condotto a buon fine la spedizione probabilmente sotto la guida del re di Micene, e l’opulenza di Micene si può in parte spiegare con il considerevole bottino da Creta.
Tuttavia la rovina del mondo minoico non doveva spegnerne anche l’influenza sugli achei: nell’invenzione della scrittura lineare B possiamo vedere un chiaro esempio del ruolo civilizzatore di Creta.
Pag. 52-53

Nell’antichità non si era d’accordo sulla data della presa di Troia, ma la più generalmente accettata è quella proposta da Eratostene: 1183.
Essa però urta contro alcune difficoltà, soprattutto perché in quel momento il mondo acheo era già troppo vacillante sotto l’urto delle prime invasioni doriche e non avrebbe assolutamente potuto unirsi per un’impresa così lontana e pericolosa.
J. Bérard, con una ricostruzione audace, ma forse un po’ sistematica, ha suggerito di far retrocedere di due secoli la caduta di Troia, fino al 1380.
Sembra più ragionevole porre questo conflitto nel secolo 13., forse verso il 1230-1225 (data che i ricercatori americani propongono per la distruzione di Troia 7a); altri propendono per il 1280, la data proposta da Erodoto.
La presa di Troia sarebbe il canto del cigno della potenza achea, l’ultima spedizione in cui questi audaci e valorosi predatori avrebbero unito le proprie forze e arricchirsi nel Mediterraneo orientale.
SI tratta senza dubbio di un’impresa tra le molte altre, ma l’epopea l’ha magnificata fino a farla divenire il simbolo del mondo di violenza e di coraggio dei principi achei.
Di coloro invece che partirono verso Creta, verso Rodi, verso Cipro non si sa nulla se non attraverso le scoperte archeologiche; ma la collera d’Achille, il coraggio di Patroclo, la bellezza di Elena, la saggezza di Nestore, non hanno cessato lungo tutta l’antichità e fino ai tempi moderni di colpire l’immaginazione grazie alla magia delle epopee omeriche.
Pag. 56-57

In parecchie località achee, e soprattutto a Pilo e a Cnosso, dove erano state scoperte rilevanti negli archivi di palazzo (in minor misura a Micene), si sapeva della presenza di tavolette d’argilla.
Esse erano coperte di segni chiaramente derivati dalla lineare A cretese, che si designano con il nome convenzionale di lineare B (essendo comune alle due scritture più della metà dei segni).
Furono fatti molti tentativi per decifrarle, ma si urtò contro la duplice difficoltà di una lingua e di una grafia sconosciute.
La gloria dell’interpretazione della maggior parte dei segni micenei toccò  nel 1953 a due eruditi inglesi, M. Ventris e J. Chadwick.
Essi si servirono dei sistemi crittografici in uso presso gli stati maggiori e partirono da un’ipotesi di lavoro che si rivelò feconda, e cioè che le tavolette micenee servissero a scrivere una lingua greca.
La loro scoperta è una delle più belle che siano state fatte nel campo degli studi sul mondo miceneo da quando si riportarono alla luce i palazzi dell’Argolide.
Pag. 57

Il primo insegnamento delle tavolette, e non il minore, è quello di far risalire fino alla fine del secolo 15. la nostra conoscenza del greco, o piuttosto di un dialetto greco, l’acheo.
Fino alla decifrazione i primi testi greci erano costituiti dalle epopee omeriche, che potevano datare solo ai secoli 9.-8.
Ma gli storici hanno tratto lo stesso vantaggio dei filologi dalla lettura dei documenti achei.
Pag. 59

Non sappiamo quando avvenne la scomparsa della scrittura micenea.
Tuttavia non esiste traccia di tavolette eseguite in un’epoca più tarda (submicenea e protogeometrica).
La scrittura, strumento di amministrazione e non di civiltà, dovette sparire, con i palazzi abitati dagli scribi, sotto i colpi dei dori.
Passeranno ancora molti secoli prima che i greci imparino di nuovo a scrivere e inventino una nuova scrittura, su imitazione delle grafie fenicie e molto più perfezionata, che annoterà non solo le sillabe, ma anche le consonanti e le vocali, realizzando così un considerevole progresso nell’analisi dei suoni.
Si può dunque comprendere quanto la decifrazione delle tavolette ci abbia portato di nuovo sulla civiltà achea, permettendo di stabilire un confronto col materiale fornitoci dalle rovine dei palazzi e con ciò che lasciava supporre Omero.
Il quadro che ora tracceremo è molto più preciso di quanto sarebbe potuto essere dieci anni fa.
Pag. 60-61

Cap. 62. La vita nei reami achei

Alla base della potenza micenea vi è un’economia fiorente, che soddisfa i bisogni locali di rifornimento di cibi e di oggetti di prima necessità, e nello stesso tempo permette un fruttuoso con le contrade più distanti.
Pag. 62.

L’alto livello d’evoluzione della società micenea è rilevabile per esempio nella specializzazione degli artigiani citati sulle tavolette.
Tutte le industrie visi trovano rappresentate: tessitura, ceramica, metallurgia, fabbricazione delle armi, lavorazione dei metalli preziosi, dell’avorio, del corno…
La più importante sembra essere la ceramica, che fornisce enormi contingenti all’esportazione e produce non solo oggetti utili, come le vasche da bagno, ma anche i bei vasi micenei ritrovati su quasi tutte le coste del Mediterraneo, che, a causa delle trasformazioni della moda, hanno permesso di stabilire una rigorosa cronologia del periodo.
D’altronde questa produzione di ceramica è, in tutte le località, straordinariamente unitaria: le stesse forme per esempio il vaso a staffa), gli stessi motivi decorativi (il polipo ereditato dall’arte cretese), s’incontrano dappertutto.
Il metallo ha un ruolo di primo piano: l’epoca micenea corrisponde all’età del bronzo recente e il solo metallo conosciuto e largamente utilizzato è il bronzo, di cui sono fatte tutte le armi, strumenti indispensabili nella civiltà guerriera degli achei.
Da questo punto di vista la Grecia è nettamente in ritardo sull’Anatolia, dove gli ittiti praticano da secoli la metallurgia del ferro, custodendone gelosamente il monopolio.
Il grande numero di oggetti micenei che gli scavi hanno messo in luce sulle rive del Mediterraneo rileva un aspetto importantissimo: l’espansione commerciale in un mondo in pieno rigoglio.
Certo le basi micenee nel Mediterraneo orientale dovettero facilitare lo sviluppo del commercio, ma i businessmen achei penetrarono in regioni che, politicamente, restavano del tutto al di fuori dell’orbita greca.
Spesso le strade che seguirono sono quelle che avevano usate i marinai cretesi.
I rapporti tra l’Egitto e gli “abitanti delle isole” (questo è il nome usato dagli egiziani per designare gli achei) sono confermati da molte scoperte: nei secoli 14. e 13. vi sono oggetti egiziani in tutta la Grecia, per esempio un cartiglio di Amenofi 3. a Micene; i vasi micenei sono numerosi in Egitto, in particolare a Tell el-Amarna, l’effimera capitale del sovrano eretico Amenofi 4.
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Gli achei non si sono dunque accontentati di occupare le grandi isole (Creta, Rodi, Cipro), ma hanno installato delle rappresentanze commerciali, simili ai futuri emporia arcaici, su tutte le coste del Mediterraneo orientale, dalla Troade fino all’Egitto e perfino in Cirenaica dove si sono appena scoperte le tracce dei loro traffici.
Vi è uan sola lacuna, in questa espansione d’altronde parziale, in Anatolia.
Le loro mire erano per altro ancora più vaste.
Passano il Bosforo.
In Occidente le loro navi approdarono spesso: tombe nei dintorni di Siracusa e di Taranto hanno fornito vasi micenei; Panarea, una delle isole Lipari, - uno scalo sulla via dello stagno delle Cassiteridi e dell’isola d’Elba, ricordata in una tavoletta di Pilo, - ha rivelato numerosi cossi micenei, alcuni dei quali presentano dei segni derivati dalla lineare B; vi è della ceramica micenea a Ischia e in Etruria.
Si è persino pensato che gli achei avessero raggiunto la lontana Iberia: Strabone ha conservato il ricordo degli eroi achei, contemporanei di Agamennone, che vi si sarebbero stabiliti; tuttavia l’assenza totale d’oggetti micenei in Spagna rende incerta questa ipotesi.
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Le tavolette in lineare B hanno fornito dati molto importanti, permettendo di chiarire le incerte testimonianze di Omero.
La società achea è fortemente gerarchizzata.
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Tuttavia ci si farebbe un’idea troppo parziale dei principi achei immaginandoli occupati solo in cacce, razzie e spedizioni in terre lontane.
La loro inimitabile vita si svolge fra i tesori di un’arte nettamente ispirata a quella di Creta e tra feste sontuose, durante le quali gli aedi cantano i loro versi epici.
Essa è inoltre sostenuta da un insieme di credenze religiose e protetta dagli dèi e dagli eroi.
L’estrema raffinatezza della vita spirituale nei castelli fortificati d’Argolide è in significativo contrasto con la brutalità militare degli usi che vi regnavano.
Parlare di letteratura achea può essere gratuito, poiché nessun testo ci è pervenuto, e sicuramente la scrittura fu solo un mezzo per l’amministrazione, senza mai servire allo sviluppo di una letteratura scritta.
Nondimeno, l’analisi delle opere di Omero porta a concludere che fin dal periodo acheo esistesse un’epopea che, tramandata per via orale ben addentro alle età più oscure della storia greca, fu il primo nocciolo attorno al quale i poeti ionici svilupparono le monumentali composizioni dell’Iliade e dell’Odissea.
Così si spiegherebbero le numerose forme arcadiche ed eoliche in esse contenute e non sostituibili con forme ioniche, residui, dunque, delle forme primitive dell’epopea del secondo millennio.
In questo modo si potrebbero anche spiegare gli accenni ad oggetti specificamente micenei, come l’elmo con denti di cinghiale descritto nel 10. libro  dell’Iliade.
Questo tipo di elmo era infatti molto diffuso nei secoli 16. e 15., ma sparì totalmente in seguito.
La poesia, dunque, era unicamente orale e faceva un grande uso di formule precostituite (in particolare dei famosi “epiteti omerici”), che facilitavano il compito del poeta sia nella composizione che nella recitazione.
I soggetti preferiti erano il primo luogo le imprese guerresche, ma anche le pericolose avvenute sul “mare vinoso”.
L’arte contemporanea manifesta lo stesso gusto: tre rhytà d’argento di Micene rappresentano l’uno l’assedio di una città, l’altro una scena di battaglia, il terzo dei naufraghi che si salvano a nuoto: sono già in anticipo i temi dell’Iliade e dell’Odissea.
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Se si aggiungono le grandi realizzazioni dell’architettura palaziale e di quella funeraria studiate nel precedente capitolo, non si può non essere colpiti dalla varietà di quest’arte che ha creato tanto le robuste mura d’Argolide, quanto il sobrio rilievo della Porta dei Leoni e quegli splendidi capolavori d’arte decorativa che sono spesso i vasi, le spade e i sigilli micenei.
Il nido d’aquila di Micene, ancor tutto pieno dell’orrore dei crimini che vi furono perpetrati, ci riempie d’angoscia, mentre siamo affascinati da un uccello rappresentato sul fianco di una tazza.
Questa varietà si spiega in parte  con il carattere ibrido di un’arte che per le tecniche e per la maggior parte dei temi iconografici si è ispirata a Creta, senza tuttavia ripudiare certe tradizioni nordiche e soprattutto quell’atteggiamento spirituale che portava ordine e chiarezza all’eredità minoica.
Questi insegnamenti non andranno mai perduti, malgrado il lungo disastro delle invasioni doriche, in cui si inabisseranno tutte le produzioni di una delle correnti artistiche più vitali che la Grecia abbia mai conosciuto.
Lo studio della religione, che deve essere condotto con estrema prudenza, porta a conclusioni analoghe.
In realtà le informazioni che possiamo ottenere dalle tavolette sono rare; la testimonianza di Omero è particolarmente pericolosa in questo campo, a causa di tutte le aggiunte ulteriori; i monumenti figurati infine, assai poco numero di, sono sempre suscettibili d’interpretazioni divergenti.
Per di più, troppo a lungo si sono confuse religione cretese e religione micenea, e solo recentemente gli ottimi lavori di M. P. Nilsson e di Ch. Picard hanno permesso di distinguerle.
Il carattere fondamentale di questa religione consiste nell’aver realizzato una sintesi di elementi nordici e di elementi mediterranei.
Gli indoeuropei introdussero in Grecia la loro religione, che si rivolgeva a dèi uranici e pastorali, ma entrarono in contatto con le popolazioni anatoliche di Creta, che veneravano divinità ctonie e agricole.
Da una parte, un pantheon essenzialmente maschile, dall’altra, un pantheon in cui le dee prevalgono nettamente sugli dèi e in cui la somma divinità matronale, una Terra-Madre analoga a quelle d’Oriente, dispensa la vita in ogni sua forma: fertilità, fecondità, eternità.
Da uno stretto sincretismo tra due tipi di religiosità, tra il “Padre nostro che sei nei cieli” e “La nostra signora mediterranea”, come è stato elegantemente detto per un campo affine, è nata la religione micenea.
Su queste due basi principali si innestarono altre influenze, in particolare quella egiziana, non trascurabile per ciò che riguarda le usanze funebri, e quella orientale semitica.
Non è da escludere che gli antenati degli achei abbiano, come i romani primitivi, adorato quelle forze diffuse e mai personalizzate che si è preso l’abitudine di designare con il nome polinesiano di mana, piuttosto che  delle divinità divinizzate.
Di questo primo stadio resterebbero tracce nelle tavolette micenee e perfino nell’opera di Esiodo, in cui appaiono certi culti misteriosi che si rivolgevano a dèi o gruppi di dèi senza individualità definita, spesso senza nome e senza mito.
Ma sarebbe pericoloso insistere su questa caratteristica, d’altronde presto scomparsa.
Il mondo divino dell’epoca achea è organizzato attorno a esseri divini dotati di un nome, di una personalità e  di miti complessi; assomiglia a quello umano, in cui il ruolo dei capi è predominante.
Pag. 73-74

E’ dunque impossibile studiare il pantheon acheo senza ricercare tanto le sue componenti nordiche che quelle mediterranee.
Fin da quest’epoca, la religione greca si è già molto differenziata dalle altre religioni indoeuropee: quali quelle dell’India, di Roma o dei germani, che, benché conosciute in un periodo più tardo, hanno conservato meglio il patrimonio primitivo datante dalla comunità indoeuropea, ed in particolare l’organizzazione tripartita e trifunzionale della gerarchia divina.
Di essa in Grecia sopravvivono solo dei resti, come per esempio nel mito del giudizio di Paride.
La ragione di questa originalità è evidente: si tratta di apporti fondamentali mediati da un ambiente religioso profondamente differente: l’ambiente greco.
Tuttavia, pantheon acheo e pantheon cretese restano distinti: in Grecia gli dèi hanno un’importanza reale, che controbilancia all’incirca quella delle dee, mentre a Creta le dee prevalgono nettamente sugli dèi; inoltre le divinità sembrano già organizzate in una società gerarchizzata e feudale, concepita a imitazione della società umana, in cui Zeus ha fra gli dèi un ruolo che ricorda quello di Agamennone tra gli uomini dell’Iliade.
Pag. 76-77

Il campo della religione è quello in cui meglio si rivela la ricchezza della Grecia achea, che si lascia penetrare da influenze mediterranee, senza peraltro rinunciare alle tradizioni indoeuropee.
Per gli dèi come per gli eroi, i lineamenti fondamentali della religione della Grecia futura sono già stabiliti.
Saranno certo profondamente modificati dall’arrivo dei dori e dalla nuova influenza dell’Oriente, ma Zeus, Ermes, Era o Atena hanno una loro personalità, fissata nei caratteri essenziali, ed Agamennone, Ulisse o Elena non cesseranno di fecondare l’immaginazione ellenica.
Questo è lo splendido mondo che crollerà nello spazio di un secolo sotto i colpi dei dori.
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Cap. 4. Le invasioni doriche

Verso la fine del secondo millennio, uan nuova ondata di invasori greci giunge a sommergere l’Ellade achea.
Abbiamo preso l’abitudine di designarli col bome, in parte convenzionale, di Dori.
Pag. 80

Si è giunti fino al punto di dubitare che esistesse uan realtà dietro a questo mito e che il ritorno degli eraclidi simboleggiasse la conquista del Peloponneso da parte dei nuovi invasori.
Così persino il grande Beloch negava la storicità delle invasioni doriche.
Attualmente però non vi è più motivo per tali dubbi critici.
Da una parte, la linguistica prova che un nuovo stato linguistico, quello dei dialetti dorici, venne a sovrapporsi ai dialetti achei.
D’altra parte l’archeologia dimostra che, nello spazio di un secolo (tra il 1200 e il 1100), tutte le basi achee nel Peloponneso furono distrutte violentemente, fatto che non può essere spiegato solo con l’arrivo di nuove bande, numerose e agguerrite.
D’altronde, a mano a mano che si delinea meglio la storia del Mediterraneo orientale, constatiamo che le invasioni doriche si collocano in un ampio contesto.
L’Asia minore è allora teatro di violenti sconvolgimenti, conseguenti all’arrivo di popoli venuti dalla regione del Danubio o dall’Illiria: frigi, teucri, dardani, filistei.
L’Impero ittita è prima minacciato, poi soccombe.
L’Egitto stesso viene attaccato dai “popoli del mare”, coalizione eteroclita d’invasori nordici e di popolazioni asiatiche che fuggivano davanti ad essi; e con gran fatica Mineptah e poi Ramses 3. li respingono, non senza che la potenza faraonica venga seriamente compromessa.
Questa “migrazione egea” (Schachermeyr) è dunque molto lontana dall’interessare solo la Grecia, poiché l’insicurezza regna su tutte le rive del Mediterraneo orientale; essa spazza via non solo i reami achei, ma anche l’Impero ittita.
Questo vasto movimento ricorda, con evidenti differenze, ciò che era accaduto circa un millennio prima.
Verso il 2000 alcune popolazioni indoeuropee erano scese dalle regioni carpato-danubiane e, dividendosi in due rami, avevano occupato la Grecia (primi greci) e l’Asia Minore (fondatori di Troia 6., ittiti); nei secoli 13. e 12. Altre bande, provenienti dalle stesse regioni, seminano terrore e rovina nell’Ellade e nell’Anatolia, prima di stabilirvisi e di elaborare una nuova civiltà.
Pag. 82-83

Non bisogna lasciarsi fuorviare da Tucidide che pone il ritorno degli eraclidi ottant’anni dopo la guerra di Troia, cioè nel 1150, supponendo che la presa sia avvenuta nel 1230.
Non è infatti possibile localizzare nel tempo e con tale precisione un movimento che si è svolto lentamente e durante molti secoli.
Come le precedenti invasioni, anche quella dei dori si presenta quale una successione di pulsazioni.
Possiamo immaginarceli mentre procedono, alla maniera dei valacchi del Medioevo spingendo le greggi davanti a sé e fermandosi tutt’al più una stagione per seminare e mietere.
Sembra essenziale sottolineare le diverse tappe delle loro migrazioni: la tradizione letteraria e l’archeologia forniscono un certo numero di punti di riferimento non trascurabili.
Nella Grecia settentrionale e centrale le invasioni doriche (nel senso più ampio del termine) cominciano prima della guerra di Troia.
Abbiamo ricordato il testo di Tucidide (1., 2.) che rende noto come alcuni beoti si fossero già stabiliti in Beozia e partecipassero alla spedizione.
Queste invasioni continueranno regolarmente nel decenni seguenti.
Quando i beoti furono cacciati da Arne e andarono ad accrescere la popolazione della Beozia, sessant’anni dopo la presa di Troia secondo lo stesso Tucidide (cioè forse verso il 1170), tagliarono in due gli abitanti della Locride: fatto che prova come questi ultimi vi si fossero già stabiliti.
Nel Peloponneso e in Attica gli assalti avvennero un poco più tardi.
Alla fine del secolo 13. troviamo i segni inequivocabili di una minaccia latente: non può essere che quella dei dori, i quali dal quel momento devastano ed occupano la Grecia continentale.
Nel Peloponneso le fortificazioni vengono riparate o migliorate: a Tirinto viene costruita la cinta di mura bassa, per permettere ai contadini di rifugiarvisi con le greggi in caso di pericolo; a Micene viene riattata la fortificazione d’ingresso, viene aggiunto un bastione a est, si allestisce un vasto granaio e si predispone un accesso diretto ad una derivazione della fonte Perseia.
Sembra persino che vi sia stata uan cooperazione tra i diversi reami achei del Peloponneso, poiché è attribuibile a quest’epoca il muro ciclopico che sbarrava l’istmo, le cui vestigia sono state recentemente scoperte.
Lo stesso avvenne ad Atene, dove si allargò la fortificazione e si dispose un accesso diretto all’acqua.
I primi attacchi contro le città achee del Peloponneso sarebbero da collocarsi alla fine del secolo.
E infatti verso il 1200 che Pilo viene distrutta e forse resta una traccia, nelle tavolette del palazzo, delle misure di difesa prese nei mesi precedenti l’attacco.
Ma nulla servì, tanto più che il palazzo non era più fortificato, e Pilo sparì dunque violentemente dalla storia.
Le cittadelle dell’Argolide non furono al riparo dagli attacchi delle prime bande doriche, ma le mura permisero loro di resistere più a lungo: a Micene però furono distrutte le case che si trovavano al di fuori della cinta, circa nello stesso momento in cui cadeva Pilo.
Gli assalti dei dori divennero poi sempre più brutali e le loro bande sempre più numerose.
Durante il secolo 12. tutte le cittadelle caddero ad una ad una.
Probabilmente Micene resistette più  a lungo delle altre e fu distrutta solo verso il 1150 o persino verso il 1100.
L’invasione risparmiò poche zone del Peloponneso, dove solo l’Arcadia restò in mano agli antichi abitanti, ma lasciò indenne l’Attica, senza d’altra parte che si possa sapere se Atene non fu affatto attaccata o se resistette vittoriosamente.
Nuovi invasori dovettero aggiungersi, per un lungo periodo, ai primi dori e solo nel secolo 11., o forse perfino nel 10., si arrestò questa mareggiata che aveva sommerso tutto il Peloponneso.
La conseguenza più evidente delle invasioni fu la distruzione quasi totale della civiltà micenea.
Nello spazio di un secolo, le orgogliose  creazioni degli architetti achei, palazzi e cittadelle, non sono più che rovine.
E spariscono contemporaneamente la sovranità burocratica, la scrittura, che era solo uan tecnica amministrativa, e tutte le espressioni artistiche create dal mecenatismo dei principi.
Gran parte della Grecia, messa a ferro e fuoco, ricade in piena barbarie.
Non esiste un disastro più completo e più sinistro in tutta la storia dell’Ellade.
Certamente alcuni elementi di civiltà sopravvissero: l’arte arcaica si ricorderà della colonna micenea, perfino del megaron, e soprattutto la religione del primo millennio sarà influenzata dall’atmosfera dei culti minoico-micenei.
Tuttavia è difficile dimenticare la terribile distruzione di questo splendido mondo.
Pag. 85-86

L’apporto dei dori non deve essere sopravvalutato.
Ciò che colpisce di più sono le rovine che disseminarono ovunque al loro passaggio e la totale distruzione del mondo acheo che è loro opera.
Nondimeno, in seguito alle invasioni doriche, la Grecia e l’Asia greca ricevono il loro assetto etnico definitivo.
Vediamo affermarsi a cavallo dei due millenni l’antitesi fondamentale che dominerà la storia della Grecia: quella dei dori e degli ioni.
Non bisogna certo considerare queste due componenti del popolo greco come due entità razziali totalmente separate, ma vi è indubbiamente una civiltà dorica austera e rigida e uan civiltà ionica amabile e gentile che si oppongono, dicevano gli antichi, come l’uomo e la donna.
La forza della civiltà greca consisterà in questa duplice ricchezza: l’austerità dorica ed il sorriso ionico.
Pag. 91-92

Libro secondo. Le creazioni della Grecia arcaica

Cap. 1. Transizioni e rinnovamenti: l’età geometrica, 1100-750

E’ con grande fatica, “dopo molto tempo, che la Grecia ritrovò, nella calma, la stabilità e la fine delle migrazioni”. (Tucidide, 1., 12).
Per secoli infatti la maggior parte della Grecia, messa a ferro e fuoco dagli invasori dorici, fu rovina e confusione.
E’ ciò che si definisce, usando diversi paragoni, le “età oscure” (dark ages) o Medioevo ellenico.
Pag. 95

Così si delineavano tre grandi fasce grosso modo parallele che dalla Grecia vera e propria fino all’Anatolia passando attraverso il mondo insulare, corrispondevano ai tre gruppi etnici degli eoli, degli ioni e del dori.
Gran parte della storia della futura Grecia si spiega con questo movimento di popolazioni, che fece del mar Egeo un mare greco.
In particolare constateremo  che la rinascita molto evidente della Grecia, iniziata a partire dal secolo 9., è dovuta soprattutto all’influsso dell’Oriente, facilitato dalla colonie greche in Asia Minore.
Pag. 98

Fin dal secolo 18. la “questione omerica” divide il mondo degli studiosi.
Le sue epopee sono veramente opera di uno stesso poeta?
Ciascuna possedeva un’unità interna o era piuttosto composta da frammenti e brani di ispirazione e di età differenti?
Oggi ci si orienta verso una soluzione moderata di questi due problemi.
Non si può più sostenere che le due epopee sono state composte da un uomo solo.
Esse differiscono nel vocabolario, nello stile, nella realtà che illustrano: per prendere un esempio fra i tanti, il poeta dell’Iliade per lo più ignora il ferro, mentre quello dell’Odissea lo menziona più volte.
Tutte queste disparità non possono spiegarsi solamente con la differenza di soggetti e d’ispirazione: poesia storica da una parte, folklore e mondo fantastico dall’altra.
Esse implicano, secondo l’opinione generale, uan differenza di data: l’Iliade sarebbe anteriore all’Odissea.
Ma, se si vuole sostituire una cronologia assoluta a questa cronologia relativa, si urta contro la difficoltà tali che non permettono di stabilire alcun accordo tra gli specialisti.
Noi saremmo propensi ad ammettere uno scarto di una cinquantina d’anni tra i due testi, situando così la composizione dell’Iliade alla fine del secolo 9. e quella dell’Odissea verso la metà dell’8.
Cosa si deve allora pensare di ciascun poema preso isolatamente?
La loro unità interna è evidente.
L’Iliade appare coem un’ammirevole macchina, montata attorno alla collera di Achille: il dolore causatogli da Agamennone, che gli aveva sottratto la prigioniera Briseide, spinge Achille spinge Achille a ritirarsi nella sua tenda; da questo momenti gli achei passano da una disfatta all’altra, ma il suo ritorno in battaglia, dopo la morte dell’amico Patroclo,  rovescia la sorte della guerra.
L’Odissea è certamente più complessa, ma vi si possono individuare facilmente tre grandi centri di interesse abilmente collegati l’uno all’altro: il viaggio di Telemaco, le peregrinazioni di Ulisse, il massacro dei pretendenti.
In questi due poemi balza agli occhi il talento di un poeta di genio: dominando alla perfezione la ricca materia epica ereditata dal passato, egli la compone in un insieme che, malgrado molte contraddizioni inevitabili in una poesia orale, soddisfa pienamente lo spirito.
Se la parola composizione ha senso per un testo così fluido, essa indica lo sforzo impiegato per raccontare uan storia che ebbe un inizio, delle peripezie, ed una fine.
Pag. 100

La lingua delle epopee “omeriche” è un accordo unico di forme dialettali prese essenzialmente dallo ionico, ma anche dall’eolico e dall’arcadico.
E’ sicuro che furono “composte” nel mondo ionico, dove molti immigrati, scacciati dalla loro patria dalle invasioni doriche, amavano sentir cantare le imprese del glorioso passato degli achei.
Sembra persino possibile fare ulteriori precisazioni: l’Iliade sarebbe opera di un poeta della costa anatolica, l’Odissea di un poeta insulare; perciò l’Odissea, benché posteriore all’Iliade, può non fare alcuna allusione a quest’ultima e sembra ignorarla totalmente.
Ma le forme straniere e non attribuibili allo ionico conservano il ricordo delle epopee primitive (l’eolico e l’arcadico provenivano direttamente dai dialetti parlati, nella Grecia settentrionale l’uno, in quella meridionale l’altro, durante il secondo millennio).
La lunga storia delle epopee omeriche continua al di là di “Omero”.
Esse furono trasmesse fino al secolo 6., epoca in cui, particolarmente ad Atene sotto i Pisistratidi, saranno infine fissate dalla scrittura.
Numerose interpolazioni hanno evidentemente allungato il testo omerico, che spesso non era altro se non un amalgama di brani interiori: il compito dello storico che voglia distinguere le successive stratificazioni non è per nulla facile.
Pag. 101

La vita religiosa si è profondamente rinnovata dal periodo miceneo.
In primo luogo perché i dori hanno rafforzato l’importanza degli dèi in confronto alle dee.
In secondo luogo perché il nascente razionalismo cerca di metter ordine in un pantheon confuso, non solo riunendo le divinità fra loro, ma diminuendo il numero degli dèi.
I più importanti inglobano nella loro invadente personalità quelli secondari o gli eroi, che divengono così dei semplici appellativi divini: come nel caso di Zeus Agamennone o Anfiarao, di Artemide Ifigenia o di Posidone Eretteo.
Infine e soprattutto perché delle nuove divinità, originarie dell’Oriente, si sono introdotte nel mondo greco; e ciò avviene tanto più facilmente in quanto l’occupazione greca della costa dell’Anatolia e delle isole del Mediterraneo orientale, in special modo di Cipro, gettava un ponte tra l’Asia e la Grecia europea.
Pag. 103

La scrittura sillabica achea era sparita nelle rovine dell’invasione dorica.
Qualche secolo dopo, una nuova scrittura comparativa nel mondo greco.
Si trattava di un alfabeto di ventiquattro segni, derivato dalla scrittura fenicia.
Tale derivazione non può essere messa in dubbio sia per la forma delle lettere che per l’ordine nel quale si presentano, identico nei due sistemi.
I greci stessi ne erano coscienti: Erodoto (5., 38) afferma che “i fenici vissuti con Cadmo introdussero presso i greci molte conoscenze, fra le altre quella delle lettere dell’alfabeto che i greci, per quanto mi consta, non possedevano prima; essi le fecero conoscere sotto il nome di phoinikeia (segni fenici)”.
L’assunzione rese però necessari ingegnosi adattamenti, dato che l’alfabeto fenicio tiene conto solo delle consonanti.
Ora, se è possibile scrivere senza vocali una lingua semitica perché le consonanti hanno un ruolo predominante nelle radici, ciò è impensabile per una lingua indoeuropea come il greco, in cui la grande libertà di costruzione fa sì che la rase sia comprensibile solo le desinenze vocaliche sono chiare.
I greci hanno perciò sfruttato la ricchezza di consonanti del fenicio (in particolare gutturali e sibilanti), inesistenti in greco e si sono serviti di segni inutili così recuperati per indicare le aspirate, che invece il fenicio non possedeva, e soprattutto le vocali.
Questo sistema rappresentava un considerevole progresso – per la prima volta i suoni erano totalmente distinti in vocali e consonanti – progresso che ebbe vaste conseguenze, poiché l’alfabeto latino e quasi tutti gli alfabeti moderni europei derivano dal quello greco.
Con questo esempio concreto possiamo cogliere nel vivo il meccanismo delle creazioni dei greci, che hanno saputo mediare dai fenici, loro grandi rivali nel commercio di allora, questo mezzo incomparabile che è la scrittura valorizzandola e sviluppandola compiutamente.
Pag. 106

Dal punto di vista dell’arte, della letteratura, della religione e della scrittura il mondo greco dell’epoca geometrica conosce dunque un’incontestabile unità, malgrado la sua grande varietà sotto il profilo geografico.
Politicamente parlando invece si deve constatare un vero sbriciolamento.
I reami relativamente estesi del periodo miceneo sono spariti con la distruzione dorica.
Compare un tipo di raggruppamento umano molto più piccolo, la città (polis) che resterà tipica della civiltà greca fino alle conquiste dei re macedoni.
Come è naturale per epoche così antiche e inquiete, le origini stesse di questa forma politica sono avvolte nel più grande mistero.
SI parlò di un determinismo geografico: la Grecia, che possiede poche pianure estese, si divide in tanti piccoli cantoni relativamente isolati gli uni dagli altri.
D’altra parte si è anche sostenuto che, superando la fase dei reami achei, “l’individualismo delle piccole città greche trova le sue radici fin nei tempi neolitici” (Wace-Blegen, Klio, 1939).
Solo i fattori dell’inizio del nuovo millennio però ci possono dare uan spiegazione esauriente di questo processo.
I gruppi di invasori dorici erano indipendenti gli uni dagli altri e, ovunque si stabilirono, formarono delle comunità; lo stesso fecero gli immigrati greci che popolarono la costa asiatica.
In un primo tempo l’elemento militare dovette avere un ruolo preponderante: il termine stesso di polis designava una cittadella prima di prendere il significato ulteriore di città-stato; inoltre, soprattutto presso i dori, le prime personalità importanti furono i capi delle bande armate.
A poco a poco però vennero imponendosi altri fattori: le prime basi furono evidentemente dei villaggi; successivamente, in molti casi particolarmente fortunati, come quelle di Sparta, più villaggi vicini formarono una città, secondo un fenomeno che i greci chiamavano sinecismo (abitazione comune), e la città generò la polis, cioè un’organizzazione politica comune.
Pag. 107-8

Tutte queste ragioni concomitanti dovettero favorire il formarsi di nuclei più ampi di quelli della  famiglia e del villaggio, che, secondo la famosa teoria enunciata da Aristotele nella Politica, portarono alla nascita delle città.
Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza storica di questo fenomeno: i raggruppamenti così costituiti rimarranno immutati, nell’insieme, finché la Grecia non perderà la sua indipendenza.
 Essi riuniscono un numero limitato di cittadini e tutti questi possono dunque prendere parte all’amministrazione della cosa pubblica.
Tuttavia il numero delle città era troppo grande e gli urti dovevano rivelarsi inevitabili: la storia della Grecia arcaica e classica, storia di fratelli-nemici, è tutta in germe fin da questo periodo.
Pag. 107-08

Quando perciò, intorno al 750, termina il periodo geometrico, si è usciti già da molto tempo dalla “età oscure”.
Sono nate un’arte e una letteratura non del tutto dimentiche del passato miceneo: la religione si è definitivamente formata e razionalizzata; si è infine creato uno strumento incomparabile sia per il commercio che per la vita dello spirito: la scrittura.
Al disordine che segue le invasioni e le migrazioni, succede l’organizzazione costituzionale delle poleis.
Buona parte di questi progressi è stata possibile solo con la ripresa del commercio attraverso il mar Egeo, e da questo punto di vista il ruolo dei fenici sembra essere stato preponderante.
Nell’Odissea, essi appaiono come gli intermediari particolarmente attivi.
A partire dall’850 si trovano a Creta, a Sparta, ad Atene degli oggetti d’arte fenici o siriani e a Corinto degli avori anatolici.
Un ricco tesoro composto di gioielli orientali e scoperto ad Egina dimostra chiaramente l’importanza del traffico fenicio con la Grecia verso l’800 in un centro privilegiato come questa città.
Ma si tratta solo dell’inizio di un movimento che si amplierà nel periodo seguente.
L’intensificazione degli scambi, lo sviluppo d’un commercio veramente ellenico avranno come conseguenza dei contratti più prolungati con l’Oriente, da cui nascerà intorno al 750 un nuovo periodo di sviluppo con l’epoca arcaica propriamente detta.
Pag. 109

Cap. 2. L’evoluzione delle città

Durante le “età oscure” regnò una tale confusione, che i greci avevano perso addirittura il nome con il quale erano designati.
Durante il secolo 7. appare un nuovo vocabolo che si applica a tutti i greci, senza tener conto dei gruppi etnici che si sarebbero potuti distinguere: quello di elleni.
Esso si trova usato per la prima volta in Archiloco, che parla di Panelleni (tutti i greci) e in uan interpolazione dell’Iliade, forse contemporanea; d’altronde fin dalla fine del secolo 7. sono menzionati ad Olimpia già gli ellanodici (giudici dei greci).
Pag., 110

La prima forma di governo che sembra essersi imposta ovunque è la monarchia.
Il re (basileus) governa la città, comanda l’esercito, ha funzioni di giudice nel campo civile (la giustizia criminale resta affidata alla vendetta dei “clan”), oltre i sacrifici pubblici.
L’autorità di cui gode è basata sia sulle sue nobili origini, sempre considerate come divine, sia sulla ricchezza che egli trae dallo sfruttamento dei possedimenti personali e del temenos, ricevuto in dotazione dalla comunità.
Il suo potere però non è affatto assoluto: egli è circondato da un consiglio, composto dai capi delle famiglie nobili, con il quale deve venire a patti.
Se Nell’Iliade il re assomiglia al wanax dell’epoca micenea, la sovranità dell’Odissea appare chiaramente coem un’istituzione nuova: la sovranità delle poleis, temperata dalla presenza di un potente aristocrazia.
Pag. 111

