Cap. 1.: dallo stato liberale al regime fascista: i primi passi
Con la svolta politica del 3 gennaio Mussolini riequilibrò la situazione politica a proprio vantaggio. Il riequilibrio fu però molto meno sostanziale di quanto apparve e di quanto comunemente si crede. Decise le sorti del fascismo sul piano del potere, assicurando a Mussolini la permanenza al governo; a ben vedere non lo sottrasse però alla “vendetta fiancheggiatrice”. Dopo il 3 gennaio il compromesso dell’ottobre ’22 fu ribadito nel modo più pesante e definitivo, precludendo al fascismo ogni concreta possibilità di modificarlo a breve scadenza a proprio vantaggio. I fiancheggiatori interni ed esterno del PNF, cioè la vecchia classe politica costituzional-moderata e conservatrice e la burocrazia, conservarono la loro fiducia a Mussolini e si lasciarono “fascistizzare”; così facendo però si assicurarono la possibilità di continuare a tenere salde nelle proprie mani le tradizionali leve del loro effettivo potere, sia politico sia economico, e in breve volgere di tempo conquistarono anche il PNF, trasformandone la composizione sociale, i rapporti interni di forze e lo stesso carattere, così da svirilizzarlo completamente d’ogni carica o velleità rivoluzionaria, ridurlo sostanzialmente alle dipendenze dello Stato (è sintomatico che – come si vedrà – in breve volgere di tempo e per poco la sede delle ultime resistenze e velleità rivoluzionarie più propriamente fasciste sarebbero divenuti i sindacati, più difficili, per ovvi motivi, ad essere conquistato dall’interno dai fiancheggiatori) e farne non più un ostacolo ma un sostegno del compromesso.
P. 8
In una società in trasformazione, quale – nonostante i ritardi e gli ostacoli frapposti dalle vecchie strutture e dai vecchi interessi – era pur sempre l’Italia, questo equilibrio non poteva non diventare via via sempre più difficile e non rivelare in sé contraddizioni e scontri di interessi sempre più difficili a sanarsi col sistema del compromesso o, addirittura, del mero rinvio; specie se fosse venuto meno il superficiale cemento che teneva insieme tutto il laborioso ma vieppiù debole edificio del “regime fascista”: il mito-abitudine del capo e la fiducia (alla quale contribuiva largamente l’ancor viva tradizione patriottica risorgimentale) nelle capacità del “duce” a conseguire la “grandezza” e a liberare tutte le forze centrifughe più o meno latenti, sopite o compresse. E ciò sarebbe avvenuto, appunto, il 25 luglio 1943, quando, di fronte alla sconfitta militare, il “regime fascista” crollò d’un colpo e con esso il fascismo e se qualcosa sopravvisse furono, da un lato, con al Repubblica Sociale Italiana, il vecchio fascismo rivoluzionario e intransigente che si illuse di poter tornare alla ribalta riallacciandosi al programma sociale del 1919 e che cercò di vendicarsi dei suoi nemici fiancheggiatori e, da n altro lato, buona parte del vecchio regime che, toltasi la camicia nera, cercò, e in parte riuscì, a scaricare le proprie pesanti responsabilità sul fascismo, presentandosi nelle vesti di una delle sue numerose vittime.
P. 9-10
Articolo da Non mollare del 27 luglio 1925
Ancora l’Aventino
Dal 3 gennaio l’Aventino è fuori strada….. Il significato sostanziale della crisi del 3 gennaio si riassume in poche parole: per la prima volta dopo la marcia su Roma i fascisti acquistano piena consapevolezza della loro forza….. Salvo isolate eccezioni, non sembra che i capi dell’Aventino si siano resi ancora conto della situazione. Sono sempre sulle vecchie posizioni…. Si attende la salvezza da tutto e da tutti, fuori che da se stessi… In tutte queste proposte e speranza, fatte e nutrite per lo più in buona fede, si rivela un abisso di incomprensione da far paura. Vien fatto di chiedersi se fra noi e molti dei vecchi capi partito sia finita davvero ogni possibilità di intesa: se fra il vecchio stato maggiore che governò l’Italia e gli elementi che sono in prima linea nella battaglia antifascista sussista una incompatibilità definitiva. Rispondiamo, si. Esiste questa incomprensione, sussiste la incompatibilità: Occorre che i vecchi capi si ritirino in disparte, o per lo meno che affidino senza indugi a mani più adatte la direzione della lotta…. L’Aventino è un prolungamento del vecchio regime parlamentare, necessario e sacrosanto in periodi legali, malgrado tutti i suoi difetti, ma assurdo attualmente. Oggi l’Aventino è l’equivoco, è l’illusione vivente e concreta della persistenza di una qualche speranza legalitaria. Prolungandole la vita si rischia di allontanare e addormentare la minoranza decisa ad una azione più risoluta e di sfibrare definitivamente le masse… Dal 3 gennaio la situazione è mutata. Ogni speranza di soluzione legale è caduta. La monarchia è legata a filo doppio con Mussolini….. In queste condizioni il compito dell’Aventino è ormai uno solo: dire alto e forte al paese qual è la situazione. Dire al popolo italiano che la legalità è morta, che nulla v’è da fare e da sperare sul terreno legale.
P. 14
Tra la crisi dell’Aventino, il definirsi dell’atteggiamento dei fiancheggiatori e la posizione di Vittorio Emanuele 3 vi è un nesso inscindibile, un fitto tessuto di motivazioni e condizionamenti reciproci. A questo nesso inscindibile bisogna rifarsi per mettere un po’ d’ordine e comprendere il significato della confusione politica che caratterizzò gran parte del 1925. Alla base del defilamento del re vi erano certo motivi di carattere e opportunistici calcoli dinastici; sarebbe però errato ridurre il giudizio sul ruolo di Vittorio Emanuele a questi due soli elementi. Sull’atteggiamento della Corona giuocarono altrettanto certamente altre considerazioni. Fascista Vittorio Emanuele non lo fu mai e certo non lo era nel 1925. Se si fosse sentito sicuro di potersi liberare di Mussolini e soprattutto del fascismo senza scosse e soprattutto con la certezza di non mettere in forse l’equilibrio politico-sociale e l’istituto monarchico lo avrebbe indubbiamente fatto. Egli temeva però da un lato la reazione fascista e da un altro lato che la successione avvenisse tra scosse incontrollabili, delle quali potessero approfittare altre forze “anticostituzionali” e addirittura rivoluzionarie. Da qui il suo sforzarsi a prendere tempo e non precludersi – in teoria – alcuna strada: senza rendersi però conto che così facendo finiva invece per influire massicciamente nell’orientare lo sbocco della situazione verso Mussolini. Così facendo infatti tarpava le ali agli elementi costituzionali più lealisti, che non si muovevano per timore di “scoprire la Corona” e si sentivano legati alla sua posizione; suggeriva di fatto ai fiancheggiatori la via del reinserimento e della riconferma del compromesso del ’22; condannava l’Aventino – già di per sé autoconfinatosi un uno spazio politico ridottissimo e sterile di sviluppi – ad un immobilismo sempre più inconcludente che favoriva da un lato le tendenze alla capitolazione e da un altro lato quelle apertamente antimonarchiche e “sovversive”; coll’evidente risultato di indebolire vieppiù ogni potenziale fronte costituzionale antifascista e di gettare nelle braccia di Mussolini i fiancheggiatori e – il processo assumeva infatti inevitabilmente il classico andamento a spirale – la stessa Corona.
P. 17-18
Citazione da Salandra
Gli avvenimenti italiani di quel tempo apparivano… agli occhi di molti come una sinistra riprova dell’influenza che la propaganda russa esercitava sulle masse del sovversivismo in Italia. E in quel momento storico, a ragione o a torto, i liberali di destra non credettero di poter considerare prossima la fine del pericolo rivoluzionario…. E di poter deliberare il passaggio sui banchi dell’opposizione…. New 1925-26 il fascismo rappresentava purtroppo, da più di un quadriennio, il sistema politico formalmente costituito in Italia, dove era sorto come prodotto del dopoguerra col programma di fronteggiare quel pericolo rivoluzionario, di cui nel cielo d’oriente continuavano a fiammeggiare i sinistri bagliori. Ed era allora opinione dominante nel gruppo della destra liberale che coloro i quali credevano – o dimostravano allora di credere - che ogni pericolo di violenti sovvertimenti fosse a quel tempo dissipato, si illudessero ed illudessero, esponendo se stessi e i loro seguaci a gravi e prossime delusioni.
P. 25
Solo nel quadro di questa molteplicità di motivazioni e del loro reciproco giuoco di influenze (importantissimo fu quello fra fiancheggiatori e monarchia) possono essere veramente capiti il travaglio dei fiancheggiatori nel ’25 e le ragioni che li indussero a non fare le loro “vendette” contro Mussolini e, soprattutto, si comprendono il carattere e i limiti del definitivo rinnovo del loro compromesso con l’uomo che, se avessero potuto, avrebbero volentieri estromesso dal potere. Tra il “salto nel buio”, che in una misura o in un’altra avrebbe inevitabilmente compromesso le loro posizioni morali, politiche ed economiche, e Mussolini, i fiancheggiatori – preoccupati soprattutto di salvaguardare il più possibile queste loro posizioni e, quindi, le strutture portanti della vecchia società liberale postunitaria della quale erano espressione e che ormai non erano più in grado di difendere da soli contro l’attacco che veniva loro mosso da tutti gli altri settori della società italiana – scelsero Mussolini, cercando di ripetere su un altro piano l’operazione che era loro fallita nel periodo tra la marcia su Roma e il delitto Matteotti: allora avevano cercato di rivitalizzarsi con un fascismo che invano avevano sperato di costituzionalizzare e di assorbire nel sistema; ora cercavano almeno di salvare le strutture essenziali del loro regime sperando di fagocitare in esso Mussolini e una parte del fascismo.
