Storia greca di Domenico Musti
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Storia greca di Domenico Musti
Prefazione
Le osservazioni che si pongono in prefazione a questo nuovo manuale di storia greca vogliono solo essere chiarimenti utili al lettore sulla struttura del libro; rispondono ai quesiti ‘che cosa trovarci’ e ‘come’.
Dei principi che hanno presieduto alla scelta tematica, inevitabile in ogni opera di sintesi e qui adombrata da un sottotitolo che fa riferimento a “linee di sviluppo”, dell’orientamento metodologico dell’opera e dell’idea della grecità che le è sottesa, discorriamo più ampiamente nell’introduzione, che immediatamente segue.
Il testo, in senso stretto, del libro è concepito in senso diacronico, ha perciò un carattere prevalentemente narrativo ed espositivo, assorbendo però già in sé i termini e i risultati di un discorso problematico e critico.
In esso predominano i fatti, anche se, come sempre negli studi storici, la loro presentazione vuole esserne già un’interpretazione.
Vi prevalgono, come già detto, le linee di sviluppo complessivo della storia della grecità: l’autore è ben consapevole del fatto che altro spazio, altri volumi occorrerebbero per quella che gli sembra una istanza di quest’epoca di studi: una storia del mondo greco secondo regioni.
Nelle note in calce al testo medesimo si fa posto soprattutto ai richiami alle fonti documentarie, che illustrano le situazioni descritte nel testo, ne integrano alcuni rinvii là già presenti; accanto alle fonti appaiono, in queste note, solo alcune essenziali citazioni bibliografiche, che sono richiamate direttamente dai profili problematici evocati nel testo, o che, per completezza o aggiornamento, sostituiscono in qualche modo la citazione diretta delle fonti relative all’esposizione fatta nel testo.
Anche nei rinvii alle fonti si è proceduto con criterio selettivo; si è preferito comunque legare le pur selettive citazioni, di autori e di documenti, alla pagina o al passo specifici del testo espositivo, piuttosto che confinare in una sintetica nota preliminare o conclusiva il nudo elenco delle fonti relative a un fatto o a un periodo storico: sia perché il collegamento diretto di questo o quel passo di Erodoto, di Tucidide, di Diodoro e così via in seguito, diventa, per il lettore di media informazione, un punto di riferimento preciso, uno stimolo alla lettura diretta del documento e al suo controllo, più della semplice citazione del titolo di un’opera storica dell’antichità, sia perché, come è sempre nella storiografia, un’opera di uno storico antico non ha ad oggetto un solo tema o un solo periodo, e, viceversa, un periodo o un fatto hanno spesso per sé uan molteplicità di fonti.
Sembra questo un criterio di citazione delle fonti più utile e praticabile, e più giusto, anche se si tratta pur sempre di una scelta, condizionata dalle dimensioni e dal carattere del libro.
Non si è rinunciato comunque a proporre dei profili storici degli storiografi antichi più significativi e più caratterizzabili nella loro personalità e nella relazione con il loro tempo: tali profili si trovano di norma nelle Note integrative, nelle parti conclusive di esse.
In corpo tipografico minore, seguono, ai capitoli che compongono il libro (1-12), delle Note integrative, concepite come ampie schede, spesso di profilo fortemente problematico e anche talora con prospettazione sommaria di soluzioni nuove, per lo più relative a temi di carattere storico-culturale, ma talora anche intese a sviluppare un problema storico-politico, accennato o sfiorato nel testo vero e proprio.
Le Note sono quindi veramente integrative, e solo con esse si costituisce l’unità del testo del manuale.
Esse sono numerate con lettere dell’alfabeto, e si succedono (fin dove ricorre il relativo materiale) nel seguente ordine di categorie: fatti storico-politici, aspetti di ordine culturale (archeologico, artistico, letterario, religioso, filosofico), aspetti di storia dell’economia, profili di storiografi antichi,
Solo in questa forma è sembrato possibile evidenziare la latitudine dei temi che costituiscono la ‘storia’, in quel senso globale che solo si addice al termine.
Trattare id questi temi era indispensabile; ma sarebbe stato vano immaginare di poter sostituire, con esposizioni che sono necessariamente sintetiche, storie specifiche e specialistiche di letteratura greca o manuali di archeologia o di storia delle religioni o del pensiero filosofico, e così via di seguito.
Credo che per il lettore le Note integrative debbano valere come un discorso aperto, cioè come decisi stimoli a una continuazione, in altre sedi, dell’informazione e dell’indagine, ma gli possano anche servire come prospettazioni problematiche già sufficientemente elaborate (e coerenti – si ritiene – con l’impianto concettuale del libro, e il nesso forte che esso intende sottolineare tra politica e cultura di una società e di un’epoca).
Come già detto per l’esposizione e le note, anche la Bibliografia posposta, subito dopo le Note integrative, a ciascun capitolo, è solo il frutto di una scelta.
A questo proposito tuttavia debbo dire che, mentre mi costa molto la selettività per ciò che riguarda i rinvii alle fonti, essa suscita in me un po’ meno rammarico per quanto riguarda la bibliografia: non per il merito specifico di ciascuna delle opere non citate, per le quali posso solo dolermi di non averne fatto menzione, ma perché, esaminando il problema nei suoi termini generali, ne traggo la convinzione che una certa scelta bibliografica possa essere opportuna, anzi fruttuosa, in un libro in cui l’aspetto di sollecitazione dell’interesse e dell’indagine del lettore è tutt’altro che secondario.
Avrebbe infatti avuto poco senso trasformare l’indispensabile apparato bibliografico in uno sterminato inventario di titoli, magari disposti in ordine alfabetico, isolati in spazi che, inevitabilmente, per molti lettori finiscono con l’operare come dissuasivi – per mancanza di ogni caratterizzazione – dalla consultazione e lettura diretta.
Perciò la Bibliografia posta in fondo ad ogni capitolo (che rinvia, con numero d’ordine, al paragrafo o spesso – per inscindibilità dei temi – a più paragrafi del capitolo di testo immediatamente pertinente e, con lettere dell’alfabeto, alle Note integrative dello stesso capitolo, pur nella loro sommarietà, meritino richiami e conferme bibliografici) appare come una raccolta ‘ragionata’ di titoli, raggruppati tematicamente, contenente, in preminente ordine cronologico, titoli vecchi e recenti, cioè puntelli del discorso critico svoltosi in passato sull’argomento, o opere particolarmente aggiornate e recenti: comunque, studi dei quali l’autore di questo libro abbia avvertito l’importanza, l’utilità o anche solo l’interesse per il lettore.
Se pur non completa (ma si può immaginare quanti volumi dell’Année philologique per una bibliografia completa, su tutto il periodo e su tutti i temi toccati, il manuale avrebbe dovuto inglobare), e con tutti i suoi dichiarati limiti, si spera però che questa bibliografia sia almeno utile, cioè leggibile e utilizzabile (non da ultimo, per le numerose incursioni fatte nel contenuto specifico dei singoli studi).
Le tavole che corredano il volume, senza troppo appesantirlo, sono carte geografiche e topografiche, tabelle cronologiche e genealogiche, quadri e grafici relativi ad aspetti ‘quantitativi’, che spesso sostituiscono dati non forniti nel testo, talora semplicemente evidenziano e coordinano dati dispersi nell’esposizione: di questa, in qualche modo, anche le tavole fanno parte.
A conclusione (come è tradizione nelle prefazioni, anche se sento che dovrebbero stare in cima) alcuni ringraziamenti.
Alla Casa Editrice Laterza, che ha voluto accogliere questo libro in una collana prestigiosa, e al suo corpo redazionale, che con impegno, con cura e soprattutto con amicizia ha seguito le diverse tappe della sua elaborazione.
Ai dottori Umberto Bultrighini e Piero Vannicelli, che hanno validamente collaborato alla correzione delle bozze e all’esecuzione di una serie di assai utili riscontri.
Introduzione
Proporre un panorama generale della storia greca significa presentare una nuova sintesi, in definitiva uan nuova scelta di temi.
Narrare i fatti è anche mostrarne le connessioni; già la successione degli eventi nell’esposizione corrisponde a una scelta, rispetto a quello che si ritiene essere il senso del movimento storico.
Gli eventi narrati sono dell’ambito politico-militare: si concentrerà dunque l’esposizione solo su questi aspetti, e la si ridurrà perciò a una storia politica?
Chi scrive è convinto che, entro certi limiti, non sia possibile veramente distinguere una storia politica da una storia culturale nel senso più ampio; il linguaggio dei fatti può avere una sua implicita molteplicità di registri.
I fatti che si succedono al livello del registro politico sono al fondo storia della cultura, delle idee e delle forme mentali; essi ne parlano, se si dà loro voce, se se ne opera cioè una concettualizzazione costante.
Narrare ad esempio la storia di Pericle o della guerra del Peloponneso significa fin troppo naturalmente evocare forme mentali, processi culturali, reazioni di ambienti diversi, elementi di un conflitto che è politico, sociale ma anche culturale.
Che cosa legittima questa pretesa di lasciar parlare i fatti?
Pur nella consapevolezza del limite obiettivo di ogni scelta e id ogni linguaggio, una qualche garanzia di dar vita a un linguaggio coerente e plausibile risulta dal tentativo di vedere i greci con gli occhi dei greci: compiere il massimo sforzo di applicare le loro categorie interpretative e forme mentali.
E allora i rischi appaiono già più limitati: basti pensare all’utilità di una coppia di categorie come quella del privato e del pubblico, che accompagnano quasi ossessivamente tante espressioni di storici, trattatisti, teorici, oratori greci, e che non vanno perciò relegate nel dimenticatoio delle espressioni banali.
Proprio perché frequentissimo, il binomio costituisce il binario lungo il quale procede tutta l’esperienza politica e culturale greca.
Perché non adottarlo come filo rosso, come una delle categorie-guida di un’esposizione che si costruisce come una successione di scelte, via via che si narrano i fatti?
E soprattutto, intorno alla grande curva del processo storico greco, un’accorta adozione di queste categorie può aiutare a impostare in maniera convincente il tema cruciale dello sviluppo storico greco: il passaggio dal 5. al 4. secolo ‘attico’ per eccellenza al periodo di cosiddetta crisi della polis.
2. L’idea di processo e sviluppo storico implica una scelta di esposizione diacronica: il linguaggio dei fatti e degli eventi non ammetterebbe scelta diversa.
Ciù significa operare con l’idea che si possa narrare la storia greca come una grande ‘parabola’, come un processo che muove dagli inizi della storia arcaica, trova poi un culmine nel 5. secolo avanzato e imbocca quindi una curva che si stenta a definire di declino, ma che certo è di grande trasformazione.
Con questo non si propone certo un modello nuovo: è anzi, in termini generali, un modello espositivo e interpretativo tradizionale, che si è solo negli ultimi trenta o quarant’anni complicato di una serie di problemi ulteriori nella definizione di questo inizio, perché la storia dei greci, nel senso più pieno della parola, cioè la parte delle loro vicende più documentata e documentabile, comincia con il periodo miceneo: e tra questo e il periodo arcaico si deve valutare l’esistenza di maggiore o minore continuità e analogia.
Certi aspetti di grandezza e potenza dell’epoca micenea vanno infatti poi raccordati con aspetti di stagnazione o depauperamento che l’età arcaica ai suoi primi inizi conosce.
L’avvio della parabola è già di per sé complicato.
Tuttavia è anche facile capire che quella parabola, che tocca l’apice nel 5. secolo avanzato – e costituisce l’intelaiatura, secondo cui anche questo manuale è costruito – è definita sulla base della storia della polis (espressione che, al singolare, ha valore come generalizzazione e astrazione di un plurale assai meglio verificabile nel concreto e nel particolare storico, cioè le poleis).
Dunque non è nuova l’idea della grande parabola, che ha il merito di conferire una plausibile unità logica al discorso, e di dare giustificazione allo stesso sforzo di sintesi.
Se qualcosa di nuovo, in qualche misura, si è tentato, nel panorama della storia greca che qui si propone, è di mostrare come questa parabola abbia una sua solidità di struttura, che va molto al di là del suo asse politico-militare; come in ciascun punto di essa sia realmente verificabile il forte intreccio tra il politico, il sociale, l’economico, la cultura, il mondo del mentale e dell’immaginario in genere, anzi, come sia possibile narrare fatti che appartengono alla sfera politico-militare, senza che essi si trascinino dietro, nelle parole stesse che li descrivono, aspetti comportamentali di individui e di gruppi, i loro modi di porsi di fronte ai bisogni economici e alle spinte sociali, il loro atteggiarsi nell’espressione culturale o in quella letteraria, le loro attitudini mentali profonde. Il diffondersi su larga scala di nuove e diverse esigenze intellettuali.
Il continuum della storia si verifica dunque non solo come senso generale della parabola nel suo diacronico sviluppo, ma anche come sincronico intreccio di azioni e di forme mentali, quale risulta dalla complessità delle situazioni di fondo.
In quanto la parabola è realmente perseguibile (per essere stata per vari aspetti già di fatto perseguita in tante storie generali della grecità), essa dimostra l’applicabilità di una nozione di sviluppo organico proprio a quei greci che dell’organicità furono, nella storia della cultura umana, i grandi teorici.
C’è d’altra parte anche un profilo didascalico di non scarso rilievo in un’esposizione fondata sull’idea di uan grande parabola: ed esso consiste nel ricondurre l’esposizione della storia greca ad una unità di fondo, che la rende memorizzabile in quanto la rende comprensibile, comprensibile nel suo svolgimento d’insieme – salvo poi conservare viva tutta l’attenzione e l’indispensabile curiosità per il molteplice, il difforme, la varietà delle situazioni.
Unità e molteplicità sono aspetti inscindibili della storia e chiavi di lettura, moduli essenziali, del linguaggio dei fatti.
La parabola greca rivela in ogni suo momento il nesso stretto che storicamente sussiste tra politica e cultura.
Forse in questo binomio è contenuta la caratteristica fondamentale del linguaggio adottato in questo libro.
Con ciò non si intende limitarsi a proporre esposizioni parallele di aspetti e momenti della storia politica e, mettiamo, della storia letteraria, anche se ovviamente l’esposizione degli eventi politico-militari si salda in molti punti con pagine di sintesi riguardanti la produzione letteraria e artistica; si tenta invece l’individuazione di quegli atteggiamenti intellettuali e culturali che si esprimono negli uni e nell’altra, e che è facile ritrovare anche nelle situazioni sociali ed economiche di fondo.
Tentare di cogliere la cultura di un’epoca è come tentare di capire l’intimo, eppur non segreto, linguaggio di una società.
Il rapporto tra cultura e politica, in senso stretto, è un rapporto d’interazione, dove è difficile, e probabilmente poco sensato, distinguere tra la causa e l’affetto, tra il primo e il dopo: il linguaggio degli eventi, se ben ricostruito, è il linguaggio stesso delle grandi attitudini e trasformazioni culturali.
In altri termini, se è vero che la cultura (letteraria, artistica, religiosa, filosofica) riflette anche gli eventi della politica (e a questo aspetto sono state dedicate tante ricerche, delle cui prospettive si cerca qui di dar conto), è però anche vero che la politica esprime una cultura ed è ascrivibile nei termini della cultura che la ispira.
3. Riproporre un profilo diacronico ha tanto più senso, quanto più si hanno presenti i caratteri originari della grecità, e insieme le singole espressioni che tempi diversi e situazioni diverse inducono in essa: gli aspetti di lunga durata, dunque, e insieme le novità e modificazioni nelle singole situazioni e nei diversi momenti storici.
Un’impostazione del genere è particolarmente giustificata nella storia di un popolo, in cui, per mille aspetti, si manifesta il processo per cui la natura si fa cultura, senza mai smettere di essere natura.
La specificità e anche (in un senso che più avanti chiariremo) la paradigmaticità della storia greca (quello insomma che un tempo, e soprattutto in chiave di valutazione estetica, si definiva ‘miracolo greco’) consiste, a nostro avviso, proprio in questa straordinaria congiunzione di realismo e idealismo.
Ora, per me il miracolo greco, di cui non si smetterà mai di parlare, è proprio la capacità di trasferire tutto sul terreno dell’idealità, dell’astrazione, dell’ethos, ribaltando però uan base di partenza che è realistica, naturalistica, utilitaristica, passionale, sensuale, ecc.
Dunque in ciò consiste, a mio avviso, il primo autentico ‘miracolo greco’, non tanto in visioni neoclassicistiche del gusto per l’armonia, per la simmetria, per la resa estetica, per l’idealità allo stato puro.
Il tema è, in ogni caso, eterno oggetto di discussioni e riflessioni: tant’è che un grande ellenista come Louis Gernet ha potuto essere proposto e proporsi come autore di una rappresentazione dei greci sans miracle (Les grecs sans miracle, Paris 1983).
Certo, è difficile trovare nella storia dell’umanità una cultura più realistica di quella greca; è difficile però anche trovare una cultura che sia stata altrettanto capace di creare un mondi di valori ideali in piena e lucida coscienza degli impulsi e dei bisogni naturali e materiali dell’uomo; una cultura dotata perciò di una fortissima capacità di traguardare verso figure, norme, valori ideali: tipica duplicità dell’atteggiamento greco di fronte all’esistenza, che Burckhardt definiva come un pessimismo nella visione del mondo congiunto all’ottimismo del temperamento.
L’attitudine dei greci di fronte al possesso materiale e al denaro è quella di chi ne sente (e ne subisce anche, nel bisogno) tutto il terribile potere; la percezione dell’utile, e specificamente dell’economico, è qui davvero un carattere originario, primordiale: ma su quella percezione utilitaristica di base si imposta subito un codice di valori ispirati alla misura e all’equità, che delinea – a ridosso e quasi a dispetto di quella primordiale intuizione e quotidiana e durissima esperienza – il registro dell’ideologia.
Che poi questo sistema di norme e valori abbia il suo centro di gravità nella polis, corrisponde a uan caratteristica storica prevalente nella società greca: il codice, secondo il quale si definiscono le misure e gli equilibri, è infatti quello della società cittadina, o piuttosto delle tante società cittadine che la Grecia produce, e di quelle che, se pur non pienamente cittadine, fruiscono però ampiamente di questa esperienza storica centrale (e della cultura che le è sottesa).