In seguito un’evoluzione progressiva mette fine alla monarchia a vantaggio dell’aristocrazia nella maggior parte delle città.
Sembra che questo movimento sia incominciato nella Ionia fin dall’inizio del secolo 8.
L’oligarchia s’impadronisce del potere.
Nella maggior parte dei casi non ci furono violenze: i re dovettero cedere alla pressione degli aristocratici, a volte dopo un periodo di transizione, durante il quale la monarchia divenne elettiva o fu limitata nella durata.
D’altronde il titolo di re sussiste spesso per designare una magistratura (Argo, Atene, Corinto) o una carica religiosa (Efeso, Mileto).
Oramai la sovranità esiste solo nelle zone periferiche del mondo greco, nelle regioni in cui il sistema della polis non si era sviluppato (Macedonia, Epiro) o nelle città molto conservatrici (Sparta e Tera e le loro colonie, in particolare Taranto e Cirene).
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La potenza di questa aristocrazia era basata prima di tutto sul prestigio di un’origine ritenuta divina, ma anche su una ricchezza considerevole, che resta essenzialmente fondiaria: i nobili sono dei grandi proprietari terrieri e dei grandi allevatori, soprattutto di cavalli.
I titoli con i quali li si designa in alcune città sono molto indicativi di questo stato di cose: gamores (coloro che si dividono la terra) a Siracusa, hippobotes (allevatori di cavalli) in Eubea.
I loro nomi propri derivano molto spesso da hippos (cavallo); sono i soli infatti ad avere delle proprietà abbastanza grandi e delle risorse sufficienti per darsi a questo genere di allevamento (che permette loro di servire come cavalieri e di far correre i loro cavalli ad Olimpia), del quale Aristotele dirà che è intimamente legato al regime aristocratico.
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Nel corso del secolo 7., una crisi, che non è locale ma che scuote la maggior parte delle città del mondo greco, sconvolge l’armonioso equilibrio del regime aristocratico.
Alla base di tutto vi era una rivoluzione economica che causò importanti trasformazioni sociali.
Fino al secolo 7., in Grecia come in tutto l’Oriente, gli scambi erano basati unicamente sul baratto.
Sembra che, presso i greci come presso gli altri popoli indoeuropei (cfr. il latino pecunia, il germanico feo = bestiame, quindi denaro) il bestiame sia stato il primo mezzo di scambio.
Non solo delle necessità economiche, ma anche delle considerazioni religiose avrebbero contribuito alla elaborazione della nozione di scambio, con il passaggio dall’idea di bue da sacrificio all’idee di bue-moneta.
Ma il metallo, in ragione della relativa inalterabilità e del peso minimo rispetto al notevole valore, veniva già utilizzato in Oriente, in particolare in Assiria e nell’Impero ittita, fin dal secondo millennio sotto forma di lingotti stampigliati.
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E’ a Egina, grande centro commerciale soggetto ad Argo e dove l’argento poteva essere facilmente importato da Sifno, che troviamo il primo conio di monete nella Grecia propriamente detta.
Sono le famose tartarughe d’argento, le cui prime emissioni non devono essere anteriori agli ultimi decenni del secolo 7. (altri studiosi ammettono una data più antica: Seltman, 665).
I nomi delle monete furono assunti dall’antico sistema degli spiedi; l’obolo (doppione dell’obelos) e la dracma.
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A poco a poco, durante il secolo 5., questo movimento si diffonderà in tutte le città greche, a tal punto che indipendenza e monetazione saranno intimamente legate nella coscienza ellenica; ma per il momento resta l imitato alle città che si dedicano al commercio, e alle loro colonie.
Alcune città lo respinsero volontariamente, come quelle dell’isola di Creta e Sparta, che restarono fedeli alla loro vecchia e scomoda moneta di ferro.
Ciò si deve al fatto che la monetazione interessa solo il commercio transmediterraneo: è nata in Asia, zona di scambi molto attivi, e si è diffusa fino ad Egina, Corinto, l’Eubea, l’Occidente, in tutte le regioni cioè che avevano un’intensa vita di scambi e relazioni; il cado di Atene, che emette moneta solo all’inizio del secolo 6., nel momento stesso cioè in cui il commercio inizia a svilupparsi, è molto significativo.
Il piccolo commercio al dettaglio era poco interessato alla moneta; ne è prova la rarità del denaro di piccolo taglio.
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La nascita della moneta non è che uno dei fattori dello straordinario sviluppo economico che il mondo greco conosce nell’epoca arcaica.
Conviene riflettere sulle condizioni imposte dalle risorse naturali della Grecia.
Il suolo è povero e sovente non adatto alla coltivazione dei cereali; le foreste, importanti all’inizio, si ridurranno con il dissodamento di nuove terre sfruttate per l’agricoltura e per l’allevamento; i minerali infine sono rari.
Le coltivazioni arbustive, invece, che vi crescono bene, non cessano di svilupparsi fornendo vino e olio in eccedenza; l’abilità artigianale infine, unita a un gusto raffinato, permise ai greci di creare dei capolavori, in particolare nel settore della ceramica e della fabbricazione delle armi e armature.
La colonizzazione da parte dei greci di una parte dell’Occidente e delle coste del Ponto Eleusino – fenomeno capitale che avremo occasione di studiare nella sua evoluzione -  doveva modificare profondamente la vita economica.
Da una parte, era facile procurarsi del grano o del pesce salato in Magna Grecia, in Sicilia o nel Ponto; le foreste della Tracia fornivano in gran quantità il legname da costruzione e per i cantieri navali; e in Occidente i minerali erano abbondanti.
D’altra parte, le nuove città, è soprattutto i popoli barbari con i quali esse avevano stretti rapporti, rappresentavano una clientela interessata all’acquisto del vino e dell’olio (allora considerati come prodotti quasi voluttuari), e dei manufatti.
In questo campo, infatti, il mondo greco tradizionale (Grecia propriamente detta e Anatolia) aveva raggiunto una posizione di chiaro vantaggio.
Tutti gli elementi per un grande commercio all’interno del Mediterraneo erano ormai predisposti e la Grecia, del tutto incapace di vivere con un’economia autarchica che le avrebbe procurato un tenore di vita miserabile, si apriva largamente, in tutte le direzioni.
Il movimento portava in sé una forza d’espansione indefinita: più grano s’importava, meno bisognava produrne, più si coltivava la vite e l’olivo, più si poteva esportare vino ed olio (e così per i vasi ed il loro trasporto).
Il legno d’importazione permetteva di costruire un numero sempre maggiore di navi, strumento necessario per un commercio esclusivamente marittimo; i minerali che affluivano dall’Occidente fornivano materia prima indispensabile sia per le industrie primarie, sia per le industrie d’arte; di qui l’aumento delle esportazioni verso il nuovo mondo.
L’industria e l’agricoltura erano parimenti stimolate ed il commercio diventava la base di una vita economica in continuo sviluppo.
La Grecia e l’Anatolia si arricchivano con l’andirivieni di battelli che partivano per scambiare in paesi lontani i raffinati prodotti dell’agricoltura e dell’industria con viveri e metalli.
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Se ora volgiamo lo sguardo indietro al periodo geometrico, possiamo notare come la Grecia si sia trasformata al punto di divenire irriconoscibile.
Essa non è più un insieme di città essenzialmente dedite all’agricoltura e alla pastorizia.
Assistiamo alla rinascita del grande commercio mediterraneo, come ai tempi degli achei.
Si può così affermare senza esagerazione che con l’economia mercantile nasce il mondo moderno.
Ma uan simile trasformazione non poteva avvenire senza una evoluzione sociale, spesso molto violenta.
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Nessun fenomeno è più chiaro della crisi sociale del secolo 7., ma nessun altro è più difficile da spiegare.
Si è cercato di trovarne la causa nella rivoluzione agricola, che sostituisce un po’ dappertutto le colture arbustive ai cereali: solo i ricchi possono operare questo fruttuoso cambiamento ed aspettare la decina d’anni necessaria perché l’olivo o la vite comincino a rendere.
I poveri invece hanno bisogno di un raccolto annuale e sono dunque costretti a seminare grano e orzo, che generalmente crescono male.
Considerando solo il punto di vista della resa, e indipendentemente da tutti i problemi di superficie e di fertilità – che dovevano comunque giocare a favore dei ricchi – le grandi proprietà erano così molto fruttuose, le piccole pochissimo.
Si è poi chiamata in causa la pesante concorrenza che il grano delle colonie faceva a quello che il suolo poco fertile della Grecia produceva con difficoltà: il piccolo proprietario, condannato alla coltivazione dei cereali, aveva un profitto minimo, poiché il grano del Ponto e dell’Occidente veniva immesso sul mercato a basso prezzo.
Queste ragioni, per nulla trascurabili, non spiegano tuttavia le cause della rovina del piccolo proprietario, che è anteriore al periodo in cui esse possono avere avuto un peso: certo hanno definitivamente consolidato questa rovina, ma non l’hanno provocata.
Esiodo, nelle Opere (394 sg.) accenna già ai debiti del contadino: in un’epoca in cui l’economia monetaria non esisteva, si tratta ben inteso di prestiti in natura.
Ora, è perfettamente chiaro, e lo prova l’esempio stesso di Esiodo, che alla base di questa crisi sociale vi è il nuovo diritto di successione, con la divisione della terra tra i figli.
Ad ogni generazione la terra diminuisce di superficie.
Giunge un momento – possiamo datarlo con sufficiente esattezza all’inizio del secolo 7. – in cui il processo raggiunge un punto critico: le divisioni successive riducono i lotti a tal punto che non possono più bastare per nutrire una famiglia.
I piccoli proprietari ricorrono allora ai prestiti, pratica certo antichissima, ma che si generalizza solo ora come unica soluzione in caso di penuria.
Soluzione deplorevole, che comporta ineluttabilmente la perdita dei possedimenti da parte del debitore, e in seguito la sua riduzione allo stato di operaio agricolo, cioè di schiavo.
L’apparizione della moneta verso la fine del secolo aggrava ulteriormente la situazione rendendo più acuto il problema dei debiti, ma non rappresenta, checché si dica, la radice di un male che è ben anteriore ad essa.
La terra si concentra dunque nelle mani di una oligarchia che diventa sempre più ricca e quindi più potente.
A contrario il demos diventa miserabile proprio nel momenti in cui la nuova parte che assume nella difesa della città lo porta ad una presa di coscienza politica.
Da ciò nasce una crisi terribilmente violenta che si manifesta un poco dappertutto con odi sempre più implacabili e con l’apparizione di un programma estremista: i poveri reclamano l’abolizione dei debiti e la divisione delle terre.
Fino alla piena epoca ellenistica sarà questa, in Grecia, la duplice rivendicazione del povero esasperato dalla miseria.
La nascita di una classe intermedia tra il popolo e gli aristocratici, arricchitasi col commercio e l’industria è, come abbiamo visto, uno dei fenomeni più importanti dell’epoca.
Sicuramente in molte città si stabiliscono strette relazioni tra la nobiltà e la nuova borghesia.
Molti nobili non esitano a ridar lustro alla propria casata, e Teognide s’indigna: “… Una plebea figliola di plebeo la sposa un nobile, tranquillamente, se la dote è grossa; né a un marito plebeo, se ricco, dice no una donna: vuole il denaro non la nobiltà. Ricchezza è ciò che conta. Sposano plebee con nobili e viceversa: mescolano il sangue i soldi” (185 sgg.).
Soprattutto nei grandi centri commerciali della Ionia l’aristocrazia ebbe spesso la saggezza di associarsi la borghesia nel potere.
Ma ciò non avveniva sempre e, del resto, lo sviluppo dell’industria e del commercio avevano prodotto non solo una borghesia opulenta, ma anche una classe media di artigiani e negozianti le cui condizioni di vita e i cui interessi erano assai vicini a quelli dei contadini.
Di fronte a una oligarchia egoista e invadente, essi reclamavano la partecipazione al governo e la pubblicazione delle leggi.
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Amministrazione della giustizia, diritto criminale, diritto civile: dappertutto e simultaneamente si afferma l’autorità dello Stato a detrimento degli interessi dell’aristocrazia o dei pregiudizi tradizionali.
L’opera dei grandi legislatori segna una data nella storia del diritto e assicura il primo trionfo del demos sui nobili.
Resteranno da stabilire i diritti del singolo cittadino nei confronti dello Stato.
Ma, benché questa preoccupazione non fosse del tutto assente nell’opera di Dracone, bisognerà aspettare il secolo 5. per vederla realizzata.
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Le riforme tentate dai legislatori rappresentavano spesso un compromesso tra le preoccupazioni degli aristocratici conservatori e le rivendicazioni del popolo.
Ciò nonostante non riuscirono a metter fine alla crisi sociale, che in certi casi trova una soluzione provvisoria nell’avvento al potere, mediante la violenza, di una sola persona, regime che i greci chiamarono tirannide.
Colui che si impossessa del potere e lo conserva con la forza si distingue dal re, detentore di un’autorità legittima perché ereditaria, e dal legislatore, che si impone con il consenso della maggioranza dei cittadini.
In tutte le città in cui nei secoli 7. e 6. si instaura questo regime politico, il suo capo viene designato con il nuovo nome di “tiranno”.
Le origini di questo nome sono discusse.
Non è greco e ciò appare evidente.
Forse fu mediato dalla lingua lidia, come diceva Euforione; appare infatti per la prima volta in Archiloco, che lo usa a proposito del re di Lidia Gige, anch’egli usurpatore come i tiranni.
Si è d’altronde sottolineata la parentela con l’etrusco turan (signore o signora) e con certi nomi propri d’origine etrusca (il re Turno, la dea Giuturna); e infatti gli etruschi erano degli anatolici.
Benché taluni l’abbiamo recentemente negato (S. Mazzarino), la parola e la realtà che essa sottende provengono indubbiamente dall’Asia Minore.
Notiamo che, per un lungo periodo, essa non ebbe il senso negativo che le attribuiamo noi.
Questo le diventa proprio a partire dal secolo 4., nei testi dei pensatori politici influenzati dalla nuova forma di tirannia, molto più violenta e sfrenata, che appare all’inizio di quel secolo.
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Una cosa è dunque sicura: il regime tirannico appare solo in città molto evolute dal punto di vista politico, economico e sociale.
Già Tucidide (1., 13) insisteva sulla influenza di questo fattore: “Poiché la Grecia si occupava ancor più di prima di accumulare ricchezze, in generale si vide che le tirannidi si stabilivano nelle città con l’aumento dell’afflusso di denaro”.
Questo regime soppiantò dunque l’aristocrazia che regnava sovrana ovunque.
Per realizzarlo era necessario che un uomo ambizioso – spesso un aristocratico, raramente un avventurieri – potesse appoggiarsi su di una borghesia ricca e scontenta; ma, ancor più, che potesse contare sull’appoggio di un demos esasperato dall’insolenza degli aristocratici prosperanti sulla miseria dei poveri.
L’esistenza di una crisi sociale è dunque la causa prima dell’apparizione della tirannide.
Anche altre forze però entrarono in gioco, molto diverse a seconda dei luoghi: ad Argo sarebbe stato il peso appena acquistato dagli opliti a permettere al potere assoluto di Fidone, re che Erodoto e Aristotele considerano un tiranno; nel Peloponneso settentrionale la tirannide poté approfittare dei contrasti tra l’aristocrazia dorica e le popolazioni predoriche asservite; in Occidente la presenza minacciosa dei barbari alle porte delle città greche dovette imporre la necessità di un governo forte; in Oriente, dopo la conquista persiana, i tiranni furono molto spesso solo dei governatori agli ordini del re.
Resta il fatto che la tirannide è essenzialmente figlia delle rivendicazioni della nuova borghesia, della miseria del popolo e del coraggio di individui assetati di potere e pronti a tutto pur di riuscire.
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E’ solo con molta arbitrarietà che possiamo tracciare un quadro generale della tirannide arcaica.
Ciò nonostante, alcune caratteristiche sono evidenti, indipendentemente dai luoghi, dai tempi, dagli uomini.
Il tiranno non cambia la costituzione già stabilita.
Le vecchie magistrature sono mantenute in funzione, ma affidate a uomini a lui devoti.
Il consiglio e l’assemblea, dove ce n’è una, ratificano la nuova politica, ma si tratta solo di una facciata: tutto il potere è nelle mani del tiranno.
Egli risiede generalmente nella cittadella e si fa accompagnare da una guardia del corpo, nella quale i pensatori del secolo 4. hanno creduto di poter individuare l’aspetto più caratteristico della tirannide.
Numerosi aneddoti insistono sull’arbitrio e le violenze dei tiranni: Periandro, causa involontaria della morte della moglie, in cattivi rapporti con la madre e col figlio, forniva ai moralisti un bell’esempio delle disgrazie generate dalla sfrenatezza.
Tuttavia bisogna conservare lo spirito critico: la maggior parte dei tiranni era troppo pensosa dei propri interessi per lasciarsi andare a inutili eccessi che avrebbero reso la loro situazione ancor più pericolosa.
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I tiranni, esposti all’ostilità latente degli aristocratici decaduti, cercarono tutti di consolidare la propria autorità con una politica di prestigio.
Essa si manifesta, dapprima, nelle città, con numerose e brillanti imprese edilizie, che comportavano anche il vantaggio di fornire lavoro alle classi lavoratrici.

Anzitutto furono iniziati lavori di pubblica utilità: Periandro fa tracciare una strada (il diolkos) che attraversa l’istmo di Corinto per facilitare il trasporto dei battelli da un mare all’altro; Teagene e Pisistrato fanno costruire degli acquedotti, subito imitati da Policrate, i cui ingegneri scavano una canalizzazione a tunnel, meraviglia della tecnica per quell’epoca.
Pisistrato inoltre fa costruire una fontana monumentale a nove bocche, l’Enneakrunos, per poter rivaleggiare con le fontane di Corinto.
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Sarebbe interessante conoscere la precisione i regimi che seguirono alla caduta dei tiranni; tuttavia, la diversità delle soluzioni impedisce, come spesso avviene nel mondo greco, qualsiasi conclusione generale.
Certo nella maggior parte dei casi l’aristocrazia riprende il potere, tanto più facilmente in quanto i tiranni non avevano cercato di spezzare il sistema della proprietà terriera: così avviene in Sicilia dopo la caduta dei primi tiranni (fine del secolo 7.), e ad Epidauro, dove i magistrati (artynoi, direttori) sono scelti fra un consiglio ristretto di centosessanta membri.
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Dare un giudizio sulla tirannide è un’impresa delicata e rischiosa.
Gli autori antichi, spesso influenzati dalle deludenti esperienze delle tirannidi più tarde, hanno insistito soprattutto sugli eccessi e le colpe morali dei tiranni.
Certo, sul piano politico, il solo principio regolatore delle loro azioni fu l’egoismo e la volontà di potenza, ma, obbligati a lottare contro i privilegi ancestrali dell’aristocrazia, essi contribuirono ad abolire la presa soffocante che quest’ultima esercitava sullo Stato e sulle classi inferiori: secondo la forte espressione di J. Burckhardt, la tirannide fu molte volte “una democrazia anticipata”.
Non dobbiamo nemmeno dimenticare l’impulso fortissimo che i tiranni diedero alle arti ed alle lettere.
Se l’interesse personale era, così come lo era per i nobili, l’unico motore delle loro azioni, essi ebbero tuttavia un ruolo capitale e positivo nell’evoluzione delle città, e il giudizio della posterità, che volle ricordarsi solo dei tirannicidi, non è molto giusto.
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Secondo Aristotele, l’evoluzione normale della città è quella che la fa passare dalla monarchia all’aristocrazia, quindi alla tirannide, infine alla democrazia.
Questo schema, più o meno valido, non tiene conto dei numerosi casi particolari, la cui sovrabbondanza caratterizza l’arcaismo greco.
Molte città infatti, e non delle più piccole (Sparta ed Egina per esempio, per limitarci alla Grecia vera e propria), non conobbero la tirannide.
Poche città, alla fine del secolo 6., concedono al demos il posto che gli spetta nei pubblici affari: si possono citare solo Chio ed Atene.
 A Chio troviamo fin dal secondo quarto del secolo 4. un'assemblea, che elegge un consiglio di cinquanta membri per tribù, ed alcuni magistrati (demarchoi); la giustizia viene amministrata secondo i principi democratici.
Ad Atene, la democrazia si è imposta più lentamente nel corso di questo secolo, da Solone a Clistene.
In tutti gli altri luoghi l’aristocrazia resta al potere, intransigente o moderata.
Ci vorrà un avvenimento esterno alla vita delle poleis, le guerre contro i medi, che metteranno in primo piano Atene, la cui situazione politica e sociale era la più avanzata, perché il mondo greco si liberi meglio delle strutture aristocratiche dell’arcaismo.
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Cap. 3. Il mondo antico: Anatolia e Grecia propriamente detta.

La varietà domina nel mondo greco arcaico.
Se si vuole evitare di cadere in generalizzazioni facili e gratuite, è assolutamente necessario uno studio per regioni.
Bisogna in primo luogo distinguere le terre occupate da molto tempo dai greci da quelle conquistate invece a partire dal secolo 8.
Fanno parte del primo gruppo due grandi estensioni geografiche: alla Grecia vera e propria, la cui “ellenizzazione” iniziò verso il 1950, fa riscontro la frangia costiera dell’Anatolia, occupata definitivamente con le migrazioni della fine del secondo millennio.
Nella Grecia asiatica, come in quella europea, la città costituisce molto spesso l’unità politica: solo gli Stati retrogradi della Grecia del nord passano lentamente dalla nozione di popolo (ethnos) a quella città (polis).
D’altra parte solo raramente queste città controllano un territorio molto esteso: è il caso di Sparta, che comprende la Laconia e la Messenia, o di Atene, a cui fa capo l’Attica intera.
Più spesso una stessa regione, come la Beozia o l’Acaia, comprende più città di limitate dimensioni e rivali per natura loro.
Questo frazionamento politico comportava gravi inconvenienti, poiché, causando uno stato di guerra endemico, in special modo in Asia, indeboliva i greci di fronte ai barbari che erano organizzati in regni forti e centralizzati.
Non bisogna dunque trascurare gli sforzi che nel corso dell’arcaismo furono fatti in vista di un’unificazione, sforzi orientati in due direzioni diverse.
Il primo fattore d’unione sarebbe potuto essere la religione.
Intorno ad alcuni santuari furono organizzate delle anfizionie.
Il nome stesso (alla lettera: coloro che abitano intorno) suggerisce l’idea di un raggruppamento geografico; ma forse entrarono in gioco anche talune considerazioni etniche, e soprattutto interessi commerciali.
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Un secondo fattore d’unità era rappresentato dai gruppi etnici.
La Grecia era divisa in un certo numero di regioni – ci simo limitati a questo termine vago, dovendo escludere quello di provincia – etnicamente unitarie e comprendenti generalmente un certo numero di città: così ad esempio tebani, tanagresi e orcomeni si sentivano beoti prima di sentirsi greci.
Durante l’epoca arcaica nella maggior parte di queste regioni ci è spesso sconosciuta,  salvo quella della Tessaglia, che conosciamo nelle grandi linee.
Tuttavia anche questa restò debole e mancò nel modo più assoluto di coesione interna, poiché alle città ripugnava totalmente di rinunciare alla propria autonomia e di alienare i propri diritti, fosse anche a beneficio di più larghi raggruppamenti che avrebbero permesso loro di difendersi meglio sul piano internazionale.
Le diffidenze suscitate in Beozia dal koinon beota, all’interno del quale Tebe prende nettamente l’egemonia, illustrano a sufficienza questo punto.
Questi due tipi di organizzazioni sovrastatali erano, in linea di principio almeno, libere e bisogna distinguere bene dai tentativi di Stati potenti e unificati di assicurarsi con la loro forza un impero.
Il caso più chiaro è quello di Sparta, che nel secolo 6. radunò  intorno a sé in una simmachia (alleanza) la maggior parte degli Stati del Peloponneso: alleanza certo volontaria, poiché fu sancita da un trattato di ciascun partecipante con Sparta stessa, ma che lasciava alla città egemone la direzione assoluta della politica estera e il comando delle operazioni militari.
Alla fine del secolo 6., Atene fornisce con le sue mire imperialiste un altro esempio di questo tipo di politica; l’installazione di colonie militari in certi punti favorevoli prelude al suo impero nel secolo seguente.
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Fin verso il 550 il mondo della Polinesia egea e dell’Anatolia conosce un rapido e brillante sviluppo, che ne fa l’emulo fiorente della Grecia.
Due fattori storici spiegano questa prosperità materiale e questo splendore spirituale: le invasioni doriche lo toccarono solo con le ultime ondate e la prossimità degli Stati orientali, detentori di un’antica civiltà, permise dei fruttuosi contatti.
Se le isole hanno un popolamento greco relativamente omogeneo, in Asia Minore si mischiarono preelleni, asiani, orientali e greci.
Erodoto (1., 146) insiste sul fatto che nelle popolazioni ioniche si sono introdotti in gran numero abanti, mini, cadmei, driopi, focidesi, molossi, pelasgi, dori e che molti di loro sposarono donne di Caria.
Tuttavia anche le condizioni geografiche ebbero un ruolo determinante.
In Asia i greci occupano la costa con porti spesso eccellenti e all’imbocco di valli fluviali, che permettevano di risalire per molto verso l’interno (Meandro, Caistro, Ermo, Caico).
Essi si posero dunque (come i fenici più a sud) da intermediari naturali tra il mondo dell’Asia anteriore, prospera e antica, e il mondo mediterraneo, che la colonizzazione aveva notevolmente esteso verso occidente.
La situazione delle isole è anch’essa molto favorita dalla natura: Cipro protende due estremità verso la Siria e al Fenicia, e in particolare verso la vicina Ugarit, e l’altra verso Creta e la Grecia; Cicladi e Sporadi, resti di un continente scomparso, sono come le pietre di un guado che unisce le due coste popolate dai greci.
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La poesia fiorisce fra le raffinatezze che nascono dalla prosperità: Terpandro e Arione, nativi di Lesbo, affascineranno con i loro versi gli spartani ed i corinzi; ma i veri poeti di Mitilene sono Alceo e Saffo, i cui poemi, appassionati e aggraziati, rappresentano la prima vera espressione del lirismo individuale nella letteratura greca.
Nulla li lascia indifferenti: “Ho desiderio, ho brama”, esclama Saffo (fr. 35).
La loro anima sensibile si estasia davanti alla natura, s’inebria nel vino o nei raffinati amori, si abbandona un istante alla melanconia che intacca appena la loro gioia di vivere.
Tutto ciò viene espresso in metri semplici e perfetti nello stesso tempo, metri che segneranno per sempre della loro impronta il lirismo antico.
Questi poeti fecero della loro patria il simbolo di un mondo in cui l’abbandono alla sensualità più voluttuosa non esclude la ricerca della saggezza.
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Tuttavia, in questa città splendenti [della Ionia] di prosperità, che furono spesso paragonate ai comuni italiani del Quattrocento, la vita dello spirito aveva un ruolo essenziale.
Dopo il rinnovamento dell’epopea compiuto da Omero, si assiste alla nascita dalla poesia lirica, favorita dall’adozione di strumenti musicali orientali: Mimnermo di Colofone canta il suo amore per la bella Nanno; Focilide di Mileto, poeta gnomico, sa trovare delle felici formule ben costruite; Anacreonte di Teo – che espatrierà successivamente ad Abdera, a Samo e ad Atene – celebra un Eros scherzoso, che annunzia già quello d’Alessandria.
La prosa non è meno brillante.
Esopo adatta al greco le favole degli orientali.
I logografi sono gli iniziatori tanto della storiografia che della geografia: i più celebri sono Cadmo ed Ecateo, due milesi.
Nasce una nuova architettura; l’architettura ionica, le cui opere più belle sono l’Artemision di Efeso e l’Heraion di Samo, templi giganteschi, vere foreste di colonne a imitazione dalle sale ipostile dell’Oriente.
La scultura compie progressi decisivi, grazie all’imitazione delle tecniche orientali: lavorazione dell’avorio (statuette crisoelefantine) e del bronzo (gli “inventori” della forma cava sono due architetti di Samo, Rhoikos e Theodoros).
E la ceramica stessa, col suo gusto per il colore e la sontuosità delle sue decorazioni, è testimone di un mondo gioioso.
Nel campo del pensiero, Talete, Anassimandro, Anassimene rendono famosa, l’uno dopo l’altro, la scuola di Mileto e Pitagora, il cui insegnamento troverà tanta eco in Occidente, dove egli sarà costretto a esulare, è nativo di Samo.
Tutto ferve.
La poesia sorride, appena sfumata di ineluttabile melanconia; la prosa e la filosofia si pongono con una curiosità inesauribile i problemi dell’uomo e dell’universo.
L’arte infine è in pieno sboccio con un’esuberanza, una prolissità, una colossale sontuosità, segni irrefutabili di vitalità.
La nuova culla della civiltà greca dopo la ripresa del geometrico è incontestabilmente la Ionia.
Nei suoi grandi porti – in particolare a Mileto, la più fiorente e la più prestigiosa in quel momento di tutte le città del mondo greco – i contatti con un Oriente millenario si stabiliscono facilmente, a tal punto che si distinguono male gli elleni orientalizzati dagli orientali ellenizzati.
Così si spiegano lo sboccio ed il rapido sviluppo, in due secoli, di una civiltà levantina: lux ex Oriente.
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Ma questa armoniosa intesa, dalla quale tanto i re barbari che le città greche traevano ampi profitti, scomparve con la disgrazia di Creso, vittima dell’irresistibile avanzata dei persiani.
La vittoria del re persiano Ciro (546) fu una vera sorpresa per i greci dell’Asia, che, ad eccezione dei soli abitanti di Mileto,  avevano disprezzato le sue offerte e fornito dei contingenti al re di Lidia.
Dopo la cattura di Creso, essi tentarono di resistere, ma le loro città caddero ad una ad una.
Solo i focesi preferirono lasciare la loro patria: si imbarcarono in blocco e andarono a stabilirsi nelle loro colonie, dapprima a Alalia, poi a Elea.
Tutti gli altri, salvo gli abitanti di Samo, avevano già dovuto fin dal 540 accettare la sovranità del Gran Re.
Samo conobbe allora lo splendido periodo della tirannide di Policrate, ma venne in seguito conquistata da Dario.
Sotto Ciro e il suo successore Cambise, i greci furono trattati in un modo simile a quello usato dai re di Lidia.
Ma Dario aveva un’altra concezione dello Stato.
Egli rese più gravoso il suo dominio sulle città, impose loro la presenza di guarnigioni, appesantì i tributi, sostenne dei tiranni al suo soldo.
Certo la ricchezza della Ionia non viene intaccata: checché si sia detto, Dario non favorì i fenici a detrimento della Ionia.
La conquista stimolò l’attività di Efeso e di Mileto, rendendo più stretti i loro rapporti con l’interno e facendole volgere ancor più verso l’Occidente e la Tracia.
Anche la vita dello spirito è rigogliosa: è l’epoca in cui Anassimandro ed Ecateo divengono famosi a Mileto.
Ma la servitù pesa ogni giorno di più sulle città greche.
Presto scoppierà la tempesta e la rivolta della Ionia sarà la causa diretta delle guerre contro i medi.
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Nel suo insieme, la Grecia propriamente detta fa una misera figura in confronto alla Grecia dell’Asia minore.
Salvo alcuni centri posti in faccia alla Ionia o sulla strada dell’istmo, essa resta rurale e il suo contributo alla civiltà è debole.
I confini settentrionali sono imprecisi: due marche, la Macedonia a Est, l’Epiro a Ovest, sono abitate da popoli ai quali oggi è difficile contestare il nome di greci, ma che allora erano considerati barbari.
La Macedonia viene unificata fin dal secolo 7. dalla dinastia degli alevadi, che conquistarono tutta la regione e cercarono di unirla attorno alla loro capitale, Ege, arroccata su di una potente acropoli.
L’Epiro è diviso fra tre tribù rivali.
Nell’uno e nell’altro caso sopravvive una monarchia patriarcale, abbastanza simile a quella dei re omerici e sostenuta da una feudalità di grandi proprietari terrieri.
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In conclusione, la Tessaglia conserva un grande prestigio nella Grecia centrale fino alla fine dell’epoca arcaica.
Essa possiede la maggioranza dei voti all’anfizionia delfica e conduce in nome di dio la prima guerra sacra.
Ma questa regione, una delle più ricche della Grecia e una delle più potenti demograficamente, ha un ruolo sproporzionato alle sue vere possibilità.
La sua storia è quella di una sconfitta.
Lo Stato è minacciato dall’aspra ostilità dei penesti asserviti e dei perieci sottomessi e diviso dalle rivalità fra le dinastie.
Questa sconfitta è quella di una classe dirigente che ha fallito la sua missione.
Malgrado la ricchezza e la vita splendida e fastosa di alcuni dei suoi aristocratici, essa si rinchiude in strutture sorpassate.
Non si è affatto stupiti che abbia scelto deliberatamente di stare dalla parte dei barbari al momento del pericolo persiano.
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Nel Peloponneso, la cui popolazione è ancor più eterogenea di quella della Grecia continentale, possiamo distinguere fin dall’epoca arcaica sei grandi regioni, corrispondenti a sei gruppi etnici: l’Acaia, l’Elide, l’Arcadia, la Messenia, la Laconia, l’Argolide.
Ma la vera linea di divisione è data dal grado dell’evoluzione economica e sociale, non dal tipo di popolamento.
Alcune regioni rimangono rurali ed estranee alle correnti che sconvolgono il mondo greco; altre, al contrario, soprattutto in prossimità dell’istmo, si trasformano rapidamente ed edificano delle prospere e dinamiche città.
Una sola caratteristica comune: dappertutto (ad eccezione dell’Arcadia, risparmiata dall’invasione dorica) due classi sociali antagoniste sono in lotta: vincitori e vinti, o, spesso, padroni e servi.
In questo studio tralasceremo provvisoriamente la Laconia, che merita uno studio particolarmente accurato, e la Messenia, presto asservita, la cui storia si confonde dunque con quella di Sparta fino al momento in cui (secolo 4.) ricupera la propria indipendenza.
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La storia dei giochi nella prima metà del primo millennio è quella di una continua espansione.
La tradizione dà grande importanza all’anno 776, inizio delle Olimpiadi, di cui i greci si servivano per misurare il tempo.
Questa data, considerata quella della loro fondazione, era invece solo quella del loro ordinamento definitivo.
In origine l’unica gara era la corsa a piedi, ma presto appaiono il pugilato, il pancrazio, la corsa dei carri e la corsa dei cavalli.
A poco a poco anche i vincitori (gli olimpionici) provengono da regioni sempre più lontane, col progressivo divulgarsi della fama di Olimpia.
All’inizio concorrono solo gli elei, gli achei, e i messeni, ma nella seconda metà del secolo 7., il mondo greco è qui rappresentato al completo.
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All’improvviso, prima dell’inizio del secolo 6., si ha il brusco arresto di questa rinascenza cretese e non si sentirà più parlare dell’isola per secoli.
Concorrenti più agguerriti s’impadroniscono dei mercati.
L’arte scompare e i cretesi, che, sfruttando le proprie tradizioni minoiche r gli influssi orientali, avevano elaborato le prime opere elleniche, si rivelano incapaci di adattarsi alle nuove condizioni di un mondo in perpetua evoluzione.
Si ha l’impressione che “il sangue eteocretese, sangue nobile ma impoverito, impedisca loro certe imprese” (P. Demargne).
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Uno dei rami delle genti doriche si era stabilito nella ricca valle dell’Europa, “Lacedemone concava” di Omero.
Al termine di aspre lotte, sottomette gli achei, in particolare quelli di Terapne, ma deve venire a patti con Amicle che resiste disperatamente.
In un luogo vicino e ancora vergine vengono fondati, durante il secolo 9.,  dei villaggi dal cui sinecismo nascerà Sparta, al sola città della Laconia (e fu questa la prima azione originale dei dori della Laconia, in confronto ai loro fratelli della Messenia e dell’Argolide).
La nuova città deve il suo nome ad un fiore di ginestra che cresce in abbondanza nella pianura, o alle semine, data la fertilità del territorio?
E’ un problema discusso.
Quanto al termine di Lacedemone, esso si conserva per designare la città nelle sue relazioni esterne.
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Se Sparta non assomiglia a nessun’altra città, ciò è dovuto in primo luogo alla rigidità del suo sistema sociale che comporta tre classi, nettamente specializzate e fortemente gerarchizzate.
I cittadini o Uguali (Homoioi) sono i soli a godere dei diritti politici.
Per appartenere a questo gruppo, bisogna esser nati da genitori cittadini e aver ricevuto l’educazione dello Stato.
E’ proibito loro darsi a un’attività artigianale o commerciale, ed anche coltivare la terra: vivono delle rendite di un lotto (kleros), concesso a titolo ereditario nella valle dell’Eurota (terra pubblica).
L’unico scopo della loro esistenza consiste nel servizio delle armi, al quale dedicano tutta la vita, dopo il duro addestramento dell’infanzia e dell’adolescenza.
Anch’essi uomini liberi, i perieci (coloro che abitano intorno) fanno fruttare la perioikis (margine meno fertile della vallata), dandosi alla coltivazione, all’allevamento dei montoni e dei porci, praticando il commercio e l’artigianato.
Raggruppati in grossi borghi, circa un centinaio, essi godono di una larga autonomia, senza possedere tuttavia nessun diritto d’intervento nella vita politica della città.
Esiste infine una classe di oppressi, gli iloti, servi di Stato messi a disposizione dei kleroi.
Iloti  significa o “uomini delle paludi” o “gli abitanti di Elo”, uan piccola borgata della Laconia, o “prigionieri”: in ogni modo è sicuro, secondo queste etimologie proposte dagli antichi, che si trattava di aborigeni vinti dagli invasori.
La loro situazione materiale è tollerabile: abitano in fattorie isolate e non hanno altri obblighi che il tributo (apophorà) dovuto al padrone  (settanta medimni d’orzo per il padrone e dodici per sua moglie; frutta, vino e olio in proporzione), ed il servizio nell’esercito in caso di bisogno, generalmente come fanti leggeri o come uomini di fatica.
Non sono però protetti dalla legge e la loro condizione morale è fra le più sinistre di tutto il mondo antico: fatti ubriacare per ispirare la sobrietà dei bambini, uccisi nelle misteriose spedizioni degli adolescenti, vivono nell’abiezione deliberatamente voluta dagli uguali, nell’avvilimento metodico, nel settore organizzato.
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L’esempio di Sparta prova tuttavia che nessuna società può sfuggire alla legge dell’evoluzione.
LA sua organizzazione sociale, perfetta in apparenza, cela delle tare che la mineranno a poco a poco.
Anzitutto l’uguaglianza è contro natura, e dalla fine dell’arcaismo un’ineguaglianza di fatto appare sotto la facciata egualitaria.
Da un lato infatti non è assolutamente vietato al cittadino di possedere dei beni nella Perioikìs, fatto che rende vana la ripartizione rigorosamente uguale dei lotti.
D’altra parte una figlia epikleros (cioè sola erede di un uomo senza figli maschi) può sposare un cittadino già provvisto di dote, che da allora in poi può godere di due kleroi: strana concessione fatta al sistema della proprietà familiare in un paese dove la terra è pubblica.
E’ evidente che alla fine del periodo arcaico siamo ancora lontani dalla scandalose disparità di beni che rovineranno Sparta nel secolo 4.
Nell’insieme, gli uguali restano poveri e vivono in una dura austerità.
Ma basterà che Sparta si abbandoni alle seduzioni delle società mercantili perché tutto l’antico ordine crolli.
Inoltre – e indipendentemente perfino da ogni considerazione morale – la condizione di ilota è una mostruosità.
Gli iloti sono numerosi, forse dieci per ogni cittadino (a Platea l’esercito spartano, che non li mobilita evidentemente tutti, ne conta sette per ogni cittadino), e per di più vivono in un tale stato di miseria morale, che la rivolta resta l’unico mezzo a loro disposizione contro l’oppressione e il disprezzo.
Uan grave minaccia pesa dunque sulla città, e si arriva al paradosso di uno Stato dotato del più forte esercito del mondo greco, che non può utilizzarlo per spedizioni lontane a causa del timore dei suoi iloti.
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Ci si è a volte compiaciuti nell’immaginare forze segrete che avrebbero mosso tutta la macchina politica, a profitto di un nucleo di cittadini energici che dirigevano Sparta senza debolezza, su una via sempre dritta, sotto il governo degli efori che cambiano sempre (P. Roussel).
Ma possiamo forse piegare più semplicemente la stabilità, in effetti notevolissima, della politica spartana.
a Sparta l’educazione spezza i particolarismi e soffoca le tendenze innovatrici; in quanto alla gerontocrazia inerente al sistema, essa impone un governo conservatore.
Così coloro che aspirano al potere – e sappiamo che i candidati sono numerosi e le manovre molto movimentate – mirano solo al mantenimento di un passato che nelle altre città è già da tempo scomparso.
Sparta appare chiaramente coem un fenomeno sociologico quasi unico, come un anacronismo vivente, con il suo violento attaccamento agli schemi ancestrali e alla società egualitaria, ereditato dalle più lontane età; ma sarebbe scadere nel romanzo storico volervi cercare un enigma.
La coesione interna dello Stato è una delle cause dello sviluppo costante della potenza spartana.
Appena terminata la conquista della Laconia, essa cerca di estendersi a ovest contro gli argivi e a nord a spese degli arcadi.
Tra il 736 ed il 720, conduce una guerra molto dura contro i messeni e, malgrado la loro eroica resistenza sul monte Itome, li sottomette.
Questa prima guerra di Messenia segna una data nell’espansione di Sparta: i messeni vinti vengono ridotti allo stato di iloti; le ricche terre della valle del Pamiso vengono distribuite, a titolo di kleroi, a nuovi cittadini, mentre i margini montuosi vengono aggiunti alla Perioikis.
Aumenta così il numero degli uguali e quindi la potenza militare di Sparta.
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Questo prestigio è dovuto non solo agli alleati dei quali si è circondata, ma anche al valore del suo esercito, il solo del mondo greco che fosse composto di soldati di professione.
Non possiede una cavalleria e la marina, che le viene fornita dai perieci delle città della costa, è irrisoria, ma i suoi cittadini soldati formano una irresistibile falange, sostenuta inoltre dagli opliti perieci e dagli iloti armati alla leggera.
Tirteo li descrive con versi precisi: “Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo, mordendosi le labbra con i denti, nascondendo le cosce, gli stinchi, il petto e gli omeri entro la pancia d’uno scudo immenso; l’asta possente stringa nella destra e l’agiti, muova tremendo sul capo il cimiero.”
Con una tattica rudimentale – avanzare senza rompere i ranghi fino a costringere il nemico a cedere e ad abbandonare il campo di battaglia – i soldati di Sparta resteranno imbattuti fino a Leuttra.
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Sparta non conosce un’attività economica comparabile a quella delle altre grandi città.
Soprattutto essa rifiuta di adottare la moneta e resta fedele all’antico sistema dei pezzi di ferro.
Ciò nonostante l’agricoltura e l’allevamento prosperano e le creazioni del suo artigianato di lusso (ex voto, ceramiche)si esportano facilmente.
L’importanza della lavorazione dell’avorio testimonia, d’altronde, un regolare commercio con l’Oriente.
Non è sorprendente che fino alla metà del secolo 6. si sviluppi a Sparta una brillante civiltà che ne fa l’emula delle più fiorenti città della Grecia propriamente detta.
Sono apprezzate la poesia, al musica, la danza.
I poeti più famosi la visitano e alcuni vi stabiliscono la propria dimora: il nomo è rappresentato da Terprando di Lesbo e Polmnesto di Colofone, la lirica corale da Taleta di Gortina e Alcmane di Sardi, l’elegia di Tirteo di Atene.
Due di questi stranieri esprimono due aspetti opposti e complementari dell’anima spartana: Alcmane canta con galante e aggraziata delicatezza le forti fanciulle per le quali compone i suoi partenii; Tirteo esalta con virile semplicità l’eroismo del guerriero per il quale non v’è altro ideale che la sua patria.
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Sparta è quindi nettamente volta verso l’esterno, quando all’improvviso, verso la metà del secolo 6., si ripiega su se stessa e si chiude alle influenze di paesi lontani.
Gli spartiati non sono più autorizzati a viaggiare, né gli stranieri a soggiornarvi.
Lentamente la vita si sclerotizza: si continua a cantare per gli dèi, ma solo vecchi poemi; non si costruisce più; la ceramica si spegne a poco a poco a partire dal 550 e sparisce verso il 500.
Una città in cui l’influenza dell’Oriente era molto forte, che sapeva unire alla sua virilità un fascino spesso aggraziato, si chiude definitivamente nell’austerità.
Le cause di un così brutale cambiamento sono mal note: senza dubbio i dirigenti dovettero temere che il vigore della città si allentasse e che si scatenasse, a lungo andare, una evoluzione, che temevano più di ogni altra cosa.
Gli spartani non facevano mai nulla a metà: agirono quindi con fermezza e tagliarono corto con tutto ciò che poteva temperare la loro rudezza.
Ormai Sparta non sorriderà più.
E’ difficile parlare obbiettivamente di Sparta che, nell’antichità come ai nostri giorni, fu molto ammirata e molto denigrata.
Lo storico deve riconoscere le rare qualità che le permisero d’imporsi come la città più forte della Grecia: coraggio, disciplina, tenacia, tutto ciò che i detti lacedemoni d’epoca tarda hanno trasformato in luoghi comuni, ma che fu realtà vissuta durante il periodo arcaico.
Tucidide (1., 84) pose in bocca al re Archidamo una mirabile evocazione della “saggezza riflessa” degli spartani, che definisce una costante del loro carattere e della loro politica.
Pag. 175