La gravità e le conseguenze di questa scelta sono oggi evidenti, così come incontrovertibile è la responsabilità che con essa i ceti conservatori si assunsero. Constatare questa responsabilità e sottolineare il valore – forse decisivo - che la scelta dei fiancheggiatori ha avuto non solo nel ’25-’26 ma agli effetti di tutta la successiva vicenda italiana sino al 1943, compreso dunque il suo tragico epilogo della guerra, è giusto e necessario. Questa constatazione non deve però indurre a fare per tutti gli avvenimenti successivi al ’25-’26 di ogni erba un fascio e a confondere in un tutto unico inscindibile fascismo e fiancheggiatori (anche se entrati nel PNF). E ciò – sia ben chiaro - non per volere in tal modo diminuire in qualche misura la responsabilità della classe dirigente prefascista, ma perché altrimenti – lo ripetiamo - si perde la possibilità di intendere in sede storica una delle peculiarità del regime fascista, forse la più importante. E cioè il contrasto di fondo – l’”opposizione” della quale abbiamo parlato all’inizio di queste pagine – tra fiancheggiatori (della prima e della seconda ora, di origine liberale e di origine cattolica, appartenenti al mondo più immediatamente politico o espressi dalla burocrazia, dai tecnici e dalle grandi centrali economiche, ecc.) e fascisti veri e propri, contrasto che caratterizzò certamente l’affermarsi del regime, dal ’25-’26 al 1929 e che dopo un certo attenuamento nel 1930-35 – grosso modo gli anni nei quali la politica di Mussolini raccolse i più larghi consensi - , si riaccese in maniera sempre più marcata (sino ad assumere via via l’aspetto di una vera e propria lotta per la successione) nell’ultimo periodo del regime fascista, dalla guerra d’Africa alla definitiva catastrofe del ’43.
P. 31-32
Citazione da Gramsci
Da una parte la tendenza Federzoni, Rocco, Volpi, che vuole tirare le conclusioni di tutto questo periodo dopo la marcia su Roma. Essa vuole liquidare il partito fascista come organismo politico e incorporare nell’apparato statale la situazione di forza borghese creata dal fascismo nelle sue lotte contro tutti gli altri partiti. Questa tendenza lavora d’accordo con la corona e con lo Stato maggiore. Essa vuoel incorporare nelle forze centrali dello Stato da una parte l’Azione cattolica, cioè il Vaticano, ponendo termine di fatto e possibilmente anche di diritto al dissidio fra la casa Savoia ed il Vaticano e dall’altra parte gli elementi più moderati dell’ex Aventino. E’ certo che mentre il fascismo nella sua ala nazionalista, dato il passato e le tradizioni del vecchio nazionalismo italiano, lavora verso l’Azione cattolica, dall’altro lato la casa Savoia cerca ancora una volta di sfruttare le sue tradizioni per attirare nelle sfere governative gli uomini del gruppo di di Cesarò e del gruppo Amendola.
L’altra tendenza è ufficialmente impersonata da Farinacci. Essa obbiettivamente rappresenta due contraddizioni del fascismo. 1) Contraddizione tra agrari e capitalisti nelle divergenze di interesse specialmente doganali. E’ certo che l’attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, capitale che vuole asservire a sé tutte le forze produttive del paese. 2) La Seconda contraddizione è di gran lunga la più importante ed è quella tra la piccola borghesia e il capitalismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo.
In generale si può dire che la tendenza Farinacci nel partito fascista manca di unità, di organizzazione, di principi generali. Essa è più di uno stato d’animo diffuso che una tendenza vera e propria. Non sarà molto difficile al governo di disgregare i suoi nuclei costitutivi. Ciò che importa dal nostro punto di vista è che questa crisi, in quanto rappresenta il distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese agraria fascista, non può non essere un elemento di debolezza militare del fascismo.
P. 33-34
Telegramma di Mussolini a Farinacci:
Non ammetto squadre di nessuna specie e non ammetto che si revochi in dubbio esistenza ordine giorno Gran Consiglio che non fu votato perché i miei ordini non si votano, si accettano e si eseguiscono senza chiacchiere aut riserve perché Gran Consiglio non è parlamentino e nel Gran Consiglio non si è mai – dico mai – proceduto a votazioni di sorta. I signori Puci e Tuninetti mi faranno quindi il sacrosanto piacere di accettare senza discutere il fatto compiuto poiché quando è in gioco prestigio e autorità governo sono indiscutibile e ricorso (sic) e qualunque mezzo. Mio ordine è preciso tutte le formazioni squadristiche a cominciare dai corsari neri del troppo loquace Castelli saranno sciolte a qualunque costo dico a qualunque costo. E’ gran tempo di fare la separazione necessaria: i fascisti coi fascisti, i delinquenti coi delinquenti, i profittatori coi profittatori e soprattutto bisogna praticare intransigenza morale dico morale.
P. 65
Citazione da P. Gobetti:
La maggioranza degli italiani è fascista solo in questo senso: che ha un’assoluta incompatibilità di carattere coi partiti moderni, coi regimi di autonomia democratica, col la loro politica. Messi al bivio tra il governo attuale e una ipotesi di governo futuro in cui i cittadini abbiano la loro responsabilità nella libera lotta politica, votano per Mussolini.
P. 70
Se a questa frustrazione del ’25 si aggiungono poi gli attentati contro Mussolini della fine dello stesso anno e del successivo, che – proprio per essere solo degli attentati senza altro obiettivo che l’uccisione di Mussolini – lasciavano capire una cosa sola: che se Mussolini fosse stato ucciso nulla sarebbe stato risolto ma si sarebbe aperto solo un nuovo periodo di accese lotte politiche e probabilmente civili, delle quali nulla lasciava prevedere la conclusione tranne quella o di una vittoria “bolscevica” o di un ritorno alla situazione e al governo degli anni del dopoguerra; è facile capire come in questi frangenti un popolo stanco, preoccupato per la situazione economica e di labili tradizioni democratiche si orientasse in maggioranza verso la soluzione apparentemente più facile e meno dolorosa. Ed è facile capire perché, un po’ per inconscio desiderio di giustificare a se stessa questa abdicazione, un po’ per effettiva delusione per la soluzione conservatrice della “rivoluzione fascista” (che, almeno in un primo tempo, alcune speranze – sia pure confuse – indubbiamente aveva suscitato) e un po’ per consapevole sfiducia negli uomini del fascismo e nei loro fiancheggiatori, questa maggioranza più che aderire al fascismo già tendesse a rifugiarsi nel mito-speranza di Mussolini, il “duce”.
P. 71
Rapporto della PS dell’agosto 1932:
Lo stato d’animo delle popolazioni si va quasi dovunque e stranamente orientando sempre più verso il duce e sempre meno verso il fascismo, che è visto attraverso le beghe locali e il contegno non sempre o quasi mai esemplare dei gerarchi.
P. 72
In mezzo, tra questi partiti e i comunisti, vi erano poi il repubblicano e ciò che rimaneva dell’Italia Libera, di Patria e Libertà e di alcuni altri gruppi minori intransigenti, spesso però in via di esaurimento. A parte (salvo nella Venezia Giulia alcuni sporadici e discussi contatti con i comunisti) vi erano poi i vari partiti e organizzazioni degli allogeni dell’alto Adige e della Venezia Giulia. Da un altro lato ancora vi era infine un vasto e atomizzato schieramento di liberal-democratico che concepiva l’opposizione al fascismo forse più in termini morali, culturali, di gusto che non concretamente politico-partitici e che si muoveva sotto gli stimoli più disparati, crociani, giolittiani, gobettiani, amendoliniani, salveminiani, ecc. Un coacervo di posizioni, caratterizzabili più per la negazione del fascismo che per una concorde affermazione positiva e politicamente sterili, ma che, alla prova dei fatti, si sarebbe dimostrato lungo quasi un ventennio una realtà viva, della quale il fascismo non sarebbe riuscito ad avere ragione; una realtà estremamente variegata e in continuo mutamento, che, per altro, come si vedrà, avrebbe costituito – a livello intellettuale e di una certa borghesia professionale – lo scoglio più resistente contro cui si sarebbe infranto il fascismo nel suo tentativo di permeare di sé tutto il paese e al tempo stesso il più effettivo punto di riferimento e di formazione morale e intellettuale dell’antifascismo (di tutte le gradazioni) degli anni trenta e quaranta; una realtà che, intanto, il 1° maggio 1925 espresse quel “manifesto degli intellettuali antifascisti” che, nel clima del momento, costituì senza dubbio la presa di posizione più alta e concreta dell’antifascismo, poiché riuscì a dare la misura della quantità e della qualità della parte della classe dirigente italiana che rifiutava di accettare il fascismo e a rendere chiari – agli italiani e agli stranieri – i motivi più reali e insopprimibili della sua opposizione.