Così, un atteggiamento culturale di fondo costituisce il raccordo (e, per lo storico moderno, la possibilità di rappresentazione della connessione) tra esperienza economica ed esperienza politica in Grecia.
Della specificità storica della grecità si perderebbe il senso, se si sbilanciasse il quadro tutto sul polo dell’idealità.
Ne possono nascere (e ne sono nate) rappresentazioni di compiuta ‘armonia’, che competono all’eminente (e certo efficace) livello dell’ideologia, ma che, se fatte valere per sé sole, falsano i dati dello sviluppo storico greco e forniscono un’immagine dimidiata delle grecità.
Se c’è qualcosa di profondamente educativo nella riflessione sul mondo greco, è proprio il fatto che non c’è nessuna massima o posizione ideale qui espressa, che non sia stata sofferta, e filtrata, attraverso l’esperienza dell’esistenza reale, di tutte le sue passioni, di tutti i suoi mali, o perfino dei suoi orrori.
l’”armonia” qui è guadagnata attraverso un’esperienza, e una coscienza sempre ben desta, della ‘disarmonia’.
Chi si pone su posizioni diverse, finisce col cadere suo malgrado in un estetismo e in un neoclassicismo di fondo, anche quando in gioco non sia la valutazione di aspetti artistici e in genere estetici.
L’armonia della polis classica del 5. secolo - di fronte a cui starebbero l’esplosione di tutto il negativo, le crisi e i processi distruttivi delle epoche seguenti – è una pura invenzione di alcuni moderni, profondamente estranea all’esperienza greca della realtà.
Questa è infatti un’esperienza totale: il bene e il male, il senso dell’amicizia e gli odi profondi, la capacità della dedizione generosa e quella di tradire, vi si mescolano insieme; non c’è posto per rappresentazioni oleografiche, ove si abbia una vera familiarità con i documenti della cultura greca.
Il modo più autentico di mostrare rispetto per la storia del greci è quello di sentirla e trattarla, innanzitutto e semplicemente, come storia di gente che ha vissuto.
L’esperienza dei greci non è librata sulla vita, e lontana da essa; è la vita stessa e la realtà nella diversità delle sue manifestazioni: con in più però qualcosa che ne fa un precedente grandioso per tutta l’esperienza umana, cioè la coscienza, la riflessione, la teorizzazione, la parola che le ha espresse, la scrittura che ha dato alla parola forma stabile e, a suo modo, definitiva.
Vista così, la grecità è la coscienza stessa del reale, come si è espressa per la prima volta in altissimo grado nella storia della cultura europea e di ascendenza europea.
Storicamente, questa coscienza appare specificamente applicata alla costruzione di un tipo di società, quella cittadina, che sembra poter costituire l’orizzonte in cui impulsi e bisogni primordiali, senza rinnegarsi (perché mai così fu), si limitano, misurano, compongono.
L’armonia greca è percorsa dunque da un’intensa tensione.
Il momento della classicità nella storia dell’esperienza greca è proprio quello in cui i contrari si decantano, si oppongono: sul piano politico, questo è pienamente verificabile: la seconda metà del 5. secolo è l’epoca a cui corrisponde la piena maturazione e divaricazione delle posizioni contrapposte, implicite in tutta l’esperienza politica greca.
Una cultura dunque in cui l’armonia appare strettamente intrecciata alla tensione; in cui gli elementi e le caratteristiche della crisi appaiono già contenuti, in embrione, nell’esperienza che la procede e che sembra dominata totalmente dalla nota dell’armonia: come, appunto, è in ogni sviluppo organico.
Se non se ne riconosce l’endogenesi, si rischia per esempio di concepire la guerra del Peloponneso coem una sorta di malattia o sciagura sopravvenuta dall’esterno, una esplosione improvvisa di conflitti e di odio, uan prepotente affermazione di degeneri particolarismo, l’inizio di un declino inarrestabile.
Certo, quei fatti negativi, quei mali, vi furono, e sono innegabili in quanto mali.
Ma lo storico non può limitarsi, o prevalentemente applicarsi, a farne la deplorazione: ne studia la genesi, tutta intrinseca alle condizioni storiche che precedono, ne sente e descrive il costituirsi, lo svilupparsi e il pieno dispiegarsi, e in questo non fa altro che continuare il mestiere della storiografia, come fondato e praticato dagli storici greci antichi, o almeno dai migliori di essi.
Lo storico può anche sentire la pietà, ma dev’essere uan pietà attraversata e sorretta dall’intelligenza.
C’è un aspetto fondamentale dell’esperienza interstatale dei greci, che ha spesso suscitato una più o meno esplicita condanna, un tono di deplorazione che ha più dell’indignazione moralistica che non dell’obiettiva valutazione storica: ed è quello, poco fa evocato, del particolarismo, e che invece faremmo meglio a presentare in primo luogo con una terminologia greca che meglio vi corrisponde e che lo esprime al meglio, e cioè autonomia (o, nella forma più piena, eleutheria kaj autonomia “libertà e autonomia”).
Parlare di particolarismo con tono di deplorazione equivale a dire che i greci non sapevano quale fosse il loro bene, e che dovrebbero impararlo da noi moderni, forti come siamo dell’esperienza dei moti di unificazione nazionale.
Ma per i greci l’unità era culturale, cioè di lingua, di alcune istituzioni comuni, di culti; un rapporto entro cui originariamente e durevolmente, pur se nella misura del possibile, circolava l’idea di synghéneia, di “consanguineità”, attinta al lessico familiare, ed estesa al rapporto interstatale.
E sa di unità politica parlavano, non era nel senso di una unificazione territoriale, bensì in quello di una unità nella diversità, di un rapporto autonomistico, in cui ciascuna città (o popolo) conservasse la propria identità, cioè, innanzi tutto, i propri usi, costumi, istituti.
E l’identità era costruita –sempre per dirla nel linguaggio dei greci – ‘a misura d’uomo’, perciò limitata sia nel numero dei soggetti implicati come titolari dei pieni diritti, sia nello spazio dominato.
Poiché, d’altra parte, la cultura greca è fra le più realistiche prodotte dalla storia, di essa è caratteristica la consapevolezza che, appunto perché ciascuno deve essere se stesso e libero (autonomos ed eleutheros), e nel contempo l’estensione del ‘diritto’, potremmo dire, ‘all’identità’ è straordinariamente ampia e riguarda così entità maggiori e più potenti come entità minori e più deboli, l’autonomia, per non essere pura e semplice frammentazione, deve conciliarsi con la heghemonia (egemonia), cioè con la “funzione di guida” di un’entità più autorevole, a cui quella preminenza tocchi in forza del consenso dei molti che, restando autonomi, accettano di farsi guidare.
Il binomio egemonia / autonomia non costituisce dunque un’antitesi, ma uan funzionale polarità, che si accresce almeno con lo sviluppo della cultura cittadina, e che quindi è presente, in maniera del tutto naturale, già al livello di Omero.
L’impresa dei greci a Troia è già rappresentata secondo il modello di un’egemonia (Agamennone), che si concilia però con la persistenza dell’identità (e di una sorta di pari dignità) fondamentale dei diversi contingenti (pur nel dovere di una ubbidienza, che è comunque passata attraverso il filtro della discussione e della persuasione, a livello di capi e in presenza di un’assemblea).
Che cosa dovrebbe ‘ritoccare’, di questa attitudine originaria e fondamentale dei greci, lo storico moderno?
Rispetto all’esperienza degli Stati nazionali e territoriali, rispetto alla storia e alla geografia ‘delle capitali’, il moderno non potrà che trovare difettosa, e carica di rischi, questa caratteristica greca.
E’ vero infatti che in essa era insita una condizione di debolezza che, al momento in cui si fosse esaurita la carica propulsiva della città, sul terreno militare, tecnico, economico (di fronte all’insorgere di altri conglomerati storici di potere, di esperienza, di risorse umane e materiali), avrebbe avuto come prevedibile esito l’assoggettamento.
Ma voler correggere questo apparente ‘neo’ dell’esperienza greca equivarrebbe ad arrogarsi il diritto di correggere la sostanza della storia politica e della stessa cultura greca.
Ogni civiltà, si potrebbe infatti replicare, ha i suoi costi: lamentarne certi esiti sarà pur legittimo, ma non è quel che compete allo storico, o non è quel che compete a noi moderni nel moderno in cui giudichiamo da storici.
Prospettare altre esigenze e soluzioni storiche può essere una forma di saggezza da far valere per il nostro mondo e la nostra civiltà, cioè in tutt’altro quadro di condizioni e relazioni.
L’assoggettamento da parte di grandi potenze territoriali fu certo sentito, temuto, deprecato e anche a lungo efficacemente ostacolato dai greci ma era un esito storico possibile, intrinseco al loro stesso modo di concepire il rapporto fra le diverse entità politiche; e questo modo era, a sua volta, strettamente collegato con il loro sentimento dell’esistenza, in cui l’esperienza profonda e sofferta del dato naturale diventava un elemento di cultura e di coscienza.
Ora, in natura ci sono più esseri, che hanno ciascuno un proprio sviluppo organico, non illimitato, in virtù del quale ciascuno ha e conserva (e ha tutto il diritto di conservare) la sua identità, e in cui però il limite è segnato dalla stessa ferrea legge del tempo, che tanto fa nascere, crescere e maturare le diverse entità biologiche, quanto le piega a un inesorabile declino.
Il pessimismo di fondo di una tale concezione naturalistica si intreccia indissolubilmente con un senso finale, paradossalmente rasserenante, di equilibrio universale, che concede a ciascuno pur sempre uno spazio temporale e di possibilità reali, entro il quale esprimersi.
Chi si pone contro questa concezione, nelle sue varie e naturalmente intrecciate componenti, è colpevole di hybris, il peccato capitale, per i greci, che è la “prevaricazione”, il disprezzo o il rifiuto della misura, la prepotenza, che vuole mettere in forse le eterne regole del gioco e sfidare gli equilibri naturali, che immancabilmente si ricostruiscono.
L’uso della categoria del particolarismo, dunque, non è certo sbagliato, ma permette di cogliere solo una parte della verità; se non è accompagnato dalla considerazione di quel tanto di necessità che c’è in una civiltà storica, rischia di sollecitare lo storico a una sorta di indebito moralismo politico.
Meglio farà lo storico ad apprezzare, dell’esperienza greca, la varietà nell’unità culturale di fondo: che è quel che si verifica neo momenti migliori della storia dei greci (cioè quelli della maggiore sicurezza, prosperità, libertà da condizionamenti esterni), e in ogni caso corrisponde alle loro dichiarate aspirazioni.
4. Abbiamo osservato che la storia greca è stata spesso descritta, e si lascia facilmente descrivere (non si vede infatti una sola ragione valida per cambiare, a questo riguardo), come una parabola, come un processo che ha un suo evidente culmine nel 5. secolo avanzato, nel ‘momento del classico’ per eccellenza, per poi dar luogo a un declino o ripiegamento.
Qui occorre tuttavia sottolineare che questo ‘declino’ presenta caratteristiche del tutto particolari, che non rendono per nulla facile l’adozione della parola qui usata, anche se essa contiene una certa dose di verità.
L’esperienza multilaterale e pluralistica dei greci conosce in età alto-arcaica forte omogeneità nella costituzione di comunità aristocratiche, che nel loro sviluppo attraversano in genere crisi analoghe, per imboccare infine in parte la via democratica, in parte consolidare (spesso con i dovuti aggiornamenti) gli antichi tratti aristocratici e quindi approdare allo scontro finale nella guerra del Peloponneso.
Ebbene, in questo processo assistiamo a un infittirsi e accelerarsi progressivo delle esperienze, delle innovazioni, delle elaborazioni e distinzioni e persino sofisticazioni che, se culminano nello sconquasso della guerra civile, costituiscono di per sé un patrimonio di esperienze di straordinarie dimensioni e immenso valore, per i greci come per l’umanità intera: un patrimonio costituito, quasi guadagnato, a costo di sofferenze indicibili (a riprova del nesso stabilito uan volta per tutte dai greci tra sapere e soffrire).
E’ un capitale storico, politico e culturale, di grandiose proporzioni, destinato poi ad essere ‘investito’ in una quantità di riflessioni, sistemazioni, elaborazioni, che sono la caratteristica di fondo della grecità del 4. secolo e dei secoli successivi: quella che, proprio per effetto di certi stemperamenti e adattamenti che la sofferta esperienza aveva indotto, è destinata ad essere, in misura nettamente prevalente, una grecità assimilabile dalla cultura romana medio e tardo repubblicana, e d’età imperiale e a diventare la grecità delle stesse moderne esperienze umanistiche.
5. L’immagine qui usata, della cultura e della stessa esperienza politica greca come patrimonio e tradizione, non risulta soltanto dalla sua effettiva trasmissione a società e culture distinte e affini: essa trae giustificazione anche dalla intrinseca capacità e propensione della cultura greca a porsi come paradigma.
Le sue prime espressioni, a cominciare dall’épos, si propongono appunto come modello: e il processo si intensifica via via nel corso del tempo, ed ha perfino una netta accelerazione nel passaggio dal 5. al 4. secolo, quando si aggiunge un netto sentimento della avvenuta conclusione di un’epoca, la chiara consapevolezza di uno stacco tra passato e presente, o certi momenti o personaggi del pieno 5. secolo, che diventano punti di riferimento orgoglioso o occasioni di nostalgia o occasioni di nostalgia o, ancor più, antichi paradigmi di legislatori, come Draconte o Solone per Atene, Licurgo per Sparta), come anche il passato della cultura, quello delle memorie storiche, e delle grandi tradizioni di città e popoli della Grecia: un imponente processo di recupero, che è direttamente proporzionale, per paradossale che ciò possa sembrare, poiché proprio questo giustifica la convinzione che il presente debba rimodellarsi sul passato.
E’ con questa carica paradigmatica che la cultura greca si trasmette a quelle più recenti, fino alla nostra.
Affermare ciò non significa certo proporre illusioni neoumanistiche, o perdere il senso della diversità e della profondità storica.
Una prospettiva storicistica (come quella che in questo libro si fa valere) non può non essere le mille miglia lontana da atteggiamenti del genere.
Sta di fatto che, nella sua vastità e intensità, ma soprattutto nel grado di coscienza che essa esprime, la cultura greca si presenta già al suo interno come un ‘inventario di achetipi’, di paradigmi, di modelli, e perciò necessariamente trasmette la nozione stessa di archetipo, di esperienza iniziale ed esemplare, alle età e alle culture più tarde; essa si pone come una specie di laboratorio storico, in cui sono state vissute fino in fondo molte attitudini ed esperienze fondamentali dell’uomo.
Senso del paradigma e coscienza della distinzione tra passato e presente non sono inconciliabili fra loro: la storia culturale greca, come abbiamo detto, lo dimostra: e, a maggior ragione, ciò vale per il rapporto tra età antica ed età contemporanea.
Idee fondamentali come quelle di storia o di democrazia appartengono a questo ‘patrimonio di archetipi’, rispetto a cui la cultura moderna non può rimanere indifferente, nell’assurda convinzione che quella storia o quella democrazia siano assolutamente tutt’altra cosa da ciò che oggi si intende per esse.
6. Di queste riflessioni e convinzioni riguardo alla storia culturale e specificamente politica dei greci è nutrito il discorso che qui si propone.
Naturalmente esse non possono essere dimostrate sino in fondo, in una sintesi che deve tenersi entro determinati limiti di spazio, né possono ricorrere ad ogni pagina.
Ciò di cui si può forse utilmente avvertire il lettore è che alcune categorie, o problematiche, ricorrenti nell’esposizione, sono il frutto o il riflesso di queste convinzioni.
Mi riferisco in primo luogo al ruolo centrale ovviamente assegnato alla nozione di polis, sulla quale è impostata la struttura diacronica dell’esposizione e al rapporto polis-territorio, con tutto quel che il territorio (chora) significa, in risorse, produttività, modo di vita, possibilità di utilizzazione, funzione dei diversi assetti statali (città, popoli, regni); al binomio pubblico-privato, nei rapporti interni alla città, o egemonia-autonomia, nei rapporti esterni; al rapporto tra società / economia e storia; al valore indicativo delle forme mentali, come punto di raccordo, zona di passaggio, filtro interpretativo tra situazioni sociali e politiche, condizioni economiche ed espressioni culturali in senso stretto.
Il razionalismo del 5. secolo è, per esempio, in un rapporto di forte interazione con gli sviluppi politici, la crescita dell’economia monetaria, l’affermarsi (pur con tutti i limiti storici) di una mentalità e una pratica dell’investimento e dell’impresa, la speculazione sofistica, il dominio e l’organizzazione di spazi sempre più vasti e così via di seguito: in questo senso tout se tient e il discorso storico può davvero tentare di trascorrere, con giustificata continuità, dall’uno all’altro aspetto.
7. E’ consuetudine d’ogni manuale fornire un quadro della storia degli studi che precedono, soprattutto delle grandi opere di consultazione che costituiscono le pietre miliari della ricerca.
I cenni che ne daremo qui di seguito non hanno altro scopo che quello di indicare il significato culturale complessivo di opere rappresentative di epoche e metodi di studio, non mirano a fornirne una descrizione adeguata, per cui si richiederebbe ben altro spazio; essi serviranno a segnare momenti decisivi nell’acquisizione di una maggiore coscienza dei termini dei problemi, a indicare debiti, a rilevare differenze di metodo o di visione della grecità.
La risalita nel tempo, nella ricostruzione degli studi dell’antichità, per avere una qualche utilità deve partire almeno da quella straordinaria stagione di riflessioni critiche, di emergente e rinnovato interesse archeologico e nuovi scavi, di fondazione di nuove tecniche d’indagine e d’esposizione, che corrisponde più o meno al secondo quarto del 18. secolo (1725-1750).