L’Attica, popolata dagli ioni fin d all’inizio del secondo millennio, ha già goduto di una grande prosperità nell’epoca achea, come testimoniano l’importanza delle vestigia micenee dell’Acropoli e dei suoi dintorni.
Riparata dietro la sua cerchia di montagne, essa viene risparmiata dalle invasioni doriche ed offre perfino un rifugio a molti ioni scacciati dal Peloponneso.
Grazie a questo afflusso nel Protogeometrico e nel Geometrico conosce uno sviluppo molto marcato, che ne fa la regione più civilizzata della Grecia.
Dunque, contrariamente a quanto avvenne nel Peloponneso e in Tessaglia, Atene non dovette subire l’atteggiamento di una parte della sua popolazione ad opera dei vincitori; si può vedere in ciò, senza esagerazione, l’origine del sistema sociale relativamente elastico che fu una caratteristica costante.
Per un ricordo confuso di questi fatti, che le assicurano un posto a parte nell’Ellade, gli ateniesi del secolo 5. ameranno proclamarsi autoctoni, cioè nati dalla terra stessa.
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I quadri sociali dell’Atene arcaica si ritrovano, con alcune varianti nei particolari, in molte città ioniche.
Vi sono dunque buone ragioni per supporre che essi rappresentino l’organizzazione primitiva delle società ioniche e che risalgono a un’epoca molto antica.
Vi sono quattro tribù, che portano i nomi enigmatici di Geleonti, Egicorei, Argadei, Opleti.
Il principio della ripartizione di queste tribù non è territoriale, poiché esse sono anteriori all’installazione degli ioni in Attica; non sembra neppure che sia stata fatta in base alla condizione sociale, benché si possa esser tentati di interpretare i vocaboli che le designano come brillanti (= nobili), caprai, lavoratori, uomini d’armi.
Hanno forse un’origine etnica, coem pare sia il caso delle tre tribù doriche? O si tratta piuttosto di un raggruppamento di uomini che praticano gli stessi culti (esiste per esempio in Attica uno Zeus Geleone)?
E’ difficile decidere.
Più tardi, ogni tribù ha un suo re (phylobasileus), ma non si sa se questa istituzione sia esistita fin dagli inizi.
Pag. 176

La crisi che alla fine del secolo 7. sconvolge tutte le città evolute del mondo greco, tocca anche Atene.
Molti fattori però concorrono a mantenere i privilegi di un’aristocrazia che monopolizza la vita politica: non vi sono classi servili ereditate dalla conquista; i progressi economici sono stati meno rapidi che altrove e Atene non partecipa alla colonizzazione, fatto che evita la concorrenza dei prodotti agricoli coloniali; fino a Solone non si coniano monete e ci si accontenta di utilizzare quelle delle città vicine, fatto che esclude Atene dal numero delle grandi commercianti.
Ciò nonostante, a poco a poco, Atene esce dalla sua vita calma e sostanzialmente rurale: nel quartiere del Ceramico, gli artigiani del fuoco, vasai e fabbri, incrementano la loro produzione, sotto la doppia protezione di Efesto e di Atena; gli scambi si sviluppano, com’è provato dalla partecipazione all’anfizionia di Calauria e dall’esportazione dei vasi di vino e di olio in particolare nel Peloponneso.
In questo modo alcuni cittadini si arricchiscono; molti di essi non appartengono al mondo chiuso dei gennetes, e di qui nascono le aspirazioni politiche di questi possidenti esclusi da ogni partecipazione agli affari pubblici.
Pag. 179-80

Ma la causa fondamentale della tensione sociale è dovuta all’ineguaglianza nella ripartizione della proprietà fondiaria.
Solamente Solone, incaricato con una decisione unanime di riportare ordine nella città (594593?), osa affrontare di petto questo problema.
Con la seisachtheia, misura rivoluzionaria i cui particolari sono poco noti, egli sopprime la cattività per debiti di cui erano stati vittime tanti plebei, ridotti in schiavitù dai possidenti; libera gli asserviti e la “grassa terra della patria”, che viene vincolata dagli obblighi ipotecari.
E’ la prima volta che si adotta nel mondo greco una misura così audace; essa fa deliberatamente passare gli interessi dello Stato davanti a quelli privati, anche dei grandi proprietari se occorre; così costoro si trovano spogliati delle loro inique acquisizioni degli ultimi decenni.
Gli hektemoroi scompaiono, perché ritornano in possesso delle loro terre.
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Solone trasforma parimenti le istituzioni politiche.
Utilizza una divisione anteriore in quattro classi secondo le rendite terriere: pentacosiomedimmi (rendita annuale superiore a cinquecento medimni o metrete), cavalieri (tra cinquecento e trecento), zeugiti (tra trecento e duecento), teti (al di sotto di duecento), che gli serve per ripartire onori e cariche secondo ciò che allora era considerata l’equità, cioè secondo i mezzi, e più precisamente secondo la ricchezza valutata in base alla proprietà fondiaria.
I magistrati sono eletti tra le prime tre classi, arconti e tesorieri dalla prima; ma tutti i cittadini, teti compresi, partecipano all’assemblea.
Le due prime classi servono nella cavalleria, la terza nella fanteria leggera o nella marina.
I magistrati più importanti continuano ad essere gli arconti, che formano oramai un collegio di nove membri comprendente, oltre all’arconte, il re ed il polemarco, i sei tesmoteti.
Ma la vera originalità delle riforme di Solone consiste nell’aver creato da una parte un nuovo consiglio di quattrocento membri, la boulé, incaricata di preparare le sedute dell’ekklesia, e che a poco a poco si arrogherà le prerogative dell’Areopago; d’altra parte un tribunale veramente popolare – poiché i suoi membri sono tratti da tutte e quattro le classi -, l’eliea che diventerà la sola istanza a fianco degli antichi “tribunali del sangue”.
E’ impossibile dubitare che Solone abbia tentato di stabilire un equilibrio tra i nobili e il demos.
Egli stesso, nelle Elegie, insiste sul proprio ruolo di arbitro imparziale e disinteressato: “Privilegi non tolsi e non aggiunsi al popolo, assegnandogli tanto quanto basta. Nulla d’indegno volli che spettasse a quanto per potenza o danaro erano in vista” (citato in Aristotele, Costituzione di Atene, 12).
Non è affatto un democratico nel senso assunto successivamente dal termine, ma è un fatto indiscutibile che i lineamenti essenziali della futura democrazia siano in germe nelle riforme alle quali resta legato il suo nome.
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Per Pisistrato essere fedele alla democrazia consiste soprattutto nell’appoggiarsi al demos, cioè sul popolo minuto e sugli scontenti, contro gli eupatridi.
Astuto e scaltro, abile nell’inventare storie patetiche o meravigliose, appoggiandosi perfino per breve tempo su Megacle, di cui promette di sposare la figlia senza consentire a consumare veramente il matrimonio, riesce ad imporsi come tiranno (561-560) e, due volte esiliato, a ritornare due volte al potere.
Tiranno in generale bonario, vive sull’Acropoli attorniato da guardie del corpo, limita strettamente i privilegi dei nobili, alcuni dei quali (come i cimonidi) riescono ad avere  un’intesa, almeno momentanea, con lui.
Nulla cambia nelle istituzioni, ma le magistrature sono accaparrate da uomini fedeli a Pisistrato.
Tutta la sua attenzione è dedicata ai contadini: essi approfittano sia delle distribuzioni delle terre confiscate all’aristocrazia, sia dei prestiti consentiti dal tiranno, che permettono la conversione di campi poveri che producono stentatamente un po’ di grano o di orzo, in ricchi oliveti o in vigne.
Vengono istituiti dei giudici dei demi (borghi rurali), che risparmiano ai contadini la pena di andare in città, tenendoli lontani, nello stesso tempo, dalle tentazioni dell’attività politica.
Strano paradosso: Pisistrato dà così alla futura democrazia una base più solida, rinforzando il benessere e l’indipendenza della classe media.
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Pisistrato approfitta sicuramente di una congiuntura favorevole.
Atene comincia a svolgere un suo ruolo nel concerto delle grandi potenze economiche.
I coni di monete si moltiplicano.
Il quartiere del Ceramico conosce un’attività febbrile.
I vasi, dapprima a figure nere, e poi in seguito ad un’invenzione rivoluzionaria che potrebbe essere collocata verso il 530 – a figure rosse, hanno eliminato fin dal 550 i vasi corinzi ed inondano i mercati esterni.
Atene non si lascia sfuggire l’occasione per trarre profitto dall’esodo degli ioni, che preferiscono l’esilio piuttosto che la sottomissione al Gran Re: il sorriso delle korai dell’Acropoli e i loro lussuosi abbigliamenti testimoniano la presenza in Attica di maestri ionici.
Tuttavia l’azione personale del tiranno non deve essere sottovalutata.
Abbastanza scaltro per approfittare di ogni occasione, egli assicura la grandezza di Atene, che è nello stesso tempo la sua grandezza.
Consolidamento dell’equilibrio sociale, aiuto e lavoro procurati ai meno abbienti fra i cittadini con una politica di grandi opere, incoraggiamento delle arti, espansione in terre lontane, fusione tra culti poliadi e ctonii: il nutrito programma di Pisistrato non è forse, eccettuata l’ideologia, quello di Pericle?
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Il regime aristocratico ristabilito dagli spartani non può resistere alla pressione dei democratici , che trovano un capo di gran classe nell’Alcmeonide Clistene, nipote dell’omonimo tiranno di Sicione.
L’opera di Clistene, svoltasi senza dubbio nel 508-507, è particolarmente ardita.
Alla base di tutto vi è una nuova ripartizione dei cittadini che elimina l’antico sistema delle naucrarie: l’Attica viene divisa in un centinaio di demi, raggruppati in trenta trittie, riunite a loro volta in dieci tribù in ragione di una trittia della città, una della costa e una dell’interno per ogni tribù.
Le quattro antiche tribù gentilizie, le fratrie e i gene non spariscono e continuano ad avere un loro ruolo nella vita familiare o religiosa, ma nella vita politica contano solamente le dieci tribù – per le quali d’altronde Clistene invoca abilmente il patronato dell’Apollo di Delfi – le trittie e i demi.
Il nuovo raggruppamento dei cittadini, se è territoriale a livello dei demi e delle trittie, è arbitrario a quello delle tribù: esso opera un mescolamento del corpo civico, che viene così strappato all’influenza locale degli eupatridi.
Ogni ateniese è ora designato con il suo nome non più seguito da quello del padre (patronimico), ma da quello del demo (demotico), fatto che contribuisce a sminuire l l’importanza della nobiltà.
In funzione di questi quadri, Clistene procede a una riorganizzazione degli organi di governo.
La boulé solonica dei Quattrocento diviene la boulé di Clistene dei Cinquecento; i cinquanta bouleuti di ogni tribù assicurano l’esecuzione degli affari urgenti per un decimo dell’anno (pritania); viene instaurato un calendario politico completamente laicizzato, fondato sulla divisione dell’anno in dieci pritanie.
Il collegio dei nove arconti si vede aggiungere un segretario e conta così dieci membri, uno per tribù.
E’ un tratto caratteristico dello spirito greco il voler fondare la democrazia sulla piramide dei gruppi civili e su una aritmetica decimale.
Malgrado l’evidente razionalismo che anima il sistema, non siamo lontani dalle “virtù” dei numeri care ai pitagorici.
Tuttavia non si può non essere sensibili all’ampiezza, al rigore, alla portata di una riforma in certa misura paragonabile a quella della Costituente francese.
Certo Clistene non è un rivoluzionario: mantiene i quadri ereditati dai tempi antichi dello Stato aristocratico e religioso che non sono ancora dotati di un immenso prestigio; tuttavia con innovazioni e con aggiunte egli stabilisce veramente uno Stato nuovo, laico e liberato dagli insopportabili privilegi di nascita.
Questo eupatride è il vero fondatore della democrazia ateniese.
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La vitalità di cui è testimone questo espansionismo, si manifesta anche sul piano economico, con il rapido aumento delle esportazioni (soprattutto ceramica; dunque, senza dubbio, anche di vino e olio).
D’altra parte la giovane democrazia ateniese non vuole essere da meno della tirannide.
Abbandonando la costruzione dell’Olympieion che le ricordava troppo un’epoca aborrita, essa inizia a duf dell’Hekatompedon un nuovo tempio, sul luogo del futuro Partenone: si tratta del pre-Partenone voluto da Clistene, ancora incompiuto quando sarà distrutto dai persiani nel 480.
Grazie alle prove che non l’hanno risparmiata dopo il 510, Atene è ormai abbastanza forte e matura per poter prendere meglio coscienza della propria personalità.
Le influenze ioniche diminuiscono notevolmente alla fine del secolo; le korai perdono l’ultimo sorriso: sono le madri o le sorelle di coloro che vanno a combattere a Maratona o a Salamina per difendere l’eredità di libertà e di democrazia pazientemente accumulata in un secolo.
In questa lotta, oramai prossima, Atene è lungi dal trovarsi nelle migliori condizioni: è divisa dalle fazioni, non possiede né una vera marina da guerra né un porto equipaggiato; pratica ancora una democrazia di principio, riservando per esempio le magistrature essenziali ai pentacosiomedimni.
Ma dispone della terribile falange dei suoi opliti, agguerriti dai recenti conflitti; essi sanno che non combattono solo per la vita e per le terre ingrate, ma anche per un ideale d’equilibrio sociale e di autonomia lentamente forgiato da Solone a Clistene.
D’altra parte la coscienza nazionale si è rinsaldata, coem si può notare dalla sostituzione sulla monete dei blasoni delle famiglie aristocratiche con la civetta, simbolo parlante della città (fine del secolo, forse sotto Clistene).
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Cap. 4. Il nuovo mondo della colonizzazione

Un fenomeno capitale domina tutta l’età arcaica: i gruppi dei greci provenienti dalla terre anticamente occupate (Grecia propriamente detta e Anatolia) fondano delle colonie sulle rive del Mediterraneo e del Mar Nero.
Tali movimenti di popoli non sono certi nuovi: il mito aveva conservato il ricordo della partenza di marinai verso le misteriose terre dell’Occidente e del Settentrione fin dall’epoca achea, e i recenti scavi hanno mostrato in più luoghi, e a Taranto in particolare, una notevolissima continuità dell’occupazione ellenica dal secolo 14. in poi.
Minosse aveva inseguito Dedalo fino alla Sicilia e là era stato assassinato; Ulisse dai mille stratagemmi aveva arditamente aperto nuove vie nei mari di Ponente; Giasone era andato fino in Colchide a cercare il meraviglioso Vello d’oro.
Ciò nonostante fin dal 775 ha inizio una nuova fioritura di queste imprese verso terre lontane, che durerà fino agli anni intorno al 550, e perfino al 500 in alcuni luoghi.
Poco più di due secoli bastarono per fare del Mediterraneo un lago greco.
Si dovrebbero poter individuare le cause di un fenomeno così ampio e ben definito nel tempo.
La ragione prima sta indubbiamente nella nuova vitalità del mondo greco.
Appena uscito dall’epoca geometrica in cui, tutto assorto in oscure genesi, aveva dovuto vivere ripiegato su se stesso, esso si apre verso l’esterno: riprende contatto con l’Asia e si appassiona per gli apporti orientali, ma si lancia nello stesso tempo alla conquista dell’Occidente e del Settentrione.
Che possono importare i pericoli insiti in queste imprese, divenute d’altronde meno rischiose grazie ai progressi dell’arte nautica che abbiamo già segnalato?
Le terre sconosciute affascinano gli spiriti e la tentazione dell’avventura in una razza giovane, trascina molti cuori audaci, desiderosi di dare infine la loro misura.
Allo stesso modo più tardi i vichinghi solcheranno sulle loro imbarcazioni ricurve il Baltico, un altro mar Mediterraneo, e il Mare del Nord, prima di lanciarsi in imprese ancora più lontane.
Del resto è l’epoca stessa che sembra propizia all’espansione: i fenici non si occuparono del Ponto Eusino ma precedettero i greci nel bacino occidentale del Mediterraneo (la tradizione, contestata recentemente forse senza molte ragioni, fissa all’814 la data della fondazione di Cartagine, che però era stata preceduta sin dalla fine del secondo millennio sia da Cadice sia da Utica) e restarono i loro emuli per tutta l’età arcaica – episodio, tra i molti, nella lunga lotta tra gli indoeuropei e i semiti.
Il dinamismo ellenico è lungi dall’essere la sola causa dell’espansione arcaica.
Le crudeli carenze del mondo greco hanno avuto una parte non meno importante.
La Grecia soffre tragicamente della scarsità del suo suolo (stenochoria), ma la carestia che ne risulta è un fenomeno molto più sociale che geografico: il male, già di per sé senza rimedio, è aggravato dall’ingiusta ripartizione delle terre che va peggiorando a mano a mano che l’eredità suddivide in modo eccessivo i lotti già esigui, mentre i ricchi espandono i loro possedimenti a danno del popolo minuto.
Il miraggio di vaste proprietà strappate agli indigeni, di grandi raccolti di cereali impinguati da terre feconde, affascina un gran numero di poveri.
Alzare la vela significa per loro, in primo  luogo, sfuggire alla fame.
Ma vi è un’altra carenza altrettanto grave: il mondo greco è incapace di vivere in modo autarchico.
Non possiede né il grano, né i minerali grezzi, né il legno che gli sono necessari; ma produce in eccedenza vino, olio e oggetti di lusso.
Fondare una colonia significa stabilire un emporio dove gli scambi con i barbari si moltiplicano; significa permettere quel commercio senza il quale la vita in Grecia si anemizza.
Certo simili preoccupazioni non sono di vitale importanza, ma s’impongono abbastanza presto ad alcune città, abili nel trarre profitto da una congiuntura in apparenza sfavorevole.
A questi motivi permanenti se ne aggiungono a volte degli altri più passeggeri.
Nelle lotte delle fazioni che dividono la città, i vinti cercano fortuna altrove, come le api che sciamano: così dei messeni scacciati dai loro compatrioti partecipano alla fondazione di Reggio.
A volte sono uomini finiti, criminali che vanno in esilio: bastardi spartiati nati durante la prima guerra di Messenia e incapaci di sopportare il loro discredito sociale colonizzano Taranto; Archia lascia Corinto in seguito a un omicidio per diventare ecista di Siracusa.
Per molti la colonizzazione è solo il solo mezzo per strapparsi agli scontenti, ai rancori, al maltrattamenti o alle punizioni che li attenderebbero se restassero in patria.
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Il gruppo di coloni forma fin dall’inizio uan nuova città, le cui istituzioni sono spesso ricalcate su quelle della madrepatria (Taranto possiede un’apella come Sparta), ma gode di un’indipendenza politica assoluta.
Non vi è nulla, almeno all’inizio, che possa preannunciare la colonizzazione europea dell’epoca moderna o contemporanea: le colonie sono altrettanti Stati greci totalmente autonomi. D’altra parte non vengono rotti tutti i legami con la metropoli (questo termine non si è ancora indebolita e mantiene per intero il suo significato di “città madre”).
I coloni conservano il dialetto della loro città d’origine donde lo strano paradosso che il miscuglio dialettale della Grecia si estende fino ai confini del Mediterraneo, seguendo le vicende dell’espansione.
Essi portano seco anche i loro dèi, che installano sulle acropoli continuando nel medesimo tempo a onorarli coll’invio di ambascerie religiose in Grecia per le grandi festività.
Se uan colonia “sciama” a sua volta, generalmente richiede per deferenza l’ecista alla metropoli: così Reggio ha un fondatore originario di Calcide e non di Zancle.
Ritroviamo in questa creazione così originale che è l’espansione arcaica, sia la passione per la libertà sia la forza del legame religioso, caratteristiche dello spirito greco.
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Il passaggio dalla Grecia in Italia, favorito dalla lunga catena delle isole ioniche, non è affatto arduo.
Alcuni navigatori vi si erano avventurati fin dai tempi degli achei e il ricordo dei loro vagabondaggi e delle loro agenzie commerciali sopravvive sia nei racconti che riguardano Odisseo e in parecchie tradizioni mitiche relative soprattutto a Enea, Eracle e Oreste che nei numerosi insediamenti nei quali si trovarono dei vasi micenei.
L’interruzione delle “età oscure” non fece sparire le prime colonie in cui, forse fin dal secolo 14., si erano stabiliti dei greci, ma ogni contatto tra i due bacini del Mediterraneo si interruppe.
Era compito degli arditi pionieri dell’inizio del secolo 8. riaprire il mondo italico ai greci.
La caratteristica più evidente delle installazioni dei greci in Occidente è l’estrema disorganicità delle iniziative: all’inizio si tratta solo di imprese individuali e incoerenti di coloni che desideravano innanzi tutto sfuggire al soffocamento delle metropoli.
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Per molti aspetti, e in particolare per la sua prosperità, l’Occidente greco ricorda la Ionia.
Ad Ovest e a Est della Grecia povera si trovano delle terre ricche e rese ancora più prospere del commercio.
Le città s’ingrandiscono in fretta e di pari passo si coprono di monumenti.
Così Siracusa, all’inizio confinata nello spazio augusto dell’isola di Ortigia presso la graziosa fontana Aretusa, , raggiunge la terra ferma.
I coloni amano ostentare una ricchezza conquistata senza troppa fatica e non disdegnano le gioie di una esistenza condotta fra i piaceri, della quale i sibariti restano per noi il simbolo.
Questa pingue civiltà non manca di attrattive: già Archiloco cantava Siri come l’incarnazione della grazia e della bellezza.
Ma si è parlato anche di un gusto da “parvenus”, da nuovi ricchi, in questa America dei tempi arcaici, la cui città-fungo amano un po’ troppo il colossale e l’ostentazione.
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Si può facilmente capire quanta importanza dovettero avere i problemi spirituali di una tale civiltà.
Si scopre una costante preoccupazione per l’oltretomba, a proposito della quale si può parlare di un’influenza del mondo etrusco, ossessionato dal destino dell’anima dopo la morte.
Filosofie d’ispirazione mistica, come il pitagorismo, trovano qui il terreno più adatto.
La religione ellenica stessa assume forme abbastanza originali: gli dèi greci vengono identificati con certe divinità locali, di solito Grandi Madri dispensatrici di fertilità e fecondità.
Nei particolari regna una grande varietà.
Era è particolarmente onorata in Italia, soprattutto l capo Lacinio, presso Crotone, e a Posidonia (sia nel vasto recinto sacro della città, sia nel santuario alla foce del Sele, dove alcune metope rappresentano cosi di danza sicuramente legati a vecchi riti agresti); Demetra è la dea più importante della Sicilia, e le tradizioni locali situano perfino ad Enna, nel cuore dell’isola, il ratto di sua figlia Core; Atena Iliaca ha un santuario famoso a Siri e Persefone a Locri; a Erice Afrodite viene identificata con un’antica divinità indigena, senza dubbio già trasformata da influssi fenici.
In Occidente dunque, dove registra così splendidi successi, la civiltà greca resta fondamentalmente fedele a se stessa fin nelle peggiori aberrazioni: si pensi in particolare alla distruzione totale di Sibari per opera di Crotone nel 511, che dimostra l’orribile risultato delle lotte mortali tra città vicine.
Tuttavia la grecità assume a volte forme diverse a contatto con le civiltà indigene.
Si è parlato di un’”arte coloniale” (nello stesso senso, per esempio, in cui vi è un’arte coloniale iberica nell’America del Sud), e si potrebbe soprattutto parlare di una religione coloniale, poiché in questo campo si nota un’atmosfera nettamente diversa da quella della Grecia o dell’Anatolia contemporanee.
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Tra le terre che sono poste sulle rive del Mediterraneo solo il Magreb sugge ai greci a profitto dei semiti di Fenicia o di Cartagine (ancor che si parli di modesti tentativi ellenici di Tunisia).
Ma la Cirenaica e l’Egitto, già raggiunti dal commercio acheo, vedono svilupparsi delle basi greche.
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Il caso dell’Egitto è radicalmente diverso.
In questo regno di antica civiltà, con una popolazione densa e spesso xenofoba, è impossibile per i greci stabilire colonie di popolamento.
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Alla fine dell’epoca arcaica nessuna città del Ponto ha ancora uno sviluppo di primo piano.
Se Olbia testimonia fin dalla fine del secolo 6., delle preoccupazioni urbanistiche (pianta a scacchiera), che appariranno a Mileto solo dopo il 479, come se le colonie aprissero la strada alle metropoli, d’altra parte i rari edifici che ci restano di questo periodo sono tra i più modesti (tempio senza colonne a Istro).
Le tecniche economiche sono ancora rudimentali, poiché nessuna citta conia delle monete prima del 5. secolo.
In questa regione non vi è nulla di simile alle grandi creazioni della grecità in Occidente, soprattutto vi sono pochissime sculture.
Nondimeno i greci posero piede su di una vasta area costiera che emerse dalla barbarie, e vi gettarono le basi di un prospero commercio.
La loro influenza si allarga anche ad una zona abbastanza estesa verso l’interno, nelle steppe boscose in cui abitano già gli antenati degli slavi.
Un frammento di ceramica locale della fine del secolo 7. che porta scritto in greco “Tu mi estrarrai a sorte”, fu ritrovato a Nemirov, a trecento chilometri dalla foce del Bug; alcuni vasi a figure nere penetrano fino a Kursk, nel cuore delle Terre Nere.
Lo sviluppo e l’ulteriore prosperità delle colonie del Ponto non si spiegherebbero senza il coraggio dei Milesi, che cinsero il Mar Nero con le loro colonie.
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Le metropoli, soffocate dalle lotte intestini o, ed è il caso più frequente, dalla scarsezza del loro territorio,  vedono allentarsi la stretta, benché la concorrenza dei prodotti delle colonie aggravasse a volte temporaneamente il malessere sociale.
In ogni modo l’economia riceve un prodigioso stimolo dalla sovrabbondanza di materie prime e dal moltiplicarsi dei mercati.
Le città coloniali sviluppano una civiltà molto viva, la cui originalità balza agli occhi.
Essa deriva in minima parte dai contatti che si stabiliscono con gli indigeni, che danno per esempio ai culti di Sicilia e della Magna Grecia un carattere spiccatamente locale.
Proviene invece soprattutto dalle diverse condizioni, che sono proprie del nuovo mondo.
Nelle città in cui non esiste per definizione alcun genere di tradizione, si può pensare e agire senza essere impacciati dai vecchi schemi: i primi legislatori appaiono in Occidente: ed è anche là che vengono concepiti dei vasti complessi architettonici per onorare gli dèi meglio di quanto si potesse fare nei santuari modesti della Grecia e che si edificano città dalla pianta a scacchiera.
I coloni però sono troppo orgogliosi di essere greci e disprezzano troppo i barbari per abbandonare del tutto le tradizioni della propria razza.
ne resta a conferma il nome stesso di Magna Grecia dato alla regione in cui, unitamente alla Sicilia, i loro successi sono splendidi: l’Italia meridionale.
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Le imprese coloniali ebbero come prima conseguenza quella di diffondere la civiltà greca molto lontano dalle sue basi native.
In Sicilia i contatti sono particolarmente stretti; vediamo le piccole comunità siciliane dei dintorni di Gela rinunciare progressivamente al loro modo di vivere primitivo e adottare quello delle poleis.
L’Etruria, in cui tutte le tombe rigurgitano di vasi greci (a tal punto che nel secolo scorso venivano chiamati “etruschi”) si trasforma profondamente; la sua confederazione di dodici città imita la dodecapoli ionica.
Anche nelle regioni in cui la densità dei coloni è scarsa, come nel Ponto, in Gallia o in Iberia, almeno l’aristocrazia locale si abbandona alle seduzioni di una cultura superiore.
In questo vasto movimento nulla è più significativo della diffusione della scrittura in Italia.
Il frazionamento politico spiega la molteplicità dei tentativi, che hanno però tutti come base gli alfabeti greci occidentali.
L’alfabeto messapico è quello siculo hanno dei modelli ellenici.
L’alfabeto etrusco, che appare sopra una tavoletta d’avorio di Marsiliana verso il 700, deriva senza dubbio da quello dei calcidesi di Cuma.
A loro volta gli alfabeti “nord-etruschi” (nord della penisola) e gli alfabeti veneto, osco, umbro, falisco e latino derivano anch’essi dal greco.
L’alfabeto latino, il cui più antico documento è la pietra nera del Foro (fine del secolo7.?), elimina progressivamente gli altri.
Se ricordiamo il suo ruolo nell’elaborazione della civiltà europea, siamo obbligati a riconoscere come un fenomeno capitale l’espansione rapida dell’alfabeto greco occidentale, che, direttamente o tramite gli etruschi, conquista a poco a poco tutta l’Italia avida di scrittura.
Paradossalmente la civiltà greca si espande, in particolare in Occidente, molto lontano dalle sua basi.
Le regioni celtiche più interne hanno rivelato numerosi oggetti greci, e soprattutto la Francia orientale e la Renania.
Con ogni probabilità essi vi furono importati da Marsiglia, dato che il tramite etrusco è poco probabile nel secolo 6. e la via danubiana troppo lunga.
Le tombe della Borgogna, della Franca Contea, dell’Alsazia e della regione renana contengono delle oinocoe di bronzo, per esempio a Kappel-am-Rhein (Baden) e Vilsingen (Württemberg), e numerosi vasi a figure nere, nell’oppidum del monte Lassois (vicino a Chatillon-sur-Seine), a Camp de Chateau (Giura), alla Heuneburg (Württemberg).
Il più bel cratere arcaico in bronzo fu ritrovato nella tomba di una principessa gallica a Vix (Cote-d’Or) insieme ad una mirabile fascia per capelli, d’oro.
Se il percorso compiuto dall’arte greca resta misterioso, esso ne dimostra tuttavia l’incomparabile prestigio di un mondo celtico che così si riallaccia alle fonti più pure della civiltà mediterranea.
Gli artisti indigeni adattano al gusto celtico le forme e i motivi importati.
Le tecniche edilizie si modificano: alla Heuneburg muri e bastioni in mattone crudo su di uno zoccolo di pietra testimoniano incontestabilmente influssi ellenici.
In Spagna la diffusione della civiltà ellenica è particolarmente rapida nel paese di Tartesso e su tutta la costa orientale.
Appaiono tre sistemi di scrittura a metà strada tra la scrittura sillabica e l’alfabetica, che uniscono gli influssi semitici e greci.
Lo stesso sincretismo si ritrova nei primi tentativi dell’arte iberica nei dintorni di Cadice (secolo 7.): avori, bicchieri d’argento, gioielli d’oro, candelabri di bronzo.
Qui però l’apporto orientale introdotto dai fenici sembra essere più forte.
Ma gli inizi della grande arte plastica, che ben presto raffigura un ricco bestiario, attirano l’attenzione sul mondo ellenico e soprattutto sulla Magna Grecia, dove si trova in particolare il modello dei tori androcefali tanto cari agli iberi.
Tra l’Impero acheo e la conquista di Alessandro, l’espansione arcaica testimonia con grande evidenza la vocazione propria della grecità di spingere sempre più lontano le sue conquiste economiche e spirituali.
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Cap. 5. Le innovazioni spirituali