P. 117-18
In questo clima di rinnovata e aumentata fiducia per Mussolini, anche i provvedimenti che il Gran Consiglio aveva deciso, nella sessione del 5-8 ottobre, di sottoporre al governo per la realizzazione finirono per trovare meno ostilità e resistenze di quante ne avrebbero trovate se non ci fossero stati i fatti di Firenze con i successivi provvedimenti del Gran Consiglio e del governo. E lo stesso di può dire per quelli approvati contemporaneamente dal Consiglio dei ministri. I primi, riprendendo alcune delle proposte formulate dalla Commissione dei diciotto, prevedevano, tra l’altro, la costituzione di un ministero della Presidenza, la presentazione di un disegno di legge di modifica dell’articolo 10 dello Statuto (sull’iniziativa legislativa), l’inquadramento nello Stato dei sindacati, attraverso il iri riconoscimento e l’obbligo dell’arbitrato (con relativa istituzione di una magistratura del lavoro), e la riforma del Senato, da realizzarsi con l’elezione di una parte dei suoi membri ad opera di alcuni enti e delle corporazioni. I secondi introducevano a loro volta podestà di nomina governativa in tutti i comuni sino a cinquemila abitanti, al posto dei sindaci elettivi.
Questi provvedimenti, sia singolarmente sia nel loro insieme, avrebbero avuto – una volta approvati dal Parlamento – ripercussioni notevolissime sia in sede politica sia in sede economico-sociale e avrebbero costituito un nuovo importante passo sulla strada del regime. Su ciò nessuno si faceva illusioni. Soprattutto al Senato non mancavano pertanto coloro che erano ad essi ostili. Quanto alla Camera, nella stessa maggioranza vi erano vari deputati – tra i quali il gruppo legato alla Confindustria – tutt’altro che favorevoli all’idea di una riforma sindacale del tipo di quella richiesta dal Gran Consiglio. Sappiamo infine che il re non era favorevole alla riforma del Senato. Come vedremo nei prossimi capitoli, quando i provvedimenti sarebbero stati portati davanti alle camere, alcune di queste critiche e resistenze non avrebbero mancato di venire a galla. Se esse furono però meno numerose e vivaci di quanto si sarebbe potuto credere in un primo momenti, ciò fu dovuto in gran parte alla nuova situazione determinata nel frattempo dall’attentato Zaniboni. E’ anche però un fatto da non sottovalutare che in non pochi fiancheggiatori s’era frattanto fatta strada – come abbiamo visto nel caso particolare del re – l’idea che le “leggi fasciste” (le prime, già approvate dalla Camera, e le seconde decise ai primo di ottobre dal Gran Consiglio e dal governo) costituissero, insieme alla rinuncia di appoggiare un eventuale ritorno in aula dei gruppi costituzionali dell’Aventino, una specie di prezzo da pagare a Mussolini perché egli potesse tenere a freno l’intransigentismo fascista e procedere alla sua progressiva estromissione politica. E se questa idea si era fatta strada e aveva n molti casi avuto la meglio sugli scrupoli costituzionali e sulle preoccupazioni dei fiancheggiatori e dello stesso sovrano, ciò era stato determinato soprattutto del nuovo atteggiamento assunto da Mussolini all’indomani dei fatti di Firenze verso l’intransigentismo farinacciano e dal fatto che l’intransigentismo non era riuscito ad impedirlo, sicché veniva ulteriormente confermata la tesi che solo Mussolini fosse in grado di pacificare l’Italia e di garantire la classe dirigente e i ceti che la esprimevano sia dal “sovversivismo” rosso sia di quello nero.
P. 137-38
Cap. 2. Le premesse politiche del regime: la soppressione dei partiti d’opposizione e la liquidazione politica del partito fascista
Per Rocco – che già prima della guerra pensava, per dirla con l’Ungari, ad una moderna sistemazione dei problemi sollevati dalla grande produzione di massa che legittimasse “un duro autoritarismo alla prussiana e una stretta integrazione, sempre alla tedesca, tra apparato statale e cartelli industriali, con la filosofia positivistica dell’organicismo sociale, dove i capi dell’economia si trasfigurano in “organi di interesse nazionale2, le masse trovano nei sindacati misti, o corporazioni, “non l’assurda uguaglianza, ma disciplina delle differenze”, e Comte e Shaeffle porgon la mano a Bismarck e List – il “nuovo” ordine politico doveva infatti, da un alto, tradurre in pratica gli elementi di pensiero politico autoritario sparsi nelle pagine dei giuristi ormai da una quindicina d’anni, da quando cioè si era fatto più vivo il pericolo di una disgregazione sindacalista del potere politico, e, da un altro lato, non limitarsi ad un mero rafforzamento dell’esecutivo, ma realizzare un vero e proprio nuovo regime politico-sociale fondato sul trinomio “Stato autoritario-concentrazione cartellistica-ideologia e prassi si alti salari, alla Ford”.
P. 165
Il più importante di questi mutamenti fu l’allontanamento dal governo del ministro Lanza di Scalea: pur accettando le dimissioni di Federzoni da ministro dell’interno, Mussolini non volle infatti per il momento privarsi del tutto della copertura federzoniana (che gli era ancora utile per i rapporti con il re e con alcuni gruppi di senatori) e trasferì il titolare dell’interno alle colonie, sacrificando, appunto, Landa di Scalea. Gli altri mutamenti riguardarono invece un certo numero di sottosegretari, tra i quali Suardo che passò dall’interno e fu sostituito da Bottai alle corporazioni. L’estrema gravità dei provvedimenti decisi dal consiglio dei ministri il 5 novembre è così evidente che non è il caso di insistere su di essa: il significato di quei provvedimenti non può sfuggire a nessuno: con essi veniva praticamente sancita la definitiva distruzione di quel poco dell’ordinamento liberal-democratico e del vecchio Stato di diritto che erano, bene o male, sin lì sopravvissuti a quattro anni di governo fascista e si può considerare conclusa la fase - iniziata il 3 gennaio 1925 – del trapasso dal vecchio Stato prefascista al nuovo regime fascista.
P. 213-14
E’ necessario spiegare un successo cos’ completo e facile. Dire che fu conseguito solo facendo leva sulla paura, col ricorso alla minaccia di nuove violenze fasciste, sarebbe solo molto parzialmente vero. Che una simile paura abbia avuto una parte nell’assicurare il successo a Mussolini è indubbiamente vero, specie se l’affermazione si riferisce ad alcuni settori ben precisi del mondo politico, della classe dirigente fiancheggiatrice. Sarebbe però sbagliato ricorrere solo a questa spiegazione e colerla applicare a tutti. Una spiegazione esauriente va – almeno a nostro avviso – cercata anche e soprattutto in due altre direzioni.
Una prima spiegazione può essere trovata nel mutato orientamento che, soprattutto nei dodici mesi che precedettero l’ultimo decisivo giro di vite mussoliniano, si era verificato nell’opinione pubblica italiana. Il paese – lo si è detto – era ormai stanco, desideroso solo di sanare le proprie ferite, sfiduciato nelle opposizioni, ridotte per di più ormai a delle larve. Dopo i tragici fatti di Firenze l’ordine pubblico era andato notevolmente migliorando e ciò aveva fatto sperare che si stesse finalmente arrivando alla tanto bramata “normalizzazione”. Il fascismo a sua volta aveva posto radici in larghi settori della popolazione e – come avrebbe riconosciuto anche Silone – non appariva più tanto come “un esercito nemico accampato in terra di occupazione” (come era potuto sembrare a molti in un primo tempo e soprattutto durante la crisi Matteotti), quanto piuttosto come un fenomeno sociale con proprie caratteristiche. In questo clima gli attentati Zaniboni, Gibson, Lucetti e Zamboni avevano scosso profondamente l’opinione pubblica a tutto vantaggio del governo e dello stesso fascismo: un po’ spontaneamente un po’ grazie alla sistematica azione della stampa e della propaganda fasciste – ormai pressoché complete padrone del campo – l’opinione pubblica media si era orientata sempre di più a considerare perturbatori dell’ordine pubblico e della pace interna non più i fascisti ma gli antifascisti e ad accettare come necessità – sull’altare della totale “pacificazione” – l’eventualità di una loro estromissione violenta dalla vita pubblica. Significativa è a questo proposito una relazione della PS su come furono accolti nel paese i provvedimenti del 5 novembre: da essa risulta infatti che le nuove leggi, “severe ma giuste”, erano state in genere accolte “favorevolmente e con disciplina” e “con sollievo”. Questo stato d’animo trovava ormai echi persino in certi settori proletari nei quali – come lo stesso Serrati aveva avuto occasione di constatare sin dalla fine del ’25 – “molti sono coloro che dicono che in questa situazione non è possibile fare altro che inchinarsi”. Oltre a ciò, il problema centrale, un po’ in tutti gli ambienti sociali, non era più tanto, in questa situazione, quello immediatamente politico, quanto piuttosto quello finanziario ed economico, quello – come si vedrà nel prossimo capitolo - della stabilità della lira. Ed era convinzione diffusissima che per risolvere questo problema occorresse una stabilità politica e una pace sociale effettive e una energica azione del governo: tre cose che in quel momento solo il fascismo era in grado di assicurare e alla realizzazione delle quali si era disposti sempre di più a posporre il problema generale della difesa di un assetto politico che non mancava di difetti, che era stato per anni criticato e persino villipeso e che il fascismo ad ogni occasione proclamava voler rendere più efficiente, moderno ed incisivo anche sul piano sociale. Da qui – a nostro avviso – la prima causa della “corsa” al fascismo dopo l’attentato Zaniboni priam e dell’accettazione ora – con “sollievo” – dei provvedimenti del novembre ’26. Provvedimenti che – oltre tutto – si sperava sarebbero stato solo provvisori e di cui – persino al livello politico più alto – non tutti dovettero cogliere subito l’irrimediabile gravità, se persino una vecchia volpe della politica come Salandra in un primo momento arrivò a cullarsi nella illusione che ai deputati antifascisti estromessi con la decadenza da Montecitorio potessero subentrare “secondo la legge” i secondi non eletti in lista nel ’24.