E’ questa infatti l’epoca in cui, per la storia romana, si segnalano le ricerche critiche sui primi secoli di quella storia, di Louis Beaufort (1738), in cui in Italia si avviano gli scavi di Ercolano e di Pompei e si riscopre Paestum (1738-1748): il periodo in cui, per effetto di trasformazioni che sono insieme della cultura 8preilluministica e illuministica) e del modo di governare, anche la scienza dell’antichità muove i suoi primi passi nella direzione in cui ancora oggi tutto sommato prosegue, svincolandosi parzialmente e prrò anche progressivamente dai moduli umanistici, i quali erano ispirati assai più a una cura reverenziale della tradizione, a un gusto antiquario, che si esercitava sui temi limitati e specifici della tradizione medesima (sentita come un inventario di exempla morali) e alla convinzione di continuarla (facendone in un certo senso parte), che non a un atteggiamento di distacco storico e critico.
La tradizione era un arsenale di modelli da conservare e continuare, più che da analizzare per sé nella loro genesi e struttura di paradigmi e nello stesso complicato rapporto che, proprio in quanto modelli, potevano instaurare col mondo moderno.
Certo, al definizione (nel rifiuto, come nell’accettazione) delle figure e dei valori dell’antichità come modelli, non era un discosto che si potesse chiudere di colpo, né allora né dopo, e doveva restare (e resta ancora) uno dei problemi fondamentali della cultura moderna nel suo rapporto con l’antico (sul quale abbiamo espresso alcune convinzioni nelle pagine che precedono).
Sul terreno del metodo, lo stacco, nel secondo quarto del 18. secolo, appariva marcato: più informazione (che ormai è di tipo diverso, e non solamente letteraria), più dati particolari, più aspirazione alla completezza e sistematicità del confronto fra di essi.
Queste novità, sia nell’atteggiamento intellettuale sia nella ricchezza quantitativa dei dati acquisiti e da acquisire, dovevano dare invero i loro primi risultati nel campo della storia romana, più che nella storia del mondo greco.
Riguardo alla grecità, la filologia produsse, nell’intero arco tra la fine del Seicento e la fine del Settecento, indagini critiche coem quelle dell’inglese Richard Bentley sui falsi epistolografici antichi (Falaride, Temistocle, Socrate, Euripide ed altri, 1697) o del tedesco Friedrich August Wolf (1785) sulla genesi dei poemi omerici (nella storia degli studi omerici, G. B. Vico, pur con la profondità e l’interesse delle sue vedute, è più l’ultimo dei dotti umanisti, che non il primo degli scienziati moderni dell’antichità).
Per ciò che riguarda la storia del gusto estetico, l’opera di Joachim Winckelmann (1717-1768) riflette bene l’entusiasmo per le nuove acquisizioni archeologiche, ma rispecchia anche – e al tempo stesso contribuisce a formare – il gusto neoclassico, una visione cioè estetizzante e idealizzante della grecità, che non equivale a una fruizione autenticamente storica né delle novità archeologiche né della storia politica greca.
Tutto il Settecento illuminista, riformatore, rivoluzionario, appare come prefazione alla nascita delle prime opere sistematiche sull’antichità classica, nel senso moderno.
Al solito, la ricerca su Roma è ancora una volta quella che fa da battistrada: così la epocale Römische Geschichte di Barthold Georg Biebuhr (1811, 1° ed.) precede la ricerca sull’economia pubblica ateniese di August Boeckh, Die Staatshaushaltung der Athener, 1817 (cfr. la traduzione italiana in V. Pareto, Biblioteca di storia economica, 1., 1, Milano, 1903, pp. 40 agg., dalla 3° ed., del 1886) o la Geschichte hellenischer Stämmer und Städte di Karl Otfried Müller (I. Orchomenos und die Minyer, 1820; 2. Die Dorier, 1824; 2° ed., curata da F. W. Schneidewin, Breslau, 1844).
Nel campo della ricerca epigrafica, d’altra parte, fu con la collaborazione di Niebuhr che nacque il progetto dello stesso Boeckh per un Corpus Inscriptionum Graecorum (CIG, 4 voll. 1828-1877).
Niebuhr era del resto studioso del mondo greco, oltre che di quello romano.
Comunque il Corpus Inscriptionum Graecorum (CIA) in 3 volumi (Berlin 1873-1878), che realizzava, a cura di A. Kirchhoff, U. Köhler, W. Dittenberger, l’aggiornamento e revisione almeno parziale del CIG, rispondeva a migliori criteri organizzativi del materiale, e risentiva dell’esperienza del Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), avviata, parimenti sotto gli auspici dell’Accademia delle scienze di Berlino, nel 1863 da Th. Mommsen.
Si deve poi a U. von Wilamowitz-Moellendorff, nel 1906, l’avvio del progetto di revisione e sistemazione delle epigrafi dell’intera grecità: il progetto delle Inscriptiones Graecae (IG) in 15 volumi (e più fascicoli), che doveva realizzarsi solo in parte, e dapprima nella veste della cosiddetta editio maior, quindi in quella più agile e funzionale della seconda edizione (editio minor), dal 1913; di una terza edizione delle iscrizioni attiche esiste un primo tomo (1981), a cura di D. M. Lewis.
L’esperienza di viaggiatori e studiosi ha certo (già ne 15. secolo , con Ciriaco d’Ancona, ma soprattutto nel 18. e 19.) costituito apporto decisivo nella storia degli studi moderni di epigrafia greca; ma la tradizione di studi romani è intrecciata con essa, fornendole indicazioni e modelli.
8. C’è comunque un rapido recupero degli studi sulla grecità anche nel campo delle opere sistematiche.
Dopo il periodo preparatorio del Settecento, in cui si segnalano storie greche di studiosi britannici come J. Gillies (1786) e W. Mitford (1784-1794), si assiste a uan seconda grande stagione, della quale potremmo indicare come punto d’arrivo, sotto il profilo metodologico, il 1870.
Con Boeckh e con Müller la storia greca si presentava ormai come storia di istituzioni e di popoli; e all’opera del Müller era serto sottesa una concezione generale delle stirpi greche e dei loro rapporti, che oggi non può soddisfare, perché enfatizza la specificità delle singole stirpi anche sotto il profilo etico: in essa era però implicita uan esigenza di storia regionale greca, che ancor oggi s’impone come uno dei filoni più promettenti e fecondi.
E’ anche naturale che agli inizi della manualistica greca si presentino visioni complessive della grecità, centrate intorno a una ‘tesi’: l’esaltazione appassionata e in parte anche unilaterale, della democrazia ateniese nella History of Greece del liberale inglese George Grote (12 voll., London, 1846-1856), che si inseriva in una tradizione di opere inglesi, di storia greca, ideologicamente improntate, pur se con orientamenti diversi (quelle di J. Gillies e W. Mitford, già ricordate, e l’importante History of Greece del conservatore C. Thirwall).
Depurata di forme di candida adesione, e della scarsa capacità di distinguere tra i diversi momenti della democrazia greca, la History of Greece di G. Grote ha certamente il merito di fissare l’attenzione su quello che a tutt’oggi vale come l’esperimento politico centrale dell’antichità greca.
Una ‘tesi’ e una visione di fondo e il gusto per la storia regionale si coniugano ancora nell’opera di Ernst Curtius, autore di una Griechische Geschichte, 3 voll., Berlin 1857-1867, ma, già prima, di un’opera sul Peloponneso, in 2 voll., 1851-1852.
Nella stessa parte dell’Ottocento (ante 1870), in cui vedono la luce opere generali di grande impegno, impostate su una ‘tesi’ o un problema centrale, si colloca la Geschichte Alexanders des Grossen, Berlin, 1833, seguita dalla Geschichte des Hellenismus (1.: Geschichte der Nachfolger Alexanders, Hamburg 1836; 2.: Geschichte der Bildung des hellenistischen Staatensystems, ibid., 1843), di Johann Gustav Droysen (nella seconda edizione, 3 voll., Gotha 1877-1878, il titolo di Geschichte des Hellenismus era esteso anche al 1. Volume).
Con l’opera del Droysen la ricerca sulla storia greca reagiva tempestivamente alla tentazione – spesso nella pratica manualistica però riaffiorante – di considerare il periodo dopo la battaglia di Cheronea (338 a. C.) come un’epoca di declino del mondo greco, come l’inizio della sua fine; si fondava dunque la possibilità di concepire la storia della grecità come storia della cultura; questo era certo vista nel suo stretto intreccio con la politica: ma è intanto importante che per il Droysen all’ellenismo fosse sottesa un’unità di fondo, che ad esempio – com’è soprattutto nella prima edizione – è riconosciuta nella funzione di preparazione della humus storica del Cristianesimo.
Il termine ellenismo non doveva piacere a tutti; in particolare non doveva essere gradito a chi identificava la storia della grecità con la storia di Atene e della democrazia attica.
Così il Grote, che pur estendeva, col 12. volume, la sua History of Greece fino al periodo che noi chiamiamo ellenistico, rivolgendo la sua attenzione, nell’ultimo capitolo, a quelle che egli chiama Hellenic (non Hellenistic) cities, critica come fuorviante (ibid., p. 270) il termine di Hellenism in quanto usato per indicare solo la grecità del periodo all’autonomia (l’uso del termine per una cultura orientale permeata di grecità doveva essergli sgradito concettualmente, nella sua visione elleno- e atenocentrica, e apparigli linguisticamente improprio ed equivoco).
In questa fase (primi due terzi dell’Ottocento) la ricerca di uan posizione unitaria nella descrizione dei fatti della storia greca è evidente e anche – non si può negarlo – giustificata.
Non è forse questo il problema dei problemi, per chiunque si accinga a dare una sintesi della storia dei greci, come ricavare un’unità di fondo, dal perseguimento di una linea di sviluppo o di una temperie culturale in cui si raccordino le mille (cioè ‘grecamente’ sterminate) storie particolari?
Che la generazione dei primi grandi manuali di storia greca si caratterizzi dunque nel modo che si è detto, è del tutto conforme alla fase storiografica che essi rappresentano.
Dopo il 1870 (e la data costituisce davvero quasi uno spartiacque, come raramente accade in quel continuum che è la storia umana) molte cose cambiano, con una velocità e una intensità che hanno pochi riscontri in altre epoche.
E’ questa l’età del positivismo; è anche l’epoca dominata, anche se ovviamente non esclusivamente rappresentata, dell’apporto della tedesca Altertumswissenschaft (scienze ausiliarie) della storia, che presto però aspirano a una loro autonomia: archeologia, epigrafia, papirologia, numismatica, metrologia: si moltiplicano ricerche, scavi, studi, raccolte di corpora, a seconda della specializzazione di ciascuna disciplina.
Come singole scienze, esse sono rappresentate nei più diversi paesi; ma il paese ove si programmano e realizzano le grandi raccolte, i grandi corpora, le opere sistematiche, intese a raccogliere tutti i documenti, è certo la Germania.
E, per i testi letterari, il periodo delle grandi edizioni critiche, come anche quello della scoperta di nuovi testi: una data certamente epocale è nella identificazione ad opera dell’inglese Frederic Kenyon (1890; pubblicazione nel 1891) di un papiro londinese contenente gran parte del testo della Athenaion Politeia (Costituzione degli ateniesi) di Aristotele.
Sul piano della ricerca archeologica, , basti menzionare le straordinarie scoperte di Heinrich Schlieman (1822-1890) a Troia, Tirinto, Micene, Orcomeno, Itaca, che rinnovano completamente la base documentaria della conoscenza del mondo descritto da Omero.
Località di Creta sono oggetto di scavi di archeologi italiani (a Haghia Triada e Festo, Federico Halbherr dal 1844), inglesi (Arthur Evans a Cnosso) e id altri paesi.
Un gusto diverso per il particolare e, in taluni casi anch’essi significativi, per la dimostrabilità del particolare permea le nuove opere di carattere generale.
Ma ciascuna ha la sua caratteristica.
La Geschichte des Altertums di Eduard Meyer comprende 5 volumi in più tomi (1884-1902); il 1. e 2. volume sono dedicati all’Oriente antico, i successivi alla storia dei greci fino all’età di Filippo 2.
L’idea centrale di Meyer è quella di una storia ‘universale’, che abbracci l’Oriente e l’Occidente: la sua conoscenza delle lingue orientali, la sua vasta esperienza egittologica gli consentono di dare quindi uno spazio amplissimo all’antefatto orientale della storia greca.
Tuttavia anche in considerazione del periodo al quale il Meyer poté dedicarsi (egli rinunciò infatti a proseguire la sua esposizione, per far posto a una revisione dei primi volumi), l’attenzione da lui rivolta all’Oriente comportò una giustapposizione di mondi, più che un’approfondita analisi degli scambi fra le diverse aree di civiltà.
Il Meyer, d’altra parte, possedeva certo un’invidiabile conoscenza di testi e documenti originali, ma (nonostante siano noti i suoi rapporti con altri studiosi di aspetti generali delle società antiche) non sembra aver acuto alle spalle una cultura teorica di particolare rilievo.
E in fondo, egli resta un eccellente rappresentante di quel positivismo storiografico, che si esprimeva più nella capacità di ccumulare un numero impressionante di dati che non nella contestazione di principio di interi filoni di tradizione letteraria, fatta in nome di esigenze metodologiche particolarmente severe.
Per vastità di dottrina le si affianca la Griechische Geschichte di Georg Busolt (2 voll., Gotha 1885-1888; 2° ed., in 3 voll., ibid. 1893-1904), che non va però oltre la guerra del Peloponneso; accanto ad essa l’opera da questo dedicata allo Stato greco (curata nel 2. volume di Heinrich Swoboda), la Griechische Staatskunde (2 voll., München 1920-1926); le due opere, prese insieme, ricostituiscono la figura di un solido storico di vecchio stampo, che alterna opere a carattere narrativo-espositivo e opere di argomento istituzionale.
9. Per caratteristiche particolarissime si segnala la Griechische Geschichte di Karl Julius Beloch, comparsa dapprima in 3 volumi (1893-1904), poi, in una 2a ed. in 4 volumi, di cui ciascuno diviso in 2 tomi (1912-1927); da questa edizione provengono le numerose citazioni dell’opera fatte in questo manuale.
Il 1. tomo di ciascun volume è espositivo, narrativo, anche se già imposta, nella narrazione e nelle note, interpretazioni e discussioni critiche; l’apparato più propriamente erudito, fatto di ulteriori discussioni e di dati cronologici, genealogici, insomma di tutto un bagaglio filologico assai esteso, è concentrato utilmente nel 2. tomo di ogni volume.
Con Beloch, la prospettiva storica torna a farsi decisamente ellenocentrica; l’opera riusciva a estendersi fino alla pace di Naupatto (217 a. C.) cioè fino alla vigilia dell’intervento militare romano in Grecia.
Il prodotto storiografico è di altissimo livello critico; sarebbe impensabile prendere posizione, su qualunque tema della storia greca del periodo ricordato, senza passare attraverso una prima, profonda riflessione sulle pagine di Beloch.
E’ anche vero tuttavia che nel rigido positivismo di Beloch (che gli suggeriva un’attenzione notevolissima agli aspetti della società e dell’economia, della demografia e della geografia, e questo già nel primo tomo di ciascun volume) era presente la convinzione di fondo che le fonti antiche fossero sempre sospette, a meno che non se ne dimostrasse la veridicità: in dubio, si direbbe, contra reum.
Questa impostazione induceva tra l’altro Beloch a una dura polemica contro autori più fiduciosi nei dati tradizionali, in modo particolarissimo contro G. Busolt e contro il continuatore dell’opera di Busolt per l’epoca ellenistica, quel Benedictus Niese, che fu autore di una Geschichte der griechischen und makedonischen Staaten seit der Schlacht bei Chaeronea (3 voll., Gotha 1893-1903).
Moltissime delle conclusioni del grande Beloch restano ancor oggi valide; e ciò vale soprattutto per il volumi 2.-4. della sua Geschichte, cioè per il periodo che va dall’età delle guerre persiane sino al 217 a. C.; invece le sue posizioni sull’età arcaica appaiono improntate a uno spirito ipercritico, che si sentiva tanto più a suo agio, quanto più facile appariva allora contestare l’attendibilità di una tradizione discontinua e di norma ben più tarda dei fatti riferiti.
Per dare due esempi particolarmente rilevanti, la cronologia ribassista delle tirannidi arcaiche e il modo stesso di argomentare sulla tradizione relativa alla migrazione dei dori nel Peloponneso appaiono oggi suscettibili di amplissima revisione.
Sarebbe comunque errato ed ingiusto limitare a Beloch questa caratteristica metodologica: essa è presente in una miriade di lavori minori di autori diversi, nei decenni che vanno dal 1870 alla Prima guerra mondiale.
Tanto benemerita fu quell’epoca nella produzione di edizioni e commentari di autori, quanto, assai spesso, distruttiva nell’esegesi storica.
Di questo spirito innovatore, e spesso ipercritico, sono per quell’epoca partecipi così gli scritti dei filologi come quelli degli storici.
Al confronto, sembra quasi di cogliere voci di altra epoca – e invece si tratta solo di portavoci di altre esigenze o di altri problemi culturali -, quando si leggono le pagine della Griechische Kulturgeschichte dello storico di Basilea Jacob Burckhardt (in realtà, elaborazione postuma di appunti delle sue lezioni, pubblicata in 4 volumi a cura di Jacob Oeri tra il 1898 e il 1902); una ‘Storia della civiltà greca’ (trad. it., con questo titolo, Firenze 1955) ispirata all’idea di una ricostruzione ‘unitaria’ della vicenda politica e culturale greca, in cui assolveva un ruolo centrale la categoria concettuale dell’”agonismo” e l’immagine dell’uomo greco come ‘uomo agonale’.
Non sempre aggiornate sulle ultime discussioni, ma comunque frutto sempre di una intuizione profonda, le riflessioni di Burckhardt coglievano l’essenziale per una serie di temi, e conservano ancor oggi uno straordinario fascino (l’opera appartiene allo stesso clima culturale delle riflessioni di Federico Nietzsche, più giovane collega da cui il Burckhardt fu influenzato, o dell’opera Psyche di Erwin Rohde).