Questo modo così vario, in cui tutte le regioni ebbero un’evoluzione altrettanto rapida, conserva però una profonda unità, almeno in un campo, quello della civiltà spirituale, costantemente rinnovata dai viaggi incessanti dei poeti, dei pensatori e degli artisti da una città all’altra.
Ciò nonostante l’Asia greca, grazie al vantaggio che deve alla sua organizzazione economica e alla sua prosperità, mantiene ancora il primato.
L’impressione più viva è quella di un’intensa potenza creatrice, un poco esuberante e disordinata: un popolo giovane elabora leggi del suo pensiero e del suo modo di sentire, inventa il suo vocabolario letterario e artistico, precisa le sue relazioni con il mondo degli dèi.
L’emozione diretta e potente che non cessiamo di provare davanti a un poema o una statua del periodo arcaico è originata dalla giovinezza e dal dinamismo di una civiltà che, senza raggiungere ancora la raffinata serenità del classicismo, cerca se stessa e, a poco a poco, si scopre.
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Vi è anche un fenomeno, quasi contemporaneo, che segna un progresso decisivo nella formazione dello spirito ellenico: la nascita della speculazione in Ionia, sotto le due forme che noi chiameremmo filosofia e scienza.
A facilitarla sono i contatti stabiliti, in particolare a Mileto, con il pensiero orientale babilonese o egiziano.
Ma essa è anche “figlia della città” (J.-P. Vernant), perché nasce in un universo spirituale del tutto differente dall’ambiente di palazzo dell’Oriente, dove resta un fatto di sottomissione al re.
La polis invece è un mondo secolare che ammette rapporti di parità tra i cittadini e prende come base una legge (nomos) uguale per tutti.
Da ciò derivano delle concezioni del mondo fondate sull’equilibrio e lo scontro delle forze naturali, poiché il nomos è, etimologicamente, una “ripartizione” tra gruppi o individui che si affrontano e trovano un equilibrio.
La spiegazione cosmologica tradizionale, che presupponeva un intervento degli dèi ed era in definita fondata su genealogie, non è più considerata sufficiente.
Ormai lo spirito umano vuole contare soltanto sulle proprie forze per interpretare l’universo scoprendo il principio primo (physis) e unico che lo individua.
E’ all’audacia dei “fisiologi” (coloro che ricercano la natura delle cose) della scuola di Mileto che si deve l’elaborazione dei primi sistemi filosofici.
Talete, forse un cario ellenizzato (fine del secolo 7. – inizio del 6.), ebbe il ruolo di iniziatore.
Suo insegnamento era che il principio generatore originale di tutto è l’acqua.
Questa spiegazione ricorda alcuni miti egiziani o babilonesi, ma la differenza essenziale sta nel fatto che il mito, nel caso della Grecia, è completamente laicizzato.
Il suo successore, Anassimandro (,età del secolo 6.), rinuncia a vedere nell’acqua la physis primordiale; al ricerca nell’Infinito (Apeiron) e spiega in che modo tutte le cose siano nate dall’Infinito, a causa della separazione di due principi opposti, il Caldo e il Freddo, avvenuta nel suo interno.
Infine Anassimene (seconda metà del secolo 6.) trova di nuovo il principio delle cose in una realtà percepibile: l’aria.
Secondo lui tutto nasce dalla condensazione o dalla rarefazione di questo elemento.
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Altri pensatori, si solito in questo Occidente, che a quel tempo costituisce quasi il secondo polo della filosofia greca, si discostano dal positivismo ionico.
Senofane, originario di Colofone, viaggiò molto e pare che infine si sia fissato stabilmente a Elea in Italia.
Non ebbe interesse per i sistemi audaci con i quali gli ioni tentavano di imprigionare la realtà.
Spirito caustico, critico accanito della mitologia tradizionale si appassionò per l’osservazione precisa: riconoscendo delle impronte di foglie nelle latomie di Siracusa, ne dedusse che una volta il mare doveva ricoprire tutta la superficie terrestre.
Ma è in veste di fondatore dell’ontologia, dunque come precursore della scuola eleatica, che esercitò la più grande influenza.
Secondo Aristotele (Metafisica, 986b) fu il primo ad “affermare, dopo aver volto lo sguardo verso l’universo nel suo insieme, che l’Uno è Dio”.
D’ora in poi il problema dell’essere ed il problema dell’Uno non cesseranno più di assillare il pensiero greco.
Con Pitagora invece non ci troviamo più di fronte all’opera geniale di un isolato: questo esule di Samo, rifugiatosi in un primo tempo a Crotone, vede accorrere intorno a sé degli uomini che ricercano la purezza e la verità.
Costoro formano una comunità, che viene ben presto espulsa dalla città ad opera di una fazione rivale, ma che si diffonderà in tutto il Mediterraneo, e in particolar modo in Occidente.
E’ difficile discernere nella magnifica fioritura del pitagorismo ciò che spetta al maestro da ciò che si deve ai discepoli, e ciò che è antico da ciò che è recente, o persino tardo.
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L’influenza del pitagorismo è considerevole e va molto al di là del periodo arcaico. In un Occidente appassionato dal problema del destino, il pitagorismo tenta di darne uan soluzione razionale, diversa dunque da quella delle regioni, alle quali si riavvicina tuttavia sia per il suo misticismo fondamentale sia per l’atmosfera delle sue confraternite.
Le nozioni di proporzione e simmetria, capitali del pitagorismo, non sono meno importanti nell’arte, che conquista in quel periodo i suoi mezzi espressivi dopo i balbettamenti del periodo geometrico.
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La manifestazione più evidente della nuova arte è la nascita di una architettura religiosa.
I templi avevano fatto una timida comparsa fin dal periodo geometrico, sostituendo generalmente dei santuari più semplici, la cui sola costruzione era rappresentata dall’altare.
D’ora in poi gli edifici religiosi si moltiplicano, fornendo agli dèi dimore solide e degne di loro.
Il tempio è infatti la casa del dio e non quella dei fedeli, che si accontentano di scorgere da lontano, attraverso la porta aperta, la divinità incarnata nella statua che la rappresentano, e di offrirle sacrifici sull’altare, posto di solito davanti all’entrata.
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Questi edifici sono composti unicamente da piattabande e piedritti, cioè da strutture rettilinee.
Ma tali elementi, e in particolare latrabeazione e il colonnato, non sono lasciati alla fantasia dell’architetto; obbediscono a rigidi canoni che ne regolano la forma, le proporzioni e la decorazione, e che vengono designati col nome tradizionale di ordini.
Vi sono due ordini, il dorico e lo ionico, che ebbero una elaborazione parallela fin dall’alto arcaismo e che, rimanendo immutati nelle linee essenziali, serviranno oramai da schema prima all’architettura greca, poi a quella romana e infine a quella rinascimentale.
Una simile sopravvivenza degli ordini, il cui carattere convenzionale è evidente, rende ancora più interessante il problema delle loro origini.
E’ necessaria un’osservazione preliminare: i primi templi erano costruiti in legno, fatto che spiega le caratteristiche più notevoli e in apparenza più illogiche, dell’architettura in pietra che ben presto si imporrà.
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Parlare della letteratura, dell’arte e perfino della filosofia arcaica significa già parlare di religione, il cui carattere più evidente sta proprio nel fatto che essa in questi anni informa tutta la vita.
Le principali innovazioni risalgono però all’epoca geometrica: nuovi dèi sono entrati a far parte del pantheon greco, si è stabilito un equilibrio tra divinità maschili e divinità femminili e la città in evoluzione ha fondato dei culti poliadi e costruito dei templi per proteggere gli idoli.
Il periodo arcaico non conosce dunque una vera rivoluzione religiosa, ma la rinascita della cultura greca e la sempre crescente prosperità permettono uno sviluppo armonioso della vita spirituale.
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Nello stesso tempo un potente movimento spirituale anima la religione, la sottrae al formalismo di riti e risponde alle nuove aspirazioni di una società meno primitiva.
Già in Esiodo si notava una certa tendenza a moralizzare gli dèi, che si consoliderà durante l’epoca arcaica.
Zeus in particolare diviene il garante della vita morale e il protettore per eccellenza della giustizia (considerata del resto come sua figlia), virtù fondamentale che s’impone progressivamente in questo periodo di violenti rivolgimenti.
La giustizia ignora ancora le raffinatezze della filantropia e sarà definita con ammirevoli formule sia da Eschilo che da Pindaro, eredi in questo campo della tradizione arcaica.
Quanto ad Apollo, egli favorisce a Delfi dei progressi ancora più importanti: presso il suo santuario la responsabilità personale si scinde da quella collettiva del genos e incomincia a prendere forma la nozione di purezza rituale e morale.
E’ questo un momento capitale, ci cui il filonomismo cede davanti all’ontonomismo, in cui le vecchie maledizioni legate alla razza non sono più considerate come definitivamente immutabili e in cui il rimorso può procurare il perdono dell’anima contaminata da un crimine.
Apollo e il fratellastro Eracle non diedero forse essi stessi l’esempio, purificandosi dall’omicidio di Pitone e dei suoi figli?
Tali acquisizioni furono certo lente, poiché Eschilo stesso dovrà ancora lottare per farle ammettere, ma vi fu una notevole evoluzione in confronto alle “epoche oscure” del Geometrico.
Ciò nonostante altre speranze seducono gli animi preoccupati di assicurarsi un’eternità felice.
I misteri di Eleusi rappresentano un fenomeno che va al di là delle vecchie liturgie agresti, e il culto di Dioniso non si esaurisce nelle danze dei Satiri: li anima la speranza della salvezza, che sta pure alla base di una dottrina notevolmente diffusa, a quanto pare, alla fine dell’epoca arcaica: l’orfismo.
Legata al nome prestigioso del cantore Orfeo, essa insegna che in ciascun uomo vi sono due elementi: l’anima, celeste, e il corpo, titanico.
L’anima viene liberata del corpo, sua tomba, dalla morte, ma, dopo un giudizio degli dèi sugli atti commessi durante la vita, essa conosce una nuova incarnazione, e così via finché, completamente purificata, accede alla felicità dei Beati.
E’ una dottrina esaltante, che si basa su una cosmologia notevolmente influenzata dall’Oriente e che suscita in tutto il mondo greco un’intensa ricerca di purezza spirituale.
Malgrado il lavoro di classificazione dei testi orfici che Onomacrito, pensatore troppo originale per piegarsi a questa collazione, compì per i Pisistratidi, è difficile conoscere bene questa dottrina, così come accade anche per il pitagorismo, dal quale si distingue malamente.
E’ invece possibile scorgere la profondità di questa corrente mistica nell’influenza che esercitò su spiriti come Pindaro e perfino come Platone.
Alla fine dell’epoca arcaica il mondo greco è frazionato in un mosaico di piccoli Stati indipendenti, morbosamente gelosi l’uno dell’altro e molto diversi a causa della posizione geografica e del grado di sviluppo.
Ma l’unità della Grecia non è meno evidente della sua varietà.
Si tratta già di un’unità culturale, che sarà definita da Isocrate in un famoso passaggio del Panegirico, 50: “Si usa il nome di greci non per indicare la razza, ma per indicare la civiltà”.
Nutriti dalle stesse poesie di Omero, infiammati dalle stesse ricerche letterarie o artistiche, uniti in quei focolari comuni che erano i grandi santuari, i greci presero coscienza della loro specificità e di tutto ciò che li differenziava dai barbari, la cui sorda minaccia incominciava ad avvicinarsi.
In questo mondo, animato da due secoli d’un dinamismo fervido e creatore, l’evoluzione diventa più rapida nel corso degli ultimi decenni del secolo 6. e le forme si diversificano.
La tragedia raggiunge una forma organica, i vasi a figure nere scompaiono cedendo il posto a quelli a figure rosse, il sorriso aggrazia i volti di pietra, la democrazia conquista Atene…
Le guerre persiane, giunte troppo tardi, non possono essere la causa di una così profonda trasformazione: esse appaiono piuttosto come una consacrazione.
Oramai conscia della sua potenza e della sua grandezza, mossa da un irresistibile slancio, la civiltà greca trova in se stessa la forza per compiere uno splendido rinnovamento.
Il confronto che si prepara e che sarà nello stesso tempo la più rude delle prove e la più dura delle vittorie, le fornirà solo altri modi per imporsi ed altre ragioni per affermarsi.
Pag. 242-45


Libro terzo. La fioritura del classicismo greco

Cap. 1. Atene padrona dell’Egeo

L’alba e il crepuscolo del secolo 5. sono cruenti.
Questo periodo si apre con il prodigioso ma breve confronto armato tra greci e barbari, e si chiude con l’interminabile guerra in cui, in una lotta fratricida, i greci consumano le loro forze più vive.
Tra questi due momenti vi sono i “cinquant’anni” (la Pentecontaetia), come dicevano gli ateniesi, che sono quelli dell’incomparabile trionfo di Atene.
Le guerre persiane sono originate direttamente dall’antagonismo tra due mondi in piena espansione.
Dopo la conquista del Medio Oriente per opera di Ciro, l’Impero persiano non aveva cessato sotto Cambise di crescere e sotto Dario di organizzarsi.
Il primo scontro tra persiani e greci avviene proprio in Asia, dove tutta la costa, greca da secoli, fu annessa da Ciro dopo la sua vittoria su Creso.
Pag. 247

Negli stessi anni i greci di Sicilia debbono affrontare un barbaro non meno terribile: i cartaginesi.
Questo sincronismo non è certo dovuto al solo caso, ma ad un trattato concluso tra Susa e Cartagine.
Anche in questa occasione gli elleni sono disuniti e Selinunte e Reggio combattono a fianco dei semiti.
Ma una volta ancora il trionfo dei greci è stupefacente: sulle rive del fiume Imera, Gelone di Siracusa riporta una vittoria dura ma decisiva su Amilcare (480).
I greci s’impadroniscono di un immenso bottino e fanno molti prigionieri, che permetteranno l’esecuzione di imponenti opere edilizie.
Poco dopo, (474) i siracusani battono anche gli etruschi davanti a Cuma.
Questi due successi, che possono essere considerati una rivincita di Alalia, permetteranno ai greci d’Occidente, che si sono momentaneamente sbarazzati dei loro rivali, di raggiungere uno splendido sviluppo.
Pag. 251

Per la prima volta alcune città greche, che non rappresentano affatto tutte le forze della piccola Grecia e ancor meno quelle del mondo greco, hanno messo a tacere le vecchie e recenti discordie per difendere ciò che per esse è il bene supremo: la libertà.
La sorprendente vittoria che riportano non può essere spiegata in altro modo.
Contro di loro stava un solo uomo libero, il Gran Re, alla testa di un popolo di schiavi: soldati che andavano in battaglia sotto la minaccia della frusta, marinai ionici resi passivi dalla spaventosa repressione della rivolta della loro patria, uomini che presto si accorgeranno di lottare contro fratelli.
Pur non avendo molto rilievo per la Persia, Maratona, Salamina e Platea sono date capitali nella storia greca: un popolo che non vuole morire né decadere trova salvezza nel coraggio, nell’abnegazione e nell’unità.
Unico momento di armonia nella perpetua discordia di un mondo internamente diviso.
Pag. 252

La Grecia esce trasformata dalla spaventosa prova.
Il suo equilibrio stesso ne è sconvolto, poiché una città che fino ad allora ha avuto un ruolo secondario passa in primo piano.
E’ come una sferzata che aiuta gli ateniesi a ripudiare le numerose strutture arcaiche ancora sopravviventi nel loro Stato.
Non sono essi costretti anche a pensare e a realizzare del nuovo, dal fatto che tutta la loro città, violata due volte dai persiani, è solo più un ammasso di rovine?
Senza scusarli, possiamo capire il complesso di superiorità da cui saranno d’ora innanzi animati.
Pag. 252-53

All’indomani della vittoria, le città dell’Egeo vivono nel terrore di un ritorno dei persiani.

Cercano volentieri l’appoggio di Sparta, che esercita l’egemonia nella lega ellenica creata nel 481 contro i barbari; ma la grande città dorica è stanca degli intrighi tirannici del suo re Pausania e degli attriti con gli alleati.
Teme inoltre le conseguenze, a lungo andare funeste, delle spedizioni in terre lontane, che avrebbero potuto rovinare la stabilità politica e sociale a cui aveva tutto sacrificato.
Si ritira dunque spontaneamente dalla lotta, lasciando campo libero ad Atene.
Questa mossa presuppone implicitamente una ripartizione, tra la terra, che Sparta si riserva, e il mare, che lascia invece alla giovane e dinamica Atene.
Pag. 253

Da molto tempo ormai la confederazione è solo più una finzione.
Atene è ora abbastanza forte per smettere il doppio gioco.
Nel 454, con una decisione simbolica, essa trasferisce sull’acropoli il tesoro federale di Delo.
La simmachia diventa un impero (arché).
Nel 449 la pace di Callia mette fine alle guerre persiane con un compromesso tra Atene e il Gran Re: la clausola più importante è il riconoscimento dell’autonomia delle città greche d’Asia da parte della Persia.
La confederazione sembra perdere la sua ragion d’essere, che era la lotta contro i barbari, e infatti pare che il tributo non sia stato riscosso nel 449, almeno per quanto riguarda alcune città.
Fin dall’anno 450 però esso viene imposto di nuovo e Atene rafforza l’organizzazione dell’Impero con alcune misure unilaterali prese dall’ekklesia.
In una data molto discussa (senza dubbio 449-448) il decreto di Clearco proibisce di battere moneta in tutto il territorio dell’archè e vi impone le monete, i pesi e le misure ateniesi.
Nel 448-447 il decreto di Clinia stabilisce un sistema rigoroso con tavolette e sigilli per la riscossione dei tributi.
Infine l’Impero viene diviso in cinque distretti per facilitare la riscossione delle imposte.
A partire dall’anno 444 il tesoro federale serve non solo a mantenere l’esercito e la marina, che assicurano la pace nell’interesse generale, ma anche a sovvenzionare la costruzione dell’Acropoli.
Pericle può proclamare orgogliosamente, rispondendo alle rivendicazioni degli alleati sostenuti dall’aristocratico Tucidide, figlio di Melesia, che le città che non contribuiscono in nulla alla difesa comune, non hanno diritto di protestare contro l’utilizzazione dei fondi del phoros decisa dall’ekklesia.
Si registrano nuove rivolte, ma tutte in ordine sparso: l’Eubea nel 446, Samo nel 441.
La flotta è abbastanza potente da sottomettere gli insorti.
Vengono create nuove cleruchie nelle isole che si trovano lungo la rotta capitale degli Stretti: a Calcide e ad Eretria dopo la loro rivolta; in Asia minore, dove succedono alle guarnigioni ateniesi che vi erano mantenute prima della pace di Callia; infine e soprattutto, con la creazione di Brea e poi di ANfipoli, in Tracia, regione vitale per Atene dal punto di vista economico, che viene penetrata sempre più dall’influenza attica fino alle tribù odrisie delle pianure bulgare.
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Se si pensa inoltre che il privilegio – fondamentalmente legato, agli occhi dei greci, all’autonomia – del conio delle monete, fu soppresso in tutte le città dell’archè, appare chiaro che nell’insieme gli ateniesi si comportarono nei confronti dei loro “alleati”, divenuti in realtà loro sudditi, con estrema disinvoltura, talvolta con spietata tirannia.
Viene allora spontaneo da domandarsi come la democrazia e l’imperialismo possano essere compatibili nello spirito degli ateniesi, dato che essi mostrano di lasciarsi guidare solo dalla ragione, come risulta dai discorsi che Tucidide mette in bocca a Pericle.
Notiamo in primo luogo che la concezione greca della libertà è molto differente da quella che ci ha imposto l’ideologia della Rivoluzione francese.
Per i greci non esisteva l’idea kantiana della reciprocità dei doveri e dei limiti imposti all’autonomia degli uni dal rispetto dell’autonomia degli altri: la libertà si manifestava solo nell’azione e, precisiamolo, nell’asservire gli altri.
J. Larsen ha giustamente sottolineato che anche le piccole città agirono in questo campo come Sparta e Atene, consumando per secoli le loro forze più vive in sterili lotte per derisori spostamenti di frontiera.
Inoltre i più idealisti tra gli ateniesi si consolarono, forse, pensando che l’estensione dell’Impero avrebbe comportato anche ‘estensione della democrazia e dimenticando che la democrazia delle città dell’archè era una democrazia “di facciata” irrimediabilmente mutila?
Ma c’è di più.
La democrazia ateniese è imperialista per sua stessa natura e non per caso.
Essa mira ad assicurare innanzi tutto una vita decente ai cittadini, anche ai più poveri.
Questa diffusione del benessere è possibile solo grazie a una politica di grandi lavori sovvenzionati dal tributo, con la moltiplicazione delle colonie militari, che non possono stabilirsi senza la confisca delle terre più ricche degli “alleati”, e che permettono ai teti di accedere al censo degli zeugiti.
La mistoforia, base fra le più sicure della democrazia politica, presuppone che Atene disponga di notevoli introiti, quali solo l’Impero può assicurarle.
Leggendo i discorsi di Pericle nei testi di Tucidide, si resta spesso coliti dal vero e proprio cinismo che vi domina senza alcun pudore.
Gli ateniesi erano certo in buona fede, mentre sfruttavano a proprio vantaggio i fratelli delle isole o dell’Asia.
Tucidide, con la lucidità che gli è abituale, ha messo in luce i fondamenti di questo imperialismo, che si scatena con la virulenza ancora maggiore durante la guerra del Peloponneso: gli ateniesi hanno dalla loro la forza, devono perciò impiegarla; ispirano ai propri sudditi una violenta paura e devono dunque mantenerli in questo stato di dipendenza psicologica.
Molto tempo prima che la riflessione di alcuni sofisti sviluppasse una specie di amoralismo nietzschiano, i democratici del tempo di Pericle, eredi degli aristocratici contemporanei di Cimone, lo praticavano già largamente.
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L’Atene del secolo quinto deve tutta la sua potenza e il suo prestigio all’Impero, che seppe conquistare e che sfruttò a proprio esclusivo vantaggio; ma i rancori, i risentimenti,  gli odi suscitati dalla durezza di cui diede prova, la condurranno infine alla rovina.
Essa perirà per aver spinto all’eccesso le sue pretese di ottenere l’egemonia marittima, quell’egemonia che per lungo tempo le aveva procurato grandezza e prosperità, per essersi dimostrata incapace di sviluppare fra gli alleati il sentimento di appartenenza a una comunità dalla quale anch’essi potessero trarre giovamento, e per aver concepito un sistema politico in cui la democrazia generava, come sua condizione necessaria, l’imperialismo.
La disfatta finale fu causata dall’impossibilità di conservare indefinitamente uan tale potenza, per cui potesse sempre imporsi con la forza; persino il lucido Pericle fu tanto cieco da non prevedere l’ineluttabile svolgimento dei fatti.
Gli alleati mormoravano, senza volersi rendere conto degli incontestabili vantaggi che Atene procurava loro.
La pace regnava nell’Egeo, i barbari rimanevano sulle difensive, i prodotti affluivano e il commercio non avvantaggiava esclusivamente gli ateniesi, poiché non avevano instaurato alcun monopolio; l’unità del sistema monetario metteva fine a un disordine secolare e facilitava gli scambi.
Atene poi dava il grande esempio di una città in cui tutto il demos partecipava agli affari pubblici, il diritto diventava più umano e le più sontuose processioni e i più bei santuari celebravano la gloria degli dèi, mentre visi davano convegno tutti i pensatori e gli artisti.
Essa divenne, secondo la splendida definizione con la quale Pericle esagerava un poco la gloria della sua patria, “la scuola della Grecia” (Tucidide, 41).
Sorse allora uno strano antagonismo tra Atene, che rifiutava di ammettere la sua fondamentale ingiustizia,  e gli alleati, che non volevano riconoscere la fine della guerra del Peloponneso perché essi possano scuotersi di dosso il detestato giogo e accorgersi ben presto che le altre egemonie non erano più sopportabili di quella ateniese.
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Invano il comico Cratino dileggia “il cranio a forma di cipolla marina” di Pericle, o attacca Aspasia, “l’impudica concubina dall’occhio di cagna”.
Invano i nemici cercano di colpirlo indirettamente intentando processi ai suoi amici, ad Anassagora, a Fidia, ad Aspasia, prima di avere il coraggio di trascinare anche lui in tribunale.
Con la sua alta statura egli domina un secolo che per noi porta giustamente il suo nome.
Certo le sue concezioni sono necessariamente molto lontane dalle nostre.
Abbiamo già sottolineato quanto fosse egoista questa democrazia che fonda la propria libertà sull’asservimento e lo sfruttamento degli altri.
Bisogna aggiungere che il regime di Pericle non è, sotto diversi aspetti, molto diverso da una tirannide.
Alle parole di Cratino sopra “il più grande dei tiranni” fa eco la conclusione di Tucidide (2., 65): “In apparenza si tratta di democrazia, in realtà del governo di un uomo solo”.
Dobbiamo tuttavia riconoscere l’interesse di questa prima esperienza di “socialismo di Stato” (G. Glotz), ispirata sia all’idea che ci si può rivolgere liberamente al popolo e trascinarlo con la seduzione dell’intelligenza, che alla teoria del Nous di Anassagora, secondo cui la Ragione umana è la sola capace di organizzare la vita politica.
Sul Partenone figurano a più riprese gli dèi e gli eroi ordinatori del cosmo contrapposti alla barbarie dei Giganti, dei Centauri o delle Amazzoni, ed anche il levarsi degli astri la cui luce inonda il mondo.
Ispirati all’universo mitico o naturale, sono i simboli doppiamente evidenti di una grande speranza che illumina per la prima volta la Grecia.
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Nel 431 scoppia un nuovo conflitto tra Atene e i Peloponnesiaci.
In apparenza non è che la continuazione della lotta finita soltanto nel 446 con una pace ambigua.
In realtà invece, l’atmosfera è cambiata radicalmente: i successi e l’orgoglio degli ateniesi esasperano le città rimaste indipendenti; inizia una lotta mortale, di quasi trent’anni, nella quale ciascuno fa un uso disperato delle proprie energie: si calcola che Atene abbia mobilitato il 29 per cento della sua popolazione (in epoca moderna; guerre rivoluzionarie, 3 per cento; guerra del 1914-18, 10 per cento).
Nulla di strano dunque che ne esca fiaccata per sempre.
Ma Atene ha fiducia nelle proprie forze e Pericle, senza usare la minima prudenza, sembra deciso a giungere a una prova di forza per approfittare degli incontestabili successi riportati negli ultimi decenni.
I due primi incidenti (questioni di Corcira e di Potidea) la pongono a confronto diretto con Corinto, al città maggiormente offuscata dal trionfo economico della rivale.
Quindi provoca Megara con un decreto intollerabile, che la condanna a sicura rovina impedendole l’accesso ai mercati dell’Impero.
In un congresso della Lega peloponnesiaca riunitosi a Sparta, la guerra viene virtualmente decisa sotto l’energico impulso ei corinzi.
Ma Tucidide (1., 3) nota giustamente che la “causa vera” del conflitto è da ricercarsi nell’urto dell’imperialismo intransigente di Atene contro la volontà d’indipendenza e gli interessi commerciali di qualche città rimasta autonoma.
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Ma il nuovo rispetto dei diritti dell’individuo non è più compatibile con la condotta di una guerra imperialista.
Pericle aveva potuto imporre l’egemonia ateniese perché tutta la città era unita attorno a lui in una forte coesione.
Gli uomini politici che gli succedono – si pensi per esempio ad Alcibiade – sono i primi a dare esempio di indisciplina e di egoismo.
La città crolla nel 404, per non aver voluto scegliere tra la via relativamente austera della potenza, che presuppone il sacrificio di tutti alla causa comune, e la via dell’armonioso sviluppo dell’individualità del cittadino.
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Cap. 2. Il secolo di Pericle o il sorgere dell’età dei lumi

La storia politica del secolo quinto dimostra che Atene non riuscì mai a eliminare i propri rivali e che alla fine dovette soccombere sotto i loro attacchi.
Ciò nonostante, malgrado la durezza e le incongruenze di un imperialismo che noi condanniamo non solo a causa del suo fallimento, la città di Pallade è il fulcro di una civiltà che costituisce una delle più belle realizzazioni dello spirito umano.
E’ ad Atene che si riuniscono tutti i greci dotati di capacità creative nelle diverse attività dello spirito e si elabora un’arte la cui pacata nobiltà non cessa d’imporsi all’ammirazione e all’imitazione.
l’Acropoli, che un giorno fu abbandonata da Atena e sulla quale si onorarono successivamente Gesù e Allah, resta il centro ideale dove si ritrovano tutti coloro che non disperano delle capacità dell’uomo.
Vi è infatti un legame sottile ma chiaro tra il quadro urbano disposto attorno alla collina santa, l’affresco così umano di Erodoto, la tragedia sofoclea delle serene rivolte, il riso sfrenato di Aristofane, gli dèi olimpici di Fidia, il netto grafismo dei vasai del Ceramico e il “demone” di Socrate.
Al centro di tutto vi è un umanesimo che la famosa massima di Protagora riassume solo parzialmente: “L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono” (Platone, Teeteto, 152a).
Questa sinfonia si svolge in tre movimenti, che corrispondono a tre generazioni.
All’epoca delle battaglie di Maratona e di Salamina, una nuova Grecia nasce all’improvviso dalle rovine delle guerre persiane, ancora piena di contrasti, ma che fa già trionfare il suo classicismo.
L’apogeo di Pericle traduce l’euritmia di un mondo che ha trovato un effimero equilibrio.
La guerra del Peloponneso riporta tutte le inquietudini, ma la crisi stessa favorisce lo sboccio delle creazioni più feconde.
Eschilo, Sofocle ed Euripide sembrano quasi riassumere tale evoluzione.
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La caratteristica più evidente della prima generazione è la severità.
Si parla spesso di “stile severo” a proposito delle creazioni della plastica o della ceramica del primo quarto del secolo, ma l’espressione è altrettanto valida per la letteratura contemporanea.
La cultura si libera molto lentamente dal terribile periodo durante il quale viene messa alla prova e dovette, per sopravvivere, approfondire le sorgenti delle sue convinzioni e cercare nuove ragioni di fede nel proprio destino e nei propri dèi.
La transizione è più o meno rapida a seconda dei doversi campi dell’arte, e non bisogna credere che le guerre persiane siano l’unica spiegazione di un movimento che in realtà è anteriore ad esse e solo parzialmente conseguente.
Eschilo e Pindaro scrivono prima del 490 e lo sviluppo della ceramica di stile severo a figure rosse è insensibile, dopo la sua apparizione.
La scultura può forse mostrare una cesura più netta.
Appare abbastanza improvvisamente, malgrado le transizioni, un preclassicismo che rompe con le tradizioni del periodo tardoantico.
Ad ogni modo, notiamo in ogni campo un nuovo sforzo diretto a cogliere l’assoluto atemporale invece dell’aneddoto, a dare all’uomo una sua dignità, e anche un’aspirazione, fino ad allora sconosciuta, verso l’ordine e l’armonia.
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Sui campi di battaglia i greci vinsero solo perché gli dèi combattevano con loro.
A Maratona come a Salamina si videro gli eroi dell’Attica lottare a fianco degli ateniesi.
Il fervore religioso, così caratteristico dell’inizio del secolo, si spiega con gli stretti legami che uniscono città e religione: i successi di Atene rappresentano il trionfo di Atena e degli dèi olimpici.
D’altronde l’olivo sacro dell’Acropoli, pegno dell’alleanza tra la dea e il suo popolo, non rispuntò forse dopo esser stato tagliato dai Persiani?
Ma se questa prova testimonia il soccorso degli dèi, mostra anche quanto siano temibili le potenze soprannaturali.
Benché fervida, la pietà resta contaminata dall’angoscia.
Pindaro (Nemee, 6., 1) sottolinea violentemente la trascendenza del divino: “Una è degli uomini una è la stirpe dei numi”.
Eschilo vive in un mondo di angoscia, sul quale incombe il destino, più potente delle divinità stesse.
Ma in generale domina l’ottimismo.
Gli dèi sono più delle potenze indifferenti al bene e al male.
Zeus, la cui nobile figura primeggia sempre più nel pantheon, è per Pindaro come per Eschilo il garante della giustizia.
L’uomo può confidare in lui, a patto che accetti il suo destino e rinunci all’hybris, la mancanza di misura unita alla violenza, che è la negazione stessa della condizione umana.
Il teatro di Eschilo sviluppa un’idea assai curiosa per noi: gli dèi stessi si sono evoluti.
Zeus inizia con le bravate abominevoli di un tiranno, ma nell’ultima tragedia, che non abbiamo, della trilogia si riconcilia con Prometeo.
Quest’ultimo, a sua volta, non è più l’uomo scaltro di Esiodo, le cui astuzie si rivolgono alla fine contro l’umanità stessa, ma un dio che ama infinitamente l’uomo e che accetta di morire per i suoi protetti: un’anticipazione del Cristo, come è stato detto senza esagerazioni.
Il mondo divino è certo preda di antagonismi che ricordano quelli della città, ma si rivolgono in armonia.
L’Orestiade contiene un’ammirevole lezione: le vecchie dee della vendetta, le terribili Erinni, queste cagne violente che si abbeverano di sangue, diventano le Eumenidi (Benevole), mentre una nuova generazione olimpica, quella di Apollo e di Atena, impone una morale fondata sulla purificazione, la contrizione, il perdono del colpevole penitente.
Le teomachie terminano con il trionfo della concordia; i raggi della speranza illuminano non solo l’iniziato di Eleusi ma anche il cittadino che si rivolge alle divinità poliadi.
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A poco a poco insensibili transizioni liberano il classicismo dal preclassicismo.
L’angoscia si placa, gli dèi diventano olimpici come lo era Pericle, Atene fa trionfare ovunque lo spirito attico.
Indiscutibilmente tutto ciò è riflesso dell’equilibrio politico e sociale che si instaura in quegli anni e dura qualche decennio.
Ma, come quest’equilibrio, così anche la nuova armonia che si impone in tutti i campi è il risultato di uno sforzo doloroso: e potenze del male, se pur vinte, sono ancora presenti nei fregi del Partenone, e il tema della rivolta è al centro dell’opera sofoclea.
Già si preannunciano delle dissonanze, e basterà la scossa provocata dalla guerra peloponnesiaca per trasformare tutto il mondo greco.
Pag. 286