Essendo così orientata la maggioranza dell’opinione pubblica, perché una opposizione “legale” – e con ciò arriviamo alla seconda delle spiegazioni della facilità del successo mussoliniano – potesse non limitarsi ad una serie di prese di posizione personali, morali più che politiche, come quelle che si ebbero alla Camera il 9 e al Senato il 20 novembre, sarebbe occorso un punto di effettivo riferimento politico che non poteva essere costituito che dalla monarchia. Ma, come già nel ’24-’25, Vittorio Emanuele 3 sfuggì anche in questa occasione alle sue responsabilità
P. 215-16
In questa vicenda particolare, così come in quella delle nuove leggi e – più in genere – nelle altre venute sul tappeto nell’ultimo anno e mezzo circa, ilr e si limitò a subire l’iniziativa di Mussolini, pur rendendosi conto che così facendo indeboliva la propria posizione e anzi crucciandosene; egli però non si sentiva sufficientemente forte per agire e per fare ora ciò che non aveva voluto fare quando il fascismo e il governo era in crisi, l’opposizione era forte e godeva di vastissimi consensi nel paese e la dinastia, per dirla con Caviglia, era sugli altari e tutti attendevano da essa una indicazione; si rendeva anche conto che, al punto al quale erano arrivate le cose, la linea di condotta meno pericolosa per lui e per la dinastia era ormai quella di rimanere legato a Mussolini; tanto più l’esperienza sembrava insegnare che le dinastie duravano in generale più dei singoli uomini e del loro governi ed era estremamente improbabile che Mussolini potesse diventare tanto forte da poter pensare di porsi esplicitamente contro la monarchia; anzi c’era anche da credere che avrebbe piuttosto avuto sempre bisogno del suo avallo. Questo – a nostro avviso – il vero atteggiamento del re. Una atteggiamento che, alla lunga, si sarebbe dimostrato deleterio per l’Italia sia per la dinastia dei Savoia, ma che – date le premesse che stavano alla sua base e che ormai lo determinavano e data la psicologia del re lontanissimo dal voler giuocare il tutto per tutto – era non solo ormai pressoché obbligato ma chiaro anche a Mussolini che, quindi, si sentiva sicuro dei suoi movimenti, e a tutti coloro – fascisti e antifascisti – che avessero un po’ di sensibilità politica.
In questo clima e nel modo che abbiamo narrato Mussolini nel novembre 1926 realizzò il suo vero diciotto brumaio. Un diciotto brumaio tutt’altro che eroico e anche meno rischioso di quello che aveva portato al potere il generale Bonaparte. Un diciotto brumaio di cui Mussolini aveva posto le premesse quasi due anni prima, il 3 gennaio del ’25, e che da allora era venuto si costruendo pezzo a pezzo, attraverso tutta una serie di mosse e di provvedimenti, ma che gli fu possibile realizzare, in quel certo modo e in quel dato momento, molto anche per una serie di circostanze esterne, del tutto impreviste, ma delle quali seppe cogliere l’intrinseco valore politico. Un diciotto brumaio, infine, che, più che capovolgere una precedente situazione, sancì ufficialmente la fine di un processo di trasformazione che aveva già profondamente mutato il volto politico dell’Italia, nelle istituzioni come nelle forze in presenza. In termini strettamente giuridici le ultime vestigia del regime liberal-democratico italiano sarebbero state spazzate via solo nel 1929, con lo scioglimento della Camera eletta nel ’24 e con l’eliminazione degli ultimi superstiti rappresentanti elettivi dell’opposizione liberale.
Nonostante ciò, non vi è dubbio che il regime fascista sia diventato una effettiva realtà nel novembre del ’26.
P. 218-21
Cap. 3. Le premesse economiche e sociali del regime: la “quota novanta” e la Carta del lavoro
Citazione da Pesaro:
Voglio dirvi, che noi condurremo con la più strenua decisione la battaglia economica in difesa della lira e da questa piazza a tutto il mondo civile dico che difenderemo la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue.
Non infliggerò mai a questo popolo meraviglioso d’Italia, che da quattro anni lavora come un eroe e soffre come un santo, l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento della lira. Il regime fascista resisterà con tutte le sue forze ai tentativi di jugulazione delle forze finanziarie avverse, deciso a stroncarle quando siano individuate all’interno.
Il regime fascista è disposto, dal suo capo all’ultimo suo gregario, a imporsi tutti i sacrifici necessari, ma la nostra lira, che rappresenta il simbolo della nazione, il segno della nostra ricchezza, il simbolo delle nostre fatiche, dei nostri sforzi, dei nostri sacrifici, delle nostre lacrime, del nostro sangue, va difesa e sarà difesa.
P. 232
Ma, alla fine, a prevalere furono i motivi politici e di prestigio. Buona regola sarebbe stata quella di riportare la lira ad una quota più economica e più corrispondente alla realtà dell’economia italiana. Mussolini, invece, non volle rinunciare alla “quota novanta”, sia perché essa era ormai diventata uno slogan, una bandiera del regime e gli sembrava che rinunciarvi equivalesse ad uno scacco, sia perché - come vedremo ampiamente più avanti – resistere sulla “quota novanta” diventava per lui ogni giorno di più il modo per affermare la sua autorità sui “fiancheggiatori2. Non diede dunque ascolto a coloro che avrebbero voluto proseguire sulla strada della rivalutazione sino a raggiungere la parità aurea, ma non ascoltò neppure quelli che avrebbero voluto un progressivo assestamento su una quota più realistica: “sia pure con strilli e dolori”, tutte le forze dell’economia italiana dovevano “adeguarsi” alla “quota novanta”.
P. 239
Ma la politica di rivalutazione non può essere vista solo in termini strettamente economici e non può essere considerata quasi come una pagina a sé della storia italiana di quegli anni. Al contrario, proprio solo se la si vede strettamente connessa a tutta la politica mussoliniana del tempo essa acquista tutto il suo significato e se en possono capire gli “errori”; “errori” che dal punto di vista di Mussolini, della sua politica tout court, non furono in gran parte né tali né tanto meno involontari, ma una precisa scelta, un rischio calcolato, in funzione di un preciso piano politico.
P. 263-64
La carta del lavoro, formalmente parlando, non era un atto giuridico, tanto è vero che – come si è detto – il Gran Consiglio aveva dato mandato al governo di curarne la traduzione legislativa. Come sarebbe stato scritto di là ad un anno, essa doveva soprattutto “funzionare di fatto” come norma giuridica ed essere per ogni fascista “la legge di partito inderogabile”. Ciò nonostante, per darle più importanza e solennità venne pubblicata nella Gazzetta ufficiale. Con questo atto solenne (anche se formalmente strano ed eterodosso) la carta del lavoro entrò, tra il tripudio della stampa fascista e fascistizzata, nell’Olimpo della “dottrina” e della politica del regime e concluse la seconda fase dell’azione sindacale e corporativa fascista. Sotto il profilo sociale e in particolare del miglioramento delle condizioni di lavoro, la Carta del lavoro non innovava in realtà gran che. A parte alcune enunciazioni piuttosto generiche, varie norme in essa contenute già preesistevano legislativamente, altre erano già allo studio e in un clima politico diverso sarebbero quasi certamente già maturate naturalmente, logico portato dello dello sviluppo sociale di un paese in trasformazione abbastanza rapida come era l’Italia, e si può dire che lo spirito di compromesso che presiedette a tutta l’elaborazione della Carta del lavoro la rese, se mai, meno incisive. Contrariamente a quanto sbandierato dal fascismo, che parlò di “punti di partenza per la costruzione della nuova organizzazione della società italiana”, di “Stato di popolo” e di altre cose del genere, nulla vi era insomma di “rivoluzionario” nella Carta del lavoro. La sua pubblicazione servì però bene agli scopi politici che Mussolini si era prefissi. Essa valse infatti a dare una patina di socialità al nuovo regime, permettendogli di presentarsi come avviato su una strada nuova e giusta, con un Mussolini che – ormai libero da ogni impaccio – mostrava di essere pronto ad “andare al popolo” e a sfidare anche le oligarchie economiche…
P. 195-96
Cap. 4. La prima strutturazione dello Stato fascista
Come abbiamo visto nei due precedenti capitoli, le premesse politiche ed economico-sociali del regime fascista furono poste e in parte realizzate tra la fine del ’25 e la fine del ’27. In poco più di due anni l’Italia mutò radicalmente il suo volto politico; furono pressoché totalmente eliminate le ultime vestigia del vecchio Stato liberale e il fascismo – ormai autoproclamatosi unica realtà politica lecita e unica espressione positiva e dei singoli cittadini e del complesso della nazione – cominciò chiaramente a mostrare la sua volontà e la sua tendenza (connaturata a tutti i moderni regimi totalitari e anche autoritari di massa) e rendere il proprio potere superiore ed autonomo rispetto alle forze (politiche, economiche, sociali) che erano state all’origine del suo successo. Il processo, come si è visto si sviluppò nel campo più immediatamente politico e in quello economico-sociale con tempi e con conseguenze diversi, più rapido ed effettivo nel primo, più lento e meno incisivo nel secondo. Pur tenendo conto di questa sfasatura, si può però affermare che, se la vera e propria ristrutturazione dello Stato secondo la nuova realtà politica sancita dagli avvenimenti del ’25-27 si ebbe nel ’28-29, i primi punti fermi di questa ristrutturazione furono posti già nel ’27, che può pertanto essere considerato a tutti gli effetti il vero “anno primo” del regime fascista propriamente detto.