E ancora un mondo a parte sembra quello della ricerca sociologico-istituzionale francese, o francofona in generale, che si estende dalle forme originarie delle strutture sociali agli aspetti del vivere quotidiano, degli individui come degli stessi Stati: tutto un bagaglio di temi e di nozioni non-avvenimentali, nella cui presentazione, in ragione stessa del contenuto, era meno assillante il problema fondamentale della critica delle fonti, quello del valore della cronologia, degli eventi e dei personaggi storici presentati dalla tradizione.
Qui operavano comunque tradizioni metodologiche diverse da quelle proprie della cultura positivistica tedesca: qui il positivismo si sfogava di più nella concretezza della ricerca sui grandi fatti sociali, di meno nella volontà di acquisire certezze sui dati particolari.
Mi riferisco alle ricerche di P. Guiraud sulla proprietà fondiaria nell’antichità e sulla manodopera industriale nell’antica Grecia (1893; 1900), agli studi del belga H. Francotte sull’industria greca (1900-1901), a quelli di L. Gernet sull’approvvigionamento di grano nell’Atene del 5.-4. secolo (1909), o di Gustave Glotz sul lavoro nel mondo greco (1920) o su La cité greque (1a ed. 1928), che continua ed aggiorna il tema della celebre opera di N. D. Fustel de Coulanges su La cité antique (1864).
K. J. Beloch (1854-1929), professore di storia greca all’Università di Roma dal 1879 e fino alla Prima guerra mondiale, non è l’unico storico tedesco del mondo antico attivo in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento.
Per limitarci alla storia antica (il discorso potrebbe altrimenti estendersi anche all’archeologo Emmanuel Löwy, che insegnò a Roma dal 1899 al 1915), si potrà ricordare Adolf Holm, che insegnò a Palermo e poi a Napoli; egli fu autore di una non troppo fortunata Griechische Geschichte (1886-1894), ma anche di una più importante Geschichte Siciliens in Alterthum (Berlin 1870-1898).
Con quest’opera, e con quella di Edward Freeman di identico soggetto, History of Sicily from the earliest times to the death of Agathokles, Oxford 1891-1894, siamo sul terreno di una fase scientificamente e criticamente più avanzata della ricerca sulla grecità occidentale, che, per l’Italia meridionale, ha un qualche corrispettivo nelle opere del francese Fr. Lenormant (La Grande Grèce, 3 voll., Paris 1881-1884; A travers l’Apulie et al Lucanie, 2 voll., ibid. 1883).
Ma la ricerca sulla grecità d’Italia era passata anch’essa attraverso fasi diverse, e chiaramente distinguibili tra loro.
C’è da riconoscere certo che le scoperte archeologiche di Paestum e l’avvio degli scavi regolari di Ercolano e di Pompei (1738-1748) aprono, come abbiamo detto già prima, quel nuovo capitolo dello studio dell’antichità che matura nell’età contemporanea.
E’ anche vero però che, sul terreno squisitamente storico, gli scritti del 18. secolo sui resti greci dell’Italia meridionale e della Sicilia sono ancora parte della letteratura di viaggi e che quelli della prima metà dell’Ottocento (la seconda fase della nostra ripartizione) ne sono ancora ampiamente la continuazione, anche se aggiornata, sistematica e gradualmente migliorata.
Così è della Histoire critique de l’établissement des colonies greques di Raoul Rochette (1815), mentre l’opera di circa trent’anni successiva di Brunet de Presle sulla Sicilia (Recherches sur les étabilessements grecs en Sicile, 1845) riflette fedelmente il quadro della storiografia antica.
Lenormant, Holm, Freeman costituiscono quindi una tappa ulteriore, meglio corrispondente alle nuove esigenze critiche poste dall’età positivista, che per la Sicilia antica e la Manga Grecia erano tanto più valide, quanto più si doveva rispondere all’obbligo di confrontare e coordinare i dati della tradizione letteraria con quelli archeologici e numismatici.
In questo campo lo spirito di esplorazione è stato sempre decisivo (si trattava di scoprire vestigia greche all’interno o al di sotto di un contesto diverso): e l’opera di Paolo Orsi in Sicilia (dove l’archeologo trentino continuava l’opera di J. Schubring, di A. Salinas, di F. Cavallari), come in Italia meridionale, rappresenta forse il momento decisivo del progressivo passaggio dall’età dei viaggiatori a quella degli esploratori escavatori di resti archeologici.
Non va d’altronde dimenticata l’opera alacre ed eruditissima, anche se talora audacemente ipercritica, dell’italiano E. Pais (a cominciare dalla Storia della Sicilia e della Magna Grecia 1., Torpno 1894) e lo studio in un certo senso pionieristico, nello sforzo di sistemazione dei dati storici, geografici e demografici, di K. J. Beloch, Campanien, Berlin 1879 (2a ed., 1890).
10. Abbiamo dunque individuato e rapidamente percorso, all’interno della ricerca moderna e contemporanea sul mondo greco, tre grandi periodi: quello che va dal 1725 ca. alla fine del 18. secolo; quello che dai primi dell’Ottocento giunge al 1870 ca.; quello compreso tra questa data e gli anni 1914-18.
Fin qui abbiamo solo tracciato un rapido disegno di storia degli studi.
Il resto è bibliografia.
Ed è anche l’ultima fase della storia della ricerca, quella a cui noi stessi apparteniamo.
Darne qui conto non avrebbe senso; essa avrà posto, per quanto possibile, nelle note a piè di pagine, ma soprattutto nelle note integrative e Bibliografia che chiudono i singoli capitoli.
Quest’ultima fase è comunque caratterizzata, già a una prima considerazione, dai seguenti tratti.
1) Il moltiplicarsi e l’infittirsi delle ricerche particolari
2) Il massiccio apporto dei più diversi paesi alla storia degli studi, come chiaro riflesso di quella profonda interazione fra le culture di ogni continente, che gli eventi della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale hanno decisamente accelerato.
3) Il declino dell’egemonia di un particolare metodo d’indagine, quello positivista-ipercritico, che naturalmente non cessa ancora di esercitare la sua influenza e di permeare gli studi, ma che è ormai affiancato e talora contrastato da prospettive ed esigenze diverse, consistenti soprattutto in una maggiore attenzione ai processi di formazione delle tradizioni orale e scritta, e ai modi della loro conservazione, quando non sono sollecitate da un richiamo di puro e semplice buon senso ai dati di fondo della tradizione: un processo che, avviatosi nel clima della feconda deregulation metodologica del primo dopoguerra, si rafforza ulteriormente nel secondo dopoguerra, dal 1945 in poi.
4) L’emergere – o piuttosto semplicemente il riemergere con nuovi metodi, nuove prospettive e una sensibilità storica diversa – di tematiche sociologiche, che furono in larga parte studiate già in passato, e in modo particolare negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento.
Esse vanno dagli studi sulla famiglia e sulla condizione femminile (quest’ultima oggetto di particolarissima attenzione negli ultimi anni) a quelli sulle condizioni fondamentali dell’uomo in genere: la guerra e la pace, e l’elaborazione degli strumenti di mediazione e di risoluzione dei conflitti, in generale della diplomazia; i temi della terra, vista sia come base economica (anche in rapporto ad attività produttive diverse), sia come ‘ambiente’ distinto da quello urbano e con esso però strettamente raccordato; si esaminano i problemi dell’alimentazione e della fame in connessione con quelli demografici (i calcoli della popolazione sono perciò messi in sempre più stretto rapporto con quelli sulle risorse).
I problemi del territorio sono considerati non solo sotto l’aspetto geografico, militare, economico, ma anche sotto quello ideologico (in questo quadro un’attenzione sempre maggiore va al ruolo e al significato di confine); gli aspetti politici sono studiati non solo sotto l’aspetto istituzionale, ma anche dal punto di vista della partecipazione, della formazione dell’opinione pubblica, della mentalità.
E’ insomma tenuta presente, da qualunque parte si affrontino i temi che un tempo si raccoglievano sotto la definizione comune di ‘antichità’ (private, pubbliche, religiose, ecc.), la condizione complessiva dell’uomo nella società: il progresso degli studi non è nello scoprire questa o quella prospettiva ‘antiquaria’, ma nell’esplorare ciascuna prospettiva alle altre, nel far posto a una visione antropologica.
E il grecista può solo constatare quanto sia all’opera, pur nella diversità delle condizioni storiche, quella nozione complessiva, che è al fondo dei grandi trattati greci sulla polis: come e soprattutto la Politica aristotelica, che persegue l’uomo nelle varie strutture in cui viene a trovarsi, l’oikos, la kome, la polis (casa, villaggio, città), il territorio, con tutte le funzioni ed espressioni culturali pertinenti.
Nella bibliografia relativa a questa introduzione diamo un semplice saggio della moderna, e soprattutto della più recente, letteratura scientifica su tali argomenti, riservandoci di distribuire funzionalmente un’ampia parte degli altri studi sotto i capitoli pertinenti.
Al confronto con questi temi, si avverte un minore interesse a problemi più strettamente filologici, tanto eleganti quanto di difficile soluzione e spesso circoscritti nell’ambito di una ipotesi cronologica o di una problematica genealogia culturale, che la critica delle fonti (Quellenkunde) ambirebbe ricostruire nei minimi, e purtroppo irrecuperabili, dettagli.
5) Il progressivo affermarsi, divenuto macroscopico negli ultimissimi decenni, di esigenze interdisciplinari, che storicamente significano ina ridiscussione dei ruoli e rapporti delle Hilfswissenschaften di un tempo, e che possono essere soddisfatte al meglio dall’impostazione di problemi comuni, a cui le risposte possono però solo provenire, se vogliono essere scientifiche, da una solida specializzazione: questioni comuni, dunque, e risposte specializzate e competenti.
I compiti di un’esposizione storica, in genere, di fronte a un tale incremento di esigenze, di ordine quantitativo e qualitativo, sono dunque diventati gravosissimi: figurarsi poi quelli di un’esposizione che voglia o debba limitarsi a uan sintesi.
E’ mia convinzione che, al di là dello stesso sforzo di fornire informazioni attinenti a prospettive, esigenze, discipline diverse, un ruolo fondamentale resti assegnato al linguaggio, cioè a un modello espositivo che medii tra le diverse prospettive ed esigenze.
Il presente lavoro vuol essere un contributo, certo tutt’altro che privo di limiti e difetti, in questa direzione.
Pur nella impossibilità di dar minuzioso conto della storia degli studi in quest’ultima fase, che ci coinvolge, non vorremmo sottrarci, anche per essa, al compito di indicare almeno alcune delle grandi opere apparse nel periodo, che ben rispecchiano le nuove caratteristiche ed esigenze, e che costituiscono testi classici da tenere presenti e consultare.
Uan fondamentale opera a più mani è la britannica Cambridge Ancient History, apparsa nella 1a edizione tra il 1924 e il 1939, e che nei volumi della 2a edizione tuttora in corso propone il modello di un’opera collettiva, estesa per giunta a una più ampia collaborazione internazionale.
La pluralità dei punti di vista, insieme con la ricchezza dell’informazione, è un’esigenza dei nostri tempi; accanto a cui, comunque, è naturale persista la tradizione dell’opera di un solo autore, nella quale si mette in luce e si sperimenta un’altra qualità, quella della coerenza e responsabilità nella rappresentazione complessiva della storia di un popolo: le nuove esigenze poste dalla cultura contemporanea non elidono dunque quelle più tradizionali, ma possono e debbono trovare con queste ultime un’opportuna combinazione.
Per la sua vastità, per la grande dottrina che impegna, per l’accorta comparazione di testi letterari ed epigrafici e di documentazione archeologica e numismatica e l’attenzione (certo suscettibile di più ampi sviluppi) all’incontro tra civiltà greca e civiltà orientale, merita sempre di essere ricordata la Social and Economic History of the Hellenistic World di Michael I. Rostovtzeff, 3 voll., Oxford 1941 (tra. It., Firenze 1966-1980), posteriore all’analoga opera dedicata all’Impero romano (1927, ed. ital. 1933); essa esprime ad alto livello l’esigenza di una storia come ricostruzione integrale della società e delle sue condizioni materiali, attraverso le vicende politiche e le varie espressioni culturali corrispondenti.
Naturalmente la valutazione scientifica dell’opera di questo grande autore non potrà prescindere dal suo inquadramento nella storia del dibattito sulle forme e sul livello dell’economia del mondo antico, e specificamente di quello greco, dibattito di cui si è dato più volte conto nella storia degli studi, e a cui io stesso ho dedicato alcune considerazioni altrove.
In questo quadro, Rostovtzeff può figurare come il portatore di una posizione ‘modernistica’ (in ciò erede delle posizioni di un Eduard Meyer o di un Beloch), attestato quindi su posizioni totalmente diverse da quelle, spesso definite ‘primitivistiche’, di Karl Bücher, Max Weber, Johannes Hasebroek, espresse tra la fine dell’Ottocento e il terzo decennio del Novecento (per non parlare della bibliografia successiva).
L’opera del Rostovtzeff andava citata perché resta comunque, per il mondo ellenistico, una summa di dati e di osservazioni, che non ha ancora veri confronti e alternative, e che conserva la sua validità di stimolo e orientamento al di là di occasionali carenze filologiche o debolezze teoriche, ripetizioni o persino contraddizioni, che sia dato riscontrarvi.
Ci piace concludere con l’opera sulla storia greca che, nel panorama degli studi italiani, ha occupato e continua ad occupare un posto centrale: la Storia dei greci di Gaetano de Sanctis (2 voll., Firenze 1939), che va dalle origini alla morte di Socrate (399 a. C.): un’opera di alto livello culturale, oltre che di ampio respiro, che già nel titolo suscita la coscienza di un problema fondamentale, la molteplicità dei soggetti storici che operano contemporaneamente in ciascuno dei momenti della storia del popolo greco, un problema che naturalmente non ha solo una rilevanza di carattere espositivo, ma attiene, come abbiamo già detto, alle stesse radici costitutive dell’esperienza politica di questo popolo.
L’opera di De Sanctis è volta a coprire il più ampio ventaglio delle espressioni storiche dei greci; ed è stato già da altri sottolineato il ruolo che nell’esposizione assumono, accanto ai dati della storia politica, quelli della storia della cultura e della civiltà greca, perciò così la letteratura come il pensiero religioso e filosofico, come gli aspetti delle condizioni materiali.
Vi si avverte l’influenza del rigoroso e concreto metodo positivistico di Beloch, ma spicca la presenza di altre esigenze, di ordine etico-spiritualistico, che corrispondono alla formazione e all’itinerario intellettuale dell’autore e che dell’opera costituiscono nota costante.
Bibliografia
Opere di carattere generale
Studi minori di storia antica / L. Pareti. – 3 voll.
Trattato di storia greca / G. Giannelli. – 1983
Greci e persiani / H. Bengston. – 1967
Storia greca / M. Sordi. – 1971
Storia politica del mondo greco / M. Sordi. – 1982
Il mondo greco dall’età arcaica ad Alessandro / M. Sordi. – 2004
I greci: storia, cultura, società / a cura di S. Settis. – 1996
Introduzione alla storia greca / D. Musti. – Laterza, 2003
Manuale di storia greca / C. Bearzot. – Il Mulino, 2005
Guida allo studio della storia greca / L. Bracesi. – Laterza, 2005
Le basi documentarie della storia antica / M. Crawford…et al. – Il Mulino, 1984
Guida alla storia greca / A. Magnelli. – 2002
Fonti e scienze in più stretto rapporto con la storia
Studi di storia della storiografia greca / G. De Sanctis. – 1951
Contributi alla storia degli studi classici / A. Momigliano. – 1951
Storia e biografia nel pensiero antico / B. Gentili, G. Cerri. – 1975
Società antica: antologia di storici greci / D. Musti. – Laterza, 1973
I greci hanno creduto ai loro miti? / P. Veyne. – Il Mulino, 1984
Storiografia locale e storiografia universale: forme di acquisizione del sapere storico nella cultura antica. – 2001
Le ragioni della storiografia in Grecia e a Roma / M. Pani. – 2001
I greci senza miracolo / L. Gernet. – 1986
Manuali e tematiche generali di storia delle religioni e istituzioni culturali
La religione greca / U. Bianchi. – 1975
Mito e rituale in Grecia / W. Burkert. – Laterza, 1987
I greci / W. Burkert. – 1984
Forme di religiosità e tradizioni sapienziali in Magna Grecia / a cura di A. C. Cassio…et al. – 1995
Sulla filosofia
Paideia / W. Jaeger – 1953-59
L’uomo greco / M. Pohlenz. – 1962
La tragedia greca / M. Pohlenz. – 1961
Istituzioni, economia, società, vita pubblica e privata
La città greca / G. Glotz. – 1974
Lo Stato dei greci / V. Ehrenberg. – 1967
Guerra e società nel mondo antico / Y. Garlan. – Il Mulino, 1985
L’equilibrio internazionale dagli antichi ai moderni / a cura di C. Bearzot…et al. – 2005
Frontiera e confini nella Grecia antica / G. Daverio Rocchi. – 1988
L’economia in Grecia / D. Musti. – Laterza, 1981
Il mercante dall’Antichità al Medioevo / A. Giardina…et al. – Laterza, 1994
Mercanti e politica nel mondo antico / a cura di C. Zaccagnini. – 2000
Gli schiavi nella Grecia antica / Y. Garlan. – 1984
La donna greca nell’antichità / U. E. Paoli. – 1953
Donne in Atene e Roma / S. B. Pomeroy. – 1978
L’ambiguo malanno: condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana / E. Cantarella. – 1981
La donna nella società della Grecia antica / I. Savalli. – Il Mulino, 1983
Le donne in Grecia / G. Arrigoni. – Laterza, 1985
L’amorei n Grecia / a cura di C. Calame. – Laterza, 1986
Sports e giochi nella Grecia antica / E. N. Gardiner
Guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica / A. Brelich. – 1961
Lo sport nella Grecia antica / R. Patrucco. – 1972
Lo sport in Grecia / a cura di P. Angeli. – Laterza, 1988
Cap. 1. Preistoria e protostoria greca: civiltà micenea. Alto arcaismo
La polis è veramente da considerare come il punto di intersezione storica tra la società e la cultura palaziale e le società e culture di tipo tribale (quanto a organizzazione) e territoriale (quanto a dimensione e forma dell’insediamento).