I generi drammatici che si ricolgono direttamente al demos hanno una parte essenziale nella letteratura greca.
La commedia, definitivamente organizzata dal punto di vista tecnico, conosce già il successo dovuto allo scandalo delle sue allusioni sfrenate all’attualità politica, e fin dal 440 le si dovrà proibire di mettere in scena dei personaggi viventi, ma senza ottenere obbedienza.
Di essa purtroppo ben poco ci resta, salvo qualche frammento e qualche nome, tra i quali quello di Cratino, che sembra essere, con la sua verve buffonesca, il miglior precursore di Aristofane.
La tragedia si pone su di un altro registro: continua ad interessarsi ai rapporti tra l’uomo e gli dèi.
Sofocle la riassume ai nostri occhi, benché Euripide abbia iniziato a produrre fin dal 455.
Egli sembra essere il modello dell’uomo felice: sempre vittorioso nei concorsi, ammirato dai concittadini a tal segno che gli affideranno l’incarico di stratega dopo la rappresentazione dell’Antigone, zelante adoratore degli dèi e come tale reputato il più degno ad accogliere Asclepio nella sua dimora, quando giungerà da Epidauro.
La sua tragedia mette in primo piano l’uomo padrone del proprio destino e non più vittima del cieco fato.
Il motore principale è la potente volontà dei protagonisti.
Contemporaneo dell’apogeo di Atene, prima che l’eccezionale longevità lo faccia assistere al declino della sua città, egli è testimone della nuova fiducia che anima il cittadino, oramai sicuro di poter dominare gli avvenimenti con la propria azione, come lo è anche dell’approfondirsi della riflessione morale, soprattutto quando nell’Antigone esalta “le leggi non scritte” della coscienza.
Pag. 291

Possediamo dunque grazie a Erodoto delle descrizioni piene di vita e di colore, e ciò non è poco; nondimeno sotto il cronista appare già lo storico.
La sua documentazione è vasta, tratta in parte dai libri (donde l’accusa di aver saccheggiato i predecessori, che gli vien mossa in particolare da Ecateo), ma ottenuta soprattutto col materiale accumulato durante inchieste e viaggi personali.
Non sarebbe giusto, dunque, rimproverargli di non aver compreso né letto alcuna lingua orientale e di essere perciò rimasto in balia di informatori e ciceroni locali.
Incontestabilmente credulo, egli si sforza di sottoporre a critica tutte le testimonianze pervenutegli e la sua imparzialità è evidente, anche se non nasconde un certo disprezzo per gli ioni e i tebani e una predilezione per gli ateniesi, in particolare per la famiglia degli Alcmeonidi.
Per quanto si interessi soprattutto alle cause secondarie e scorga l’elemento motore della storia essenzialmente nelle virtù e negli intrighi dei grandi uomini, egli non disdegna le cause prime e sottolinea chiaramente che l’origine vera delle guerre persiane deve essere ricercata nello scontro ineluttabile di due imperialismi.
Erodoto merita dunque ampiamente la gloria che Cicerone gli attribuisce indicandolo come “il padre della storia” (De legibus, 1., 1).
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Eraclito di Efeso, così pessimista da essere soprannominato il Melanconico, sembra ricercare il principio delle cose come i “fisiologi” del secolo precedente, e lo trova nel fuoco.
L’universo è per lui un eterno divenire e le massime in cui esprime questa dolorosa constatazione sono famose: “Tutto scorre”; “Non puoi tuffarti due volte nella stessa onda, perché sempre nuova acqua scorre su di te”.
Ma, immutabile fra questa mobilità, persiste il Logos che è legge del divenire, simboleggiata dal fuoco.
Il Conflitto (Polemos) anima l’universo, “padre di tutte le cose, re di ogni cosa” e genera paradossalmente l’armonia suprema, poiché è l’intima tensione che stabilisce i rapporti fra gli opposti (vita e morte, gioventù e vecchiaia, veglia  e sonno, giorno e notte) e la forza che fa nascere un elemento dall’altro in un ciclo perpetuo.
In tal modo si ricompone l’unità fondamentale: “Dando ascolto non a se stessi, ma al Logos, è saggio riconoscere che il tutto è uno”, tanto che il profeta della mobilità universale e del conflitto incessante ritrova, al termine della sua meditazione, l’identità essenziale degli esseri e l’armonia del kosmos.
Nietzsche l’ha rilevato con vigore: “Ciò che Eraclito ha contemplato, la presenza della legge nel divenire, sarà ormai contemplato eternamente: è stato lui ad alzare il sipario su questo spettacolo sublime”.
E’ d’altronde comprensibile che i contemporanei, irritati per i suoi discorsi volutamente sibillini, spaventati da quegli abissi dell’Altro e dell’Uno che egli spalancava sotto i loro piedi, l’abbiano chiamato l’Oscuro.
Il mondo è altrettanto vario per Anassagora di Clazomene.
Esso risulta dalla combinazione di sostanze indivisibili.
Ogni cosa contiene, mescolati, i semi di tutte le cose, semi a cui Aristotele darà il nome do omeomerie (parti omogenee).
Un moto incessante tende a dissociarle, ma l’universo non ha fine poiché ogni cosa racchiude in germe l’infinità delle qualità.
In tal modo sono andate isolandosi le diverse parti del mondo in seno all’Infinito: l’umido e il freddo al centro, il secco e il caldo all’esterno.
Tutti questi moti che animano la materia sono resi possibili solo dall’esistenza, al di fuori di essa, di una causa pensante: il Nous o intelligenza, principio organizzatore del kosmos, il cui intervento ha messo ordine nel caos originario.
Anassagora lo concepisce come un movimento circolare, che crea a poco a poco un vortice col quale abbraccia lo spazio infinito, separando ad esempio gli astri e infiammandoli.
Sistema entusiasmante, che mette in luce la facoltà regolatrice e unificatrice dello Spirito in seno al disordine infinito delle qualità e di cui è nota l’influenza sulla politica di Pericle.
Non è difficile infatti comprendere l’amicizia fra i due uomini il cui idealismo si fonda  su di un solido positivismo.
Anassagora seziona un montone con un solo corno nato in un gregge di Pericle, e rischia di essere trascinato davanti ai giudici per aver espresso l’opinione che il sole non è altro che una massa incandescente: nemmeno Atene è abbastanza matura per accettare l’audacia delle sue concezioni.
Leucippo di Mileto è anch’egli erede della tradizione ionica, che arricchisce con l’insegnamento di Zenone di Elea.
Alla fine del secolo un suo discepolo, Democrito di Abdera, ne accetta la cosmogonia, ma estende la propria riflessione alle discipline più diverse mostrandosi, per la quantità e la precisione delle sue osservazioni e per le ambizioni enciclopediche, il vero precursore di Aristotele.
Le grandi originalità di questi due filosofi consiste nell’ammettere che la materia è composta di particelle indivisibili, impenetrabili, piene ed infinite, a cui dànno il nome di idee e che sono dotate di differenze solo quantitative (grandezza, forma, posizione).
In seno al vuoto assoluto in cui esse si muovono il moto vorticoso crea degli aggregati secondo il duplice criterio della densità (che respinge verso l’esterno le più leggere) e della forma (che permette l’unione di particelle complementari).
L’anima stessa non sfugge al rigore di tale meccanismo: essa consta di atomi leggeri e sferici, simili al pulviscolo roteante in un raggio di sole e costantemente rinnovati dalla respirazione.
Ciò che colpisce è l’aspetto moderno di tale dottrina, non soltanto perché i suoi autori sono dei remoti precursori delle teorie atomiche del nostro tempo, ma anche perché è la prima volta che per rendere conto dell’universo non si fa appello ad alcun motore esterno come il Logo o il Nous.
Al positivismo ionico continua ad opporsi un razionalismo occidentale, più sensibile alla matematica che alla fisica, esprimentesi volentieri in forma mitica, assillato dal problema del fato e come tale suscettibile talvolta di una più larga espansione.
Il pitagorismo non perde il suo slancio creatore né il suo successo, ma deve ormai competere con Empedocle e i filosofi eleatici.
Il pitagorismo si diffonde largamente in Magna Grecia e nella Grecia stessa, dopo l’espulsione della setta da Crotone.
Avviene però una scissione tra le due tendenze, che coesistono nel pensiero del fondatore: gli acusmatici, , fedeli alla stretta osservanza della dottrina, formano delle vere e proprie confraternite religiose; i matematici, molto più laici, si sforzano di far progredire le scienze, specialmente l’aritmetica, la geometria e l’astronomia, per meglio scoprire l’armonia numerica immanente dell’universo.
Affiorano alcuni nomi, soprattutto alla fine del secolo e all’inizio di quello seguente, senza però che sia possibile far corrispondere ad ognuno di essi un’opera precisa: Filolao, eretico di genio, che oppone la nozione di relatività alle categorie troppo schematiche della tradizione pitagorica; Archita e Teeteto (inizio del secolo 4.), che consentono alla geometria di realizzare dei progressi decisivi facendola assurgere a una somma razionale “aumentando il numero dei teoremi e componendo un insieme più scientifico” (Proclo).
Empedocle d’Agrigento si avvicina a Pitagora per la forte personalità di “mago”, presto circondato da un alone di leggenda.
Vestito di porpora, percorre il mondo ellenico come un re o meglio come un dio, compiendo miracoli al suo passaggio.
Fraziona il monismo degli ioni affermando che vi sono quattro elementi, o piuttosto “quattro radici di tutte le cose” (fuoco, acqua, aria e terra), dottrina che detterà legge per secoli.
Due forze motrici agitano l’universo determinando scambi costanti fra gli elementi: l’Amore e l’Odio, che trionfano alternativamente nel corso d’una serie infinita di cicli.
Tale nozione di ciclo è altrettanto importante per l’anima umana: le anime colpevoli dovranno errare tre volte diecimila anni per redimersi attraverso la sofferenza.
In realtà una simile dottrina è fondamentalmente mistica: emulo di Pitagora, Empedocle afferma la necessità di astinenze e purificazioni, alle quali consacra un trattato.
Questo filosofo è al tempo stesso ingegnere, astronomo, fisico, biologo e taumaturgo.
Tale strano miscuglio di razionalismo e misticismo stona un poco in pieno secolo 5.: Empedocle ricorda piuttosto i pensatori arcaici, i “re filosofi” cari a Nietzsche, tanto più che il dualismo dei due principi motori, la teoria ciclica, le osservazioni rituali fanno pensare  agli influssi orientali così decisivi all’alba del pensiero ellenico.
Empedocle porrà fine alla sua romantica esistenza di profeta gettandosi nel fuoco purificatore dell’Etna: i discepoli non ritroveranno che le suole dei suoi calzari, mentre la sua anima prenderà il volo nel fuoco universale.
Quella che si sviluppa a Elea sulle tracce di Senofane è un’autentica scuola.
Il suo maestro indiscusso è Parmenide (inizio del secolo 5.), di cui ci restano alcuni splendidi frammenti, coem l’introduzione al poema, in cui egli ci appare trasportato dal carro delle figlie del Sole verso la Giustizia che gli rivela la verità suprema.
Questa consiste nella realtà dell’Essere e nella non-realtà del Non-essere.
“Ti dirò, gli insegna la dea, quali siano le due sole vie concepibili per la ricerca: la prima, che è l’unica da seguire, è che l’Essere è, e che non è possibile che non sia; la seconda, un semplice sentiero di cui non ci si può fidare in alcun modo, è che l’Essere non è, e il Non-essere è necessario” (fr. 2).
L’Essere è identificato con una sfera perfetta, indistruttibile, immobile e finita.
Verso la metà del secolo Zenone di Elea riprende questa teoria dell’Essere uno e immutabile, dimostrando con le sue famose aporie (Achille e la tartaruga, la freccia immobile in pieno volo)  le assurdità della tesi contraria.
Egli è dunque, secondo Aristotele, il vero fondatore della dialettica, il metodo di ricerca mediante la discussione che si imporrà presso la generazione seguente.
Melisso di Samo orienta invece la dottrina nel senso del pensiero ionico, attribuendo all’essere l’eternità e l’infinità.
Se dovessimo ricercare un carattere comune a dottrine così diverse, potremmo ritrovarlo solo nelle loro ambizioni, cosmologiche e ontologiche al tempo stesso: lo scopo che si prefiggono è di spiegare la nascita e l’evoluzione del kosmos; l’intento, quello du conciliare la diversità e l’unità del reale.
Eredi dirette delle filosofie arcaiche, si potrebbe in un certo senso considerarle come la continuazione di queste ultime in pieno secolo 5.
Comunque, fin dal 450, un nuovo indirizzo si fa luce in Grecia: un pensiero critico soppianta il dogmatismo degli ioni e degli occidentali; l’uomo prende il posto dell’universo e dell’essere al centro della speculazione.
E’ questa la rivoluzione portata dai sofisti, che studieremo all’epoca del suo trionfo definitivo.
Pag. 294-96

Nondimeno il programma costruttivo di Pericle sorpassa di gran lunga tutto ciò che era stato realizzato fino ad allora: il telesterion di Eleusi, i templi di Posidone al Sunio e di Nemesi a Ramnunte, senza contare, in Atene stessa, l’Odeon, i templi di Efesto e di Dioniso, oltre a una nuova sistemazione dell’acropoli.
Pericle ha la fortuna di avere in Fidia, che sarà il suo “soprintendente alla Belle Arti”, un collaboratore indispensabile.
Fidia si circonda di una schiera di artisti e concepisce un disegno generale destinato a trasformare la collina sacra in un incomparabile ponte tra gli uomini e gli dèi.
Nessuna durezza nella disposizione degli edifici e nei loro rapporti, ma una sapiente mescolanza di dorico e di ionico nella quale grazia e severità si uniscono armoniosamente.
Qualcuno (W. Lawrence) ha pensato che il grande artista abbia voluto fare dell’Acropoli la rivale delle acropoli persiane su cui s’innalzano i palazzi dei Grandi Re, quasi per meglio sottolineare le differenze che separavano una civiltà di uomini liberi da una civiltà di schiavi.
Voluto o no, il paragone s’impone: da una parte la dimora di un despota orientale, che schiaccia con il suo potere un mondo di schiavi sottomessi, dall’altra la dimora degli dèi tutelari, ai quali Atene soggiace con tanta maggiore facilità, in quanto essi raffigurano lo Spirito nella sua forma più perfetta.
Pag. 297

A partire dal 430 (ammesso che sia possibile stabilire una data per un mutamento così lieve) una crisi scuote il mondo ellenico; essa si manifesta tanto nei mutamenti che subisce la vita quotidiana, quanto nell’evoluzione del teatro, della scultura, della ceramica o nelle trasformazioni delle credenze religiose.
Le creazioni dello spirito non sono meno brillanti di quelle della generazione precedente, ma l’inquietudine succede alla serenità, il dubbio alla certezza, la ricerca all’equilibrio.
Due cause indipendenti spiegano quest’evoluzione generale.
La più appariscente è la guerra del Peloponneso, lo scontro in cui la potenza di Atene vacilla lungamente prima dello sfacelo e in cui si assiste al declino del suo equilibrio politico, sociale ed economico, ben prima del disastro del 404.
Ma vi è di più, poiché in molti campi la trasformazione è anteriore al conflitto.
Un gruppo di pensatori, rompendo con una tradizione vecchia di quasi due secoli, distoglie la loro attenzione dai problemi cosmologici ed ontologici per trasferirla sull’uomo: la loro critica corrosiva contribuirà a infrangere le vecchie strutture.
Pag. 300

E’ difficile dare un giudizio obbiettivo su tale movimento filosofico.
Nulla di più nobile infatti di questo sforzo, il primo in ordine di tempo nella storia umana, di sottoporre qualsiasi convinzione ai lumi della ragione.
Va ricordata tra l’altro una sentenza di ippia che, rifiutando gli antagonismi su cui è fondata la società greca, considera tutti gli uomini “come dei consanguinei e dei concittadini secondo natura, se non per legge” (cfr. Platone, Protagora, 337c).
Ciò non toglie tuttavia che la sofistica abbia dei punti deboli: a dispetto delle apparenze umanistiche traspare un gran disprezzo per l’uomo: esso si manifesta nell’indifferenza verso ogni norma morale, nell’affermazione che il “ragionamento ingiusto” h alo stesso valore che “quello giusto”.
Anche al di fuori di tali eccessi, la sofistica agisce come un acido corrosivo, poiché investe le credenze fondamentali, lungamente elaborate nel corso dei secoli precedenti, su cui poggiavano le città, la morale, la religione.
Nata dal dubbio, essa non fa che consolidarlo e portarlo alle conseguenze estreme: molto prima delle crisi del secolo seguente, la nozione di polis, fondata sul rispetto della legge, sulla sottomissione cieca dell’individuo alla collettività, sulle distinzioni arbitrarie esistenti tra cittadino e straniero, tra uomo libero e schiavo, tra greco e barbaro, si sgretola il contatto dei corrosivi argomenti della sofistica.
Ci troviamo di fronte al trionfo dell’individuo, dell’uomo che ha come sola arma la ragione contro gli imperativi dello Stato e della tradizione.
Lo stesso movimento fa la sua apparizione, alla medesima epoca, in India e in Cina, dove altri sofisti predicano una dottrina analoga.
Si tratta già dell’Aufklarung, con la sua potenza distruttrice e la sua incontestabile saggezza.
Pag. 302

Il messaggio di Socrate non è meno misterioso dei motivi della sua condanna.
lo conosciamo solo indirettamente attraverso gli scritti di un discepolo troppo stolido e di un altro troppo geniale.
Non essendovi nulla di comune tra le testimonianze di Senofonte e quelle di Platone, se non l’ammirazione per il maestro, non ci dobbiamo stupire che i moderni abbiano fornito di lui dei ritratti così profondamente diversi.
La sua dottrina, se ne ebbe una (del che è lecito dubitare, quando si osservi che l’edonismo dei cirenaici e il misticismo ascetico di Platone lo rivendicano entrambi), si riduce per noi a pochi enunciati.
Egli dà la preminenza all’uomo “facendo scendere la filosofia dal cielo in terra”, secondo il motto di Cicerone (Tusculanae, 5., 4), fa suo il detto di Delfi: “Conosci te stesso”, distorcendolo d’altronde dal suo significato puramente morale per affermare la necessità di un’azione fondata sulla riflessione e sull’introspezione; proclama che “nessuno fa il male volontariamente”, conferendo all’intellettualismo etico la sua espressione più pura.
Afferma i diritti dell’irrazionale; cade in estasi un giorno intero durante l’assedio di Potidea e dà ascolto a quel suo misterioso “demone” (voce della sua coscienza, oppure forza soprannaturale distinta?), che gli impedisce di compiere azioni nefaste.
Pag. 304

Aristofane resta la voce del popolo, benché disprezzi le novità di cui il popolo si nutre.
Euripide è un pensatore orgoglioso che, per quanto imbevuto del nuovo pensiero, ottiene solo cinque volte il primo posto con le sessantotto opere che presenta e preferisce, ormai alla fine della vita, lasciare l’ingrata Atene per la corte di Pella.
Nessuno più di lui porta il segno di quest’epoca, non soltanto perché la sua opera pullula di allusioni precise che fanno la gioia dei commentatori moderni, ma anche e soprattutto perché ne esprime tutte le inquietudini.
Non possiede alcuna dottrina, alcun sistema paragonabile a quelli dei suoi predecessori, inoltre sembra divertirsi a ritrattare in un’opera quel che aveva enunciato in un’altra.
S’interessa alla ricerca e all’analisi, non all’elaborazione di una metafisica o di una morale di cui fissare le norme di volta in volta.
Tale atteggiamento gli è imposto non solo dalla sua natura, dalla sua intelligenza sottile ed eccessivamente fluida, incapace di fissarsi, ma anche dalla educazione ricevuta dai sofisti, che gli hanno insegnato a discernere in tutto il pro e il contro.
Pag. 308

Atene infatti ha fornito una produzione così esuberante, che non si potrebbe certo rimproverarle di dare qualche segno di stanchezza, tanto più che, da generosa maestra, ha largamente diffusa i suoi benefici in tutto il mondo greco e barbaro.
Quando nel 404 suona per essa l’ora dell’inevitabile decadenza, aveva già da più di trent’anni liberato gli spiriti dai pregiudizi atavici, creato nuove forme d’arte e di letteratura, più umane e più aggraziate, concepito uan religiosità più commossa e mistica.
Socrate prenderà ben presto le parti dello Spirito contro la stupidità e la mala fede.
Sono già poste tutte le linee principali per un nuovo classicismo meno rigido e più commosso.
Pag. 316

Cap. 3. L’età delle egemonie, 404-323

Se il secolo 5. si presenta ai nostri occhi come profondamente unitario grazie all’azione di Atene, il 4., che si ferma d’altronde per noi alla morte id Alessandro nel 323, è invece un’epoca di antagonismi.
Tre città importanti appaiono abbastanza potenti per aspirare all’egemonia, pur essendo in realtà troppo deboli per conservarla.
Una crisi molto grave scuote inoltre la Grecia, che sembra affetta da sclerosi e incapace di riformare le sue istituzioni, d’imprimere uno slancio nuovo all’economia e di risolvere i problemi sociali.
Filippo di Macedonia fornisce in modo realistico la dimostrazione del principio, così caro alla filosofia greca, della superiorità dell’uno sul molteplice.
Alessandro potrà allora trascinare la Grecia, unificata e resa schiava da suo padre, in una prodigiosa epopea, destinata a propagare la civiltà greca fino ai limiti del mondo conosciuto.
In pochi anni quegli stessi greci che mendicavano i sussidi del Gran re e dei suoi satrapi diventeranno i signori dell’Oriente.
Ben pochi periodi storici sono così scoraggianti come il mezzo secolo che intercorre tra la caduta di Atene e l’entrata in scena di Filippo di Macedonia.
L’Ellade è divisa dalla rivalità implacabile di Sparta, Tebe e Atene, il cui solo pensiero è quello d’imporre la propria autorità.
Le prime due non esitano a umiliarsi davanti al Gran Re pur di assoggettare più facilmente la Grecia, malgrado il forte movimento panellenico di cui è testimone la letteratura di quell’epoca.
Tali egemonie non sono che ridicoli castelli di carta e le lotte misere ed assurde che provocano avranno un unico risultato: infrangere l’unità dell’Ellade, che saprà opporre solo futili velleità alla fredda determinazione di Filippo.
Pag. 317

L’anno 404 rappresenta una rottura nella storia greca.
Atene, vinta ed umiliata, cade sotto il giogo della tremenda tirannide dei Trenta che, installatisi con la complicità di Sparta, ridurranno il corpo civico a soli tremila cittadini.
Tuttavia già nel 403 la democrazia riprende il potere: una riconciliazione generale ha luogo e durante l’arcontato di Euclide (403-402) si assiste a una notevole opera di riordinamento della costituzione.
A Sparta l’artefice principale della vittoria, Lisandro, cade in disgrazia, il che favorisce il trionfo del re Argesilao 3. di cui Senofonte ci ha lasciato un ritratto estremamente lusinghiero: coraggioso, instancabile, magnanimo, pieno di rispetto per le leggi della propria patria, incapace di qualsiasi ambizione personale.
Effettivamente egli incarna le più belle virtù di Sparta che, pur conservando le sue brillanti qualità di energia, sta morendo, perché non sa scegliere la strada delle riforme e ignora ogni altro principio d’azione che non sia la violenza, ogni altro movente al di fuori dell’interesse più egoistico.
Sono noti alcuni nobili detti di questo re, come ad esemio l’apostrofe per i diecimila nemici uccisi a Corinto: “Sventurata Grecia, hai perduto degli uomini che ti avrebbero assicurato la vittoria nella lotta contro i barbari!”; ma questo spirito panellenico non resiste alla prova dei fatti.
Pag. 318

 

 

 

Nel 355 Atene è ancora la città greca più importante e più ricca, ma ha perduto ormai il suo vantaggio essenziale: l’appoggio delle città che avevano stretto volontariamente alleanza con lei e che, deluse, si sono di nuovo staccate con la forza.
Comunque né essa, né le sue rivali, Sparta e Tebe, possono realizzare l’unificazione dell’Ellade, impoverita e demoralizzata, per contrastare il pericolo che sovrasta e che neppure i più perspicaci sembrano scorgere.
In realtà gravi minacce si stanno profilando contro l’autonomia della Grecia, ma non provengono dall’Oriente.
Sorgono in Macedonia, dove l’anno precedente un giovane sovrano ha preso il potere.
Pag. 323-24

Dopo che Archelao era stato assassinato dal suo favorito (400-399), la Macedonia aveva trascorso un periodo di crisi.
Aminta 3., salito al trono dopo un periodo di torbidi segnato da un’orrenda serie di delitti, aveva proseguito la lotta per assoggettare i vassalli del paese alto ed aveva condotto abilmente una politica oscillante tra le diverse città greche.
Alla sua morte (370) i due figli maggiori regnarono uno dopo l’altro: Alessandro 2., ucciso per ordine dell’amante di sua madre, Euridice, una principessa tutta presa dai piaceri dei sensi e dalle ambizioni personali; quindi Perdicca 3., che trovò la morte in una grande battaglia contro i popoli dell’Illiria, vicini turbolenti che mettevano in pericolo la frontiera settentrionale.
Nell’anno 359, la situazione è molto grave.
Il figlio di Perdicca, Aminta, troppo giovane per regnare, vede il trono conteso da diversi pretendenti.
L’ultimo figlio di Aminta 3., Filippo, prescelto come tutore di suo nipote, sa imporsi con una tale autorità che tre anni dopo soppianta il suo pupillo, senza incontrare alcuna resistenza e viene proclamato re.
Filippo ha solo ventitré anni quando diventa reggente, ma possiede già una grande esperienza: ostaggio a Tebe, ha frequentato Epaminonda, per il quale nutriva la più viva ammirazione; in seguito ha governato una provincia macedone.
La sua vita privata è molto dissoluta e i suoi avversari non hanno difficoltà a rinfacciarli un amore eccessivo per il vino e per le donne.
Tutti però sono d’accordo nel riconoscere le sue doti politiche: del tutto privo di scrupoli, egli sa alternare abilmente la forza e la diplomazia.
Possiede ugualmente i due doni antitetici dell’energia nell’azione e del temporeggiamento nel corso dei negoziati.
Pag. 324

Ma la sua forza principale rimane l’esercito, a cui dedica un’attenzione particolare, assecondato da un incomparabile capo di stato maggiore, il fedele Parmenione.
La coscrizione obbligatoria gli consente di arruolare contingenti notevoli per un paese la cui popolazione raggiunge forse gli ottocentomila abitanti.
La Macedonia viene suddivisa in circoscrizioni militari, ognuna delle quali fornisce tre unità, una di cavalleria, una di fanteria pesante e una di fanteria leggera.
Durante il combattimento la varietà di questi elementi assicura una grande agilità di manovra; ma l’innovazione più importante è indubbiamente costituita dalla falange, raggruppamento di unità  della fanteria pesante armata con la sarissa, una lancia lunga da 5 a 7 metri a seconda della fila.
Senza avere ancora quel carattere massiccio e compatto che assumerà nell’epoca ellenistica, la falange è uno strumento idoneo a contenere l’avversario e a sgominarlo mediante l’autentico muro di ferro opposto dalle sarisse protese: con essa Filippo conquisterà la Grecia e Alessandro sottometterà l’Asia.
Pag. 325

Come Bismarck con i tedeschi [Filippo] vuole trascinare i greci in una grande spedizione comune, destinata a cementarne l’unione.
Una volta ancora il panellenismo gli mostra la via, suggerendogli l’idea di una crociata contro i barbari.
Attaccando la Persia si vendicheranno dunque gli affronti di Serse, e ciò tanto più facilmente in quanto dopo l’assassinio di Ochos il trono è nelle mani di un principe la cui autorità è vacillante, Dario 3. Codomano.
Ma durante le nozze della figlia Cleopatra, un etero, Pausania, uccide Filippo con una coltellata.
Si trattò di vendetta personale, oppure del gesto di un sicario armato da Olimpiade, la moglie del re, stanca di essere trascurata, o piuttosto dal re persiano?
Cosa sarebbe accaduto, comunque, dell’opera immensa di un uomo abbattuto nel pieno delle forze e della gloria?
La vittoria di Filippo non la si può spiegare solo con le funeste divisioni dei greci.
L’equilibrio numerico delle forze in lotta non condannava ineluttabilmente le poleis a inchinarsi davanti al Macedone, ma esse dovevano trovare in se stesse le risorse necessarie per resistergli.
Ora, sia politicamente, sia sul piano sociale ed economico, la polis è scossa fino nelle sue basi tradizionali: la crisi della polis è, al tempo stesso, causa ed effetto del trionfo di Filippo.
Pag. 331

Ci serviremo in particolar modo dell’esempio di Atene, il solo che conosciamo abbastanza bene grazie al gran numero di testi letterari e filosofici.
Possiamo tuttavia supporre che l’evoluzione sia stata la stessa anche nelle regioni in cui l’oligarchia era la forma di governo tradizionale (Sparta, Tessaglia) e in quelle dove esisteva una democrazia moderata (Beozia).
Due cause principali sono all’origine di tali sconvolgimenti: i nuovi rapporti instauratisi tra città e campagna, e la perdita di una parte  dei clienti esterni, essenziali per la Grecia incapace di vivere in modo autarchico.
Pag. 332

Tuttavia alcuni fattori di recessione fanno già sentire i loro dannosi effetti.
Da un lato il Pireo non ha più l’incontestabile monopolio di cui godeva nel secolo 5.
I porti dell’Anatolia, sottomessi dall’Impero persiano, hanno infatti ritrovato la loro antica prosperità, specialmente Efeso, che detronizza definitivamente Mileto.
Rosi, Cizico e Bisanzio diventano ricchi empori.
Ma c’è di più.
Il mercato esterno tende a ridursi, a causa dello sviluppo industriale di paesi fino ad allora sottosviluppati che si procuravano ad Atene tutti i prodotti di lusso.
Pag. 335

La città, smembrata da questi due blocchi, si sta disgregando.
Si parla spesso dell’affievolirsi dello spirito civico e tale fattore non deve essere sottovalutato ma è sia la causa che l’effetto del progressivo tramonto della città.
In realtà quest’ultima aveva già cessato di esistere molto tempo prima di sprofondare politicamente sotto i colpi  dei macedoni.
La polis era in origine un corpo unitario, in cui ciascun membro era pronto al sacrificio supremo, cosciente di fare parte integrante d’una comunione di diritti e d’interessi.
Ma chi oserebbe ancora parlare d’uguaglianza di diritti in una società in cui gli uni hanno tutto ce gli altri nulla?
Paradossalmente, ognuna delle due classi si sente minacciata dall’altra: i poveri non possono accontentarsi degli oboli, dei misthoi e del teorico; i ricchi non riescono a godersi tranquillamente i propri beni, sempre minacciati o decurtati.
Alla volontà comune che formava l’essenza della polis si è sostituita da ambo le parti la cattiva volontà.
Atene non è la sola a soffrire di questo male che la corrode.
Il massacro dei ricchi di Argo fornisce una prova eloquente degli odi di classe.
La sparta degli Uguali è diventata un mostro d’ineguaglianza.
Talora sorgono dei tiranni che promettono al popolo la spartizione delle terre o il condono dei debiti e non esitano a fare appello agli schiavi, pur di consolidare il loro potere.
Tale minaccia, che in realtà è solo latente, induce Filippo ad esigere dai greci la promessa di non procedere a una liberazione degli schiavi che avrebbe rischiato di sovvertire l’ordine esistente.
Davanti a questa rovina della città, provocata da una rottura dell’equilibrio economico e sociale alla quale non avevano attribuita molta importanza, gli uomini politici e i pensatori trovano in generale solo delle soluzioni parziali, ma non sanno rinunciare al principio stesso della polis.
Alessandro darà il colpo di Grazia alle poleis, ma la conquista dell’Oriente fornirà una soluzione provvisoria all’asfissia economica e agli antagonismi di classe che soffocavano la Grecia.
Pag. 337

Nell’anni 336, alla morte del padre, Alessandro ha vent’anni.
A tredici anni, Filippo l’aveva posto sotto la guida di Aristotele.
Il ragazzo ascolta con fervore le lezioni di un maestro onnisciente: legge Pindaro, Erodoto, Euripide, facendo tesoro di una cultura profondamente ellenica e scoprendosi un amore per la filosofia che non lo lascerà più.
A sedici anni gli viene affidata la reggenza durante una spedizione di Filippo, il che gli permette di iniziarsi all’esercizio del potere.
Malgrado un momentaneo disaccordo col padre, si riconcilia con lui e come figlio maggiore è proclamato re dall’esercito quando Filippo soccombe sotto il pugnale di Pausania.
Inizierà allora un regno di dodici anni e mezzo, destinato a sconvolgere totalmente la situazione dell’Ellade e del mondo orientale.
Pag. 337-338

Molte sono le esegesi fornite dagli storici circa la partenza di Alessandro.
Gli uni lo vedono desideroso di sottrarre ai barbari le colonie dell’Anatolia e di vendicare i patimenti sopportati dai greci durante le guerre persiane, altri invece bramosi di diffondere in Oriente la civiltà ellenica.
Altri infine, con più realismo, pensano che gli stesse a cuore continuare l’opera paterna e che non volesse abbandonare l’esercito di diecimila uomini inviato in Asia da Filippo al comando del Parmenione, allora sul punto di essere gettato a mare.
Consolidare l’unione precaria del regno di Macedonia con la lega di Corinto appare inoltre come uno dei suoi fini principali.
Senza dubbio nessuna di queste ragioni è trascurabile; notiamo però che Alessandro desidera anche far rivivere i ricordi dell’Iliade, formando una coalizione europea contro l’Asia.
Inoltre egli è animato dalle stesse idee di Serse: come già fece il sovrano orientale, egli compie a Troia dei sacrifici in onore di Atena e degli eroi omerici e getta in mare dalla sua nave una coppa d’oro per Posidone.
Il figlio di Dario aveva implorato Elio di concedergli che nessun ostacolo gli impedisse di raggiungere i confini dell’Europa, Alessandro vuole apparire come l’anti-Serse e dà al suo programma iniziale un’ampiezza non certo minore: il primo gesto che compie arrivando al suolo asiatico, è di conficcarvi la propria lancia per farne una “terra conquistata con la punta della lancia”.
Sembra dunque dominato dal sogno, o piuttosto dal progetto d’una monarchia universale fin dall’inizio della sua spedizione.
L’Oriente soccomberà sotto i colpi di Alessandro, perché questi porterà in sé lo slancio irresistibile di un dio.
Pag. 340

All’eredità lasciatagli dal padre, nel consistente regno di Macedonia e nell’egemonia sulla lega ellenica.
Alessandro ha aggiunto la totalità (e forse anche più) dell’Impero achemenide, qual era all’epoca della sua massima estensione sotto Dario 1.
Nessun conquistatore aveva mai riunito un così grande numero di province sotto il proprio scettro, né portato le armi così lontano dalla patria.
Per spiegare tali successi non basta pensare alla forza militare del giovane Stato macedone, al valore dei soldati greci, al disfacimento della monarchia achemenide e alla debolezza e viltà di Dario Codomano.
Si rimane del resto meravigliati davanti all’esiguità dei contingenti che hanno consentito ad Alessandro di compiere la conquista del mondo: forse quarantamila uomini al momento dello sbarco, centoventimila in India, ottantamila alla sua morte.
Sempre presente ovunque, instancabile alla testa della sua cavalleria (così ce lo rappresenta il mosaico della battaglia di Arbela), Alessandro stimola con il proprio esempio l’ardore dei soldati mentre li guida con perizia di un grande capitano.
Inoltre questo intrepido cavaliere, questo condottiero esperto e grandissimo capo sa mostrarsi un organizzatore di genio.
Pag. 345