Se è vero che la giornata si giudica dalle prime ore del mattino, è fuori dubbio che il primo importante atto politico pubblico “positivo” compiuto da Mussolini dopo aver assunto anche il portafoglio dell’Interno (la circolare diramata ai prefetti il 5 gennaio 1927) mostra senza ombra di incoerenza che per il duce la totale eliminazione di ogni alternativa politica “lecita” (anche solo teorica) alla sua dittatura personale e, più in genere, al potere fascista non solo escludeva sin l’eventualità di una modifica della sua concezione del partito e dei rapporti di esso con lo Stato ma, anzi, determinava le condizioni più favorevoli a ribadire tale concezione e a tradurla definitivamente in atto.
P. 297
Per quel che riguarda il PNF la circolare di Mussolini ai prefetti costituì insomma il terzo punto fermo dopo la sostituzione di Farinacci con Turati e l’approvazione, nel ’26, del nuovo statuto del partito. Né il processo di svuotamento politico del partito fascista era destinato ad arrestarsi a questo punto. Due nuovi gravi colpi alla sua autonomia, al suo prestigio e alla sua funzione politica furono infatti portati alla fine del ’28 e alla fine del ’29 con due leggi, relative all’ordinamento e alle attribuzioni del Gran Consiglio e, ancora una volta, allo statuto del partito stesso.
P. 304
Secondo il testo approvato dal Gran Consiglio il 18 settembre ’28 e tradotto successivamente in legge, il Gran Consiglio era “l’organo supremo che coordina tutte le attività del regime” ed era presieduto dal capo del governo, a cui spettava convocarlo e fissarne l’ordine del giorno. Esso era chiamato a deliberare sulle liste dei deputati da presentare alle elezioni, sugli statuti, ordinamenti e direttive politiche del PNF e sulla nomina e sulla revoca del segretario generale, dei vicesegretari e dei membri del direttorio del partito. Doveva essere consultato “sulle questioni aventi carattere costituzionale” e cioè sulle proposte di legge concernenti la successione al trono, i poteri e le prerogative del re, la composizione e il funzionamento del Gran Consiglio stesso, del Senato e della Camera, le attribuzioni e le prerogative del capo del governo, la facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, l’ordinamento sindacale e corporativo, i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, i trattati internazionali comportanti mutamenti territoriali. Oltre a ciò il Gran Consiglio aveva il compito di formare e tenere aggiornata “la lista dei nomi da presentare alla Corona, in caso di vacanza, per la nomina del Capo del Governo” e “delle persone, che in caso di vacanza, esso reputa idonee ad assumere le funzioni di governo”.
P. 305
Il colpo era infatti tanto grave e carico di conseguenze che – pur non potendosi dubitare che il sovrano l’avesse subito obtorto collo – mutava di fatto i termini della tensione e del latente contrasto tra Vittorio Emanuele 3 e Mussolini, di cui tanto si sussurrava e si parlava in Italia e all’estero da anni. Sino allora, quello dei due uomini che si pensava potesse avere la possibilità di risolvere a proprio vantaggio una crisi vera e propria era stato – nonostante tutto – il re; ora, la passività con la quale il re aveva subito una così sostanziale diminuzione del proprio prestigio e delle proprie prerogative sovrane capovolgeva la situazione e stava ad indicare che oggettivamente il più forte era Mussolini. Da qui – appunto – la conclusione, per alcuni, che per abbattere il fascismo non si potesse fare alcun affidamento su Vittorio Emanuele 3 e, anzi, che il re avesse ormai legato le sue sorti a quelle del fascismo; e, per altri, che l’unico modo per salvaguardare la monarchia (per il momento come elemento moderatore e di freno per il futuro – quando Mussolini fosse scomparso dalla scena politica – come unica forza di mediazione tra fascisti e antifascisti) fosse quello di evitare nuove crisi tra essa e il fascismo e, quindi, di riconoscere di fatto la “diarchia”.
P. 311
Citazione da Aquarone:
Con la costituzionalizzazione del Gran Consiglio e la sua trasformazione in vero e proprio organo dello Stato, venne data sanzione giuridica al superamento di quel dualismo fra partito e governo, fra partito e Stato, che nella realtà dell’azione quotidiana, dal 3 gennaio 1925 in poi, era stato già ottenuto attraverso l’ormai definitivamente consacrata subordinazione del partito agli organi statuali del governo.
P. 313
A questo punto una domanda può venire naturale: per sanzionare definitivamente un rapporto, una situazione in gran parte già realizzati di fatto, Mussolini non contraddiceva in ultima analisi se stesso, valorizzando un organo, il Gran Consiglio, che avrebbe potuto costituire un centro di potere antagonistico al governo e alla sua stessa politica e farsi portavoce del partito? La domanda è tutt’altro che oziosa, specie se si pensa al ruolo che il Gran Consiglio avrebbe avuto nel 1943.
P. 313
Concludendo ci pare chiaro che, venuto il momento per Mussolini di dare una concreta strutturazione al regime, uno dei problemi più importante che egli volle risolvere fu quello del definitivo inserimento del PNF nel regime. Sotto questo profilo la circolare ai prefetti del 5 gennaio ’27, al “costituzionalizzazione” del Gran Consiglio nel ’28 (anche se questa legge – lo ripetiamo – rispondeva pure ad altre esigenze) e il nuovo statuto del PNF nel ’29 (il terzo dopo quelli del ’21 e del ’26) sono legati fra loro da un unico filo rosso e corrisposero ad un’unica esigenza politica pienamente realizzata: togliere al PNF ogni effettiva autonomia ed iniziativa politiche e farne una cinghia di trasmissione a senso unico, dal centro alla periferia, del potere politico mussoliniano.
P. 314
Il disegno di legge prevedeva un unico collegio nazionale e riduceva il numero dei deputati a quattrocento. Il diritto di proporre i candidati era riservato alle confederazioni nazionali sindacali legalmente riconosciute e ad alcuni enti morali ed associazioni di importanza nazionale stabiliti da un’apposita commissione parlamentare. Le confederazioni proponevano ottocento nomi, gli altri enti ed associazioni duecento. In basa a queste mille designazioni e, se lo riteneva necessario, attingendo liberamente anche ad altri nominativi di “persone di chiara fama nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, nella politica e nelle armi” il Gran Consiglio provvedeva a sua volta a formare la lista definitiva dei quattrocento candidati designati. Se la lista riceveva la metà più uno dei voti validi espressi dagli elettori risultava approvata nella sua interezza. La votazione aveva luogo mediante schede nelle quali, oltre al simbolo del fascio littorio, era riprodotta la domanda “approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio nazionale del fascismo?” e ad essa l’elettore doveva rispondere in calce con un “si” o un “no”.
P. 324
Citazione da Mussolini:
E vengo allo statuto… – disse – siamo sul terreno dell’archeologia o della politica? O, se volere, siamo sul terreno dell’immanenza o su quello della contingenza? S’è mai pensato che una costituzione od uno statuto possono essere eterni e non invece temporanei? Immobili e non invece mutevoli? Ma richiamiamoci agli immortali, ai troppo immortali principi immortali da cui tutto discende. Che cosa dice l’articolo 27 della dichiarazione des droits de l’homme? “Tutte le costituzioni sono rivedibili, perché nessuna generazione ha il diritto di assoggettare alle sue leggi le generazioni che seguiranno”.
Vi richiamo agli immortali principi. Di imanente, onorevoli senatori, di eterno, non vi sono che le leggi religiose….. Le costituzioni non sono che degli organi strumentali, risultati di determinate circostanze storiche, delle qual seguono lo sviluppo, la nascita, il declino.
Ma poi, onorevoli signori, questo Statuto è stato forse fatto da un’accolta di profeti? Ma niente affatto! Lo Statuto è stato fatto da alcuni signori che si sono raccolti attorno ad un tavolo… Ma già allora si cominciò a discutere su questo Statuto ed i pareri furono divisi…. Fin da allora, secondo la dottrina costituzionale che fu sempre di poi accettata, si ammetteva che lo Statuto fosse rivedibile, se le circostanze lo imponessero. E’ quindi fatica, a mio avviso, superflua, e tuttavia commovente, fare la guardia al Santo Sepolcro. Il Santo Sepolcro è vuoto. Lo Statuto non c’è più, non perché sia rinnegato, ma perché l’Italia d’oggi è profondamente diversa dall’Italia del 1848…..