Pag. 73
Più che di origine della polis, bisognerà parlare di origini delle poleis, che si formano nei secoli immediatamente posteriori all’età micenea (11. -9. secolo) da diverse situazioni, con diversi precedenti e differenti caratteristiche.
Quel che nasce nell’ottavo secolo non è dunque la polis, ma soltanto la forma comune delle poleis; è allora che i diversi rivoli di esperienze cittadine, formatisi e presenti nei secc. 11./10. E fino all’inizio dell’8., confluiscono in un fiume che è la polis tipica, cioè essenzialmente la città aristocratica.
Le diversità permangono certo, e così le diverse individualità cittadine, ma ormai all’interno di un quadro di riferimento comune, che è appunto quello dell’aristocrazia fondamentalmente oplitico-contadina.
Successivamente, col periodo delle tirannidi prima, e poi con gli sviluppi del tardo arcaismo, cioè del 6. secolo, si vanno rideterminando differenze e ricostituendo nuovi rivoli dell’alveo comune, fino a sboccare nel 5. secolo in quella tendenziale dicotomia che si identifica rispettivamente nella forma oligarchica e in quella democratica (complessivamente dunque un grandioso sviluppo a forbice).
La polis nasce dunque come risultato di un lungo e variegato processo, come sviluppo di una forma comune di polis, tra le diverse evoluzioni da ammettere delle più diverse e spontanee comunità nate dalla crisi e dopo la crisi dei palazzi micenei.
Le origini della polis sono perciò molto semplici, in perfetta corrispondenza con il carattere modesto, nient’affatto pretenzioso del significato della parola, che, se ricollegabile, come credo di poter mostrare altrove, alla radice del verbo “pelomai” (“esserci”), indica niente di più che un “sito”: un sito, beninteso, che meriti di essere notato, designato, segnalato come tale; un sito significativo, per lo spazio che occupa e per il numero di persone che vi sono insediate.
Dall’atomismo delle singole poleis si passa quindi alla koiné della civiltà della polis come seconda fase.
Ma, come terza fase – che in parte riprende e sviluppa distinzioni etniche e tribali originarie, in parte comporta una rigorosa organizzazione dei rispettivi territori, quindi la nascita di realtà regionali – si ha una regionalizzazione, che investì il 7. e soprattutto il 6. secolo, trovando riscontri concreti nella nascita delle anfizionie e di leghe tra popoli e città circonvicini, ma anche nelle guerre interregionali, che via via (tra 6. e 5. secolo) si colorano di tinte politiche diverse e di connesse alleanze con le due città egemoni, Sparta e Atene.
Questo spiega le antitesi tra eubeesi e ateniesi, tra Laconia e Argolide, come tra beoti e tessali, e così via di seguito; si crea un’unità culturale e politica nell’ambito ionico intorno ad Atene, nell’ambito dorico intorno a Sparta.
Pag. 77-78
E’ probabile che si debba riconoscere che l’archeologia è in grado di cogliere movimenti e mutamenti diversi da quelli che coglie la tradizione storica.
La storia coglie il movimento dei soggetti storici; questi movimenti si compiono attraverso eventi che riguardano individui, popoli, Stati, che la memoria storica è in grado di cogliere, fermare nelle sue maglie, trasferire ai posteri.
L’archeologia coglie trasformazioni interne, movimenti che hanno una vischiosità che non permette di vedere cesure e passaggi netti, quali sono segnati dagli eventi; coglie l’incessante trasformazione degli oggetti e degli stili, che è insieme e nello stesso punto conservazione e trasformazione.
Raramente il tasso di trasformazione contenuto in uno di questi momenti studiati dall’archeologia è talmente alto da corrispondere alla cesura rappresentata da un evento.
Apparentemente, essa documenta solo la persistenza degli insediamenti, la continuità dei siti: ma è chiaro che già la posizione geografica, la favorevole collocazione rispetto al territorio e alle vie di comunicazione destina un sito ad un’occupazione ininterrotta, ad una sua qualche forma di continuità, all’interno della quale restano tutte contenute le trasformazioni.
Archeologia e storia parlano perciò spesso di movimenti e mutamenti diversi: di un movimento oggettuale (o oggettivo) la prima, di soggetti la seconda.
La prima coglie la lunga durata; la seconda la scansione in eventi.
Il movimento dei soggetti storici per lo più non è tale da poter essere fermato e fissato dalle maglie dell’archeologia, troppo lunghe per afferrare i mutamenti dei soggetti medesimi.
Pag. 78
A questo proposito e ad evitare di porre male il problema sin dall’inizio, occorre muovere da alcune considerazioni preliminari.
1) E’ innegabile la presenza di resti micenei, almeno nelle regioni centrali e meridionali di quella che, storicamente, sarà la zona grecizzata dell’Asia minore occodentale.
2) In parte queste presenze possono riflettere la maturale circolazione di uomini, prodotti, merci, che nell’Egeo c’è sempre stata, e che nella seconda metà del 2. millennio a. C. conosce, oltre alla direzione est-ovest del movimento, anche quella in senso inverso: è un fatto di civiltà e di economia collegato con la geografia dell’Egeo (un fatto, potremmo dire in termini braudeliani, di lunga durata): come si conoscono presenze micenee, così non mancano neanche quelle minoiche.
3) Al 1044 a. C. la tradizione eratostenica riconduce la migrazione ionica.
E’ la serie delle fondazioni cittadine ioniche che viene datata dopo la migrazione dorica, e perciò anche dopo la fine dei regni micenei: e questa è (anche nel senso sopra detto) una cesura storica importante.
Parlare o no di insediamenti micenei a Colofone o sul sito di altre città della Ionia non è né un problema squisitamente archeologico né una delle risposte possibili al problema della credibilità o meno delle tradizioni sull’espansione micenea.
Il problema è di molto maggiori dimensioni ed è strettamente connesso con quello delle origini della polis, del quale costituisce anzi una faccia significativa.
E’ concepibile che dalle società micenee in fermento e in declino, in virtù di iniziative per lo più non guidate dal centro, ma pur sempre come espressione di quel fermento e di quella crisi, si distacchino individui o gruppi, sollecitati dalle motivazioni sopra indicate per l’espansione micenea.
Pag. 79
L’espansione greca nel Mediterraneo si presenta dunque, fin dall’inizio, come un fenomeno complesso, non solo per la sua estensione in uno spazio geografico molto ampio, ma anche, e soprattutto, per la sua gradualità e il suo scandirsi in fasi diverse, collocabili lungo quasi tutta la parabola della storia greca.
Tra il periodo miceneo e quello ellenistico, si può dire infatti che si succedano almeno quattro fasi espansionistiche particolarmente rilevanti, fasi a cui corrispondono altrettanti periodi di attivismo e creatività, che lasciano traccia nell’arte, nell’edilizia, nelle forme religiose e cultuali, nelle forme di insediamento, nelle forme di organizzazione delle comunità, nella letteratura, nella psicologia.
Un primo periodo è, come si è detto, quello delle frequentazioni micenee in aree diverse dalla penisola greca (alla dine del 2. millennio a. C.; un secondo periodo è quello della colonizzazione di epoca arcaica, tra 8. e 7. /6. secolo a. C., con la fondazione di vere e proprie città-figlie in tutto il Mediterraneo, in particolare in quello occidentale; un terzo periodo è quello dell’espansione greca di carattere egemonico (o imperialistico), particolarmente visibile nel 4. secolo; un quarto, e ultimo, periodo è quello dell’espansione e colonizzazione greca nell’Oriente persiano, a seguito della conquista di Alessandro Magno.
In queste fasi si accompagnano all’espansione momenti creativi di ottimismo, che incidono sul tradizionale pessimismo greco.
Pag. 82-83
I poemi omerici in realtà non possono non proiettare sull’epoca della guerra troiana gran parte dell’esperienza storica dell’alto arcaismo greco.
La proiezione si ricongiunge però in parte idealmente con le condizioni reali della monarchia di età micenea.
Ed è bene che del problema della monarchia omerica si mettano subito in luce due versanti: quello della rappresentazione poetica, quello della realtà della monarchia dell’alto arcaismo.
Pag. 83
Noi proporremmo perciò una definizione di ‘alto arcaismo’ per il periodo che va dalla fine dell’11. secolo al 730 circa; di ‘medio arcaismo’ per quel periodo (730-580 circa), che è oggi convenzionalmente indicato come ‘alto arcaismo’; e di ‘tardo arcaismo’, comunque, nell’accezione corrente (fondamentalmente, il 6. e gli inizi del 5.).
Poiché però non si può pretendere(e forse non è neanche opportuno farlo, dal punto di vista bibliografico) di cambiare di colpo le terminologie (che rispecchiano d’altra parte delle convinzioni, quelle, in particolare, di coloro che considerano fondamentalmente i secc. 10.- fino a metà dell’8. come uan sorta di deserto storico), renderemo di volta in volta chiaro, nel corso dell’esposizione, che cosa intendiamo per ‘alto arcaismo’; e, quando ci riferiremo all’uso convenzionale, lo dichiareremo esplicitamente, o faremo ricorso alla definizione di ‘cosiddetto’.
L’autore non è comunque isolato nell’accezione ampia di ‘arcaismo’, che qui difende (con la tipica tripartizione, fatta in omaggio alle consuete periodizzazioni archeologiche e storiche).
Pag. 84
Tre premesse sono da fare.
1) La filologia micenea più avveduta ha ormai mostrato chiaramente la modestia e la genericità del termine basileus (qa-si-re-u) , che vuol dire ‘capo’; è naturale perciò che non si possa ridurre ad unum la problematica della basileia greca: identità di titolo non significa identità di ruolo e di forma.
2) Occorre ben distinguere tra carica annuale (o detenuta per un periodo limitato); nel secondo caso, il basileus non identifica un regime monarchico, ma aristocratico-repubblicano.
3) Occorre distinguere tra basileis in contesti etnici e basileis cittadini
Pag. 85
I moderni vedono i processi antichi con occhi moderni: non possono concepire i poteri arcaici se non come assoluti, e i poteri assoluti se non concentrati nelle mani di uno solo; le altre situazioni appaiono transitorie o come un assurdo logico.
Ma il vero problema è quello di chiarire la natura della comunità politica greca, come emersa nell’alto arcaismo: essa è fondamentalmente aristocratica.
Nelle posizioni recenti, in principio richiamate, c’è di giusto il disagio ad ammettere un periodo monarchico nettamente separato dal periodo aristocratico; la polis nasce invece già aristocratica, benché all’origine si tratti di un’aristocrazia organizzata intorno a una leadership. Che si fa valere per vantate origini divine, e che ottiene prerogative (ghéra) riconosciute, in fatto di proprietà terriera, dell’esercizio di funzioni sacrali o anche militari, di rappresentatività della comunità politica, in un quadro sociale ed economico di forte omogeneità.
Progressivamente l’aristocrazia si libera anche da questo bisogno di leadership, e ciò avviene proprio nel momento in cui la società nel suo insieme è più stratificata e l’intero strato aristocratico vuole esercitare il potere politico.
Ora, è del tutto plausibile che a Sparta la diarchia corrisponda esattamente alla funzione che la tradizione le attribuisce: garantire un equilibrio di leadership, tenere in scacco eventuali propensioni ad un eccessivo accentramento di potere, realizzare anche nella regalità la ‘parità’ degli homoioi.
Non sarebbe l’unica peculiarità della costituzione spartana, così accortamente costruita.
Pag. 86-87
L’assetto di età arcaica, dal punto di vista politico, economico, territoriale, richiama, pur con qualche differenza, la Laconia.
Le differenze sono nell’essenza di un centro cittadino rigorosamente egemone (Larissa sembra aver avuto, forse dopo prodromi da attribuire alla Tessaliotide, una funzione certo di guida, ma non equiparabile a quella di Sparta), e nella lentezza dello sviluppo urbano; la posizione dei perieci, già per la conformazione del territorio e la relativa libertà che conferisce loro la struttura montuosa dei distretti che abitano, è di maggiore autonomia complessiva, e di conservazione di una propria identità etnica.
Inoltre è da considerare che i tessali, se davvero erano dori, non riuscirono però a imporre il loro dialetto, che in età storica in Tessaglia, è l’eolico; segno, se ci fu immigrazione, del fatto che la popolazione preesistente rimase sul luogo in quantità cospicua.
Pag. 96
Qualcosa di più sappiamo, o crediamo di sapere, a proposito di regioni coinvolte nei processi di riassetto del popolamento e dell’insediamento, come, in primo luogo, è delle regioni non doriche del Peloponneso.
L’Elide deve aver conosciuto forme di organizzazione territoriale, che non vanno al di là di una rudimentale sintassi: non si può parlare di nascita di veri centri urbani; esistono forme di dispersione e perciò di autonomia dei centri della campagna; questa stessa immaturità del processo di formazione della città lascia in compenso spazio per lo sviluppo di aree sacre di largo (e presto panellenico) richiamo, come quella di Olimpia.
In Arcadia si conserva a lungo, fino almeno all’ottavo secolo, la forma basilica: anche qui, come per la Tessaglia, è da chiedersi se la funzione del basileus non sia espressione di una struttura latamente federativa, una funzione che diventa attiva soprattutto in caso di guerra.
Pag. 100
Il rapporto tra monarchia e aristocrazia è stato visto come un processo evolutivo o come un rapporto strutturale-organico: la basileia è un momento della storia dell’aristocrazia, la quale passa appunto da una forma a vertice monarchico ad una a vertice espanso, oligarchico.
Il vero passaggio è dunque da una monarchia palaziale, di epoca micenea, alle strutture aristocratiche di epoca alto-arcaica.
Pag. 102
Quello che l’età delle città greche porta con sé è forse il completamento del pantheon, e assai probabilmente uan sistemazione dei rapporti interpersonali fra le divinità, una crescita perciò dei miti, uan nuova definizione della gerarchia, con assunzione del primato da parte di Zeus e della divinità femminile più autonomamente collegata con l’idea di sovranità (già per la funzione avuta nel mondo miceneo), cioè Atena: sono all’opera la patrilinearità, sorretta dalle affermantisi istituzioni tribali, e la sovranità della dea del palazzo.
Più specificamente, al dodekatheon si arriva attraverso l’incontro, la sommatoria e la definizione dei diversi culti cittadini, in ciascuno dei quali diversa è la prevalenza dell’uno o dell’altro dio (questo attestano del resto i miti di contese fra gli dèi per il possesso di una determinata regione).
Anche nella storia religiosa, dunque, tra miceneo ed alto arcaismo v’è continuità ma anche innovazione, soprattutto sul terreno dei rapporti interni al sistema, e si verifica il passaggio da molteplici e distinte esperienze, con lunghissime radici, ad una forma communis che si definisce fra 8. e 6. secolo.
Pag. 118-19
Oggi, con il progresso degli studi fenicio-punici, il quadro dell’espansione fenicia e della connessa espansione cipriota, si va facendo di nuovo più documentato e più fitto.
Non si pongono più inutili e improbabili questioni di priorità assoluta di questo o quell’éthnos nell’esplorazione e frequentazione del Mediterraneo.
Non c’è posto né per un ‘impero’ fenicio né per un ‘impero’ miceneo, per l’improbabilità di un simile quadro di predominio in relazione al tipo di attività dei diversi popoli nell’ambito del Mediterraneo, attività che appartengono al livello della lunga durata, della ininterrotta, quasi routinière ‘conversazione’ tra le diverse rive di questo mare, dove sia i popoli dell’area siro-palestinese e sudanatolica, sia i greci hanno avuto un ruolo imponente.
Pare rilevante il fatto che in età arcaica, la prima colonia greca d’Occidente, Pitecussa (ca. 770), presenti tracce epigrafiche di presenza fenicie, e tipiche caratteristiche geografiche (isole adiacenti al continente) e ‘strategiche’, dal punto di vista commerciale, come relais per il rifornimento di metalli, preziosi e non (oro, forse dalla Spagna, ferro dall’Elba), e una successiva lavorazione nel sito della ‘colonia’.
Pag. 119-20
Bibliografia
La civiltà egea / G. Glotz. – 1962
L’antica civiltà cretese / R. W. Hutchinson. – 1976
Il palazzo minoico di Festo / L. Pernier. – 1935
I micenei / W. Taylour. – 1964
Minoici e micenei / L. Palmer. – 1965
La civiltà micenea nei documenti contemporanei / L. A. Stella. – 1965
Il modo di produzione asiatico / G. Sofri. – 1969
La società micenea / M. Marazzi. – 1978
I tesori di Troia / H. Schliemann. – 1995
L’alba della civiltà: società, economia e pensiero nel vicino oriente antico / a cura di S. Moscati. – 1976
L’Italia alle soglie della storia / R. Peroni. – Laterza, 1996
La civiltà mediterranea dalle origini della storia all’avvento dell’ellenismo / S. Moscati. – 1980
Storia degli italiani dalle origini all’età di Augusto / S. Moscati. – 1999
Civiltà del mare: i fondamenti della storia mediterranea / S. Moscati. – 2001
Polis: un modello per la cultura europea / G. Cambiano. – Laterza, 2000
Il mondo dei fenici / S. Moscati. – 1966
Il mondo punico / S. Moscati. – 1980
Le origini dei greci: dori e mondo egeo / a cura di D. Musti. – Laterza, 1985
Il mondo di Odisseo / M. I. Finley. – Laterza, 1978
Il capitalismo nel mondo antico / G. Salvioli. – Laterza, 1985
Il Commonwealth greco / A. Zimmern. – 1967
Traffici e mercati negli antichi imperi / K. Polanyi…et al. – 1979
Storia economica del mondo antico / F. M. Heichelheim. – 1972
Economie e società nella Grecia antica / M. Austin…et al. – 1982
Economia degli antichi e dei moderni / M. I. Finley. – Laterza, 1974
L’anatomia della scimmia: la formazione economica della società prima del capitale / A. Carandini. – 1979
Saggi antropologici sulla Grecia antica / S. C. Humphreys. – Il Mulino, 1979
Poemi omerici ed economia antica / A. Fanfani. – 1960
Società romana e produzione schiavistica / a cura di A. Giardina…et al. – Laterza, 1981
Gli schiavi nella Grecia antica: dal mondo miceneo all’ellenismo / Y. Garlan. – 1985
L’economia in Grecia / D. Musti. – Laterza, 1981
La religione greca / U. Bianchi. – 1975
I greci / W. Burkert. – 1984
Cap. 2. La Grecia delle città: legislazioni, colonizzazione, prime tirannidi
Ci sono almeno tre aspetti, sotto i quali sono di solito considerati gli eventi della storia greca tra secolo 8. e 7.: la colonizzazione, che assume particolare rilievo o significato in Occidente, ma si svolge contemporaneamente nel Mediterraneo orientale e lungo le coste del Mar Nero; le grandi figure dei legislatori cittadini (dallo spartano Licurgo a Fidone di Argo all’ateniese Draconte, da Zaleuco di Locri a Caronda di Catania; da Filolao corinzio, attivo a Tebe, a Pittaco di Mitilene); l’avvento di regimi tirannici in molte città greche, dell’istmo peloponnesiaco o dell’Asia Minore.