Questa politica di collaborazione è completata da un’altra, più ambiziosa e totalmente nuova.
Alessandro non accoglie affatto l’ideale panellenico: non intende assoggettare e umiliare il barbaro, ma fonderlo con il greco in un insieme armonico in cui ognuno abbia la sua parte.
Quale mezzo migliore per ottenere tale fusione dell’incremento dei matrimoni misti?
Il re stesso dà l’esempio sposando dapprima Rossane, la figlia di un nobile della Sogdiana, quindi tre principesse persiane.
In una sola giornata la maggior parte dei suoi generali e diecimila uomini della truppa si uniscono con donne indigene in una splendida cerimonia.
Contemporaneamente egli fa educare alla greca trentamila bambini iranici.
Pag. 345

Sul punto di lasciare Babilonia, Alessandro muore improvvisamente, dopo alcuni giorni di agonia (323).
Voci vergognose circolano sul conto di parecchi dei suoi familiari, ma non c’è da stupirsi che la malaria abbia avuto ragione tanto rapidamente di un organismo indebolito dalle orge, dalle cavalcate, dalle veglie notturne, consacrate allo studio, e di un corpo segnato dalle cicatrici.
Dodici anni e mezzo di regno.
Sarebbe troppo facile concludere con un bilancio negativo: inutili violenze, eccessi,  di un despota in preda alle delizie dell’hybris; ostilità dei greci resi inquieti dalla proskynesis (adorazione) e più ancora dalla fusione delle razze, a cui avrebbero preferito il duro asservimento dei vinti; enorme vastità geografica di un Impero che non sopravviverà al suo creatore.
Eppure tutte queste tare innegabili non pesano molto in confronto a tutte le novità che egli apporta, concezione d’una monarchia autocratica, dominazione greca sull’Egitto e sull’Asia, fondazione di centri urbani fin nelle più lontane satrapie, compenetrazione delle civiltà ellenica e orientale.
Alessandro va alla conquista del mondo portando con sé un’Iliade postillata dal maestro Aristotele, ma questo eroe leggendario è anche un novatore di genio che respinge la differenza tra il greco ed il barbaro, base dell’ellenismo classico, in favore di un ideale più generoso di unità e di umanità.
Egli fornisce la prova più eloquente di quanto sostiene Plutarco: vi sono dei momenti in cui un grande uomo imprime una svolta al corso della storia.
E’ comprensibile l’ammirazione di un Pirro o di un Cesare per l’eroe che, a soli trentadue anni, muore dopo aver creato un mondo nuovo.
Pag. 356-47

Benché i greci vi si fossero installati in modo più saldo, anche la Sicilia e la Magna Grecia sono esposte alla minaccia dei barbari come le più isolate colonie dell’estremo Occidente.
La pressione barbarica non fa che accentuarsi sia in Sicilia, dove i cartaginesi riprendono l’iniziativa dopo quasi mezzo secolo di calma, sia in Italia, dove i popoli indigeni, spesso organizzati in confederazioni potenti e bellicose (prima i lucani, poi i bruzi), si rivelano più pericolosi degli etruschi oramai in piena decadenza.
Anche qui però il male endemico, rimane la discordia ra le città, le cui conseguenze sono altrettanto funeste che in Grecia.
Ciò nonostante un energico tiranno riuscirà a unire sotto il suo comando uan parte notevole dell’Occidente greco, che si desta dal lungo letargo e ritrova un nuovo periodo di splendore.
Negli anni successivi alla sua morte, avvenuta nel 367, tutto il mondo occidentale greco comincerà a incrinarsi, preannunciando il crollo finale e la conquista da parte di Roma nel secolo seguente.
Pag. 349

Dopo il 367 inizia tuttavia l’ineluttabile declino dell’Occidente, dove innanzitutto alle lotte intestine fra le città.
A Dionisio il Vecchio succede il figlio Dionisio il Giovane, un debosciato che preferisce dare ascolto agli allettamenti edonistici di Aristippo di Cirene piuttosto che fondare, con Platone, uno Stato filosofico.
Dopo un periodo di anarchia in cui tutte le città ritrovano la propria indipendenza, Siracusa fa appello alla metropoli, Corinto, che invia Timoleonte, un uomo giusto incaricato di metter fine alle mene dei tiranni.
Pag. 351

Concludendo, ciò che colpisce di più nella storia del secolo 4. è la forza degli elementi tradizionali e in particolare l’attaccamento alla polis, nonostante tutte le tare che l’evoluzione ha portato a questa istituzione.
Soltanto le iniziative individuali sono state capaci di allargare questo microcosmo chiuso che si ripiegava amaramente sulle proprie contraddizioni interne: l’Oceano rivela il segreto delle sue maree e delle sue terre lontane a Eutimene e Pitea; l’Asia cede i suoi tesori e s’abbandona ad Alessandro.
Esploratori e conquistatori saranno, fin dalla seconda metà del secolo, i pionieri di un universo più aperto, quello dell’epoca ellenistica.
Pag. 352-53

Cap. 4. Il secolo di Platone o l’avvento del misticismo

Il secolo 4. è difficile da analizzare perché dominato dall’inquietudine.
Il complesso delle istituzioni rimane almeno in apparenza stabile e l’uomo è ancora, secondo la famosa definizione aristotelica, “un animale politico”.
Ma le posizioni tradizionali hanno subito scosse profonde e le città sono già indebolite internamente molto tempo prima di soccombere all’attacco irresistibile del macedoni.
L’economia stessa cede a una lenta asfissia.
Allora l’uomo si pone degli interrogativi.
Non perde la speranza di trovare soluzioni razionali ai suoi problemi politici, il che è tipicamente ellenico, e il fattore economico rimane come tale al di fuori delle sue speculazioni.
Filosofi come Platone o Aristotele sviluppano un pensiero prettamente politico ed è lecito supporre che ai loro occhi esso abbia la medesima importanza di quello metafisico.
Inoltre la letteratura politica propriamente detta, che fa la sua comparsa dopo il secolo 5. con la Repubblica degli ateniesi dello Pseudo-Senofonte, assume con Senofonte e Isocrate uno sviluppo considerevole.
Tuttavia i tentativi impiegati per costruire una polis ideale rivelano come quella reale non riesca più a sopravvivere: queste utopie sono una delle prime manifestazioni della fuga dinanzi al concreto.
Al mondo reale viene a sovrapporsi un mondo ideale.
Il filosofo vi ritrova il modello delle realtà sensibili, l’artista cerca di raggiungerlo al di là delle dubbie apparenze, lo stesso uomo del popolo vi aspira dal profondo della propria coscienza.
Una nuova ondata di misticismo si riversa sulla Grecia: esso ha la sua origine in parte negli ultimi agitati decenni del secolo 5. e nella predicazione di Socrate, ma conoscerà una nuova dimensione grazie al genio di Platone.
Pag. 354

La letteratura ci offre la testimonianza più eloquente dei nuovi interessi.
La tragedia languisce, perché si ostina a svolgere gli stessi temi davanti a un pubblico sempre più indifferente.
La commedia resiste meglio al logorio che minaccia tutti i generi drammatici sorti con la democrazia e con essa declinanti, ma troverà la sua vera fisionomia solo verso la fine del secolo.
Le uniche a sopravvivere sono le opere in prosa di un certo tipo, i cui fattori comuni sono l’orientamento pragmatico verso l’azione e la cui forma è in generale l’oratoria.
Pag. 355

L’eleganza dell’atticismo riappare con Senofonte e Isocrate, ma in un contesto del tutto differente: quello della propaganda politica.
Questi due ateniesi hanno in comune non soltanto una certa diffidenza nei confronti dell’ideale democratico della loro patria, ma anche l’aspirazione ad orientare l’opinione pubblica nel senso delle loro idee con gli scritti, dal momento che si tengono al di fuori dell’attività politica.
Entrambi dimostrano d’altronde con i mutamenti del loro pensiero quali difficoltà incontrassero degli spiriti lucidi nell’intricata situazione della Grecia.
Quanto al resto, tutto separa Senofonte, uomo d’azione che trascorre la maggior parte della vita fuori d’Atene, da Isocrate, logografo e maestro che compie tutta la sua carriera in patria.
Pag. 337

Rovinato dalla guerra del Peloponneso, Isocrate, discepolo degli illustri sofisti Prodico e Gorgia, e anche di Socrate, si volge spontaneamente verso l’eloquenza.
Tuttavia la voce troppo debole o la timidezza lo distolgono dal podio delle arringhe, e per dodici anni egli si consacra alla professione di logografo.
Appena conquistate fama e ricchezza, l’abbandona con un certo disprezzo ed apre una scuola di retorica, dedicandosi contemporaneamente all’eloquenza accademica (detta epidittica).
Acquista così un’immensa notorietà sia come maestro che come pubblicista.
Pag. 358

Ma non è questo l’essenziale: ai suoi occhi il problema della Grecia è più importante di quello di Atene.
I greci si avviliscono nella discordia: poiché le città tradizionali non hanno più alcun potere, non resta che rimettersi al re di Macedonia.
Isocrate riflette una nuova concezione politica nata dall’impossibilità di eliminare gli antagonismi: aspira già a un’unione che i macedoni realizzeranno più tardi con la violenza.
Non è facile, più di quanto non lo sia per Senofonte, valutare l’influenza esatta che esercitò su Filippo, ma essa dovette essere certo considerevole.
Per la prima volta un pensatore, a mezza strada fra le utopie di Platone e l’azione diretta di Demostene, imprimeva una direzione personale al destino del mondo ellenico.
Le incertezze in cui si dibatte la coscienza greca sono tali che con altrettanta convinzione e non minore sincerità Demostene prende posizione contro il panellenismo e si batte con tutte le forze contro  quello stesso Filippo, nel quale Isocrate vedeva l’arbitro naturale degli elleni.
Della sua azione politica abbiamo già parlato, ma sarebbe ingiusto non aggiungere che essa fu possibile solo grazie al prodigioso talento di oratore di cui era dotato, talento che gli permise di sollevare l’entusiasmo del popolo ateniese e di infondergli nuove energie.
Pag. 360-61

La storia della filosofia del secolo 4. è tutta segnata dall’influenza di Socrate, il cui metodo, per altro, s’impone più che la dottrina.
Ogni filosofo si pretende suo discepolo, ed è singolare come cinici, cirenaici, accademici si proclamino tutti suoi eredi.
D’altro lato i sofisti hanno reso più duttile il pensiero, hanno abituato a nuove forme di discussione, alle quali Platone stesso non sfugge sempre.
Infine, il pitagorismo resta ancora vitale sia nel campo strettamente scientifico, in cui realizza conquiste decisive, che in quello della speculazione morale e dell’escatologia: Aristotele potrà perfino affermare che il platonismo non è altro che un pitagorismo modificato dal socratismo (Metafisica, 1., 6)
Pag. 362

L’opera colpisce per la sua enorme vastità, poiché abbraccia tutti i campi del pensiero, dall’ontologia all’escatologia, dalla morale alla politica.
Malgrado alcune contraddizioni e qualche pentimento, essa presenta un carattere unitario, pervasa com’è dall’entusiasmo per il mondo ideale, sul quale gli individui e le città devono modellare la propria vita.
Basata sulla conoscenza della matematica, ma anche sull’illuminazione, mistica e realistica al tempo stesso, essa è talmente ricca e multiforme che tutte le dottrine più divergenti hanno potuto scoprirvi le proprie origini.
Già nei tempi antichi, l’aristotelismo prenderà lo spunto del platonismo per riformarlo e per deformarlo.
Altrettanto avviene per la Nuova Accademia, le cui tesi probabilistiche non sarebbero state certo approvate da Platone, e infine per il neoplatonismo, quella meravigliosa e tarda vampata della filosofia greca che di Platone manterrà intatto soprattutto il trasporto mistico e ascetico verso l’Uno, che è Dio.
Altro fattore ancor più sintomatico è che le grandi religioni spiritualistiche del mondo antico s’impadroniranno a loro volta del pensiero platonico per trarne profitto.
Nel secolo 1. della nostra era, l’ebreo Filone di Alessandria tenterà la sintesi tra il pensiero dell’Accademia e il Nuovo Testamento; i Padri della Chiesa ricercheranno nell’opera platonica il primo grado di una saggezza destinata a completare il messaggio di Cristo; anche il più grande di loro, Agostino, realizzerà se stesso solo dopo aver abbracciato il neoplatonismo come una fede.
Arabo, giudeo, o cristiano, il Medioevo sarà impregnato del pensiero di Platone e, senza che ciò appaia paradossale, sarà ancora Platone a dare il segnale della liberazione degli spiriti durante le Rinascenze del secolo 12. o del 15.
Pag. 367

Aristotele, che scrisse anche delle opere sulla retorica e sulla poetica, è uno spirito enciclopedico, cosa rara nell’antichità.
Per fare la sua gloria, sarebbe bastato l’aver eretto a sistema la logica e l’etica e l’aver realizzato un quadro preciso e gerarchico del mondo animale.
Nessuno più di lui si è sforzato di capire la realtà; vorremmo quasi che fosse vero l’aneddoto che lo descrive mentre si getta nella corrente dell’Euripo, deluso di non aver potuto strappare al fiume i segreti del suo moto.
Tuttavia alcuni autori lo rimproverano di aridità poiché non possiede l’entusiasmo di Platone e preferisce non allontanarsi dall’esame della realtà positiva e concreta.
Peggio ancora, lo si accusa di aver isterilito per secoli il pensiero medioevale.
Ma è lui responsabile, se il suo pensiero trionfa incontrastato con Alberto il Grande o Tommaso d’Aquino, e se alcuni teologi, più audaci che onesti, si rifanno alla sua dottrina, fossilizzandola, per introdurvi a viva forza il messaggio cristiano?
Pag. 373-74

Il secondo classicismo artistico, se non si esprime più con la splendida purezza e la serena euritmia del primo, offre tuttavia il quadro più completo d’un mondo le cui fonti vive non sono affatto inaridite.
La letteratura è troppo orientata verso l’azione e la politica, cioè verso fenomeni contingenti.
La filosofia si abbandona a speculazioni ardite, che sconfinano spesso nell’utopia.
L’arte è più ricca di sfumature.
Benché dia in generale l’impressione di un’eleganza priva di accenti aulici e non si discosti dall’atticismo di Lisia o dalla bonomia sorridente di molti dialoghi platonici, essa sa commuovere senza far uso del facile sentimentalismo.
Conserva inoltre il culto della bellezza formale, ottenuta con una sintesi equilibrata tra il numero e l’armonia dei volumi, delle linee e dei colori.
Pag. 387

Nel culto ufficiale non vi sono cambiamenti apparenti.
Esso seguita ad onorare gli dèi della polis, divinità uraniche per la maggior parte e alcune anche ctonie integrate da tempo nella religione poliade, come le “due dee” di Eleusi.
Quanto sia ancora seguito il culto di Apollo lo prova la ricostruzione del tempio di Delfi, distrutto dal cataclisma del 373: oltre ai contributi ufficiali di ogni città, fissati dal congresso panellenico di Sparta, affluiscono in gran numero i doni inviati spontaneamente, cosicché si giunge senza troppa difficoltà ad accumulare l’enorme somma (da 500 a 700 talenti) necessaria per riedificare il santuario degli Alcmeonidi.
Ciò nonostante in una civiltà in cui il culto è un affare di Stato qualsiasi mutamento politico comporta un’evoluzione religiosa.
Ora, nel secolo quarto l’equilibrio della polis è così compromesso che il fervore per le divinità poliadi pare diminuire a vantaggio di altri dèi, meglio corrispondenti alle aspirazioni dell’individuo.
La crisi che già si delineava fin dal 430 si approfondisce ed assume proporzioni sempre più inquietanti.
Pag. 387-88

Si tratta insomma di una religione dinamica e vivace, le cui manifestazioni sono state paragonate a quelle del cattolicesimo all’epoca del Bernini.
L’irreligiosità non è ammessa e i processi per empietà si moltiplicano.
Molti sono in preda ad una febbre spirituale intensa e devono cercare altrove quelle sensazioni che i culti orgiastici sono incapaci di dare.
I demoni rapitori di bambini e i fantasmi ossessionano l’immaginazione popolare, la magia e i sortilegi si sviluppano a tal punto che Platone crede opportuno condannarli con le pene più severe.
Sulle tavolette per il malocchio compaiono molte formule di maledizione e si chiede con insistenza ad Ermes o ad Ecate di legare  la lingua e le membra dei nemici più odiati.
Dobbiamo richiamarci a quella contraddizione fondamentale, a cui avevamo già accennato all’inizio: il secolo 4., il secolo di Aristotele, è anche quello in cui l’aspirazione al divino si fa sentire per la prima volta con estrema intensità.
Dovunque trionfano le forze irrazionali a cui ci si abbandona con piacere.
Appaiono certe parole-chiave, alle quali non si vuole rinunciare: amore, salvezza, purificazione, redenzione…
Ognuno risponde a questo appello secondo la propria natura; Platone e Prassitele sanno creare dei mondi radiosi, costruiti al di sopra della realtà, ma i poveri e le donne devono contentarsi di accedere con i tiasi ad un misticismo alla portata di tutti.
Pag. 393

 

 

 

Libro 4. Il rinnovamento ellenistico

Cap. 1. Gli Stati ellenistici

L’epoca denominata convenzionalmente “ellenistica” (in tedesco Hellenismus) inizia con la morte di Alessandro e termina, in date molto differenti a seconda delle ragioni, con la conquista romana.
E’ caratterizzata dall’estensione delle conquiste greche e dallo spostamento del centro di gravità della civiltà greca; il ruolo preponderante non è più assunto dalla Grecia propriamente detta, ma dalle grandi monarchie orientali.
La sua storia è particolarmente complicata: si compone di una lunga serie di guerre accanite e sanguinose e di frequenti usurpazioni che non cessano di modificare le frontiere degli Stati.
La documentazione è invece molto più abbondante di quelle delle epoche precedenti.
Vanno menzionati, in primo luogo, i papiri, conservati in gran numero soprattutto in Egitto, grazie ai quali le testimonianze più diverse hanno potuto giungere sino a noi: lettere di sovrani, testi amministrativi, archivi notarili, corrispondenza privata, quaderni di scuola.
Tratteremo, dunque, solo brevemente dei destini politici del mondo ellenico in un’epoca così tormentata.
Non sarebbe certo il caso di esporre qui le interminabili guerre con le quali i generali di Alessandro si contendono la supremazia dell’Impero.
Fin dal 321, dopo l’assassinio del reggente Perdicca, uan prima spartizione ha luogo a Triparadiso; ad Antipatro viene data la Macedonia, a Tolomeo l’Egitto, a Lisimaco la Tracia, ad Antigono Monoftalmo l’Asia Minore, a Seleuco Babilonia.
A partire dagli anni 306-05, essi assumono il titolo di re (Antipatro è stato sostituito dal figlio Cassandro).
Le lotte continuano ancora per più di vent’anni, contrassegnate da episodi cruenti come l’annientamento e la morte di Antigono Monoftalmo ad Ipso (301) e di Lisimaco a Curupedio (281), e l’uccisione di Seleuco per mano di Tolomeo Cerauno (280).
Si può dire che a questa data i diadochi, o successori diretti di Alessandro, siano tutti scomparsi, dopo quarant’anni di tentativi, d’intrighi, di conflitti per conquistare almeno una parte dell’immenso Impero, dal momento che non potevano dominarlo nel suo insieme.
La situazione tende allora a stabilizzarsi con la costituzione di tre vasti reami: quello d’Egitto con Tolomeo 2. (figlio del primo Tolomeo), quello d’Asia con Antioco 1. (figlio di Seleuco), quello di Macedonia, che tocca ad Antigono Gonata (nipote di Monoftalmo).
Nessuna età ha assistito a lotte personali altrettanto aspre, all’azione di condottieri così arditi, ad alleanze così instabili.
L’indomabile Monoftalmo, suo figlio Demetrio Poliorcete (l’espugnatore di città), valoroso e dedito ai vizi, il duro Seleuco, l’astuto Tolomeo e il brutale Cassandro sono i protagonisti di queste gesta.
La generazione seguente, quella degli epigoni, avrà ambizioni meno vaste, perché tutti i sovrani hanno rinunciato a ristabilire l’Impero universale (illusione lungamente carezzata da diadochi), ed assisterà ad un consolidamento generale dei regni sorti da tante battaglie.
Non è nostra intenzione descrivere le successive campagne che permisero ai romani di porre fine all’indipendenza del mondo greco, né analizzar ei motivi ed i pretesti dei loro interventi, la tortuosa politica senatoriale e la cupidigia dei cavalieri: questi avvenimenti appartengono di fatto alla storia romana.
Richiameremo dunque tali vicende solo in un contesto ellenico.
Pag. 397-98

Nella Grecia propriamente detta alcune città, in particolare Atene ed episodicamente Corinto, conservano un’indipendenza formale e un’apparenza di istituzioni tradizionali.
Il declino però si accentua in seguito agli sconvolgimenti sociali e alla crisi economica che comporta un impoverimento generale.
Solo alcune città insulari traggono profitto dal progressivo spostamento della potenza politica ed economica che si localizza ora in Oriente.
Se Atene ha perduto ogni influenza, ciò non è dovuto tanto alle imprese dei sovrani macedoni (nel 228 essa giunge fino ad espellere la guarnigione del Pireo, riacquistando almeno apparentemente un’autonomia totale), quanto piuttosto al fatto che si è spento lo spirito democratico.
Certo le istituzioni sono sempre le stesse, nonostante l’aggiunta di due tribù a quella di Clistene, ma il popolo non è più sovrano.
Il teorico e la maggior parte dei misthòi  sono stati soppressi; il potere è concentrato nelle mani dell’Areopago e dello stratega più importante, quello degli opliti.
Il servizio militare è scomparso e lo Stato affida la difesa a mercenari.
Gli efebi non sono più che studenti i quali si riuniscono per continuare i propri studi.
L’attività economica è notevolmente diminuita in seguito all’abolizione delle cleruchie ed all’inattività del Pireo, tagliato fuori dalle grandi rotte commerciali.
Si avrà uan leggera ripresa dopo la “liberazione” della Grecia e soprattutto quando, nel 166, i romani restituiscono qualche cleruchia, aggiungendovi Delo per fare opposizione agli abitanti di Rodi.
Tale ripresa durerà fino al saccheggio di Silla, nell’86.
Pag. 398-99

Sul piano intellettuale il prestigio della città resta notevole.
Le cerimonie continuano ad avere un fasto eccezionale, specie i Misteri Eleusini e le Dionisiache, durante le quali hanno luogo rappresentazioni non solo di opere classiche, ma anche di commedie nuove, piacevoli pitture della società contemporanea.
Un seleucide, un lagide, un principe numida non disdegnano di prendere parte ai concorsi delle Panatenaiche.
Le scuole filosofiche di Atene sono le più brillanti del mondo ellenico e il loro prestigio seduce un pubblico raffinato e sazio, che non ha tuttavia perso il gusto per le costruzioni dell’intelletto.
Le sue “botteghe” di scultura diffondono nel mondo intero eccellenti copie di capolavori del periodo classico.
Si va già delineando il ruolo che Atene avrà in epoca romana: un centro universitario, depositario d’un passato cancellato per sempre, nel quadro monumentale ancora intatto della città periclea.
In Grecia la situazione è dovunque critica.
Certo l’agricoltura progredisce, grazie all’uso dei concimi, che permettono di ottenere ricche messi, e l’allevamento trae profitto dall’estensione dei pascoli, ma pochi se ne avvantaggiano, poiché la grande proprietà è in continua espansione secondo una tendenza già evidente nel secolo 4.
L’industria e il grande commercio sono in pericolo, malgrado una breve ripresa negli anni successivi alla conquista di Alessandro.
Ben presto infatti i nuovi Stati orientali cominciano a fabbricare sul luogo i prodotti di prima necessità.
La Grecia è ancora affetta dalla perpetua carenza di cereali, tanto più costosi in quanto il prezzo del grano, dopo essere diminuito all’inizio del secolo 3., subisce un aumento notevole nel 2.
Al contrario può esportare solo olio e vino, i cui prezzi sono purtroppo stabili, e prodotti di lusso che consentono all’artigianato di sopravvivere modestamente, in particolare a Corinto e ad Atene.
Gli elementi più dinamici d’altra parte hanno abbandonato la madrepatria e i ricchi investono il loro denaro solo in terre, il che fa scomparire il fermento indispensabile dell’attività economica presente nell’epoca classica.
Pag. 400

Rodi mette in ombra tutte le isole vicine.
Formatasi nel 408 dal sinecismo di tre città, si è destreggiata abilmente nel secolo 4. ed ha resistito agli attacchi del Poliorcete.
Verrà in futuro un lungo periodo di  splendore e conserverà la sua indipendenza in mezzo agli intrighi dei re, offrendo un magnifico esempio di sopravvivenza della polis in piena età ellenistica.
La sua costituzione è di tipo moderato: si tratta di una repubblica a carattere mercantile, , gelosa del suo diritto di cittadinanza, ma pronta ad accogliere generosamente e a proteggere tutti gli stranieri che possano accrescere la sua ricchezza.
La prosperità di Rodi è dovuta essenzialmente alla sua posizione privilegiata, vicinissima alla costa asiatica e di fronte ad Alessandria.
Possiede tre porti, muniti di depositi e arsenali importanti: uno per il commercio, uno militare e uno si scalo.
I suoi giganteschi magazzini rigurgitano di vino e di olio (prodotti sul posto o importati), di grano pontico ed egizio, di vasi, di prodotti esotici, che vengono poi ridistribuiti in tutto il bacino Mediterraneo.
Le anfore contrassegnate dai suoi sigilli sono presenti ovunque:  nelle steppe della Pontide come in Gallia o in Spagna.
Essa ha dunque ereditato il ruolo tenuto dal Piero nell’epoca classica.
Le sue banche sono particolarmente attive; la sua flotta da guerra (cinquanta vascelli, mantenuti in perfetta efficienza) conserva la pace nell’Egeo conducendo un’accanita lotta contro i pirati.
Il suo codice marittimo (la lex Rhodia) è talmente famoso che Marco Aurelio ne accoglierà alcuni principi, più tardi ereditati anche da Bisanzio e da Venezia.
E’ così ricca e così utile a tutti che, distrutta da un terremoto nel 227, viene ricostruita immediatamente con l’aiuto e il soccorso dell’intero mondo ellenico.
Pag. 402

La potenza effettiva è rappresentata dalla Macedonia, che estende la sua egemonia anche sulle città apparentemente indipendenti della Grecia continentale.
Le tengono testa soltanto la lega achea e quella etolica.
L’Epiro fa una meschina figura, benché si riprenda il regno di Piero.
Pag. 405

Il regno dei due ultimi sovrani, Filippo 5. (figlio di Demetrio 3.) e suo figlio Perseo, è dominato interamente dalla lotta contro Roma.
Filippo 5. è un monarca energico, ma violento e si lascia trascinare dagli achei in una guerra contro gli etoli, la “guerra degli alleati”, terminata nel 217 con la pace di Naupatto sulla base dell’uti possidetis.
La prima guerra di Macedonia, in cui gli etoli e Pergamo si trovano a fianco dei romani, e Filippo si allea con Annibale, si concluda a Fenice (205) con la spartizione dell’Illiria tra Roma e Filippo.
La seconda guerra, in cui gli etoli e anche gli achei sono alleati con Roma, vede la disfatta della falange macedone a Cinocefale (197).
L’anno seguente Filippo è obbligato, in seguito a un trattato di pace, a rinunciare alla Tessaglia e alla Grecia e deve consegnare la flotta; Flaminino proclamerà allora a Corinto la libertà dei greci.
Perseo riprende la lotta ma, irresoluto ed avaro, non possiede affatto le qualità del padre.
La terza guerra di Macedonia trova il suo epilogo nella disfatta di Pidna (168): Perseo è trascinato a Roma per il trionfo di Paolo Emilio.
La Macedonia viene suddivisa in quattro distretti, più tardi verrà ridotta a provincia (148).
Nel 146 in seguito ad una rivolta Corinto è espugnata e rasa al suolo da Mummio: orrendo misfatto, che segna la scomparsa di una delle più belle città della Grecia.
Eccetto Sparta, Atene e Delfi, che ottengono di diventare federate, tutte le altre città greche devono versare un tributo.
La Grecia resta sottoposta all’autorità del proconsole di Macedonia fino al 27, anno in cui Augusto ne farà una provincia speciale, l’Acaia.
Essa soccombe restando fedele a se stessa: nemica di ogni costrizione, preferisce allearsi al barbaro romano, piuttosto che accettare il giogo della Macedonia.
Ricordiamo infatti che a Cinocefale gli assalti furiosi degli etoli contribuirono in parte alla vittoria dei romani.
Pag. 406

Instaura il suo dominio a Siracusa, mettendo in fuga i mamertini e riceve il titolo di re.
Il suo regno non è vasto, ma lo amministra imitando i metodi dei sovrani ellenistici.
Le principali disposizioni della famosa Lex Hieronica, che regola l’esazione dell’imposta fondiaria sui contadini del re e limita i proventi degli appaltatori, sono ispirate all’Egitto dei lagidi.
Roma le adotterà a sua volta, apportandovi profonde modifiche.
L’artigianato artistico e il commercio sono ancora fiorenti.
Le monete con l’effigie della regina Filistide sono autentici capolavori.
Il prestigio di cui gode gli permette d’intervenire anche in Oriente, al soccorso dell’Egitto in preda alla carestia, o di Rodi, distrutta da un terremoto.
Ricostruisce il teatro, si circonda di artisti e letterati, e anche se Teocrito gli preferisce il Filadelfo, Archimede da solo basterebbe a rendere famosa Siracusa.
Quando la Sicilia diventa il campo di battaglia di romani e cartaginesi, Ierone agisce con prudenza.
Nel 263 stringe alleanza con Roma, già sua nemica, accettando di pagare un tributo, e nel 248 ottiene di venire esentato da tale obbligo.
I servigi da lui resi in questa occasione contribuiscono alla vittoria romana.
La Sicilia viene annessa, ma Ierone conserverà il regno fino alla morte, avvenuta nel 215 durante la seconda guerra punica.
Siracusa crede allora di poter rompere l’alleanza con Roma e si schiera con Annibale.
Nel 211 Marcello la conquista con un assedio, nonostante le macchine da guerra di Archimede, che perisce vittima della soldataglia, e l’abbandona al saccheggio,
E’ la fine della Sicilia greca.
Pag. 411

L’Impero che Seleuco 1. lascia a suo figlio Antioco 1. è vastissimo; si estende infatti dall’Afghanistan agli Stretti, dal Ponto alla Siria.
E’ anche molto composito: vi si parlano tutte le lingue, dal greco al persiano, dall’aramaico ai dialetti asiatici.
Tutte le religioni coesistono, dal politeismo ellenico allo zoroastrismo, dal giudaismo ai culti indigeni dell’Anatolia.
Le forze centrifughe sono così potenti, che la storia del regno è quella del suo progressivo smembramento.
Possiamo stupirci solo che tale disgregazione non sia avvenuta più rapidamente.
Il suo vero centro è la Siria, dove fin dal 300 Seleuco fonda la capitale, Antiochia sull’Oronte.
E’ logico quindi che il frazionamento abbia luogo essenzialmente nelle regioni più lontane dalla Siria: l’Anatolia settentrionale e le satrapie orientali.
I seleucidi sono stati senza dubbio vittime della scelta del fondatore della dinastia: i Gran Re, loro predecessori, erano stati infatti più accorti e avevano amministrato l’Impero da capitali situate nel suo centro geometrico, l’Iran.
Ma Seleuco è un greco e intende fare delle sue conquiste uno Stato ellenico, quindi mediterraneo.
Pag. 414

Uno smembramento tale è dovuto anche all’incredibile debolezza dei sovrani seleucidi.
Il potere è minato dagli intrighi della corte, dove delitti e usurpazioni si succedono a catena, spesso sotto l’istigazione di regine abusive.
I funzionari più altolocati non dànno sempre prove di fedeltà, come quel Molone, stratega della Media, che si solleva contro Antioco 3.
I vicini sovrani dell’Egitto, a cui sono pur legati da tanti vincoli dinastici, fanno loro una guerra implacabile per il dominio della Celesiria.
Ma la più grande debolezza del regno sta forse nella mediocrità della maggior parte dei suoi sovrani.
E dire che avevano avuto un grande esempio nella persona del fondatore stesso della dinastia, rude combattente che aveva meritato il soprannome di Nicatore (Vincitore).
Fin dall’ultimo periodo del regno di suo nipote, Antioco 2. Theos, oscuri intrighi di palazzo, nei quali la regina Laodice ha un ruolo indegno, portano alla divisione del regno tra due fratelli, Seleuco 2. Callinico e Antioco Ierace.
Alla loro morte i seleucidi vengono spogliati di ogni possedimento a nord del Tauro.
Un solo monarca viene a interrompere questo processo di decadenza: Antioco 3. (223-187), che ristabilisce il potere indebolito da tanti dissensi, riconquista gran parte dell’Asia Minore, percorre l’Oriente fino all’India in un’anabasi stupefacente che ricorda quella di Alessandro, e strappa definitivamente l’Egitto alla Celesiria.
Giunto all’apice della sua gloria, merita a ragione l’appellativo di Grande.
Le sue ambizioni suscitano però la gelosia di Pergamo e di Rodi, che fanno appello a Roma, già inquieta perché aveva accolto Annibale come consigliere.
Antioco viene sconfitto dagli Scipioni a Magnesia sul Supilo (189) e privato, con il trattato di Apamea, di tutta l’Anatolia oltre il Tauro.
Questo sovrano ardito ed ambizioso, che era potuto apparire come un secondo Alessandro, trova la morte nella Susiana in una scaramuccia contro i suoi stessi sudditi ribelli, offrendo così ai moralisti un esempio della potenza della Fortuna sul destino d’un mortale.
Pag. 416

Lo Stato attalide nacque da un tradimento.
Lisimaco aveva affidato la custodia della cittadella di Pergamo, che conteneva un notevole tesoro, a Filetero, ufficiale  di padre greco e di madre paflagone.
Questi passa dalla parte di Seleuco 1. (282) ottenendone la signoria su Pergamo, a condizione di riconoscersi suo vassallo.
Suo nipote, Eumene 1., rompe con Antioco 1. proclamandosi indipendente.
Il passo decisivo è compiuto dal nipote di Eumene 1. e suo successore, Attalo 1., che combatte vittoriosamente contro i galati e osa arrogarsi il titolo di re (240).
Egli conclude soprattutto un trattato d’alleanza con Roma, alla quale sarà fedele durante le prime guerre di Macedonia.
Tale alleanza segnerà ormai tutta la storia di Pergamo e grazie ad essa i suoi re cesseranno di essere i sovrani d’un piccolo regno anatolico per intervenire in modo decisivo negli eventi storici del mondo greco durante il secolo 2.
Pag. 417

Fin dal tempo della conquista assira gli ebrei hanno perso la loro indipendenza; conservano però fortissime tradizioni nazionali e trovano grande forza nell’alleanza che, secondo la loro credenza, li unisce a Jahweh.
Sono divisi in due gruppi, la cui evoluzione è molto differente in Giudea e nella diaspora.
Pag. 418

L’emigrazione degli ebrei dalla Giudea era un evento storico di vecchia data, poiché risaliva almeno alla grande catastrofe del 586: la presa di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor seguita dall’esilio.
Si tratta della Diaspora (Dispersione) che si accentua quando la Palestina entra a far parte del mondo greco per opera di Alessandro e più ancora dopo le agitazioni ebraiche del secolo 2.
L’area di tale dispersione è considerevole.
La popolazione ebraica in tutto il mondo all’epoca ellenistica poté essere valutata intorno agli otto milioni.
Essa è raggruppata principalmente in quattro zone: Babilonia, Siria, Anatolia, Egitto, ciascuna delle quali conta oltre un milione di ebrei.
Ma essi si trovano numerosi anche in Cirenaica, nelle isole dell’Egeo, in Grecia, persino in Africa, in Italia e in Spagna.
Dappertutto hanno luogo delle conversioni al giudaismo, specialmente tra le donne (gli uomini infatti provano ripugnanza a farsi circoncidere): si va formando così una categoria di semi convertiti, i cosiddetti sebomenoi (coloro che temono Dio).
Esiste un solo Tempio, ma le sinagoghe (luoghi di riunione e di preghiera) si moltiplicano.
Pag. 419

Ciò nonostante la differenza fra gli ebrei di Giudea, spesso solo superficialmente ellenizzati, e quelli della Diaspora rimane considerevole.
L’assimilazione della cultura greca in questi ultimi è molto più profonda (particolarmente in Anatolia, in Siria e in Egitto), ed essi non esitano, pur rimanendo fedeli al principio essenziale della loro fede che è il monoteismo, ad abbandonare alcune delle pratiche più assurde della loro religione, che avrebbero reso difficile la loro vita in un mondo ellenizzato.
Pag. 420

Il monarca è l’espressione vivente della legge e le sue decisioni non hanno bisogno di essere approvate da alcun consiglio o da alcuna assemblea; in ciò sta la differenza essenziale con il periodo classico, in cui la legge era espressione di una volontà collettiva.
In pratica i documenti in cui si manifesta il volere dell’onnipotente re, sono svariati: leggi (nomoi), regolamenti (diagrammata), ordinanze (prostagmata), che rivestono spesso la forma di lettera.
Pag. 422