P. 326
Ogni commento riferentesi al tempo presente lo ritengo superfluo
In questa costruzione, poiché i sindacati erano tutti – padronali e dei lavoratori – più o meno impregnati ancora di suggestioni classiste, “l’interesse supremo della Nazione” voleva che gli interessi particolari fossero soffocati e mediati, coordinati dal Ministero delle Corporazioni. In caso contrario, invece di “fare le Corporazioni per lo Stato”, si sarebbe consegnato lo Stato “in mano ai sindacati” e ciò avrebbe portato non solo al fallimento dell’ordinamento corporativo ma avrebbe messo lo Stato alla mercé dei sindacati e dei loro interessi particolari, sarebbe andato a tutto scapito della produzione e avrebbe snaturato il valore essenzialmente economico della Carta del lavoro. Quanto in particolare al sindacalismo rossoniano, esso non poteva avere per Bottai sostanzialmente cittadinanza se si voleva veramente creare lo Stato corporativo, poiché la sua origine sindacalista rivoluzionaria lo rendeva inidoneo a comprendere l’essenza di tale Stato.
P. 331
Ma ogni resistenza fu inutile. Il 9 settembre il comitato intersindacale approvava infatti una mozione Turati-Bottai che respingeva inesorabilmente 2il principio e l’attuazione dell’istituto dei fiduciari di fabbrica”. Con questa decisione, alla quale ovviamente i sindacalisti fascisti non erano in grado di opporsi – avevano termine sia l’esperimento dei fiduciari di fabbrica sia la polemica attorno ad esso; e, ciò che più conta, con questa decisione il sindacalismo fascista – già gravissimamente menomato dallo “sbloccamento” della confederazione rossoniana – perdeva praticamente la sua ultima battaglia politica e quel po’ di autonomia che i suoi leader avevano bene o male cercato di conservargli, sia pure tra errori e capitolazioni: da quel momento in poi anchei sindacati dei lavoratori diventavano a tutti gli effetti un “organo” del regime.
P. 341
Ma esso era andato al potere in virtù di un compromesso e – anche se col passare del tempo e col rafforzarsi del meccanismo dittatoriale il suo potere tendeva naturalmente ad acquistare una notevole autonomia rispetto alle forze che avevano favorito o anche solo accettato il suo successo – questo compromesso rimaneva pur tuttavia l’elemento decisivo di un equilibrio che Mussolini e il fascismo stesso potevano cercare di modificare col tempo e in grado di alterare radicalmente e di distruggere.
P. 343
In questo clima, come notava a sua volta “Critica fascista, non solo la “rivoluzione fascista” non riusciva a giungere “in pieno al cuore della struttura amministrativa dello Stato”, ma si assisteva al paradosso di un regime autoritario e, a parole, “estremamente volitivo, energico, sprezzante dinanzi agli ostacoli” che spesso finiva per trovarsi “prigioniero di congegni amministrativi creati da un altro regime” e in contrasto con i suoi fini. Veramente tipico è il caso – studiato dall’Aquarone (L’organizzazione dello stato totalitario) – delle lunghe resistenze che la burocrazia ministeriale frappose per anni all’applicazione della legge 31 gennaio 1926, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche e in particolare a quella parte di essa che tendeva a realizzare un più rigoroso controllo sugli innumerevoli provvedimenti legislativi minori che erano in larga parte feudo appunto della burocrazia ministeriale e che questa preferiva tradizionalmente emanare sotto forma di decreti legge piuttosto che di decreti reali, poiché il controllo del Consiglio di Stato era in genere molto più effettivo del superficiale vaglio parlamentare: nonostante tutti gli sforzi e i ripetuti interventi governativi, la burocrazia continuò tranquillamente a non osservare lo spirito e la lettera della nuova legge e alla fine, nel 1940, a piegarsi sarebbe stato lo Stato fascista riconoscendo la pratica inapplicabilità di una parte della legge 31 gennaio 1926, n, 100, quella appunto così sistematicamente boicottata per un quindicennio dalla burocrazia. E volendo gli esempi si potrebbero moltiplicare, specie attingendo al vasto campo della legislazione e dei regolamenti corporativi e della loro applicazione.
P. 346-347
Per cui i veri risultati di questo stato di cose furono due, assai importanti per tutta la successiva storia del fascismo e dei suoi rapporti con Mussolini: l’affermarsi più nettamente del sistema – non riuscendo ad impedirle e a dirimerle veramente – di mettere il più possibile a tacere le beghe e i contrasti tra gerarchi e gerarchetti (da qui il diffondersi, da un alto, di una sorta di omertà che teneva insieme uomini e gruppi per altro in contrasto tra loro e, da un altro laro, di un montante discredito del PNF nell’opinione pubblica); e il rafforzarsi in Mussolini della tendenza – in lui, del resto, innata – al sospetto e ad una sostanziale disistima verso la stragrande maggioranza dei suoi collaboratori e dello stesso partito. Sospetto e disistima che lo portavano ad accentrare sempre più ogni decisione ed ogni potere nella sua persona, a diffidare sempre più pressoché di tutti (anche di chi invece avrebbe meritato la sua fiducia) e, quindi, a sentire sempre di puù il bisogno di essere il più possibile informato di cosa pensassero e facessero (sin nella loto vita privata) tutti coloro che nel regime avevano qualche responsabilità, in maniera da poter sempre neutralizzare gli uni con gli altri e di avere verso ognuno sufficienti elementi deterrenti di contestazione personale per tenerli in pugno. E questo spiega anche perché egli, violando esplicitamente lo spirito e la lettera sull’ordinamento e le attribuzioni del Gran Consiglio e nonostante le sollecitazioni di Turati e di altri gerarchi, non permise mai al Gran Consiglio di redigere la lista dei nomi da sottoporre alla Corona nella eventualità di una scomparsa o di un suo ritiro dalla politica attiva. Una simile lista era per Mussolini inconcepibile: a parte che probabilmente per lui nessuno era degno e in grado di raccogliere la successione, la formazione della lista da parte del Gran Consiglio avrebbe indubbiamente scatenato una infinità di gelosie e di rancori difficilmente controllabili e avrebbe molto probabilmente portato alla costituzione di un pericolosissimo centro di potere attorno al designato o, peggio ancora, ai designati, a tutto scapito della solidità del regime e della stessa sua autorità personale.
P. 349
Era quello il fascismo, era quella l’Italia che i fascisti avevano pensato di edificare? Pochi lo credevano: i più erano già dei delusi, che in mancanza di un’alternativa reale si accontentavano di sperare in un mutamento futuro, in una nuova “ondata”, e intanto si contendevano le briciole di potere e di benessere personale che il regime concedeva loro. Dei delusi, per altro, che molto spesso non rinunciavano a cercare di sfogare e di dare un senso alla propria delusione criticando più o meno sommessamente i capi e persino lo stesso Mussolini. Due esempi possono servire a rendere questa situazione e questo stato d’animo: il prendere corpo in questo periodo tra certi gruppi fascisti del convincimento che Mussolini fosse “prigioniero” del suo entourage, che lo avrebbe isolato dai veri fascisti e lo avrebbe tenuto nell’ignoranza dell’effettiva situazione; e gli sforzi che periodicamente le varie componenti “storiche” del fascismo (sindacalisti, futuristi, nazionalisti, ecc.) facevano per valorizzare le rispettive “primogeniture” e insinuare in tal modo indirettamente l’idea del confronto tra il “proprio” fascismo e quello realizzato.
P. 353
Ciò nonostante l’intuizione del Mosse opportunamente sviluppata (rifarsi e Sorel e a Le Bon per trovare nella loro concezione della natura umana la suggestione culturale di fondo che concorse a indurre Mussolini a realizzare il consenso nazionale attorno, in primo luogo, ad una serie di valori che con le aspirazioni originarie più genuine del fascismo ben poco avevano in comune e tendevano a ricostituire e a rinsaldare, sotto l’orpello rivoluzionario, una mentalità e un abito conservatori) ci pare non solo particolarmente felice e convincente in linea generale, come ipotesi interpretativa, ma pienamente corrispondente alla formazione, alle convinzioni e allo stato d’animo di Mussolini e tale da trovare anche conferma – oltre che nella sua azione – in alcune sue prese pubbliche di posizione. Con ciò – sia ben chiaro – non vogliamo menomamente pretendere di spiegare tutto un aspetto – e tra i più decisivi – della politica mussoliniana successiva all’instaurazione del regime come una sorta di pedissequa traduzione in pratica della lettura di Sorel e di Le Bon (e più specificamente, del quarto capitolo delle Réflexions sur la violence e della Psychologie des foules). Anche se le corrispondenze sono talvolta veramente impressionanti, una simile spiegazione sarebbe assurda.
P. 367
Primo. I consensi, i riconoscimenti che il fascismo e Mussolini in particolare raccoglievano all’estero e che la propaganda, la stampa divulgavano con dovizia di particolari e spesso incoraggiavano e sollecitavano con notevole abilità. Per secondario che a prima vista possa sembrare, questo fattore non deve essere sottovalutato. Col ’25-26 e soprattutto col ’29 questi consensi questi consensi e riconoscimenti presero a farsi sempre più numerosi e autorevoli e contribuirono non poco a rinsaldare il prestigio del fascismo tra gli italiani (soprattutto fra la borghesia, ma non va neppure sottovalutata l’influenza che ebbe tra i ceti popolari la simpatia, spesso l’entusiasmo che per il fascismo mostrava gran parte dell’emigrazione italiana di lavoro, soprattutto quella oltre oceano) e a diffondere la convinzione di essere protagonisti di avvenimenti che destavano ammirazione in tutto il mondo e mettevano l’Italia all’avanguardia e nella lotta contro il comunismo e nell’edificazione di un nuovo ordine politico-sociale che avrebbe finalmente aperto una nuova era nella storia dei popoli. In sede storiografica chi meglio ha posto l’accento su questo fenomeno è stato F. Chabod nella sua Italia contemporanea:
“All’estero, conviene ricordarlo – egli ha scritto a proposito del periodo di cui stiamo trattando – si levano voci, talvolta assai importanti e autorevoli, in lode del fascismo. Certo non dagli ambienti di sinistra, soprattutto francesi, ma da parte dei conservatori europei. Vi sarebbe materia per un grosso volume a voler raccogliere tutte le dichiarazioni in favore del fascismo, in particolare nel mondo anglosassone; in Italia, ora, regna l’ordine, i treni arrivano in orario e sono cessati i fastidiosi scioperi. Si loda, si adula il fascismo, il quale, agli occhi di certi movimenti stranieri, apparirà malefico e degno di condanna soltanto quando porrà alcuni problemi di politica estera, cioè nel 1935 e dopo il 1935. Fino al quel momento, il fascismo era stato un gran bene per l’Italia…
Con l’andar del tempo queste lodi finiscono per impressionare molti italiani; coloro che tengono al “prestigio” della patria, sono rafforzati nei loro convincimenti fascisti, o, almeno, sono spinti a non discutere più sul fatto compiuto”.