Colonizzazione, legislatori, tiranni, dunque.
Il concentrare l’attenzione su questi aspetti è in realtà dovuto al fatto che i soggetti in questione (ecisti, saggi autori di leggi, personalità dominatrici) furono oggetto di storia, e perciò fruiscono di un’abbondante tradizione, invero assai spesso tardiva (in particolare quella sui legislatori, che appartengono alla categoria, molto biografata, dei sapienti e dei filosofi).
A guardar bene, non sono soggetti tutti della stessa consistenza storica.
Se il fenomeno coloniale si lascia studiare nelle sue caratteristiche d’insieme (cause, motivazioni, finalità, aree di esplicazione e di sviluppo, sistemi di rapporti creati con la madrepatria e all’interno delle nuove aree acquisite) e altrettanto può dirsi della tirannide (origini, rapporti con la società aristocratica e con le strutture oplitiche, interni sviluppi, significato socioeconomico, aspetti cronologici, qualità diversa a seconda dell'’poca di affermazione, rapporto con la democrazia, là dove questa ne è la pur mediata conseguenza), il raccogliere sotto un solo capitolo tutte le legislazioni appare come una forzatura.
Pag. 137
Lo studio dei legislatori non si presenta dunque come un problema unitario.
Le notizie sulle legislazioni vanno studiate infatti all’interno della storia delle singole città o quanto meno delle singole aree storiche greche.
Tuttavia è possibile considerare le legislazioni in una prospettiva d’insieme sotto due punti di vista d’ordine generale.
Il primo, e fondamentale, è quello che vede nelle legislazioni un momento della storia delle trasformazioni e (in senso lato) della crisi delle aristocrazie greche, una prospettiva nella quale il tema è legittimamente affiancato da quelli della colonizzazione e delle tirannidi.
La colonizzazione è certamente una risposta allo squilibrio determinatosi nel rapporto tra le risorse e i bisogni alla fine dei secoli bui, e rappresenta una risposta che solo in parte esprime una spontanea ribellione, in parte è favorita o addirittura suscitata dalle stesse aristocrazie cittadine.
Al fenomeno migratorio si accompagna certo la diffusione di una più risentita coscienza politica.
Ma lo stesso deve dirsi per le legislazioni e per le stesse tirannidi.
In un certo senso si può dire che i due fenomeni, entrambi espressione di sviluppi politici interni, rappresentino spesso soluzioni alternative fra loro, nell’evoluzione delle aristocrazie greche.
Si tratta, nel primo caso, di forme di adattamento, di autocorrezione o di autocensura dell’aristocrazia al potere, forse anche sollecitate da strati più modesti e inquieti della popolazione.
Nel secondo caso, quello della tirannide, il movimento storico assume forme più traumatiche, ma è all’interno delle strutture oplitiche che l’aristocrazia si è data, e quindi è dal cuore stesso dell’aristocrazia che nascono le tirannidi, naturalmente attraverso una catena di azioni e reazioni, che configurano una presa di coscienza, da parte dell’aristocrazia, della necessità di revisione del campo dei rapporti sociali, che non conduce però a uan vera e propria rivoluzione di questi rapporti.
Pag. 138-39
La diversità di Sparta, non potendo certo essere una diversità razziale originaria degli spartani, sarà da concepire come acquisita storicamente, come risposta a conflitti, che però non hanno snaturato condizioni originarie: queste trovano in Sparta solo una versione peculiare e più rigida.
Pag. 142
In verità, già nel corso dell’ottavo e del settimo secolo, nei conflitti con i messeni e con gli arcadi, gli spartani hanno avuto modo di mettere a frutto la loro struttura, organizzazione e singolare disciplina; già i versi di Tirteo riflettono quel senso di struttura compatta, che è l’ideologia stessa dell’oligarchia militarista spartana.
Ma nell’ottavo e settimo secolo questa rigida organizzazione militare è anche nella sua fase più attiva e, per così dire, vitale: Sparta è in fase di espansione e di conquista.
La città, dove i ruoli cittadini tendono già alla fissità, non partecipa a quelle imprese a quelle imprese coloniali, che costituiscono una prova della mobilità sociale e mentale degli altri greci; l’unica colonia spartana d’Occidente nota alla tradizione più autentica, Taranto, sembra dovere le sue origini a condizioni eccezionali e ad elementi non pienamente legittimati nei diritti cittadini.
Con la conquista, Sparta cerca di risolvere quei problemi di ordine demografico ed economico, che altre città, nello stesso Peloponneso, risolvono, almeno in parte, con la migrazione.
Una Sparta conquistatrice è ancora una Sparta ina scesa e a suo modo vitale, aperta, anche se aggressivamente, all’esterno.
Non c’è assurdità nella compresenza di un Alcmane o di un Terprando, da un lato, e di un Tirteo, dall’altro.
Successivamente, e già nel sesto secolo, la stessa capacità espansionistica di Sparta si va esaurendo; la città diventa l’essenza stessa di una statica conservazione.
E’ allora che essa diventa la gendarme della propria costituzione e della aristocrazie in genere, spesso così diverse da quella spartana.
Ciò nondimeno Sparta è la loro tutrice e garante (anche attraverso lo strumento della Lega peloponnesiaca), e diventa sempre di più il loro modello ideologico, il loro (di fatto, così diverso) ‘dover essere’.
Essa si sente chiamata a una responsabilità di difesa contro tutto il nuovo che turba gli ordinamenti politici e sociali greci: le tirannidi prima, la democrazia ateniese dopo.
Il maturare di tutte queste nuove condizioni, interne ed esterne, fissa ed esalta il ruolo ideologico di Sparta, che si riflette anche al suo interno: di qui la xenofobia e il senso di profonda chiusura, in cui si ibernano valori di un kosmos, che è ragionevole ammettere però costituito già tra ottavo e settimo secolo.
Pag. 146-47
Una regione, l’Attica, in cui l’avvento della tirannide non era facile.
Lo dimostrano sia il fatto che Atene non conobbe una tirannide (ma solo un complotto per instaurarla) nel settimo secolo, sia il fatto che l’ascesa dello stesso Pisistrato alla tirannide fu laboriosissima e passò attraverso una successione di fallimenti a catena.
Attraverso processi assolutamente peculiari, si determina così in Atene una temperie politica particolarissima: benché sempre prematuro parlare di avvento dello Stato all’epoca di Solone, è certo che qui il ruolo del valore del pubblico si va preparando attraverso uan lunga gestazione, a cui appartengono anche processi e atteggiamenti di ordine negativo, a cui appartengono anche processi e atteggiamenti di ordine negativo, come la ricerca costante di un bilanciamento dei poteri.
Pag. 152-53
Nel quadro degli assetti territoriali e delle ripartizioni regionali del mondo greco vanno considerate quelle caratteristiche associazioni, che definiamo come anfizionie.
Le anfizionie sono leghe di popoli o di città costituite intorno ad un santuario.
Bisogna dunque evitare di vedere in esse forme embrionali di unificazione politica, quasi una fase immatura in quel cammino della unificazione nazionale e territoriale, che una concezione ottocentesca voleva imporre al mondo greco come sua finalità mai raggiunta.
Come abbiamo già detto, il mondo delle poleis nasce, si regge e fiorisce sul principio dell’autonomia: chi volesse imporre modelli ottocenteschi alla variegata realtà del mondo greco, ne mortificherebbe la peculiarità, ne stravolgerebbe l’identità storica.
Il tema delle anfizionie si lascia dunque assai bene inquadrare in un capitolo destinato allo studio della formazione della Grecia delle città, perché lo investe comunque, in maniera diretta o indiretta.
Pag. 155
E’ più giusto parlare di passaggio dalle aristocrazie alle tirannidi, che non dall’aristocrazia alla tirannide: a significare che vi furono forme storiche ed esiti storici diversi di tirannidi, a seconda delle diverse situazioni e dei diversi contesti storici.
La diversità dei casi, delle forme, degli sviluppi nulla toglie comunque alla legittimità di una considerazione sotto un profilo unitario delle tirannidi arcaiche, cioè di settimo-sesto secolo.
Si potrà certamente distinguere tra le cosiddette tirannidi ‘istmiche’ (di città più o meno gravitanti intorno all’istmo di Corinto: Corinto stessa, Sicione, Megara), altre, pur esse nella madrepatria greca, come quella di Atene o quella, diversa per l’aspetto cronologico e reale, di Argo; e tirannidi di città ioniche o egee, per noi un po’ più evanescenti, come quelle di Mitilene a Lesbo o di Mileto ed Efeso in Asia.
Una tradizione di scuola vuole che si cominci dai nomi.
Tiranno e tirannide sono parole presenti nel vocabolario greco, già dal settimo secolo: Archiloco, nel settimo secolo, Alceo, tra settimo e sesto, Solone e Teognide nel sesto ne fanno già uso.
Il significato di tyrannos è “signore”; un suo più o meno diretto equivalente in un termine più trasparente alla luce del lessico greco è monarchos, “colui che governa da solo”.
Queste parole indicano un potere personale assoluto, superiore a quello tradizionale dei basileis, soprattutto perché non definito in prerogative (ghéra) concordate dalla comunità e perciò non basato sul consenso; tuttavia molte volte i tiranni mirano ad assimilare il loro potere a quello di un basileus, e parte della tradizione letteraria antica, compresa la storiografia, obiettivamente li asseconda.
Il termine tyrannos porta peraltro già in Alceo una nota di condanna, che raggiungerà il valore più negativo negli scrittori del quarto secolo, che risentono sia positivamente di una ideologia democratica latamente diffusa, sia dell’esperienza negativa di tirannidi del quinto e quarto secolo, in particolare di quelle siceliote.
Pag. 160
Paiono dunque in qualche misura giustificate le posizioni di quegli studiosi che si rifiutano di individuare una causa unica nella nascita delle tirannidi.
Un empirismo di fondo caratterizza significativamente le impostazioni di studiosi così diversi fra loro come Andrewes o un Berve. Andrewes nega giustamente che la genesi delle tirannidi sia da ricondurre a conflitti razziali (benché, nel caso di Sicione, sia documentata la posizione antidorica di un Clistene, una posizione che tuttavia ha anche una più complessa spiegazione).
Per Berve la tirannide, in termini generali, si può ricondurre a spinte individualistiche; e certo questa è una forma di schematico e riduttivo positivismo.
Fortunatamente però la ricchissima analisi di Berve, in quella che ormai è ed è destinata a restare come la base filologica indispensabile per qualunque ricerca sulla tirannide nel mondo greco, smentisce la rappresentazione generalizzante della prefazione e dà pieno conto della ricchezza delle motivazioni politiche e socioeconomiche, che sono all’origine delle tirannidi.
Talora la tirannide è stata posta in un rapporto diretto e immediato con lo sviluppo mercantile o ancor più specificamente con quello dell’economia monetaria.
In realtà si può affermare una stretta connessione della tirannide con lo sviluppo demografico ed economico della Grecia tra ottavo e settimo secolo; esso ha come conseguenza un ampliarsi del campo dei bisogni e dei conflitti sociali, a cui le vecchie strutture aristocratiche non rispondono più.
La tirannide è quindi certamente espressione di movimenti significativi nell’economia e nella società antica e, in quanto tende ad interpretarli e guidarli nelle forme del potere personale (cioè familiare), li sollecita e promuove a sua volta.
Ma non è possibile definire uan volta per tutte uan specifica caratteristica economica della tirannide come tale, e spesso – come è nel punto di vista forse parziale, ma non erroneo, di Aristotele – la sua base sociale è proprio nel comando.
La problematicità dell’equazione tirannide = sviluppo del commercio risulta già dalla considerazione della storia dell’economia di Corinto arcaica.
La dinastia dei Bacchiadi regge Corinto fino alla metà del settimo secolo a. C., quando la ceramica proveniente dalla regione ha conosciuto già circa un secolo di sviluppo (protocorinzio antico e medio: circa 740-650) e ha avuto, non più tardi del 700 a. C. (quindi certamente già in periodo bacchiade), una produzione e diffusione di massa.
L’esatta definizione del rapporto tra aristocrazia bacchiade e artigianato / commercio corinzio è uno die problemi centrali, se non addirittura il problema-tipo e la questione paradigmatica, per la rappresentazione del rapporto tra economia, società e politica nella Grecia arcaica.
Pag. 165-66
Sul piano socio-economico il tiranno tende ad esercitare una funzione propulsiva, diffusa su tutte le attività, nella prospettiva di un equilibrio nuovo, che consenta di dare qualche risposta ai bisogni elementari degli strati più poveri, senza però farli entrare ancora nella sfera del potere, che resta personale e, nonostante tutto, fortemente condizionato dal punto di partenza politico delle tirannidi medesime.
Come sul terreno sociopolitico il tiranno occupa progressivamente il campo mediano dello spazio sociale, così sul terreno economico egli si pone come fattore propulsivo delle più diverse attività produttive, con incremento anche di quelle meno tradizionali, che possono rispondere all’accresciuto e aggravato bisogno economico complessivo, già per il fatto che costituiscono ulteriori fonti di sostentamento.
Il fatto poi che nella tradizione queste attività produttive, proprio perché meno tradizionali, possano essere talora messe in una luce particolare, a scapito di altre, non autorizza lo storico di oggi a stabilire connessioni univoche tra la tirannide e una determinata forma economica.
Ma della qualificazione politica della tirannide può dare una giusta idea, oltre alla considerazione della sua genesi, anche quella dei suoi sbocchi, dei suoi esiti sociopolitici: ci si accorgerà infatti che in molti casi si è operato un indebito trasferimento, verso la fase iniziale di una tirannide, di quelle caratteristiche che essa assume invece solo in una fase avanzata, o addirittura finale, della sua storia, comunque ad opera di un tiranno diverso dal fondatore del regime.
La tirannide non è sempre l’anticamera della democrazia.
Lo è là dove tutto il processo politico è spostato in avanti (e ciò è documentabile ad Atene, assai meno a Megara); questo accade naturalmente nelle epoche più avanzate; ma, anche in questo caso, il passaggio dalla tirannide alla democrazia non è né diretto né indolore, ed è quindi compito dello storico mettere in luce quei sati nuovi che la tirannide comporta e che trovano un loro diverso e compiuto sviluppo nella democrazia: formazione di un potere al di fuori e al di l sopra della semplice somma dei cittadini; sviluppo della fiscalità; elaborazione e articolazione della stessa idea e forma di città.
Tuttavia il verificarsi del fenomeno della tirannide non lascia in nessun caso le cose immutate; anzi, come risultato minimo (che è poi quello più spesso ricorrente), esso produce una aristocrazia moderata, cioè più temperata rispetto a quella precedente della tirannide.
Una via classica è quella dell’allargamento del corpo civico, quale si può ottenere mediante l’ampliamento del numero delle tribù.
Il caso più evidente è quello di Sicione: Clistene (circa 610/600-580/570) alle tre vecchie tribù dell’aristocrazia dorica (apparentemente deformate nei loro nomi) aggiunge una quarta tribù, che si chiamerà, durante la tirannide, degli Archélaoi e più tardi si assesterà su una denominazione Aighialeis, che recupera al tempo stesso il nome originario di Sicione (Aighialeia) e il nome del figlio dell’argivo Adrasto (Aighialeus, Egialeo), eroe caro all’aristocrazia dorica di Sicione, il cui culto Clistene aveva appunto sostituito con quello dell’antagonista tebano Melanippo e del dio Dioniso.
Con tutto ciò, la forma del governo di Sicione, 60 anni dopo la fine di Clistene, era oligarchica.
E tale resta anche la costituzione di Corinto, benché, dopo la fine dei Cipselidi, in base a un passo di Nicolao di Damasco che parla dell’istituzione di 8 probuli e di 9 buleuti (per ciascun probulo, quindi 72?), si sia potuto ammettere che le cifre 8 e (forse) 80 in questione, in quanto multiple di quattro, presuppongono anche a Corinto un ampliamento delle strutture civiche da tre a quattro tribù (con tutto quel che tale ampliamento comporta, di pur limitate modifiche).
Pag. 168-69
La colonizzazione greca di età arcaica presenta caratteri del tutto nuovi rispetto alle frequentazioni di regioni del Mediterraneo orientale di epoca micenea.
E’ la stessa più antica tradizione storiografica a dare una chiara nozione della novità che compete alle fondazioni greche del secolo ottavo e seguenti.
Antioco di Siracusa o non conosce fondazioni micenee o almeno non stabilisce un rapporto di continuità tra le presunte colonie micenee e la storia delle città d’Italia e di Sicilia di cui parla.
Un’anticipazione delle città coloniali all’epoca micenea (per Crotone, come per Metaponto, per Siri o per Taranto) è solo opera della storiografia più tarda: verosimilmente già di Eforo, certamente di Timeo e seguaci.