Tali istituzioni sono destinate ad avere un seguito importante, sia sul piano storico che su quello ideologico.
Quel Traiano che Plinio il Giovane ci presenta nel suo Panegirico, è l’erede diretto d’un monarca ellenistico ed è anche evidente che lo stratega ha servito da modello al proconsole e più ancora al legato di Augusto.
Ma l’esame dei problemi economici e sociali sorti nei regni greci d’Oriente con la conquista pone dei problemi altrettanto appassionanti: si notano la stessa audacia, lo stesso spirito moderno nelle situazioni adottate, da cui appare chiaramente la vitalità di un ellenismo che rifiuta di sclerotizzarsi.
Pag. 423

 

I successori di Alessandro si trovano davanti a un problema che già il macedone dovette affrontare: organizzare la vita economica e sociale in regni dove essa dipendeva tradizionalmente dall’autorità del re.
Vi si consacrano con il pensiero costante (frutto della saggezza e del buon senso), di non sovvertire troppo l’ordine già esistente.
Tuttavia le condizioni nuove (sviluppo d’una borghesia capitalista di origine greca e introduzione della moneta in Egitto) determinano trasformazioni profonde, particolarmente sensibili nei centri urbani.
La sovrapposizione di una classe di conquistatori a una massa di indigeni vinti (benché abituati da lungo tempo alla dominazione straniera), conferisce al mondo ellenistico una sua facies originale che prefigura in molti casi quella del futuro Impero romano.
Pag. 424

Tutte questa città sono delle vere e proprie poleis nel senso greco del termine, con un territorio, un’autonomia municipale (specialmente in campo giuridico e finanziario) e dei magistrati.
Naturalmente non costituiscono più degli Stati indipendenti come nell’età classica: sono poste per la massima parte sotto la severa tutela d’un governatore (epistata) e talvolta devono accogliere una guarnigione.
D’altra parte il sovrano fa spesso prova di liberalità nei loro riguardi contribuendo con i fondi personali alla costruzione di edifici pubblici, soccorrendole in caso di catastrofe, accordando loro dei privilegi che ne accrescono l’autonomia, come il diritto d’asilo o l’inviolabilità.
Pag. 425-26

L’ambizione degli Attalidi è di fare di Pergamo l’Atene del mondo ellenistico.
La sua biblioteca rivaleggia con quella di Alessandria; il palazzo reale contiene un vero museo di scultura, e vi nasce senza dubbio la critica d’arte.
La scuola di retorica, le botteghe di scultura che accentuano gli effetti patetici sono meritatamente celebri, come pure gli artisti dionisiaci protetti dal sovrano, grazie ai quali la città diviene il centro principale dell’arte drammatica.
Il più bell’omaggio reso a Pergamo è forse quello di Plinio il Vecchio (33, 149): “Da quando morì Attalo (il re che lasciò ai romani i suoi Stati), i romani cominciarono a damare, e non più soltanto ad ammirare, le meraviglie straniere”.
Pergamo, scuola di Roma, si pone così a fianco di Atene, scuola della Grecia.
Pag. 429

Il suo sviluppo però non è in rapporto diretto con quello dell’Egitto.
La formula latina Alexandria ad Aegyptum (Alessandria presso l’Egitto) sottolinea una realtà valida anche per l’epoca tolemaica.
La grande città, simile agli altri centri ellenistici ma più rigogliosa, è la capitale di un regno che, nella chora, continua la sua esistenza immutabile.
E’ questa in fondo la vera debolezza di Alessandria e di coloro che l’hanno fondata.
Accecati dalle forme tipicamente greche dello Stato, esso sono riusciti a creare una polis grande, fiorente, senza poterla inserire nella vita del regno a cui essa è stata quasi sovrapposta.
Pag. 432

La vita economica subisce un mutamento radicale.
La Grecia ha perduto ormai quella funzione centralizzatrice e dominatrice che le era stata propria in passato.
Il suo declino era cominciato fin dal secolo 4.: soltanto due centri insulari (Rodi e più tardi Delo), e Corinto, conservano un’importanza internazionale.
Tutte le attività tendono a concentrarsi in Asia Minore, in Siria e in Egitto.
………………
Da un lato i regni ellenistici sviluppano un attivo commercio sia tra di loro sia con la Grecia.
Esso è costituito dall’inizio da derrate alimentari (l’Egitto in particolare è un grande esportatore di grano; i greci d’Oriente invece importano buon vino, di provenienza greca o anatolica, e olio d’oliva; i papiri ci forniscono utili informazioni riguardo a scambi commerciali ancor più specializzati, come per esempio l’esportazione delle nocciole del Ponto); Poi da materie prime (legno, pece, metalli).
Inoltre circolano manufatti di buona qualità: le cosiddette ceramiche di Megara, i vasi di metallo, i bronzi artistici, ex voto e gioielli, tessuti e tappeti di lusso (lo sviluppo delle industrie di base permette oramai la fabbricazione diffusa degli oggetti di uso corrente).
Anche il traffico degli schiavi è molto sviluppato.
D’altra parte la conquista dell’Oriente permette di importare nel bacino mediterraneo i prodotti delle regioni interne dell’Africa, dell’Arabia e delle Indie: avorio, spezie, incenso, profumi, perle e pietre preziose, legni pregiati……
L’importanza dei porti della Siria e di Alessandria può essere spiegata col fatto che questi prodotti vi arrivano per le vie di terra o marittime.
L’acquisto di prodotti di gran lusso porta a un deficit della bilancia commerciale, e di qui a un’emorragia d’oro e d’argento che persisterà sino alla fine dell’Impero romano.
Avremo occasione di trattare di questo traffico commerciale in terre lontane, causa e allo stesso tempo conseguenza dell’interesse del mondo ellenistico pe rle regioni che la Grecia del periodo classico aveva quasi trascurate.
Pag. 433

La domanda è considerevole.
Non si tratta solo più dei fattori costanti, che permangono, come ad esempio la necessità, per la Grecia, di procurarsi i viveri di prima necessità, o, per l’Egitto, d’importare legno o ferro.
A queste necessità vitali se ne aggiungono altre originate dal raffinamento d’una civiltà che non intende rinunziare ad alcun piacere o ad alcun lusso.
I sovrani spendono a profusione per mantenere la propria corte e per organizzare delle feste, che diventano quasi un obbligo e un segno tangibile del loro prestigio.
Una borghesia ricca e illuminata, amante del fasto, non può più contentarsi della vita austera dei greci del secolo 5.
Si ricerca tutto quanto è sontuoso e accresce il prestigio.
Perfino il Mediterraneo diventa ormai troppo piccolo per soddisfare tutte le cupidigie: l’Africa nera e l’India forniscono prodotti per decorare palazzi e dimore o per adornare la persona, e comunque oggetti che rendono più attraente la vita quotidiana con il fascino dell’esotismo.
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La ragione più profonda dello sviluppo d’un vasto commercio internazionale va ricercata nell’avvento definitivo di una grande borghesia capitalista, di cui fanno parte banchieri ed appaltatori generali, ma anche armatori e commercianti.
Spesso i trafficanti si associano tra loro, come si può osservare con particolare evidenza a Delo.
Talvolta sono abbastanza potenti da agire da soli, come quell’Apollonio, diocete di Filadelfo, del quale gli archivi di Zenone rivelano non soltanto gli interessi ricavati dall’immensa proprietà di Fayum, ma anche i legami commerciali con la Siria.
I greci più dinamici, una volta espatriati, accumulano in tal modo favolose fortune in Oriente, imitati dai siriani, dagli egizi e in seguito dai negotiatores italici, che approfitteranno sempre più della preponderanza politica di Roma per imporsi come padroni del mercato.
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A prescindere da altri fattori capitali, che analizzeremo in seguito, i sovrani sono indotti ad occuparsi attivamente della terra, perché la conquista ha conferito loro i diritti già riconosciuti ai faraoni e agli achemenidi.
La terra appartiene dunque per la maggior parte al monarca; è “la terra del re” (basiliké gé), data in appalto con un contratto a dei “contadini del re”.
Essi la coltivano pagando un canone che, con le tasse, può giungere fino a comprendere la metà del raccolto.
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Ciò nonostante, il sistema è in una certa misura 8difficile determinare in quale) modificato dalla novità sostanziale costituita dall’introduzione e dalla diffusione definitiva del sistema monetario.
L’economia puramente naturale dell’Egitto viene profondamente trasformata dai due corollari conseguenti all’uso della moneta: la banca e l’interesse dei capitali ricavati dalle imposte.
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Questo interesse che il potere manifesta per i lavori agricoli, affatto nuovo nel mondo ellenico, non tarderà a dare i suoi frutti.
Si scrivono trattati di agronomia.
Le aree coltivate aumentano grazie al drenaggio delle paludi e all’irrigazione delle zone periferiche del deserto.
La più bella creazione del Nuovo Impero, l’immensa oasi del Fayum, riprende a vivere dopo il lungo abbandono del Basso Impero.
Mezzi tecnici più perfezionati vengono introdotti nell’irrigazione: un congegno a ruota dentata e la vite di Archimede tendono a sostituire gli shaduf primitivi.
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I risultati economici di tale politica sembrano felici: la produzione del suolo e l’allevamento vengono intensificati; sul piano sociale invece nulla è previsto per migliorare la condizione del contadino, sfruttato ancor più duramente che sotto i faraoni.
Nelle epoche di crisi egli non ha altra risorsa se non l’anacoresi, cioè la fuga davanti all’oppressione e all’iniquità.
I lagidi non vollero comprendere che aumentando i salari e opprimendo di meno il ceto rurale, avrebbero incrementato il potere d’acquisto e il commercio interno.
La società sorta dalla conquista è di tipo coloniale, con la sovrapposizione degli occupanti (macedoni o greci) agli indigeni.
Questi ultimi rimangono molto più numerosi: in Egitto, circa 8 milioni d’indigeni contro appena 1 milione d’invasori.
Tale sproporzione provoca conseguenze inevitabili in simili casi:  da parte dei greco-macedoni, una reazione difensiva intensa a preservare l’integrità della loro civiltà, e non di meno una orientalizzazione progressiva, particolarmente evidente in campo religioso; da parte degli indigeni, delle reazioni a carattere nazionalistico dirette a conservare costumi e credenze; il che non esclude la comparsa di un élite che si ellenizza per interesse.
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La nascita di una borghesia numerosa e agiata costituisce il fenomeno più notevole di quest’epoca.
Le sue rendite provengono dall’industria e soprattutto dal commercio, ma l’acquisto di beni fondiari non è mai trascurato.
I suoi mezzi materiali ed il suo livello intellettuale sono più elevati che nell’epoca precedente; da ciò deriva una trasformazione profonda della vita quotidiana.
La borghesia ama vivere bene, una tavola ben imbandita, le cortigiane, le dimore confortevoli e non si priva delle soddisfazioni più raffinate che possono offrire la poesia, l’arte o la filosofia.
Un personaggio sempre più comune è il finanziere.
Nei grandi mercati i banchieri accumulano enormi ricchezze; non meno potenti sono gli appaltatori generali, i quali, soprattutto in Egitto, approfittano del desiderio del re di non correre rischi personalmente.
La maggior parte dei redditi è affidata alle banche, il che costituisce una garanzia supplementare in un paese che conosce da poco tempo un’economia monetaria.
Certo il sovrano si premunisce con precauzioni eccezionali: l’appaltatore deve versare una cauzione; tutti i mesi i suoi conti sono verificati dall’economo ed egli stesso garantisce con i suoi beni personali.
I papiri ci dànno un’idea dell’enorme contenzioso dei differenti contratti d’affitto.
Ed è chiaro che non si vedrebbero uomini di ogni razza (specialmente greci ma anche egizi ed ebrei) disputarsi gli appalti, se il sistema non fosse molto lucrativo per i pubblicani.
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Re, borghesi, funzionari e sacerdoti vivono sfruttando la fatica degli umili.
La scissione della collettività in due classi antitetiche, ricchi e poveri, e lo sfruttamento degli uni da parte degli altri, fenomeni già apparsi nel secolo 4. in Grecia, non fanno che accentuarsi nel mondo ellenistico.
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Schiacciato da un sistema oppressivo, da affitti iniqui e abitazioni malsane, il contadino fugge.
Si tratta dell’anacoresi, uno dei fenomeni più gravi della tarda epoca ellenistica, che diverrà in seguito una delle piaghe dell’Egitto romano e assumerà anche caratteri religiosi con i primi anacoreti cristiani.
Malgrado quanto è stato detto in proposito, il deserto offre asilo solo a un’infima minoranza, poiché la vita vi è possibile solo per coloro che sono abituati al nomadismo.
Alessandria invece, con la sua moltitudine formicolante e poco controllabile, esercita una forte attrazione: vi si può trovare del lavoro e i templi sono disposti a dare asilo ai contadini disertori.
Altri ancora si raggruppano in bande di briganti che devastano la pianura.
Nei papiri possiamo notare l’angoscia e le aspre lamentele di coloro che restano e che la solidarietà del villaggio costringe a pagare per i fuggitivi.
Le denunce indignate si moltiplicano presso gli agenti del re.
I papiri mostrano in modo evidente il profondo malcontento che regna nelle campagne.
I contadini vi appaiono violenti e ribelli; le loro rivendicazioni hanno un accento di rivolta contrastante con il tono calmo di adulazione adottato in simili circostanze dai “piccoli greci”.
Questo scoraggiamento e questa turbolenza spiegano perché le rivolte abbiano trovato tanta eco nella chora egizia.
In tal modo va sempre più aumentando il divario tra il mondo urbano che sfrutta e quello rurale che viene sfruttato.
In questo fenomeno M. Rostovtzeff scorge a ragione la tara più profonda delle società antiche a partire dal secolo 4., e una delle cause determinanti della loro rovina.
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Uno dei fattori essenziali di tale ellenizzazione è la presenza dei soldati nelle città o nelle metropoli dei nomi.
L’esercito ha un ruolo talmente importante negli eventi del mondo ellenistico, nato d’altronde dalla stessa conquista e diviso da lotte incessanti, che merita uno studio particolare.
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Il mercenario, spesso esiliato per sempre, diventa uan specie di apolide privo di qualsiasi diritto politico.
Vita militare e vita civile, così intimamente legate nella Grecia classica, si dissociano definitivamente.
Certo, non è raro vedere delle guarnigioni, delle unità, e persino delle associazioni di soldati votare decreti onorifici ed eleggere magistrati, ma tali manifestazioni non portano a risultati concreti di tipo politico; senza dubbio esprimono solo la nostalgia delle antiche istituzioni che molti di loro conservano sempre viva.
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Per quanto lontani dalla patria, i mercenari greci e macedoni restano profondamente attaccati alla grecità, pur subendo in modo rilevante l’influenza dei culti locali.
Sembra che sia in gran parte da attribuire a loro la fondazione dei ginnasi che si moltiplicano negli Stati ellenistici.
Ma su questo punto dobbiamo fare una distinzione: nel mondo siro-anatolico i ginnasi sono aperti agli indigeni, avidi di accedere alla cultura greca; in Egitto, al contrario, esso sono dei club gelosamente riservati agli occupanti, e quando l’esercito viene invaso dai semiti divengono il focolare d’una specie di massoneria ellenica, desiderosa di preservarsi dalla contaminazione dei barbari.
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I regni ellenistici lasciano un’impressione confusa di riuscita e d’insuccesso.
Da una parte, grandi città cosmopolite dalla larghe strade e dai nobili monumenti, un’innegabile prosperità, una borghesia dinamica e in piena espansione e l’ellenizzazione di una classe media di origine indigena.
Dall’altra la crisi delle campagne che, duramente sfruttate, non traggono alcun profitto dal nuovo ordinamento.
Il re e i grandi capitalisti, nelle cui mani è concentrato il potere, si curano solo dei loro profitti e, coscientemente o no, favoriscono quella scissione tra mondo urbano e rurale che solo in apparenza sembra inserirsi nella tradizione della civiltà greca.
In realtà, benché la civiltà classica trovasse la sua espressione più completa nella polis, quest’ultima comprendeva nella sua sfera vitale anche la campagna.
In alcune caratteristiche dell’ellenismo c’è, ancora prima della conquista, un’anticipazione di quello che sarà l’Impero romano, nel quale questa scissione sta quasi all’origine della sua grandezza che della sua debolezza.
Dobbiamo tuttavia sottolineare che la situazione in Egitto si deteriora considerevolmente: preti, guerrieri e funzionari acquistano privilegi sempre maggiori a scapito del sovrano, e le campagne, rovinate dall’anacoresi, rimangono quasi incolte.
Si è giustamente parlato di un “rifiuto delle masse”, che vengono abbandonate alla loro sorte, senza che si faccia nulla per migliorarne il livello di vita (delle riforme avrebbero invece potuto essere un mezzo, dal punto di vista capitalistico, per risanare l’economia), e senza offrire un ideale capace di dare un senso al loro lavoro.
Ciò nonostante dobbiamo sottolineare per spirito d’obbiettività che i sovrani hanno fatto il possibile per fronteggiare la situazione, soprattutto tenendo conto del numero esiguo d’immigranti greci e macedoni, incapaci d’imporsi e di stimolare le masse indigene molto più numerose.
Riprendendo una famosa frase che si riferiva all’Alto Impero, potremmo dire, con tutte le restrizioni che comporta questa formula, che il mondo ellenistico era allora il migliore dei mondi possibili.
Un diocete esprimeva un pensiero analogo scrivendo: “Nessuno ha il diritto di fare ciò che desidera, ma tutto è organizzato nel modo migliore”.
Del resto lo studio della civiltà che si è sviluppata in questo contesto storico ci permetterà di sottolineare successi d’altro tipo, spesso molto brillanti.
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Cap. 3. L’ultima trasformazione della grecità spirituale

L’abbondanza  un po’ disordinata delle creazioni dell’epoca ellenistica colpisce in modo particolare.
Vi si osserva una vitalità così rigogliosa, che difficilmente può essere ridotta ad unità.
L’individualismo, che già tanti progressi aveva compiuto dalla fine del secolo 5., trionfa ormai pienamente.
Esso si esprime attraverso le forme più diverse: il successo della lirica, l’aspirazione del filosofo a una saggezza personale, le esigenze mistiche dell’anima preoccupata di ottenere la propria salvezza.
Ma l’uomo, paradossalmente, sembra poter affermare la propria individualità sono in seno alla collettività.
I poeti si raccolgono in cenacoli, le tradizioni delle botteghe degli artisti esercitano un influsso in scuole rigidamente organizzate.
Persino i mistici trovano un loro dio soltanto all’interno delle confraternite.
Sotto l’impulso di queste tendenze si organizzano, grazie all’aiuto di sovrani illuminati, biblioteche e istituti in cui si accumula e accresce il sapere umano.
I due primi Tolomei, sotto l’influenza di Demetrio Falereo discepolo di Teofrasto e del poeta Faleta di Coo, dotano la loro capitale del Museo e della Biblioteca.
Il Museo (letteralmente “santuario delle Muse) fondato da Sotere, diviene con Filadelfo un centro accademico di studi superiori: i sapienti vengono mantenuti e pagati grazie alla munificenza del principe e trovano gli strumenti, collezioni, giardini zoologici e botanici, necessari ai loro studi.
La Biblioteca, annessa al Museo, non cessa di ampliarsi: duecentomila volumi alla morte di Sotere, quattrocentomila a quella di Filadelfo, che acquista fondi importanti (in particolare quello di Aristotele), settecentomila al tempo di Cesare.
Filadelfo crea inoltre, nel Serapeo, uan seconda biblioteca, ricca di cinquantamila opere.
Gli Attalidi fanno concorrenza ai Lagidi fondando a Pergamo una biblioteca di quattrocentomila volumi, specializzata in opere d’erudizione e meno fornita di opere letterarie.
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Le novità sono altrettanto evidenti per quanto concerne i rapporti degli artisti con i potenti e con il pubblico.
Un tipo umano del tutto nuovo compare in questo contesto sociale: l’uomo di lettere.
Tuttavia, poiché l’antichità ignorava la nozione di diritto d’autore, il letterato non può vivere che grazie alla generosità del sovrano, a meno che non disponga di risorse proprie.
Il mecenatismo diventa dunque la base di tutta la vita letteraria: esso è particolarmente in auge presso i primi Lagidi, che incoraggiano sia la letteratura che le arti e le scienze.
Il pericolo a cui neanche i più grandi poeti potevano sfuggire era quello dello sviluppo di una poesia di corte, con le sue inevitabili adulazioni.
Teocrito, dopo aver tentato invano d’imporsi all’attenzione di Ierone di Siracusa ed avere soggiornato a Coo, dove aveva forse dei parenti, viene a stabilirsi ad Alessandria, e qui finalmente ottiene il favore del re Adelfi.
Ciò gli fornisce l’occasione di scrivere uno degli idilli più mediocri, l’Elogio di Tolomeo: un vero esercizio scolastico nel rigoroso pedantismo del suo schema, modellato sui panegirici dei sofisti e dei retori: vi sono lodati successivamente i genitori, la nascita, i meriti di Filadelfo.
L’esempio delle Siracusane invece, uno dei suoi poemi più perfetti, in cui sa descrivere lo splendore delle feste del palazzo reale ed entrare con eleganza nel gioco dell’apoteosi dei monarchi, Teocrito mostra come la poesia di corte non isterilisca necessariamente l’ispirazione.
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Se la tragedia è morta, la commedia invece sopravvive per un certo tempo con grande splendore ad Atene e si diffonde in Macedonia (Filippo fa dare delle rappresentazioni dopo la presa di Olinto, e Alessandro dopo quella di Tebe) e nell’Oriente ellenistico.
Il coro e la parabasi spariscono: degli intermezzi tendono a spezzare in singoli atti la materia fino ad allora continua.
Un prologo, ispirato a quello della tragedia, permette al poeta di rendere omogenea l’azione e di esporre le proprie opinioni, quasi come avveniva un tempo nella parabasi.
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La storia sopravvive pur trasformandosi radicalmente.
Seguendo la strada tracciata da Eforo di Cime, essa tende a divenire universale: la sua curiosità abbraccia, oltre alla Grecia, tanto l’Oriente (che le si apre con l’epopea di Alessandro) che l’Occidente, su cui le progressive conquiste romane attirano sempre più l’attenzione.
Ma la massa degli eventi è ormai talmente considerevole e le ricerche necessarie talmente vaste, che lo storico diventa un erudito il quale attinge la sua materia dai libri; la sola eccezione è rappresentata da Polibio, che deve alla conoscenza diretta dei fatti narrati l’incontestabile superiorità sui predecessori e sugli emuli.
D’altra parte, la storia si propone sempre più come ricerca scientifica e abbandona talvolta ogni pretesa letteraria.
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Fin dall’inizio della sua opera, Polibio assegna alla storia una duplice funzione didattica, politica e morale: ricavarne degli insegnamenti per l’uomo che governa e insegnare a resistere ai colpi della fortuna avversa.
Rifiuta perciò ogni ornamento e in particolare la retorica.
Per raggiungere il suo scopo deve consacrarsi alla ricerca delle cause, mostrandosi così un discepolo fedele di Tucidide.
Anch’egli esige che si faccia una distinzione tra i pretesti e i motivi reali delle guerre.
Fra questi ultimi, attribuisce un’importanza preminente all’azione di forti personalità, come Annibale o Scipione, alle istituzioni e ai costumi (pensa che la rivalità tra Roma e Cartagine fosse inevitabile, a causa di una sorta di determinismo), ai fattori economici (mostra con grande evidenza il ruolo assunto nella politica romana dal movimento dei capitali, dalla borsa, dai negotiatores). Ai fattori sociali (insiste sull’influenza e importanza della crisi demografica nel declino della Grecia).
Insomma, per lui la storia non è affatto la narrazione di eventi particolari, ma un’opera d’intelligenza orientata verso fini pratici.
Malgrado questa costante tendenza  alla spiegazione razionale, invoca spesso la Tyche (Sorte), anche se non ammette, pare, l’esistenza del caso e della provvidenza nello svolgimento degli eventi storici.
La Tyche rappresenta dunque una specie di residuo ed egli si sforza, per quanto gli è possibile, di attribuire ad avvenimenti umani cause umane: così ad esempio la conquista romana appare ai suoi occhi come il risultato di un piano prestabilito e delle doti eccezionali d’una razza.
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Le esigenze di natura etica, già notevoli nelle scuole tradizionali, non fanno che accentuarsi nelle due dottrine che compaiono alla fine del secolo 4., l’epicureismo e lo stoicismo.
Con un po’ di esagerazione si potrebbe dire che la filosofia si presenta ora come il rifugio contro i disorientamento dell’uomo, che non trova più una ragione di vita nel mestiere di cittadino.
La sua prima aspirazione è di offrire una soluzione al problema della felicità; in un caso come nell’altro, malgrado evidenti differenze, la risposta è la stessa: la felicità consiste nel controllo di sé raggiunto da un’anima che sa sfuggire al mondo, liberarsi dalle contingenze, raggiungere uno stato d’indifferenza (atarassia per gli uni, apatia per gli altri), da cui nulla potrà più distoglierla.
Il fondamentale ascetismo che si trova alla base di tali dottrine non è certo una novità alla fine del secolo 4., ma per la prima volta è fondato sulla scienza e in particolare sulla fisica; donde il dogmatismo scientifico che, in realtà, le allontana nettamente dalle filosofie umanistiche della grande tradizione classica.
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La ricerca della felicità intrapresa dai filosofi è senza dubbio il sintomo più caratteristico di quest’epoca turbolenta.
Tale felicità non è tuttavia possibile senza il distacco dell’anima, che mediante l’ascesi si sottrae alle vicissitudini della vita.
Allo stesso modo, durante la crisi dei secoli 3. e 4. dopo Cristo, lo slancio mistico del neoplatonismo prometterà all’iniziato le beatitudini dell’evasione.
Si fa dunque strada un nuovo ideale morale: all’eroe dei tempi più antichi, al cittadino dell’età classica, succede il saggio.
Vi è una sorta di rassegnazione in questa concezione, una fuga davanti al reale, che bisogna dominare dal momento che non lo si può accettare.
Dobbiamo però sottolineare la grandezza di questa ascesi che rende onnipotente l’anima.
La salvezza, a cui aspirano tutte le religione di allora, è ottenuta con la lotta.
Il pensiero ellenico sceglie ormai definitivamente la via dell’individualismo, poiché la coscienza è sola di fronte al suo destino; ma non dispera neppure di riformare lo Stato specialmente grazie agli stoici, eminenti consiglieri dei sovrani; e, quel che è più importante, in un magnifico slancio di vera e propria filantropia non dimentica che tutti gli uomini sono fratelli.
La simiglianza dei concetti di atarassia e di apatia, che rappresentano il punto di arrivo di due dottrine radicalmente eterogenee, non può non colpire lo storico.
Del resto, è stata anche sottolineata la vicinanza tra questi due stati di calma serena e il nirvana delle dottrine indiane: vi si può scorgere indubbiamente qualcosa di più d’un accostamento fortuito.
Certo non è senza un motivo che la medesima saggezza si manifesta nel Mediterraneo orientale e nella pianura indogangetica, tra cui cominciano a stabilirsi contatti così fecondi.
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Se la filosofia e la scienza ci hanno trasportati nel “templi sereni” il cui accesso è riservato solo a pochi specialisti,
l’arte ci riconduce nell’ambito della vita quotidiana.
Infatti nessuna epoca ha mai richiesto come questa agli artisti di abbellire le città e le abitazioni.
Dal punto di vista quantitativo la produzione è immensa; si costruisce febbrilmente e i grandi cantieri di scavi hanno riportato in luce a migliaia statue grandi e piccole destinate a decorare gli edifici.
Gli architetti, gli scultori, i pittori non furono mai così numerosi.
Il mondo ellenistico vive nella prosperità e i sovrani sentono il bisogno di circondarsi di uomini capaci di dare lustro alle loro capitali e alle loro dimore.
Un’altra ragione sta nello sviluppo di una borghesia ricca, amica delle arti e delle lettere, nella quale le tendenze evergetiche si sviluppano nelle corti.
L’arte si laicizza, dato che i grandi promotori sono ora i re e i ricchi borghesi.
Naturalmente l’architettura e la scultura religiose continuano a fiorire, tanto più che non esiste città greca che non abbia il suo santuario, e l’urbanizzazione è uno dei fenomeni più tipici dell’epoca.
Tuttavia, a parte qualche eccezione, lo slancio della fede non esiste più: la costruzione dei templi non comporta innovazioni di alcun genere e ci si contenta generalmente d’impiegare modelli già noti; la statuaria raffigura divinità dai tratti molto umani e le scene di genere sostituiscono spesso il rilievo a carattere religioso.
Nelle belle città ordinate secondo un piano urbanistico razionale, gli edifici civili si moltiplicano; palazzi e case private fanno a gara per lusso e comodità.
L’influenza dell’Oriente non è più sensibile e le arti indigene, oramai in piena stasi, imitano spesso i modelli greci.
Dappertutto trionfa l’ellenismo e assistiamo, malgrado le nette differenze esistenti tra una scuola e l’altra, alla genesi di una sorta di koiné artistica.
Pag. 471

Nonostante le opinioni contrastanti, l’arte greca non rinasce nell’epoca ellenistica perché non era affatto morta; e nemmeno sopravvive a se stessa, poiché innova e si rinnova seguendo le vie più diverse.
Il suo carattere fondamentale va ricercato nella rappresentazione dell’uomo e delle sue angosce, ma anche nell’aspirazione a una felicità serena.
Poche sono le emozioni ch’essa esprime, dal furore delle passioni fino alle dolcezze idilliche.
Nessun tema viene trascurato: greci e barbari, vecchi e bambini, bellezza ideale e deformità.
Destinata piuttosto alle classi agiate, essa trova spesso la sua aspirazione nel mondo degli umili.
Tenta tutte le strade: dal romanticismo di Pergamo fino al barocco di certi rilievi alessandrini.
E’ un’arte prettamente greca, perché come non mai sa cogliere l’essenza dell’uomo in tutte le sue sfumature.
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La religione tradizionale non scompare, come non scomparve nel secolo 4.
Le Panatenee continuano a svolgere le loro processioni lungo le pendici dell’Acropoli, gli atleti si misurano nelle gare olimpiche e Delfi pronunci ai suoi oracoli ambigui, mentre i pellegrini invadono i sagrati di Eleusi: tutti questi santuari continueranno d’altronde ad esser frequentati molto tempo dopo il periodo ellenistico, fino al tramonto del mondo antico.
Ma il fervore della fede non esiste più e i sacrifici pubblici forniscono solo l’occasione per un buon pasto fra l’allegria generale.
Pag. 484

Le divinità dell’Oriente hanno un fascino speciale, fatto in parte di esotismo e di mistero, al quale la Grecia era stata anche troppo sensibile fin dal 420.
Il loro trionfo durante l’epoca ellenistica avviene tanto più facilmente in quanto i greci occupano ormai le sedi stesse di questi culti.
L’Influenza dell’Asia minore rimane notevole, mentre diminuisce quella tracica e aumenta quella egizia.
Tralasceremo provvisoriamente il buddismo e il brahmanesimo, di cui avremo occasione di sottolineare la forza d’attrazione sui greci della diaspora nelle zone più orientali.
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Nuove forme di pensiero fanno la loro apparizione: l’astrologia, l’alchimia: ma nessuna è più importante dell’ermetismo, che trae il suo nome da Ermes, equivalente ellenico del Thoth egizio.
Dio benevolo, inventore della scrittura geroglifica e dispensatore di tutte le scienze sacre, egli misura il tempo, scrive il destino, sa formulare le invocazioni secondo il tono richiesto e, secondo i teologi di Ermopoli, crea anche il mondo con il suo verbo demiurgico.
Per quanto riguarda i trattati ermetici, d’epoca romana anche se derivano da testi ellenistici, gli specialisti non sono sempre d’accordo nel discernere gli elementi egizi da quelli ellenici o anche iranici.
In ogni caso la parte concernente le antiche speculazioni indigene è notevole: “I greci – dichiara Asclepio in uno di questi libri (Corpus hermeticum, 16, 2) – sono capaci solo di parlare nel vuoto e di trovare delle dimostrazioni: in verità, tutta la filosofia dei greci non è che un rumore di parole. Quanto a noi, egizi, non ci serviamo di semplici parole, ma di suoni pieni di significato”.
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Gli adepti delle nuove divinità si raggruppano in comunità culturali.
Mentre per gli dèi poliadi il luogo riservato ai riti era per definizione la città stessa, ora ci troviamo di fronte ad associazioni private, vere confraternite, in cui i fedeli si riuniscono a fianco a fianco dopo aver scelto liberamente di adorare lo stesso dio.
Greci e barbari, cittadini e forestieri, vi confluiscono.
Benché gli schiavi si radunino talvolta fra loro (come i competaliasti a Delo), la maggior parte delle comunità accolgono indistintamente uomini liberi e schiavi.
Uomini e donne sono considerati uguali e anche i bambini sono ammessi come chierichetti.
E’ facile immaginare il poderoso fermento d’unificazione sociale rappresentato da queste confraternite: al mondo classico, in cui l’opposizione fra il greco e il barbaro, tra il cittadino e lo schiavo era assoluta, in cui la donna era in ultima analisi disprezzata, succede un mondo nuovo che cancella gli antagonismi.
Tutti gli uomini, si sentono fratelli perché venerano uno stesso dio e attendono da lui la stessa salvezza.
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In quest’epoca tormentata dall’angoscia gli uomini colti ed eletti trovano il proprio equilibrio nella ragione filosofica che dissipa i dubbi, così come gli umili trovano la salvezza nelle speranze che le diverse dottrine offrono loro.
Roma sarà l’erede di questa religione tanto viva e fervente, in cui il contributo dell’Oriente non deve essere sottovalutato rispetto a quello ellenico.
Da questo mondo nascerà più tardi un’altra religione orientale, fondata anch’essa sui misteri, anch’essa apportatrice di salvezza, che s’imporrà lentamente: il cristianesimo.
Quantunque le sue radici ebraiche siano evidenti, esso troverà la base psicologica nelle dottrine ellenistiche: la trinità, la possibilità di un’unione tra la natura divina e quella umana, la madre del Salvatore, il culto dei santi; tutti questi dogmi possono trovare il loro equivalente diretto nei regni ellenizzati d’Oriente, mentre sono profondamente estranei al giudaismo.
Notiamo inoltre, ed è forse ciò che più conta, che il cristianesimo come i culti mistici dell’Asia o dell’Egitto insegna ad amare e non a temere Dio.
Nel vasto confronto tra la Grecia e l’Oriente, originato dalle conquiste di Alessandro, è difficile determinare quale sia stato l’apporto orientale alla civiltà ellenistica; esso è quasi nullo in letteratura e nella scienza, un poco più palese in arte, in filosofia, nelle scienze, ma molto importante nella religione.
Tutto ciò che concerne la letteratura in generale e il linguaggio, è poco sensibile alle influenze orientali, ma i riti e le credenze dell’Oriente seducono con il loro mistero gli spiriti.
Un greco dell’Egitto in caso di malattia si rivolgerà ad un medico greco, che impiegherà un metodo diagnostico, un trattamento e una farmacopea quasi esclusivamente ellenici.
Ma se in questo modo non otterrà la guarigione, la chiederà a Amenhotep  figlio di Apu, “dio molto buono”, implorandolo nelle tombe poste sulla montagna di Tebe.
Molti graffiti, quasi tutti incisi in greco, dimostrano la frequenza di queste pratiche.
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Cap. 4. Al di là delle frontiere politiche