Secondo, se il PNF godeva di poco credito e non molto più alto era quello del fascismo come ideologia, grande era invece il prestigio personale di Mussolini. In un certo senso, si può dire che esso era andato negli ultimi anni aumentando in senso inversamente proporzionale a quello del partito e del fascismo e per molti italiani aveva costituito una sorpresa di compensazione psicologica e politica: a mano a mano che l’esperimento fascista aveva mostrato i suoi limiti e i suoi lati negativi, essi si erano aggrappati alla fiducia, alla speranza nell’uomo, nel “capo” superiore a tutte le parti, anche alla propria, unico in grado di intendere le “vere” aspirazioni del paese, di porsi come arbitro e mediatore dei conflitti e dei contrasti interni e di imporre la propria volontà su tutti.
Terzo, a tutti i livelli della società italiana (così come, del resto, in tutta Europa) lo spirito di rivolta e il desiderio di spezzare il “sistema” che aveva caratterizzato il periodo a cavallo della guerra e dai quali erano nati i vari movimenti rivoluzionari sia politici sia culturali (bolscevismo, fascismo, espressionismo, futurismo, ecc.) andavano ormai cedendo il campo ad una sorta di conservatorismo caratterizzato – come abbiamo visto indicare dal Mosse – da un ritorno ad alcuni valori e ad alcune istituzioni tradizionali, quali soprattutto la “Nazione”, la “Famiglia”, la “Fede”, la Terra”.
P. 370-373
Passata la bufera del “biennio rosso”, questo patriottismo (e soprattutto le sue manifestazioni più esasperate e non solo quelle di stampo nazionalista, ma anche quelle che rifiutavano il socialismo e il popolarismo come espressioni dell’antirisorgimento) aveva costituito un momento assai importante dell’affermazione e del successo fascisti. A ben vedere, esso non aveva però completamente trionfato. Perché ciò avvenisse occorsero infatti ancora alcuni anni, , fu necessario che la società italiana si ripiegasse ancor di più su se stessa in quel processo di “reintegrazione” conservatrice e tradizionale di cui abbiamo già parlato. Solo in questo nuovo clima, infatti, si venne veramente realizzando quella sorta di identificazione di massa (alla quale non sarebbe col tempo sfuggita neppure una parte del proletariato) del Regime con la Patria che fu una delle peculiarità dell’Italia degli anni Trenta (con la conseguenza che per gran parte degli italiani l’opposizione al regime si configurò psicologicamente e moralmente come un delitto di lesa patria) e che passò attraverso due fai estremamente significative e ricche di implicazioni sulle quali dovremo tornare nel prossimo volume: la prima a carattere “risorgimentale” (il fascismo come sviluppo e compimento del Risorgimento e in special modo della sua componente popolare, garibaldino-crispina), la seconda – invece – a carattere imperiale (l’Italia come erede della potenza e della funzione civilizzatrice e, a suo modo, unificatrice dell’antica Roma).
P. 375-376
Citazione da Nolte:
“In effetti il fascismo non vuole dire soltanto manganello e olio di ricino: dopo la sua vittoria esso è anche entusiasmo di costruzione, è una passione di mettersi al lavoro, in cui trovano posto molte delle migliori forze dinamiche dei giovani. Si era ripetuto molto spesso per trent’anni che la vita italiana aveva bisogno di essere rinnovata dal profondo, che era ora che l’Italia diventasse uno Stato moderno, che bisognava finirla con le lentezze burocratiche: era chiaro che questo stato d’animo non poteva non tornare di incoraggiamento anche al fascismo.
Le parole ardite non rimangono senza eco nell’animo dei giovani: e non era davvero ardita la promessa di Mussolini: “fra dieci anni, o camerati, l’Italia sarà irriconoscibile”? L’entusiasmo che si riversava sull’uomo il quale, sulla trebbiatrice, prendeva nelle sue mani i covoni strappati alla palude, non era solo fabbricato artificialmente con un’abile regia, e tanto meno strappato col terrore. Gli avversari di Mussolini avevano ragione quando facevano presente che l’Italia era stata sempre patria di straordinarie “bonifiche2, che la coltivazione delle paludi pontine era ben poco a petto della conquista del delta padano compiutasi nel secolo scorso: e tuttavia queste opere necessarie non erano mai entrate tanto nella coscienza della nazione, non erano mai state così strettamente legate con le altre opere dell’entusiasmo nazionale (ad esempio la costruzione delle strade, lo sviluppo della navigazione aerea, dell’automobilismo e così via, e mai lo Stato – nella persona del suo capo - si era identificato con esso. Ogni dittatura totalitaria deve avere una sua base di necessità e di inattaccabilità, forse usurpata, forse portata pericolosamente al di là delle intenzioni, e che tuttavia in un primo tempo toglie forza alle obbiezioni degli avversari e strappa il consenso della massa del popolo. Questo dato di necessità, da tutti avvertito, fu in Russia alla fine del 1917 la pace e la rivoluzione agraria, nel 1933 in Germania la revisione del trattato di pace: in Italia fu la bonifica delle terre incolte, l’accessibilità di zone arretrate ottenuta con la costruzione di strade e acquedotti, e così via. Mussolini poteva essere sicuro di non trovar obiezioni quando diceva: “In un’Italia tutta bonificata, coltivata, irrigata, disciplinata, cioè fascista, c’è posto e pane ancora per dieci milioni di uomini” (1928). Chi aveva le orecchie per sentire poteva avvertire in queste parole una risonanza delle idee del giovane Mussolini socialista quando faceva sogni nazionalistici a proposito della colonia libica, di quella Libia dove a distanza di quindici anni non avevano trovato posto nemmeno mille famiglie di contadini. C’eran buone ragioni per credere che la realizzazione pratica Mussolini si trovasse ancora piuttosto “a sinistra” rispetto all’imperiale gioia bellicista dei nazionalisti: non disse forse in occasione della inaugurazione di Littoria “è questa la guerra che noi preferiamo!”? E la stessa “dittatura di sviluppo” con al sua spinta verso il futuro, la sua irriverenza per il passato e la sua pronta attenzione verso i problemi concreti, non sta in un certo senso “a sinistra”?
Il modo come Mussolini interpreta la propria opera e la situazione italiana sembra confermare abbastanza spesso questa idea”.
Se si limita il discorso al significato politico generale e alla genesi del mito del “duce”, quanto siamo venuti dicendo ci pare possa bastare. Ai fini immediati della comprensione della politica mussoliniana e, più in genere, della situazione sullo scorcio degli anni venti, vedere come questo mito si sviluppò e che conseguenze ebbe è infatti secondario. Ciò che è importante cogliere sono piuttosto gli effetto della caratterizzazione del regime fascista e le sue componenti principali, sua quelle che si potrebbero definire oggettive (connesse cioè al particolare momento morale e psicologico che attraversava l’Italia) sia quelle politiche favorite e sollecitate cioè dal fascismo attraverso una accorta adeguazione (nella sostanza conservatrice, nella prassi riformista, ma nelle manifestazioni esterne – della mobilitazione delle masse - rivoluzionaria) della propria azione politica ad alcuni ben precisi stati d’animo più diffusi e ad alcune aspirazioni più vive delle masse e attraverso – ancora – una sua massiccia valorizzazione propagandistica (al servizio della quale – altro fatto da non sottovalutare – si cominciarono a mettere per la prima volta tutti i nuovi moderni mezzi di comunicazione di massa, dalla radio al cinematografo). Colto questo, anche il mito acquista razionalità e quindi un significato non diverso da quello di altre scelte politiche operate in questo periodo da Mussolini.