Lo storico moderno ha il dovere di raccogliere l’invito delle storiografia greca più vicina a fatti e tradizioni di fondazione delle poleis coloniali, a cogliere lo stacco storico che quelle fondazioni rappresentano rispetto al passato, il valore di evento d’ordine politico-militare, che rompe, con la sua forza innovativa, la continuità di un fatto di lunga durata, routinier, quale la conversione ininterrotta (e assai composita) fra le diverse rive del Mediterraneo, che i greci riassumevano sotto la vaga formula dell’emporia (l’andar per mare, comunque probabilmente soprattutto per commerciare): insomma, quel sommesso, secolare scambio di uomini e cose fra le rive del Mediterraneo, che per i greci, come per ogni uomo di buon senso, è appena lo sfondo ovvio di contatti, che non costituiscono di per sé un evento politico né lo sbocco chiaramente individuabile di un processo socioeconomico.
La discussione sulla colonizzazione greca è rimasta a lungo impantanata nella falsa alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento.
Di fronte al fenomeno coloniale converrà porsi diversi ordini di problemi:
1) le condizioni demografiche, socioeconomiche e politiche della madrepatria;
2) il fondamentale atteggiamento psicologico dei greci di fronte al fatto della migrazione;
3) l’articolarsi e il rapportarsi delle diverse esigenze economiche, che sono inevitabilmente compresenti – benché in misura diversa nei diversi contesti – in tutte le colonie, e le nuove situazioni complessive che ne emergono;
4) il costituirsi di autentiche ‘aree di colonizzazione’, specie di entità macroterritoriali, al confronto con questa o quella polis;
5) i rapporti con l’ambiente e con la popolazione locale;
6) i rapporti con la madrepatria
Pag. 179-80
Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il sesto secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale.
Le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri Epizefirii, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate (Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente vergini) nel primo caso, servi unitisi con le loro padrone nel secondo caso.
La presenza di elementi servili è attestata soprattutto nella tradizione più antica.
Nella tradizione locale v’è diversità di comportamento delle due città: l’aristocrazia locrese sembra aver perpetuato la tradizione di una origine ilotica e della nobiltà dei capostipiti femminili delle cento case più nobili; la presenza ilotica nelle origini di Taranto sembra invece complessivamente respinta dalla città.
Pag. 194-95
La teogonia è documento fondamentale dei vari strati di cui si compone l’esperienza religiosa greca: da un mondo di divinità primordiali, viste e colte in un processo di generazione e trasformazione di entità inquietanti ed immani, alla stabilità del regno di Zeus, del nuovo pantheon.
Il divenire di questo mondo divino, la sua storia, risente dell’apporto orientale: è ormai da più di trent’anni un dato acquisito che le genealogie e i miti di successione delle diverse generazioni divine esiodee – da Urano a Crono al dio del cielo Zeus – corrispondano alla perfezione a miti di successione divina (in particolare, mito di Kumarbi) di ambiente hurrico (perciò mesopotamico), come rifluito in testi ittiti e fenici, ed entrati nella cultura dei greci per la mediazione della cultura cretese o, più tardi, attraverso quella micrasiatica e ionica.
Del resto, tradizione orientale e patrimonio culturale greco si fondono anche nella rappresentazione della storia genealogica dell’umanità, nel mito delle cinque età, narrato da Esiodo negli Erga, ai vv. 109-201.
Di queste età la prima, seconda, terza e quinta sono metalliche (oro, argento, bronzo e, al quinto posto, ferro); la quarta è etichettata come età degli eroi.
Nella successione dei metalli è l’apporto orientale; nell’inserimento, giusto tra l’età del bronzo e quella del ferro (in termini archeologici ineccepibili), dell’età degli eroi del ciclo argivo-beotico e del ciclo troiano (cioè della memoria mitica relativa al mondo miceneo), è un peculiare e inconfondibile correttivo greco.
Ma greca è anche la nozione del tempo sottesa (e sovrapposta) al mito delle quattro età metalliche (come conto di mostrare analiticamente altrove); l’età dell’oro è una fase fuori del tempo e della morte, in senso stretto; le altre età metalliche sono una resa quasi parodistica dei tre punti della parabola del tempo greco, cioè del tempo naturalisticamente inteso: l’età d’argento è quella di una abnorme infanzia; quella del bronzo corrisponde alla maturità dell’età virile, come età della guerra (qui vista in una sorta di livida parodia); l’età del ferro, o contemporanea, è quella dei mali e dell’ingiustizia ma anche della precoce vecchiaia.
Idea di declino, insita nel mito originario, e idea naturalistica del tempo concorrono qui a determinare una visione pessimistica, con cui contrasta, nel corso degli stessi Erga, un senso più attivo e positivo del tempo del lavoro, come portatore di benessere e di giustizia.
Nella concezione di Esiodo, all’agricoltura si affianca, come érgon fra gli érga, il commercio: ma è un commercio, nella sua prospettiva, fortemente collegato all’agricoltura, un commercio stagionale, evidentemente inteso allo smercio dei prodotti locali.
E’ ancora assente la moneta.
Ma Esiodo è testimone anche dell’avvento di nuove forme commerciali, quelle di un’emporie che si è resa (o che può sempre più spesso rendersi) autonoma dalle attività agricole, sul piano economico, e dal contesto aristocratico, sul piano sociale.
E’ difficile dire, in queste condizioni, se la sua testimonianza significhi un totale rifiuto e una fondamentale estraneità, di fronte a una società ‘diversa’, che sta nascendo, o se invece essa rappresenti solo una possibilità, in una gamma e in un continuum di possibilità diverse, che costituiscono altrettante forme di combinazione tra la tendenza alla tesaurizzazione e quella allo scambio del surplus e alla circolazione: comunque, la propensione del poeta è chiara.
Egli è testimone di un ‘nuovo’, che non è separato in assoluto dal suo mondo, e insieme di un ‘antico’ destinato, per parte sua, a durare.
Pag. 203-4
Tra nono e settimo secolo ci s’imbatte in una vasta gamma di espressioni artistiche, la cui dislocazione e il cui profilo policentrico danno l’esatta nozione del fiorire di una Grecia delle città, fra cui è compresa Atene, ma in cui Atene non ha ancora quel ruolo trainante che avrà dalla fine del settimo e soprattutto dal sesto secolo in poi.
Per la metallurgia si segnala Argo (e sarà una caratteristica costante, che si presenta come una nota di continuità nella produzione del Peloponneso e più in generale della Grecia occidentale): ne proviene la prima panoplia (fine ottavo secolo) dopo l’età del bronzo.
La scultura, in bronzo o in argilla – che tra l’altro produce ormai figure umane, ancora di piccole dimensioni – dà segni di vitalità già dalla fine del nono secolo.
Ma per la storia delle città (e della grecità in generale) hanno particolare importanza l’architettura templare e l’urbanistica.
I primi templi, come edifici culturali separati da altri edifici e ‘case’ divine compaiono forse nel nono secolo, ma s’individuano meglio per l’ottavo (tempio di Apollo a Termo, in Etolia, e a Drero, a Creta; templi di Era Limenia e Akraia a Perachora; primo tempio di Era a Samo).
L’importanza dell’esperienza peloponnesiaca, o anche, più precisamente, dell’area greco-occidentale, che gravita intorno al golfo di Corinto (dall’Etolia all’Istmo) è particolarmente evidente, non meno della vitalità di Creta e della Ionia.
Pag. 209
Bibliografia
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La nascita del kosmos: studi sulla storia e la società di Sparta / M. Nafissi. – 1991
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Il mito dell’autoctonia: linee di una dinamica mitico-politica ateniese / E. Montanari. – 1981
Il tiranno e il suo pubblico / D. Lanza. – 1977
La Magna Grecia / J. Bérard. – 1963
Strabone e la Magna Grecia: città e popoli dell’Italia antica / D. Musti. – 1988
Colonie greche dell’Occidente antico / E. Lepore. – 1989
Archeologia della Magna Grecia / E. Greco. – Laterza, 1993
Magna Grecia: il quadro storico / D. Musti. – Laterza, 2995
Città e monumenti dei greci d’Occidente: dalla colonizzazione alla crisi di fine quinto secolo a. C. / D. Mertens. – 2006
Magna Grecia: l’Italia meridionale dalle origini leggendarie alla conquista romana / E. M. de Juliis. – Laterza, 1996
I telchini, le sirene: immaginario mediterraneo e letteratura da Omero a Callimaco al romanticismo europeo / D. Musti. – 1999
Greci e italici in Magna Grecia / E. M. de Juliis. – Laterza, 2004
Cap. 3. Sviluppo politici del sesto secolo
L’opera di Solone, arconte nel 594/593, secondo Diogene Laerzio, o nel 592/591, secondo la Costituzione degli ateniesi di Aristotele, porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che abbiamo intravisto nella comunità aristocratica attica del medio arcaismo.
Solone operò infatti sia sul terreno sociale, sia su quello politico-costituzionale; fu riformatore sociale e fu nomoteta, autore di leggi costituzionali, che sostituirono i thesmoi di Draconte.
Complessivamente, egli non appare autore di riforme in grado di stravolgere il vecchio profilo politico ateniese o la realtà socio-economica, cioè l’assetto proprietario, dell’Attica.
E tuttavia è chiaro che sul terreno sociale egli incise con azioni innovative, volte quanto meno a sanare i guasti che nel corso del tempo si erano determinati nel corpo sociale e nell’economia dell’Attica; sul terreno politico-costituzionale l’opera di Solone fu quella di un codificatore, capace di portare ordine nelle vecchie e conservate strutture, e di ammodernare qua e là.
Non fu il creatore della democrazia, anche se la tradizione antica o la riflessione moderna avvertono un filo di sviluppo, tormentato ma continuo, tra l’azione di Solone e il formarsi di gruppi e programmi politici differenziati, con i relativi conflitti, nei decenni successivi, e quindi la tirannide di Pisistrato e dei figli e la democrazia creata dall’alcmeonide Clistene nel 508/507.
Solone avverte acutamente il divario tra la struttura politica, che va conservata anche se perfezionata e resa stabile, e il rapporto sociale, che è diventato conflittuale e drammatico, tra ricchi e poveri, cioè tra i proprietari della terra e i suoi coltivatori.
Questo è il quadro dell’assetto proprietario in Attica, come fornito da Aristotele: e fondamentalmente esso è giusto, purché non ci si fermi alle definizioni formali, ma si tenga conto di tutto ciò che esse contengono, e della testimonianza diretta di Solone che egli ci riporta.
E’ soprattutto in gioco la condizione degli hektémoroi, coloro che lavorano la terra per conto dei ricchi, versando forse come canone 1/6 del prodotto; poiché anche rispetto all’assolvimento di questo obbligo essi risultano spesso morosi, rischiano d’essere venduti schiavi e come tali trasportati fuori dell’Attica.
Pag. 226-27
Dunque è plausibile un quadro come quello che segue.
Con la crisi del potere miceneo si accentua in Attica quella frantumazione della proprietà, che, nelle forme socialmente riconosciute e garantite, non poteva essere altro che proprietà di relativamente grandi dimensioni.
Si viene però a creare un’articolazione collegata alla presenza sulla terra dei suoi diretti coltivatori, che rapidamente ne diventano i possessori di fatto, con obblighi di tipo tributario verso i grandi proprietari (gli unici ad avere, e a potere avere, nelle condizioni dell’epoca, un titolo legale).
Un interprete del quarto secolo (epoca di misthòseis), come Aristotele, trascriveva questa diffusissima forma di proprietà embrionale, proprietà di fatto (ma non per questo meno esposta a rischi per la persona del coltivatore) in un rapporto affittuario: e, in fondo, non sbagliava, salvo per un eccesso di formalizzazione (da parte sua), non meno inadeguata di quella che operano quegli studiosi moderni che ragionano in termini di proprietà di pieno diritto, per possedimenti di minori dimensioni.
Pag. 228-30
In questo quadro si colloca la tirannide di Pisistrato, le cui caratteristiche, le cui vicende, i cui stessi infortunii possono spiegarsi solo alla luce della particolare politica di Atene e di quel mondo di valori comunitari che l’opera di Solone aveva rafforzato, anche se non messo al riparo dai fermenti dell’epoca e dai gravi elementi di crisi che la società attica aveva accumulato al suo interno.
La carriera di Pisistrato rappresenta un’ampia conferma di ciò che abbiamo detto sopra, circa lo stretto rapporto che sussiste tra oplitismo e tirannide; tuttavia andranno aggiunto, a completare il quadro, alcune caratteristiche che riportano per intero l’uomo e la sua vicenda alle peculiari condizioni di Atene.
Pisistrato crebbe infatti in prestigio e potere dopo aver esercitato la carica di polemarco, ed avere, in quella funzione, conseguito importanti successi contro Megara, a cui furono sottratti l’isola di Salamina e lo stesso porto di Nisea, sul golfo Saronico.
Ma ad Atene si conosce già un embrionale forma di organizzazione in partiti politici, che non è elementare e magari occasionale contrapposizione tra ricchi e poveri, ma già configurazione di interessi, programmi, alleanze, secondo un più complesso schema, una ripartizione in tre distinti ‘gruppi’ politici.
Pisistrato proviene da Brauron, centro importante sulla costa orientale dell’Attica, forse addirittura il centro più importante della penisola dopo Atene (connesso, tra l’altro col demo dei filaidi; ma i filaidi sono anche un ghénos, quello dei due milziadi).
Una delle definizioni della diakria (in Esichio) le assegna come confini il monte Parnete e Brauron; e i successi militari aprono la strada al successo politico di Pisistrato, che diventa il capo dei diacrii (a capo dei pediaci era Licurgo, della nobile famiglia dei Butadi, e a capo dei paralii l’alcmeonide Megacle).
Pisistrato ha un programma politico e sociale molto più marcato di quello soloniano, anzi volto a dare soluzione a quei problemi che l’opera soloniana aveva lasciato senza risposta: un autentico sviluppo della piccola proprietà e una politica estera di espansione, cioè di ricerca di reali punti d’appoggio per quelle attività commerciali, a cui Solone aveva certo fornito più stimoli che non occasioni d’esplicarsi in concreto.
Tuttavia tutta la carriera di Pisistrato non si intende se non sullo sfondo delle condizioni politiche dell’Attica.
La considerazione di queste aiuterà a tenere un conto assai maggiore dei dati della tradizione sulla travagliata, anche se alla fine fortunata, vicenda di Pisistrato.
Non era facile instaurare uan tirannide, col grado di coscienza politica e comunitaria maturata ad Atene; le resistenze erano molteplici, e provenivano da radicate tradizioni di bilanciata gestione del potere, dal vigoroso rafforzamento di quei principi nella decisiva (su questo piano) opera politica di Solone, dall’esistenza già di più ‘partiti’ all’interno della città.
Diventare tiranno qui significava sconfiggere i partiti, o almeno gli altri partiti, se ad aspirarvi era il capo di uno di essi.
Pag. 233-34
Sulla tirannide di Pisistrato sono unanimi le valutazioni positive della tradizione antica: non cambiò le leggi esistenti, secondo Erodoto, ma si limitò ad occupare i tradizionali posti di potere tramite parenti ed amici (e con questo giudizio concorda quello di Tucidide, 6. 54); governò la città con moderazione, secondo Aristotele, e più da cittadino che da tiranno (il tiranno è infatti l’anticittadino per antonomasia).
Questa moderazione è certo un parte della personalità politica e dello stesso carattere (descritto come gioviale e capace di tolleranza e di humour) di Pisistrato; ma in parte era condizione obbligata in una società politicamente evoluta e cosciente, una società difficile dunque, come quella ateniese.
D’altra parte, occorre tener presente che non poteva non giovare alla buona fama di Pisistrato il confronto dei figli con lui, in particolare l’aspro comportamento tenuto da Ippia dopo l’attentato di Armodio e Aristogitone (514/513), che aveva conseguito l’unico effetto di eliminare il fratello di Ippia, Ipparco.
Pag. 239
Paradossalmente la tirannide, un potere personale, favorisce, anche contro le intenzioni, un processo di formazione di valori statali, persino attraverso vie anomale, che rafforzano però l’idea della comunità come sede di un potere distinto da quello dei suoi singoli membri e ad esso superiore; matura insomma, come in un doloroso travaglio, il processo di separazione e distinzione tra società e Stato.
Ciò si può agevolmente osservare innanzi tutto nella nuova nozione della fiscalità (un tratto comune a molte tirannidi): Pisistrato impone un’imposta diretta (del 5% o del 10% del prodotto).
Inoltre sembra doversi a Pisistrato la creazione di un numero ristretto di ufficiali superiori, gli strateghi: si aggiunge la creazione di una guardia del corpo di mercenari sciti, con funzioni di polizia; ma si può dire che persino una misura anomala, come la creazione di una guardia del corpo, finisca col materializzare l’idea di un potere armato supremo, distinto e incombente sui singoli cittadini.
Le innovazioni fiscali di Pisistrato dovevano d’altro canto servire non soltanto a quelle finalità latamente assistenziali che la tradizione individua nella creazione di un credito fondiario, ma anche a finanziare (forse attraverso la mediazione delle naucrarie, associazioni di possidente della zona costiera) l’allestimento di una flotta, che in questo periodo consta ancora di navi a 50 remi (pentecontori), forse solo in numero di cinquanta.
Pag. 240
Naturalmente non si può prescindere dallo sviluppo artigianale e commerciale che l’archeologia dimostra per l’epoca di Pisistrato, e lo sviluppo monetario conferma, e che trova espressione anche nella politica di acquisizione di teste di ponte per i rifornimenti e i traffici di Atene in Troade (Sigeo) e, in un rapporto non del tutto chiaro con la volontà politica dei tiranni, anche nel Chersoneso tracico e a Lemno (mi riferisco ai possedimenti delle Filaidi).
Come, dal punto di vista economico, lo sviluppo artigianale e mercantile di Atene non esclude una chiaramente documentata politica per uno sviluppo della piccola proprietà terriera, così sarebbe, per converso, impossibile ridurre la politica di Pisistrato (come anche di altri tiranni dell’epoca) a un’affermazione pura e semplice dei diritti della popolazione urbana.
La creazione dei ‘giudici itineranti’ per i demoi dice l’attenzione di Pisistrato alla campagna (né in Attica alcun potere avrebbe avuto altrimenti una qualche possibilità di successo), ma la creazione delle grandi Dionisie cittadine significa che Pisistrato mirava in generale a un coagulo degli interessi della campagna e dell’asty , a un rafforzamento dei momenti di unificazione della città nella sua interezza.