L’estensione dell’oikoumene è forse il fenomeno più importante dell’epoca.
Esso si manifesta chiaramente sia in Occidente che in Oriente e non è quindi originato solo dalla conquista di Alessandro.
Vi sono interessati sia territori di antica civiltà, come Cartagine o l’India, sia regioni ancora barbariche, come la Scizia, la Gallia o l’Iberia.
Dappertutto, il mondo si schiude alla penetrazione ellenica; grazie alle relazioni commerciali, all’arte, al pensiero, alla religione, il modo di vivere dei greci si diffonde lontano, facendo da lievito alle civiltà più diverse.
In questa evoluzione generale possiamo distinguere due aspetti differenti.
Da una parte il fenomeno, ben noto fin dai tempi arcaici, dell’ellenizzazione mediante la fondazione di colonie in terre balcaniche: senza Marsiglia per esempio l’Occidente gallico, ligure o iberico non sarebbe diventato quello che fu invero.
D’altra parte i rapporti commerciali su grandi distanze (alcune migliaia di chilometri separano l’Occidente mediterraneo dall’India e dalla Cina), che stabiliscono un contatto fra mondi prima ignoti l’uno all’altro.
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Fin dal quinto secolo l’Occidente è quasi interamente celtizzato, ma il dinamismo turbolento dei celti li spinge ad altre conquiste.
All’inizio del secolo quarto essi occupano l’Italia padana creandovi uan nuova Gallia.
La Gallia meridionale riceve nuove ondate di immigranti nel secoli quarto e terzo, le Isole Britanniche e la Spagna nel terzo; altri s’installano nella valle danubiana e giungono fino all’Illiria e in Tracia.
Le orde dei galati saccheggiano la Grecia nel secolo terzo, prima di volgersi verso l’Asia Minore, dove molti finiranno per stanziarsi definitivamente in Galazia.
A partire dal 250 i belgi conquistano tutto il nord della Francia e una parte della Gran Bretagna.
Al termine di questa espansione la regione celtica comprende la Germania fino all’Elba, tutta l’Europa centrale da una parte e dall’altra del Danubio, le Isole Britanniche, la Francia, l’Italia settentrionale, la Spagna e il Portogallo.
Nella stessa Scandinavia notiamo molte influenze celtiche, dovute soprattutto all’importazione di oggetti artistici.
Nessun altro popolo dell’Europa indipendente è altrettanto potente.
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Marsiglia conserva la sua potenza.
Durante la seconda guerra punica è la più fedele alleata di Roma, con la quale manteneva da tempo ottimi rapporti.
Nel secolo secondo Roma la ricompensa inviando le sue truppe a difenderla contro i celto-liguri e dotandola d’un vasto territorio tolto ai suoi nemici lungo il litorale, mentre fino ad allora essa aveva potuto disporre esclusivamente di un retroterra molto ristretto.
Solo la cattiva scelta nel conflitto fra Cesare e Pompeo le farà perdere la libertà e verrà allora annessa all’Impero.
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Da tempi immemorabili la costa che si stende dalle foci del Rodano fino all’Arno era occupata da popoli primitivi, i fieri liguri, d’origine non indoeuropea.
In Provenza essi si fondono con la nuova ondata d’invasori celti (secolo quarto), dando così vita a una civiltà mista.
nasce una potente confederazione celto-ligure, quella dei Sali, che ha come principali centri Arles e Entremont (alla periferia di Aix-en-Provence).
Per quanto i rapporti con Marsiglia siano spesso tesi, si formano presto dei legami commerciali, tanto più che i celti si mostrano più sensibili dei liguri all’ellenismo.
Del resto Marsiglia è potentemente fortificata e possiede ancora a Saint-Blaise uno straordinario avamposto, che solo i luogotenenti di Cesare riusciranno a distruggere.
I suoi mercanti sono ben protetti e generalmente vengono accolti con favore, in virtù d’accordi stipulati con gli indigeni dell’interno.
Una mano di bronzo (inizio del secolo primo) rinvenuta nell’Alta Provenza è una tessera d’ospitalità con i velauni, tribù delle Alpi Marittime.
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Questo insediamento coloniale nel retroterra sembra essere un fatto unico; ma solo il commercio può spiegare l’ellenizzazione tanto rapida dei celto-liguri.
Vengono introdotte la coltura della vite e dell’olivo, in misura tuttavia assai limitata.
Gli oppida sono fortificati secondo le tecniche greche con mura ben costruite, che contrastano con quelle delle cinte della Gallia chiomata.
Il culto di Dioniso si diffonde con l’amore per il vino.
I celti cominciano a scrivere la loro lingua con l’alfabeto greco: esistono in Provenza una quarantina d’iscrizioni celto-greche assai enigmatiche, tra cui le famose dediche alle Madri (dee galliche della Fecondità) di Glanon.
Ma, soprattutto, prende forma un’arte celto-greca, nota essenzialmente grazie alle scoperte di Entremont e di Roquepertuse.
I temi sono celtici, ma la tecnica è visibilmente ispirata a quella greca.
Certo questa scultura rimane assai barbara e ci si stupisce che, per quanto risalga ai secoli terzo e secondo, faccia sovente pensare all’arcaismo greco, coem se gli scultori all’inizio si fossero trovati davanti agli stessi problemi e per risolverli avessero ricorso alle stesse convenzioni.
Se però si confrontano questi oggetti celto-greci con le sculture prettamente celtiche, come la testa scoperta a Msecké-Zébrovice (Boemia) con la sua bizzarra stilizzazione, o il dio col cinghiale di Euffigneix (Alta Marna), si potranno notare i decisivi progressi, compiuti sotto l’influenza mediterranea.
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Dalle Alpi ai Pirenei, la Gallia meridionale è una “Gallia greca”, secondo l’espressione di Giustino.
Benché Marsiglia non vi eserciti alcuna supremazia politica, i suoi scambi commerciali introducono largamente nuove esigenze e un altro stile di vita.
La differenza con le regioni celtiche dell’interno rimane sostanziale: qui infatti la civiltà conserva una rozzezza gallica, malgrado alcuni evidenti apporti ellenici.
A partire dal 125 Roma, dovendo assicurarsi il collegamento con le province iberiche, occupa la regione di cui Narbo Martius diverrà la capitale, e crea una nuova provincia, la Transalpina, che prenderà il nome di Narbonense sotto il regno di Augusto.
La conquista romana modifica rapidamente i rapporti di forza, benché Marsiglia rimanga indipendente fino al 49 ed assorba un vasto territorio.
Gli oppida della Provenza che hanno opposto resistenza vengono invece selvaggiamente distrutti e perfino nel Languedoc, dove sopravvivono avendo preferito la sottomissione, il commercio va orientandosi risolutamente verso l’Italia, come risulta dal gran numero di monete romane.
La decadenza di Marsiglia precede di qualche tempo la sua rovina politica; del resto la grande strada costruita dai romani, la via Domiziana, passa volutamente lontano da Agde, il centro principale del suo traffico.
Roma occupa oramai il posto della città focese, che nell’epoca imperiale sarà una città morta, un centro universitario geloso del suo patrimonio ellenico, preservato per tanti secoli.
Ma l’impronta data da Marsiglia al Mezzogiorno della Francia non scomparirà: se la Narbonense raggiungerà un incomparabile splendore, lo dovrà al fatto di essere stata percorsa, in ogni senso e fin dai tempi più arcaici, dai mercanti greci, ricevendone la civiltà
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Ciò nonostante dobbiamo riconoscere i limiti di tale ellenizzazione, che svanisce rapidamente man mano che si procede verso la Meseta e che non impedisce ad altre influenze di manifestarsi, e in particolare a quella cartaginese.
Ma la trasformazione che ne deriva, così come avvenne per la Gallia meridionale, non è meno profonda.
In queste due regioni una delle creazioni più brillanti della civiltà greca, la statuaria, ha sedotto gli indigeni al punto da spingerli ad imitarla per esprimere le loro proprie concezioni.
Anche qui i romani, quando conquistano la Spagna per strapparla ai cartaginesi (l’intervento romano ha luogo nel 219, con il primo sbarco di truppe ad Emporion, dunque molto tempo prima che in Gallia Transalpina), grazie ai greci si trovano davanti a un paese non più barbaro.
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Al principio dell’epoca ellenistica il Mediterraneo centrale è diviso fra due repubbliche aristocratiche, dapprima alleate e poi ben presto rivali: Cartagine e Roma.
Entrambe subiscono l’influenza dell’ellenismo più intensamente delle nazioni barbare d’Europa.
L’antica colonia fenicia non è più confinata nell’isolamento dei secoli precedenti.
La sua apertura sul mondo esterno fa però aumentare le agitazioni sociali.
Il popolo, ostile al potere aristocratico, rivendica i suoi diritti dopo le sconfitte della prima guerra punica e la rivolta dei mercenari.
Una grande famiglia, quella dei Barca, ne approfitta per appoggiarsi alle classi inferiori e dar corso in Spagna ad una serie d’imprese personali che ricordano quelle di Alessandro e dei diadochi.
Uno dopo l’altro Amilcare (che vi sbarca nel 237), il genero Asdrubale e il figlio Annibale, vi estendono progressivamente il loro potere.
Lo Stato da loro creato si appoggia su un esercito di mercenari e presenta tutti i caratteri d’una monarchia ellenistica: essi svolgono uan politica d’integrazione razziale, sposano delle principesse iberiche, fondano una nuova Cartagine (Cartagena) e coniano delle monete su cui sono effigiati come re, la testa cinta dal diadema.
Dopo un’interruzione di quasi due secoli Cartagine riprende a commerciare con il mondo greco.
I suoi rapporti con l’Egitto sono particolarmente stretti, così come con Rodi e la Campania,
La moneta vi compare fin dal secolo quarto (persino dal secolo quinto nella Sicilia punica, per pagare i mercenari); il campione usato è quello fenicio, identico a quello dei Tolomei.
A Tebe e a Delo risiedono numerosi mercanti punici; Tebe ha un prosseno a Cartagine.
Plauto, ispirandosi a una commedia greca, fa sbarbare un negoziante punico a Calidone, dove c’è un rappresentante della sua città.
Il traffico è basato sullo scambio con manufatti greci, derrate alimentari del Magreb e minerali greggi, importati grazie al commercio con le lontane terre dell’Africa nera (oro dei placers della Gambia) o con le Isole Britanniche (stagno).
Gli oggetti greci sono frequenti a Cartagine stessa o nelle necropoli del Capo Bon: vasellame, bronzi, avori.
Un bel vaso con decorazione plastica, ritrovato ad Alessandria, presenta una testa d’uomo sul coperchio e una rana al di sotto: simbolo egizio della resurrezione.
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A Roma, l’ellenizzazione era già un fatto compiuto.
Le due date essenziali sono il 343, anno dell’accordo con Capua, che orienta interessi e curiosità verso una zona profondamente ellenizzata, e il 272, anno che vede la caduta di Taranto e che mette un termine definitivo alla conquista della Magna Grecia.
D’ora in poi i contatti politici e militari con il mondo ellenistico, la dominazione progressiva sul bacino orientale del Mediterraneo e l’afflusso di schiavi dall’Oriente non faranno che accelerare il processo.
Invano i conservatori cercheranno di arrestarlo: Catone il Vecchio farà approvare delle leggi sontuarie, ma egli stesso imparerà il greco in tarda età; nel 186 il Senato reprimerà severamente i Baccanali, senza peraltro riuscire a scacciare Bacco né a vincere il misticismo.
La causa di questa irreversibilità deve essere ricercata nell’evoluzione profonda che caratterizza la situazione sociale.
 La città è divisa dalle lotte fra patrizi e plebei, gli uni e gli altri avidi di piaceri.
Il potere autocratico dei sovrani orientali esercita un certo fascino sugli spiriti più nobili; si avvicina sempre di più il momento in cui degli imperatores privi di scrupoli detteranno legge allo Stato.
Quanto al popolo, essi non è insensibile al radicalismo di certi pensatori politici greci.
Compare inoltre il grande commercio, che segue l’esempio greco.
A partire dal 326, Roma fa coniare in Campania le sue prime monete d’argento, i “didracmi romano-campani”.
La sua iniziazione all’economia monetaria è abbastanza rapida: fin dal 289 abbandona il campione greco a favore del sistema della libbra e nel 269 trasferisce i laboratori nella città stessa.
Nel 179 costruisce ad Ostia un vasto porto di tipo ellenistico.
Da quel momento i negotiatores e i banchieri italici si differenzieranno dai loro concorrenti orientali solo per un’avidità ancor più sfrenata.
Il cambiamento più palese si manifesta nelle abitudini della vita quotidiana.
L’abitazione tradizionale, con l’atrium, viene ampliata nella parte posteriore con un peristilio.
I pavimenti si rivestono di mosaici, le pareti di affreschi, di cui Pompei ed Ercolano hanno conservato begli esemplari.
I vecchi mobili di legno sono sostituiti con tavole di marmo e letti in bronzo.
I ricchi vogliono abiti più sontuosi, banchetti e cibi più raffinati.
La città diventa più bella, non solo perché si costruiscono nuovi edifici, ma anche perché i saccheggi vi fanno affluire in gran numero i capolavori dell’Oriente.
Silla riporta un capitello dell’Eretteo: la nave carica d’opere d’arte rinvenuta al largo di Mahdia (Tunisia) conteneva forse uan parte del suo bottino.
Il caso di Verre è lungi dall’essere isolato.
Le conseguenze sulla moralità pubblica sono funeste.
La vecchia società patriarcale si dissolve; l’autorità del pater familias è messa in dubbio.
Matrimoni d’interesse e divorzi sono sempre più frequenti e la ricerca sfrenata del piacere succede all’austerità d’un tempo.
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Dobbiamo esaminare soprattutto le forme epurate d’arte ellenistica che producono a Roma un prodigioso risveglio artistico.
La letteratura, fino ad allora piuttosto rozza, nasce realmente nella seconda metà del secolo terzo.
Le prime manifestazioni sono il teatro e il poema epico.
Tragedia e commedia si sostituiscono alle forme drammatiche primitive (indigene o di provenienza etrusca e osca) e traggono i loro soggetti dalla Grecia.
Lo si nota nella commedia di costume chiaramente greca, la palliata (che deve il suo nome al pallium, abito greco).
L’epopea trova uan naturale fonte d’ispirazione nelle lotte titaniche di Roma contro Cartagine, ma utilizza esclusivamente gli schemi ellenici.
L’arcaico verso il latino, il saturnio, lascia presto il posto ai metri greci.
Anche la storia si sviluppa in questo periodo, ma i primi annalisti, Q. Fabio Pittore e L. Cincio Alimento, non pensano di poter scrivere se non in greco.
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Il più concreto dei popoli comincia ad apprezzare la filosofia.
Nel 155 Atene invia come ambasciatori i capi delle sue scuole più famose (Liceo, Accademia, Portico).
Carneade crea uno scandalo tenendo due conferenze contraddittorie sul medesimo tema.
Il circolo degli Scipioni è un intenso focolaio intellettuale e non è certo un caso se Cicerone lo sceglie come sfondo per i suoi dialoghi filosofici.
Ormai i filosofi affluiscono a Roma e, per quanto siano spesso oggetto di schermo, l’influenza che esercitano è duratura.
……………….
L’antica religione romana con il suo fondamentale animismo e i suoi strani riti sopravvive, ma vi si sovrappongono sempre più elementi ellenici, secondo un processo evolutivo iniziatosi fin dall’epoca arcaica.
Già da lunga data le principali attività del pantheon romano erano state identificate con divinità greche.
Apollo, così greco da essere stato il solo a conservare il proprio nome, favorisce con lo sviluppo del rituale ellenico il progresso d’una religione aperta e fraterna, in netta opposizione con il severo formalismo tradizionale.
Il suo culto favorisce successivamente la rinascita del pitagorismo e il rifiorire degli oracoli sibillini dell’epoca sillana.
Cerere prende il volto mistico e doloroso di Demetra, madre di Persefone, e viene venerata alla greca durante il sacrum Caereris, in cui le matrone osservano il digiuno e l’astinenza sessuale per nove giorni.
Venere, un antico demone della fecondità femminile, diventa la protettrice dei grandi uomini: Silla, Cesare, Pompeo.
Ma i tradizionali dèi ellenici non sono più sufficienti né ai romani, né agli stessi greci.
Il misticismo orientale irrompe a sua volta in Roma, specialmente durante la terribile crisi della seconda guerra punica.
Dopo Canne si attende il responso dell’oracolo di Delfi, e nel 212 vien fatta venire da Pergamo la Gran Madre di Pessinunte, solennemente consacrata sul Palatino.
I misteri bacchici attraggono tutti coloro che non separano il misticismo dai culti di tipo più naturalistico.
Nel 186 il Senato deve intervenire duramente contro le orge scandalose dei Baccanali.
La repressione è terribile: settemila arresti, per la maggior parte seguiti da esecuzioni capitali.
Indubbiamente, al di sotto di tutte le forme di ellenizzazione, sopravvive il vecchio sostrato romano, sempre caratterizzato da una grande concretezza e amore per il prammatismo, e con la sua diffidenza nei confronti delle speculazioni e delle ricerche intese a rendere più bella l’esistenza.
Si è osservato, per esempio, che i nomi dei legumi sono latini, mentre quelli dei fiori sono greci.
Ma la penetrazione dell’ellenismo è irresistibile; d’altronde le medesime necessità, le medesime aspirazioni appaiono in Italia e nel bacino orientale del Mediterraneo.
A partire dal secolo terzo anche Roma diviene uan città ellenistica.
I suoi cittadini più illustri non dimenticano questo debito culturale e Cicerone ricorda a suo fratello ch’egli comanda a dei greci, “una razza che, non paga di essere civile, passa per essere la culla della civiltà”. (1,. 1., 27).
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La spedizione di Alessandro in India apre degli orizzonti illimitati all’espansione greca verso Oriente.
A causa dell’ammutinamento dei veterani il conquistatore non può penetrare fino nel bacino del Gange, e i suoi eredi, i Seleucidi, assisteranno al progressivo smembramento di un regno smisuratamente grande, che perderà le satrapie orientali.
Ma i contatti che si sono così stabiliti non s’interrompono: lo testimonia fin dall’inizio del secolo terzo la storia del più grande fra gli imperatori indiani dell’epoca ellenistica, Asoka.
Principi greci continuano a regnare su vastissime regioni divise oggi tra le  repubbliche meridionali dell’Urss, l’Afghanistan, il Pakistan e perfino una parte dell’Unione Indiana.
Meglio ancora, i rapporti commerciali e culturali tra l ‘India e il mondo mediterraneo si intensificano.
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È sorprendente il fatto che questi regni greco-battriani, e poi greco-indiani, siano potuti sopravvivere per due secoli.
Quest’appassionante avventura storica è stata possibile solo grazie al dinamismo e all’abilità di quei condottieri i cui profili energici e scaltri si stagliano sulle monete.
Alcuni osano spingere i loro eserciti molto più lontano di Alessandro, fino in piena valle del Gange.
Dotati del titolo di re, come i monarchi seleucidi o lagidi, e dei loro stessi epiteti, a volta anche prima di loro (Antimaco Theos, Platone Epifane) amministrano i propri Stati alla maniera greca, con l’aiuto di strateghi che governano le satrapie e tengono sotto di sé dei meridarchi (comandanti di frazioni).
La politica di urbanizzazione continua e conosciamo la città di Demetriade di Aracosia, fondata da un Demetrio, e un Dionisopoli nel Gandhara.
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Una parte della pianura dell’Indo e del Gange si aprì per un breve periodo alle ardite iniziative di questi re; ma durante tutto il periodo ellenistico vi si svolse un’altra epopea, quella dei mercanti che spediscono verso il Mediterraneo i prodotti di lusso dell’India e dell’Afghanistan: avori, pietre, preziose, perle, profumi, spezie, mussola, legni pregiati e inoltre animali (elefanti soprattutto e pappagalli, cani, bestiame indiano, che ritroviamo ad Alessandria), e perfino delle cortigiane.
Possiamo individuare tre strade che costituiranno le grandi arterie per il traffico con l’India nell’epoca romana, ma che erano già utilizzate fin dall’epoca ellenistica.
La più semplice è costituita dalla rotta marittima che giunge in Arabia; essa è utilizzata durante il monsone che permette di andare e ritornare rapidamente e a date regolari.
Ora, il monsone fu conosciuto dai greci solo in un periodo tardo, grazie ad un certo Ippalo: verso l’80 a. C. per gli uni, verso il 40 della nostra era per altri.
Da molto tempo i marinai arabi, indiani e cingalesi avevano notato il fenomeno e il traffico più importante si trovava dunque nelle loro mani.
Le mercanzie venivano generalmente sbarcate nel Golfo Persico, a Gerrha e, alle bocche del Tigri, nella città di Alessandria Charax (più tardi chiamata Antiochia).
Nel primo caso esse sono convogliate per mezzo di carovane condotte dai gerrhei verso Petra, di qui raggiungono Gaza e i porti della Siria e Alessandria.
Nel secondo caso risalgono fino a Seleucia sul Tigri, dove si ricongiungono con la seconda via.
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I ritrovamenti di Begram, ai quali si dovrebbero aggiungere i documenti ionici e gli enigmatici poliedri alessandrini di Tessila, dimostrano che fin dall’epoca ellenistica – dunque molto prima che il commercio romano faccia affluire gli oggetti greco-romani – degli esemplari di grande qualità artistica provenienti dal Mediterraneo giungono nel mondo indiano.
Si può così spiegare la profonda influenza che l’arte greca esercita su quella buddistica contemporanea.
Si dovrebbe tuttavia parlare piuttosto di influenza occidentale, poiché l’apporto ellenico è accompagnato spesso da componenti iraniche e persino mesopotamiche.
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Le divinità e gli eroi della religione greca forniscono dunque al buddismo la sua iconografia, come avverrà più tardi con il cristianesimo.
Tuttavia, paradossalmente, la tradizione ellenica sarà più forte in Asia che in Occidente.
Nel corso di un millennio circa il Budda-Apollo conquista a poco a poco le Indie, l’Asia centrale, l’Indocina, la Cina, la Corea, il Giappone, subendo una lenta evoluzione e varie deformazioni.
In tutto l’ellenismo non esistono ripercussioni così impreviste.
Il più bello fra gli dèi greci si diffonde contemporaneamente all’evangelizzazione buddistica: la sua influenza si estende a macchia d’olio in terre lontane.
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I rapporti tra l’India e l’Occidente non si limitano allo scambio di prodotti di lusso e gli insegnamenti dell’arte greca; si instaura anche una serie di rapporti che conduce questi due mondi a una conoscenza più diretta.
Certo non sono contatti nuovi: alcuni elementi orientali del pitagorismo possono essere di origine indiana.
In ogni modo lo è di sicuro il “grande anno” di 10800 anni che, secondo Eraclito, discepolo di Aristotele, parla della visita fatta a Socrate da un saggio indiano, che gli insegna come non si possano conoscere le cose umane senza conoscere quelle divine: vero o falso, l’aneddoto non sembra affatto assurdo.
La storia delle scienze (soprattutto l’astronomia e la medicina) fornirebbe inoltre esempi validi di questa influenza dell’Oriente sull’Occidente.
I trattati ippocratici fanno menzione delle cure indiane.
Quello Sui venti spiega la malattia con la circolazione del vento nel corpo seguendo le speculazioni braminiche.
Platone nel Timeo spiega l’equilibrio corporeo con l’esistenza di tre sostanze fondamentali: l’aria, la flemma e la bile, dottrina classica nella fisiologia indiana.
Le ambascerie e il commercio moltiplicano le informazioni sul lontano Oriente nei regni mediterranei.
Si ammira la vita esemplare e la saggezza dei gimnosofisti.
La famosa conversazione di Cinea  con il suo padrone Pirro ricorda in modo curioso un dialogo tra il re Koravyo e il Budda Ratthapalo.
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Si ha difficoltà ad ammettere che siano esistiti rapporti più lontani ancora, con il mondo mongolo e cinese.
Essi sono tuttavia indiscutibili, benché sporadici e soltanto intuibili, in parte grazie ai reperti di casuali ritrovamenti archeologici.
Anche in questo caso la Battriana ha un ruolo capitale.
Delle piste interminabili, sulle quali il viaggiatore soffre la sete e deve superare dei tratti molto ardui, la congiungono da lunga data con il mondo cinese.
Due di queste piste meritano una particolare attenzione.
La prima raggiunge Kashgar attraverso le valli del Pamir e aggira sia a nord (Aksu, Turfan, Kanchow) il bacino desertico del Tarim; da questo punto la strada verso la Cina diviene più facile.
La seconda pista punta dritta verso nord in direzione di Samarcanda, dove si può raggiungere il tratto settentrionale della prima ad Aksu, oppure continuare verso nord-est e raggiungere il Fiume Giallo attraverso la Mongolia.
I testi cinesi citano Ta-yuan (Fergana), annessa almeno in parte dai re battriani, e Ta-hia (Battriana).
Forniscono notizie precise sulla conquista del regno battriano da parte dei Yueh-chi.
L’imperatore Wu manda in Afghanistan una missione con lo scopo di raccogliere delle informazioni; essa è diretta da Chang-Ch’ien (circa 138-125) e il suo resoconto verrà utilizzato e parzialmente riprodotto verso il 100 da Ssu-ma Ts’ien: vi sono menzionate in particolare numerose città fortificate che possono essere solo opera dei greci.
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Dal Bou Regreg al Gange, dall’Elba al Nilo azzurro, il solo fattore capace di unificare in un certo modo questo mondo così vario è la diffusione dell’ellenismo.
Ma il pensiero e il modo di vivere dei greci viene assimilato in modo diverso, a seconda della distanza, del carattere etnico e, soprattutto, del grado di civiltà.
Roma esce totalmente trasformata dal contatto con i regni ellenistici; i celti, gli iberi, i nubiani raggiungono grazie ad essi un modo di vita più umana; gli indiani invece riceveranno solo un nuovo concetto della bellezza.
D’altronde la grecità si impone ovunque non con la forza, ma con il suo indefinibile fascino.
Esso conquista moralmente dei popoli già sottomessi ma anche i romani, politicamente vittoriosi sui greci, e i parti e gli sciti, affrancati dalla loro tutela.
La famosa frase di Orazio (Epistole, 2., 1., 156) sulla “Grecia vinta, che ha vinto il suo feroce vincitore è valida anche per molte altre nazioni, oltre che per Roma repubblicana.
Cedere al fascino ellenico non significa per nessun popolo rinunciare a se stesso; ma piuttosto trovare i mezzi per realizzarsi pienamente, per meglio esprimersi ed accedere a una vita più umana.
Donde l’importanza di un’arte che diffonde forme magnificamente armoniose, un linguaggio in cui materia e spirito sembrano fondersi, e una sintassi che esprime nel modo più raffinato le apparenze e la realtà essenziale.
Per i migliori dell’ellenismo è stato una liberazione, l’accesso ai templi sereni, l’abbandono delle superstizioni e dei ritualismi.
Per tutti è stato una rivelazione, una profonda presa di coscienza delle proprie possibilità virtuali, un mezzo per approfondire le convinzioni più intime.
L’austero volto degli eroi di Entremont e il sorriso sereno e superiore dei Budda, del Grandhara possono perciò essere considerati allo stesso modo figli della Grecia.
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Conclusioni generali

Un’altra avventura inizia con l’annessione progressiva dei regni ellenistici da parte di Roma.
Il periodo storico che si apre non è tuttavia del tutto differente da quello che lo precede.
Da una parte il territorio orientale dell’Impero rimane per intero di lingua e di cultura greca; la Grecia stessa conosce nel secolo secondo d. C. una rinascita, alla quale contribuiscono personalità differenti come Plutarco, Luciano e Pausania.
D’altra parte in Occidente le province più dinamiche, che dimostrano una lunga vitalità, sono quelle penetrate dall’ellenismo: la Betica, la Tarraconese, la Narbonese e l’Africa.
La stessa Roma è totalmente ellenizzata: diffonde ovunque un’educazione retorica ereditata dai greci, un’arte che rimane, fino alla rottura del secolo terzo, nella corrente di quella ellenistica, una letteratura ispirata dai modelli greci, una religione derivata da un sincretismo greco-orientale.
Sotto il regno degli Antonini la filosofia di Stato è direttamente ispirata dal pensiero stoico.
La monarchia autocratica e gli ingranaggi dell’amministrazione provinciale sono ricalcati sui reami ellenistici.
Durante la crisi che, nel secolo terzo, scuote il mondo romano fino nelle sue fondamenta, Plotino e i suoi discepoli trovano nuovi fermenti di vita spirituale in una rinascita del platonismo.
Una religione orientale, che fin dal secondo secolo ha assimilato la parte più viva del pensiero antico, si diffonde sempre più.
L’apologista Giustino osa scrivere: “Socrate era stato una incarnazione del Logos; il Cristo ne fu un’altra più completa, poiché egli è la verità assoluta”.
Dopo la divisione definitiva dell’Impero in due parti, l’Occidente risente sempre meno degli apporti ellenici, sebbene le lettere greche continuino per un certo tempo ad essere diffuse.
In Oriente, dove la pressione dei barbari è stata meno forte, il basileus bizantino si considera fino al 1453 come l’erede diretto degli imperatori romani e dei monarchi ellenistici.
Il platonismo si diffonde a Costantinopoli durante il secolo nono con l’opera di Psello, e conquista Mistra nel secolo quindicesimo grazie al pensiero di Gemisto Platone.
In Occidente la grecità contribuisce sensibilmente al rinnovamento del pensiero sia durante la rinascita carolingia che nel Rinascimento, quando eruditi e poeti “compulsano giorno e notte gli esemplari greci”.
Senza trattare di periodi storici più recenti, dobbiamo tuttavia riconoscere che la grecità bizantina e anche quella classica, dopo aver permeato la cultura romana (il cui ruolo storico, oltre all’unificazione politica, brillantemente realizzata, del mondo mediterraneo, è stato quello di servire da ponte con la cultura greca) fece giungere i suoi lumi fino nelle tenebre medievali e fu alla base del rinnovamento che ha inizio con l’era moderna.
L’ampiezza e la durata di una tale influenza non possono lasciare indifferente lo storico.
Noi non consideriamo più, come Renan, il “miracolo greco” quale una creazione assoluta, una Fiat lux; sappiamo con certezza che i greci, con la loro curiosità e la loro duttilità, subirono le influenze dei preelleni e degli orientali.
Anch’essi fecero da ponte tra le prime affermazioni della civiltà umana negli imperi d’Oriente e Roma, che a sua volta trasmise questo messaggio fino al Medioevo e alla nostra epoca.
D’altra parte oggi noi conosciamo le tare di una civiltà alla quale non possiamo più, in ogni modo, guardare come a una età dell’oro.
In effetti la civiltà greca offre anche un altro volto; non possiamo dimenticare l’esistenza della schiavitù, le orribili esposizioni di bambini, la pederastia, di cui Platone, mettendola sullo stesso piano della ginnastica o della filosofia, faceva un tratto caratteristico dei greci, che si differenziano così dai barbari.
La disunione costante rese inoltre la storia greca, da Micene all’epoca ellenistica, un seguito quasi ininterrotto di conflitti cruenti.
“Atene è stata solo un’immagine rudimentale del paradiso” (J. L. Borges).
Ciò nonostante non possiamo fare a meno di sottolineare quel dinamismo fondamentale, elemento permanente nel corso di due millenni, che sopravviverà, elemento permanente nel corso di due millenni, che sopravviverà persino all’annientamento politico del mondo greco.
La sua causa prima, ed anche la più evidente, deve essere ricercata nell’energia, nella costanza, nell’ostinazione di un piccolo popolo.
Queste caratteristiche sono tanto valide quanto quelle che noi a giusto titolo ammiriamo in tutto lo sviluppo della storia romana.
Questo accanimento compare tanto negli sforzi compiuti per creare delle forme politiche, per aprire nuovi sbocchi economici, che nella conquista della verità realizzata con intelligenza e passione.
Socrate, nel Fedro, non vuole che i suoi compagni si addormentino per la siesta: è meglio dialogare, affinché le cicale messaggere dicano alle Muse che essi praticano la filosofia e la musica, due discipline sorelle coem le loro divine patrone.
Lungo tutti questi secoli vi è un fine al quale mira la civiltà greca; nel tardo ellenismo esso viene simboleggiato con l’antica immagine omerica della catena d’oro, divenuta allegoria di quel saldo legame, che unisce tutte le generazioni nella ricerca del vero.
Da ciò proviene lo spirito giovanile che nella grecità ci appassiona e ci seduce.
“Voialtri greci siete sempre dei fanciulli: un greco non è mai vecchio. Voi tutti siete giovani nell’animo”, diceva già a Solone, con una certa condiscendenza, il sacerdote egizio del Timeo di Platone (22b).
Al centro di questa ricerca si intuisce uan costante: lo sforzo inteso ad ottenere i mezzi che permettono ad un uomo di realizzarsi compiutamente.
Ma l’uomo greco non è un isolato e vive fra altri uomini; di qui il suo interesse per il problemi politici e la sua appassionata ricerca di nuove forme sociali, assai mutevoli secondo le epoche (regni achei o ellenistici, città arcaiche o polis classiche) che non soffochino la personalità dell’individuo.
Uomo in un kosmos che gli è infinitamente superiore, ma che egli può dominare stabilendo delle relazioni armoniose con le potenze soprannaturali e, soprattutto, elaborando una cosmologia e una scienza che ne penetrino i misteri.
Uomo infine che si trova di fronte ai suoi problemi e che deve procurarsi i mezzi per controllare i suoi istinti e dirigere il suo destino.
Possiamo dunque definire le due caratteristiche che, sommariamente, fanno emergere meglio le qualità della civiltà greca: ordine e misura.
L’ordine, come insegnava Anassagora, è il trionfo dello spirito: con la sua azione si possono subordinare gli elementi inferiori a quelli superiori dopo una dura battaglia; ma per ottenere questo risultato bisogna dapprima vincere se stessi; e, ancor più, andar oltre la propria individualità.
Non meno difficile da raggiungere è la misura; essa nasce da un calcolo ragionato delle capacità e dei limiti dell’uomo e permette al cittadino  greco di sottrarsi agli eccessi degli imperialismi orientali e alla violenza delle passioni.
Non dobbiamo dunque meravigliarci se i greci si sono ostinatamente rifiutati di mutilare l’uomo, di soffocare uan qualunque delle componenti che gli conferiscono la sua perfetta novità.
Il corpo è accuratamente educato, la sensibilità viene controllata solo per essere compiutamente valorizzata.
Non esistono infatti sentimenti umani che i greci non abbiano percepito e ai quali non abbiano dato un’espressione definitiva.
Essi compaiono in tutta la loro gamma: dall’affetto pieno di turbamento di Ettore che si congeda dal cittadino che si sacrifica per la patria alla devozione degli spiriti mistici.
Lo spirito ha un ruolo di primo piano, e il maggior titolo di gloria della civiltà greca  è forse quello di aver fondato la scienza razionale e la filosofia.
Ma i creatori del razionalismo hanno lasciato un posto anche alle potenze più oscure dell’anima: sull’acropoli il tempio della Ragione, raffigurata con i tratti di Atena, e il santuario di un’antica dea-orso, Artemide Brauronia, sono posti uno accanto all’altro.
L’epoca ellenistica assiste al trionfo del misticismo e contemporaneamente all’apogeo della scienza antica.
Non vi è armonia senza un equilibrio, ricercato, tra le capacità e i poteri dell’uomo; e questa armonia è essenziale poiché, tra tutti i valori, i greci stimano soprattutto la bellezza.
“Solo la bellezza ha avuto – dice Platone (Fedro, 25od) – il privilegio di poter essere ciò che è più in evidenza e che possiede il fascino più amabile”.
Essa è la qualità che gli dèi più apprezzano nelle offerte che vengono fatte loro, e non è per nulla separata dalla virtù, poiché l’ideale umano è il kalos kagathos, l’uomo che è ad un tempo bello e buono.
Per Platone tutta la dialettica dell’amore si orienta verso la bellezza, considerata come una divinità, e gli stoici considerano un artista il fuoco supremo che anima il mondo.
La bellezza non si separa nemmeno dall’intelligenza, poiché nasce da precise proporzioni matematiche, da canoni in cui lo spirito impone la sua legge alla materia.
Essa è vincitrice e vinta allo stesso tempo, al termine di una dura lotta; è una caratteristica degli dèi immortali, ma anche degli uomini mortali che vi trovano il mezzo più adatto per divenire simili alla divinità.
Ultimo simbolo dell’ellenismo, Ipazia, le geometres, figlia dell’ultimo dei filosofi del Museo di Alessandria, illustre seguace di Platone, percorre la città seguita dai suoi discepoli che incatena con la sua bellezza non meno che mostrando loro la proiezione della sfera.
Essa muore in un giorno dell’anno 415, lapidata dai cristiani che in lei perseguitano quell’ellenismo al quale dovevano una delle parti più alte della loro fede.
Pag. 534-38

Bibliografia

 Opere generali

La civiltà della Grecia arcaica e classica / F. Chamoux. – Sansoni, 1968
La città greca / G. Glotz. – Einaudi, 1956

Economia e società

Paideia: la formazione dell’uomo greco / W. Jaeger. – La Nuova Italia, 1936-59

Religione

La religione nell’antica Grecia fino ad Alessandro /R. Pettazzoni. – Boringhieri, 1957
Psiche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i greci / E. Rodhe. – Laterza, 1914

Vita intellettuale

Pensatori greci / Th. Gomperz. –La Nuova Italia, 1933-62
Storia del pensiero greco / L. Robin. – Mondadori, 1962

Letteratura

Storia della letteratura greca / A. Lesky. – Il Saggiatore, 1962

Bibliografia per periodi

L’età delle invasioni

La civiltà egea 7 G. Glotz. – Einaudi, 1962
Minoici e micenei / L. R. Palmer. – Einaudi, 1969
La Grecia e il vicino Oriente prima di Omero / A. Severyns. – Sansoni, 1962

Epoca geometrica e arcaica

La Magna Grecia / J. Bérard. – Einaudi, 1966
Le eterie nella vita politica ateniese del 6. e 5. secolo / F. Sartori. – 1957

Il classicismo

Alessandro il Grande / G. Radet. – Einaudi, 1944