P. 380-381
Cap. 5. La Conciliazione
Con i patti del Laterano Mussolini conseguì un successo – forse il più vero e importante di tutta la sua carriera politica – che da un giorno all’altro ne aumentò il prestigio in tutto il mondo. Un successo che ne aumentò enormemente la posizione e all’estero (dove la Conciliazione suonò come il più autorevole riconoscimento che la sua politica potesse avere e valse a convincere anche i più scettici che il suo potere aveva basi reali e sarebbe durato a lungo) e all’interno: dopo tanti successi solo parziali, che avrebbero dovuto dare i loro frutti solo nel futuro, che lasciavano molti in dubbio, che erano tali solo da un punto di vista strettamente di partito o, addirittura, solo per la propaganda fascista, la Conciliazione fu un successo reale che – anche per come fu improvvisamente resa nota la sua stipulazione – lasciò pochissimo spazio – almeno nell’opinione pubblica italiana – a considerazioni sul significato politico degli impegni che con essa lo Stato italiano si era assunto, fede pressoché dimenticare che la soluzione della questione romana era ormai da tempo nell’aria ed era già stata avviata dai governi prefascisti, a cominciare da quello Orlando, e fece di Mussolini l’uomo della provvidenza che era stato capace di tagliare il nodo fi Gordio che da sessant’anni impediva la completa realizzazione anche sul terreno morale dell’unità nazionale. Grazie alla Conciliazione Mussolini riuscì altresì a realizzare altri tre obiettivi molto importanti: ridusse al minimo la possibilità di manovra di quella parte delle gerarchi ecclesiastiche e del clero che erano ostili alla sua politica, mise in estrema difficoltà gran parte dei superstiti ex popolari e, soprattutto, dissipò quasi completamente le incertezze e le remore verso il regime che ancora erano nutrite da quei cattolici – ed erano molti – che, pur non facendo direttamente capo alle organizzazioni dell’Azione cattolica, sentivano tuttavia in qualche misura l’influenza dell’atteggiamento generale della Chiesa e che, pertanto, avevano sino allora aderito al nuovo regime con una certa cautela e con qualche riserva, mentre ora – dopo la Conciliazione – si sentirono in grandissima maggioranza liberi e giustificati ad un’adesione più sostanziale. Né – infine – si può dimenticare un’altra conseguenza ancora dei patti del Laterano: l’allargamento della base e del consenso che essi portarono al regime rafforzò notevolmente il carattere nazionale, cioè moderato e nazionale, del regime stesso a tutto danno delle posizioni intransigenti (e in parte anche di quelle liberali) del fascismo stesso che dalla Conciliazione uscirono politicamente battute e diminuite di peso, in quanto sempre meno decisive ai fini della difess della rivoluzione fascista (o, nel caso di quelle liberali, di una mediazione tra forze opposte).
P. 382-83
Nella prospettiva dei tempi lunghi si può dire che con la Conciliazione la Santa Sede avallò autorevolmente il regime mussoliniano e contribuì a rafforzarlo e si espose quindi - sia prima ma soprattutto dopo la caduta del fascismo – a tutta una serie di critiche, spesso pesanti. Se ciò è indubbiamente vero, è però da tenere presente anche un altro aspetto del problema. Se la Santa Sede fosse passata all’opposizione del fascismo, sfidando e subendo i rischi connessi ad una simile posizione, sarebbe riuscita a trovare veramente un modus vivendi con le forze antifasciste italiane, con quelle, almeno, che politicamente contavano? Non fu proprio attraverso la Conciliazione che la Santa Sede riuscì, invece, da un lato, ad assicurarsi la salvaguardia – sia pure difficile, ma proprio per questo più fertile e selettiva – di quei canali e di quelle organizzazioni per mezzo dei quali poté garantirsi la possibilità di formare - sia pure con qualche compromesso e qualche momentaneo sbandamento – quella classe dirigente cattolica che, caduto il fascismo, sarebbe riuscita a raccogliere in larga misura nelle proprie mani il potere, e, da un altro lato, a rendere possibile quell’effettivo inserimento dei cattolici nella vita del paese che si verificò appunto dopo il ’29 e che rese, a sua volta, possibile quel dialogo, quella collaborazione tra cattolici e fascisti moderati che, sviluppatasi soprattutto sullo scorcio degli anni trenta e nei primissimi ani quaranta, furono la premessa della non ricostituzione, dopo la caduta del fascismo, di un forte centrodestra laico e probabilmente addirittura anticlericale? Ai fini di un giudizio veramente storico, che non sia cioè moralistico o che non anticipi problematiche o evoluzioni che non sono già nei tempi ai quali ci si riferisce, questi elementi non possono non essere tenuti presenti e, pertanto, è nostra convinzione che anche sui tempi lungi la scelta operata alla Santa Sede con la Conciliazione non possa essere valutata negativamente.
P. 416-17
Cap. 6. Il “plebiscito” del 24 marzo 1929
Per importanti che siano, questa “cause” non bastano però a spiegare da sole l’ampiezza del successo fascista del 24 marzo. Soprattutto non bastano e in buona parte non servono a spiegare come a determinare tale successo concorsero in misura notevole i voti dei ceti proletari delle città e delle campagne. Gli argomenti che abbiamo sinora addotti, infatti, possono avere ed ebbero un valore per la borghesia e soprattutto per i ceti medi in genere, molto meno – certo – ne poterono avere per i ceti popolari, sui quali i mitivi patriottici e nazionalistici e, al limite, la stessa Conciliazione non esercitavano sicuramente una suggestione notevole, specie in questo periodo. Per questi ceti si devono, a nostro avviso, tenere presenti altri argomenti, quelli generali dei quali abbiamo parlato nella seconda parte del quarto capitolo e sui quali, dunque, non ritorniamo, e ancora altri di tipo economico e politico.
P. 447
Dopo anni di battaglie perdute, di persecuzioni e violenze, anche la maggioranza del proletariato era però sfiduciata e stanca, preoccupata di salvare il salvabile, convinta o, almeno, rassegnata che, per il momento, il fascismo avesse vinto. In questa situazione – specie almeno le sue condizioni di vita e di lavoro si erano fatte meno precarie e alcuni episodi avevano fatto sperare che i sindacati fascisti e lo stesso governo ritenessero ormai giunta la situazione stessa ad un punto in cui non si potevano più chiedere altri sacrifici ai lavoratori – la maggioranza del proletariato, più che a correre il rischio di nuovi giri di vite, era orientata a non perdere ciò che aveva potuto salvare e a non pregiudicarsi la possibilità di fruire di quei benefici normativi e soprattutto assistenziali che la politica “sociale” del regime poteva assicurarle; poco, certo, rispetto alle sue necessità e soprattutto a quanto non molti anni prima era sembrata sul punto di conquistare, ma pur sempre qualche cosa a cui i più non si sentivano di rinunciare per correre dietro all’alea di una opposizione che non avrebbe potuto capovolgere la situazione e avrebbe procurato loro solo sacrifici, disoccupazione, persecuzioni, prigione.
P. 453
Su un piano più generale e più concretamente politico, molto più importante è però vedere lo stato d’animo che il 2plebiscito” suscitò in molti ambienti, soprattutto fascisti e fascistizzati e persino anche di opposizione. Uno stato d’animo che con due parole si potrebbe definire di speranzosa attesa e che bene contribuisce a spiegare perché il ’29 costituì un momento importante, periodizzante si può dire, della storia del fascismo.
P. 477
Negare ogni validità a questa valutazione delle difficoltà economiche alle quali inevitabilmente Mussolini sarebbe dovuto andare incontro se veramente si fosse voluto spingere sulla strada di una “liberalizzazione” del regime fascista e di un recupero ad esso di una parte almeno delle posizioni democratiche e socialiste è impossibile e ancora di più lo è se si pensa (ma lo “Stato operaio in quel momento non poteva prevederlo) che di lì a qualche mese Wall Street avrebbe conosciuto la crisi più drammatica di tutta la sua storia e che dall’America la crisi sarebbe tosto passata anche in Europa. Pur senza negare ciò, se si vuole dare una spiegazione storicamente valida – nei fatti più che nelle ipotesi, alle quali, del resto se ne potrebbero contrapporre altre sugli strumenti, sulle possibilità che Mussolini poteva ritenere di avere a propria disposizione per affrontare la situazione economica – del perché i propositi mussoliniani di “liberalizzare” il regime fascista abortirono miseramente sul nascere, ci pare si debba dire che questo avvenne soprattutto perché l’antifascismo democratico, quello in esilio e quello all’interno, seppe reagire alla propria momentanea sconfitta, rifiutò – contrariamente a quanto sostanzialmente prevedevano i comunisti – la strada apparentemente più facile e – forte della consapevolezza della giustezza delle proprie idee – respinse le avances fasciste. E con questo l’antifascismo democratico, da Buozzi a Croce, non solo salvò la propria anima e i propri diritti, caduto il fascismo, di rivendicare la guida del paese, ma dimostrò quanto il suo attaccamento alla libertà fosse concreto e non strumentale e impedì al fascismo di poter dire di avere un solo avversario, il comunismo.
In questa prospettiva ci pare di debbano vedere e valutare le voci di una prossima liberalizzazione del regime che per vari mesi circolarono dopo il “plebiscito” in Italia e all’estero. Voci alle quali non seguì alcun fatto concreto ma che bene dimostrarono come, nonostante il successo del “plebiscito”, le acque del regime fascista fossero tutt’altro che calme e come sotto la loro superficie si agitassero ancora scontenti ed insofferenze che non trovavano sfogo o catalizzazione, ma che non per questo erano meno significative di una realtà tutt’altro che assestata e assestabile e che anzi – fatto ancora più importante – si sperava potesse trovare un assestamento non nel senso di una accentuazione del carattere fascista del regime, ma, al contrario, in una sorta di sua liberalizzazione e democratizzazione e in una conciliazione con una parte almeno della tanto bistrattata Italia prefascista. Ilc he dimostrava che, pur con tutti i suoi limiti e i suoi errori, questa Italia non solo era morta nel cuore degli italiani ma presentava ad essi tutta una serie di aspetti positivi che sette anni di fascismo non erano riusciti né a cancellare né a sostituire con altri più validi.
FINE