Che quindi il culto di Dioniso abbia radici nella campagna è innegabile, ma proprio l’istituzione delle feste Dionisie cittadine significa l’intento di Pisistrato di cementare l’unità della polis, pur su una base di religiosità e cultura agraria.
Pag. 242-43
Questo rapido profilo di storia spartana del sesto secolo (nel quale va collocata anche la guerra condotta in aiuto agli elei contro i pisati per il controllo della Pisatide, e perciò del santuario di Olimpia, che si svolse storicamente a vantaggio di Sparta, di cui gli elei diventavano i fidi alleati, mentre conquistavano per sé la montuosa Acrorea al confine con l’Arcadia, e la Trifilia tra Pisatide e Messenia) ha il fine di delineare il contesto per la formazione della Lega Peloponnesiaca (“gli spartani e i loro alleati [symmachoi]”).
Di essa, la prima attestazione sicura (riunione del sinedrio della Lega) è del 506 a. C. (Erodoto, 5. 91-93, cfr. 74-76?); ma si ritiene ragionevolmente che il 524 (anno dell’intervento di Sparta a fianco dei corinzi contro Policrate tiranno di Samo) rappresenti un terminus post quem o a quo: si è pensato al 560 circa (Wade-Gery) o al 535-524 (Moretti).
La Lega presenta un rapporto egemonico lasso; qui vige il principio dell’autonomia: niente tributi, o tributi fissi, niente guarnigioni spartane nelle città alleate; rappresentanza dei membri nel sinedrio federale; decisioni a maggioranza.
Proprio per questo la ricerca dei suoi precisi inizi è difficile e forse poco opportuna, poiché in definitiva la Lega è da considerarsi nata sul terreno delle intese di fatto e gradualmente crescenti.
La ricerca di una data precisa per la nascita di un organismo che ai suoi inizi si pone come coordinamento di fatto, in graduale sviluppo, tra città che conservano, pur intorno alla guida spartana, un ruolo notevole, sembra rispondere a un formalismo eccessivo, sempre difficile da soddisfare nell’ambito della storia greca, e in modo particolarissimo in un contesto in cui i rapporti non sono di puro dominio.
Insomma, quello della nascita della Lega non è un problema distinto da quello degli effettivi risultati, diretti e però anche indiretti, delle guerre spartane di sesto secolo; e in sendo lato la metà del secolo è un contesto cronologico adeguato.
Si saranno accostate a Sparta non solo le città dell’Arcadia o del Peloponneso sud-orientale, ma anche quelle dell’Akte argolica, come Ermione, Epidauro, indifferenti del predominio argolico, inoltre Egina, Corinto, ecc.
Qui Sparta sperimentava uno strumento di difesa, ben diverso dal dominio ferreo esercitato in Messenia; per questo, l’invasione dell’Attica, dovuta a iniziativa spartana, poteva avvenire anche in presenza di un organismo federale già esistente, che per l’occasione niente però imponeva o raccomandava di convocare e utilizzare.
Si profila dunque una forma particolare della politica estera greca, in questa politica spartana.
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Note integrative
Nei secoli dell’arcaismo alto e medio, la cultura ionica aveva prodotto l’épos, l’elegia, sul piano letterario; prime esperienze di architettura templare (lo Heraion di Samo forse già a fine nono-inizi dell’ottavo secolo, l’Artemision di Efeso nel settimo), modelli urbanistici (Mileto, Smirne), e così via di seguito: altrettante espressioni di vitalità di quelle poleis, in un periodo di grande e generalizzata crescita delle città greche.
Al sesto secolo appartengono quelli che vengono spesso considerati come gli albori del pensiero greco, gli inizi della riflessione filosofica.
Oggi si è più cauti nell’attribuzione dell’impegnativa qualifica di ‘filosofo’ a pensatori che appaiono piuttosto come i fondatori di un metodo sperimentale, attraverso il quale si ricerca il principio generale delle cose, l’origine dei processi attraverso i quali si realizza la struttura dell’esistente, dunque il principio stesso della physis (natura).
I naturalisti milesii sono quindi degli osservatori della natura, dotati di un’esperienza e di interessi di tipo tecnico, e impegnati in attività politiche (il che non trasforma in un dato di immediato interesse per la città, in quanto tale, l’oggetto delle loro ricerche).
Talete è capace di speculazioni di carattere tecnico, come propriamente finanziario, sui torchi per le olive; è informato della geometria egiziana e sembra non aver ancora scritto nulla, pur se formula teorie generali, come quella che fa dell’acqua il principio di tutte le cose.
A un più alto livello teorico, cui corrisponde tra l’altro l’uso della scrittura, si colloca la riflessione di Anassimandro, la cui concezione della natura ruota intorno al concetto di Apeiron (indefinito), definisce la realtà come un gigantesco processo di trasformazione e compensazione nel tempo, ed è autore di un pinax (tavola) geografica del mondo conosciuto.
Anassimene mette fondamentalmente in gioco la nozione di “soffio vitale” (naturalisticamente, di “aria”), per rispondere ad analoghi quesiti.
Grandi individualità di tecnici, sperimentatori, osservatori, pensatori, che appaiono in qualche misura culturalmente apparentati (pur facendo le debite distinzioni tra le espressioni razionali, che essi rappresentano, es espressioni meno razionali)con le figure dei grandi saggi (o sciamani) dell’area microasiatica settentrionale (Aristea di Proconneso) ed egea, a cui appartiene il cretese Epimenide (fine settimo-sesto secolo) e apparterrà, in pieno e avanzato sesto secolo, lo stesso Pitagora, che sembra nativo di Samo e oriundo di Lemno.
Naturalmente la riflessione dei naturalisti ionici non è solo sperimentazione e rottura critica con la tradizione; nasce nel solco della stessa tradizione cosmogonica e teogonica, che da Esiodo (settimo secolo?) giungerà a Ferecide di Siro, che nella triade Zas Chronos Chthonia individua i tre principi del reale, il fuoco, il tempo, la terra.
La critica sferzante delle rappresentazioni religiose tradizionali, come dei comportamenti dell’aristocrazia della sua città, caratterizza la poesia di Senofane di Colofone (circa 570-480?), che, dopo l’avvento del dominio persiano nella Ionia, lascia la sua città per l’Occidente, cioè per una città, Elea, fondata anch’essa da fuggiaschi intolleranti del dominio persiano; di Elea Senofane scrive una ktisis in versi.
Si verifica dunque, dopo il 546, una significativa diaspora di importanti personaggi della cultura ionica, che sarà decisiva per la storia culturale della grecità d’Occidente, quando si pensi ai rapporti tra la riflessione di Senofane, nella ricerca dell’unità di fondo delle rappresentazioni umane (viste già in chiave extracittadina) e quella di Parmenide sull’essere.
Altra notevole espressione della cultura ionica, pur se con sue particolarissime caratteristiche, è Pitagora: ancora una volta una fuga di matrice politica, anche se in questo caso si tratta di ribellione alla tirannide di Policrate.
Di lui si conoscono l’arrivo a Crotone (circa il 530 a. C.); la creazione di uno o più gruppi di ‘amici’, dapprima a Crotone e forse anche a Metaponto; una riflessione teorica e politica, ma anche pratica e tecnica, che investe la sfera della società e dell’economia, l’aritmetica, la geometria, la musica, la medicina, la dietetica.
Pitagora riassume in sé tutte le esperienze greche ‘di frontiera’: gran parte della sua sapienza gli deriva dall’Oriente, cioè dall’Egitto come dalla Mesopotamia e dalla Persia, ma anche da altre regioni del mondo barbarico, quali la Tracia o la Scizia; a Oriente si può dire che gli impari, mentre ad Occidente egli insegna (nella tradizione, che amplifica a dismisura i suoi contatti e l’efficacia della sua scuola, egli insegna a tutti i popoli barbari dell’Occidente).
Maestro di dottrine etiche, è però sin dall’inizio sentito come poco interessato alla elementare verità dei fatti, la verità storica, possiamo ben dire, che rigorosamente distingue tra tempi, luoghi, soggetti; e si fa invece interprete di stimoli di matrice mistica e irrazionale, che nell’ambiente ionico più razionalisticamente improntato suscitano l’accusa di una sinistra propensione al falso.
La sua concezione politica fu aristocratica, perché ispirata all’idea del gruppo chiuso, del gruppo di consiglieri appartati (se non occulti) delle autorità cittadine; d’altra parte, l’aristocrazia pitagorica, in quanto ideologica, non è aliena da concezioni rigorosamente ugualitarie, di marca spartana.
In significativa contemporaneità con l’esperienza pitagorica (che si consuma però prevalentemente in Occidente, dove rivela, pur attraverso le temporanee eclissi, una incredibile vitalità, e che conosce comunque una forte rivitalizzazione in Platone e nel platonismo), si colloca la nascita della storiografia ‘critica’ (non dunque pura memoria celebrativa), anch’essa riconducibile, nelle sue primissime espressioni, ad area ionica (Ecateo di Mileto).
Essa ha tuttavia paralleli molto importanti nel continente (Acusilao di Argo, Ferecide di Atene), una prosecuzione di grande respiro nell’opera di Ellanico di Mitilene, e un decisivo salto di qualità in quella di Erodoto di Alicarnasso.
Tipico apporto ionico è la vastità dell’orizzonte geografico e storico dell’opera dei prosatori (logografi) di matrice ionica e, più in generale, egea.
La logografia ionica appare del resto come un momento decisivo nella presa di coscienza del ruolo della scrittura, nei confronti della tradizione orale (in questa luce ben s’intende il valore latamente rivoluzionario, dell’opera di Ecateo, che nel fr. 1 delle Genealogie esordiva con un grapho (scrivo): “scrivo le cose, come sembrano a me vere, poiché i logoi (discorsi) dei greci sono molti e risibili”).
Nello stesso filone critico s’iscrive, e a un gradino più rilevato, Eraclito di Efeso (fine sesto-inizio quinto secolo), con le sue veementi bordate contro Esiodo, Senofane, Pitagora e lo stesso Ecateo (segno del fatto che lo spirito critico equivale a un nuovo tipo di rapporto intellettuale fra gli uomini, che opera in una molteplicità di direzioni).
Pag. 252-254
Erodoto resta in definitiva la vera cartina di tornasole dei rapporti storici più significativi tra i popoli e regni orientali e il mondo greco in quanto mondo delle poleis.
Certo, arrivava fino alla coscienza dei greci l’immagine di grandiosità di alcuni regni stranieri o l’impressione per le grandi catastrofi storiche che li avevano riguardati: ma queste reazioni dell’opinione greca poco cambiano delle fondamentale estraneità delle storie.
Pag. 256
Nonostante la menzione della spedizione di Sennacherib (2. 141), nel libro egiziano Erodoto non conserva una chiara memoria del dominio assiro in Egitto: questo la dice lunga sulla profonda separazione della storia greca da quella assira.
Ora, Ciro il Grande pose fine al regno neobabilonese, sorto dopo l’abbattimento della potenza assira, con la conquista della Babilonia nel 359; impose la sua sovranità alle città fenicie; morì combattendo contri i masageti, al confine orientale dell’impero, lungo l’Oxos (od. Amu Darya).
A rafforzare il confine meridionale di quest’impero (il primo impero orientale che faccia sul serio con la pretesa di un dominio universale, traducendo questo in una rigorosa tutela del confine, il che equivale ad una sistematica e quasi indefinita espansione dei confini medesimi) provvide il figlio Cambise con la conquista dell’Egitto nel 525 a. C.
Cambise moriva nel 522 a. C., senza essere riuscito ad assoggettare Cirene o Cartagine, in Persia si svolgeva un’aspra lotta per il potere, tra l’elemento sacerdotale del culto zoroastriano (i magoi, guidati da Gaumata, che si presentava come Smerdi, un figlio di Ciro 2., fatto uccidere da Cambise), ed elementi dell’aristocrazia iranica, fra i quali s’impose Dario, figlio di Istape.
Probabilmente, non ultima ragione del suo successo fu la decisa riaffermazione del potere monarchico, in un momento in cui forze diverse e di diversa collocazione sociale si contendevano il potere.
Il testo di Erodoto, 3. 80-82, un fittizio dibattito fr ai grandi di Persia sui pregi e i difetti delle tre costituzioni tipiche (la monarchia, l0oligarchia e la democrazia), è probabilmente solo una trascrizione in termini greci di un conflitto reale tra forze sociali e politiche diverse presenti nel mondo persiano, come ad es. gruppi sacerdotali e gruppi dell’aristocrazia militare e fondiaria, conflitto che poteva mettere in forse le basi stesse del potere monarchico.
L’impero persiano, nella coscienza e nella rappresentazione dei greci, in primis in Erodoto, diventa il modello storico dello Stato barbarico potente e in grado di minacciare i greci, di suscitarne i timori ma anche l’ammirazione.
Un modello, per la sua sistematica politica di espansione; per la sua struttura di efficienza organizzativa (ripartito com’era in 20 satrapie con funzioni amministrative e fiscali, rigorosamente definite); per la sua ricchezza (la cui quintessenza agli occhi dei greci, l’oro, si identifica con il mondo persiano, e insieme lo connota di barbarico).
La moneta d’oro per eccellenza, nota ai greci, è costituita, del resto, dai darici (dareika) di 8, 42 g.; di corrispondente i greci hanno, e non a caso in area anatolica, gli stateri ciziceni (dalla città di Cizico, sul Mar di Marmara) in elettro.
Pag. 257-58
Nella madrepatria greca le più antiche coniazioni sono da attribuire ad Egina, con le sue famose ‘tartarughe’ (databili almeno prima del 550 a. C.); a Corinto, con i suoi ‘pegasi’; ad Atene, con le monete con l’emblema dell’anfora; seguono le cosiddette Wappenünzen (monete con simboli araldici), mentre solo più tardi sono coniati ed entrano in circolazione i tetradrammi con la civetta sul verso (glaukes).
Ma intanto, proprio per ciò che riguarda la data delle monete ateniesi, l’incertezza regna sovrana.
Non che manchi coerenza nelle fonti letterarie antiche: ma, accettandone il quadro, dovremmo in primo luogo ammettere che Solone (circa 594/593 a. C.) adottò misure e pesi diversi da quelli precedentemente sussistenti ad Atene; modificò cioè il precedente sistema, di cui s’attribuiva la paternità a Fidone, istituendo una dracma ‘leggera’, equivalente a 1/100 di mina, in luogo della dracma ‘pesante’, che equivaleva ad 1770; per conseguenza, dovremmo riconoscere che nel 594/593 la moneta aveva già una certa (non necessariamente una lunga) storia ad Atene: in concreto, per ciò che si riferisce alla moneta corrente (la dracma d’argento), una nuova dracma, leggera, che generalmente è chiamata dai numismatici ‘euboica’, subentrava alla vecchia dracma pesante (chiamata ‘eginetica’); e l’introduzione della moneta ad Atene cadrebbe al più tardi alla fine del settimo secolo a. C., forse anche un po’ prima (probabilmente però solo dopo il 650 a. C.).
Ma può essere così?
Pag. 260
Bibliografia
La politica di Solone / A. Masaracchia. – 1964
Storia e civiltà dei greci / F. Adorno. – 1978
Introduzione a i Pitagorici / B. Centrone. – Laterza, 1996
Il simposio nel suo sviluppo storico / D. Musti. – Laterza, 2001
Dalla premoneta alla moneta / M. Caccamo…et al. – 1992
Magna Grecia: il quadro storico / D. Musti. – Laterza, 2005
Cap. 4. La fine dell’arcaismo: l’avvento della democrazia, le guerre persiane
La parola d’ordine della riforma di Clistene è “mescolare”, rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare ciascuno secondo il demo, che è la cellula vivente dello “Stato”, che, attraverso lo strumento intermedio della tribù (costruita col massimo di astrazione possibile da vincoli familiari e rapporti di interesse), costituisce il quadro organizzativo fondamentale della nuova polis.
E’ istituito perciò un consiglio (boulé) dei Cinquecento, sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna delle dieci tribù: viene ora ad avere larghissima applicazione il titolo, altrimenti grandemente selettivo, di prytanis (alla lettera “primo principe”).
Quello che altrove è il titolo di un alto magistrato cittadino, ad Atene è il nome di ciascun membro del nuovo consiglio popolare: e la prytaneia (pritania) è al tempo stesso uan frazione di 1/10 dell’anno (35/36 giorni, nell’anno 12 mesi, o 38/39 nell’anno con mese intercalare), durante la quale la preparazione dell’ordine del giorno (programma) e talora di fatto le stesse funzioni consiliari (probuleutiche) sono curate da quella parte che sta per il tutto: la tribù (già ampiamente idonea a mescolare interessi e persone) può per un tempo determinato rappresentare la città.
Al calendario naturale, astronomico e, se si vuole, religioso (nel senso di una religiosità tradizionale), si affianca un calendario politico, scandito secondo il numero 10: e in ogni pritania ci sono un’assemblea principale, o ordinaria (kyria) e tre straordinarie.
Pag. 274-75
Si capisce quindi come Clistene escogitasse un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, istituendo l’ostracismo, cioè la procedura, molto semplice e democratica, attraverso cui si denunciava, in due tempi (nelle assemblee principali della sesta e dell’ottava pritania), il timore che qualcuno (dapprima, dunque, solo in termini generali) e poi semmai un determinato personaggio politico (questa volta il nome veniva scritto su un coccio qualunque, di un vaso rotto e ormai inutile) costituisse un periodo di tirannide per la democrazia.
La procedura fu applicata per la prima volta circa il 487, contro Ipparco di Carmo, della famiglia dei Pisistratidi: ma non v’è ragione di negarne la paternità a Clistene, allo spirito della cui riforma comunque esso ben corrisponde.
Pag. 276
Dal 506 gravi minacce si addensano sul capo della neonata democrazia ateniese.
Vecchi rivali si coalizzano contro Atene: Beoti e Calcidesi invadono l’Attica, ma sono respinti e di vedono poi sottoposti a un vigoroso contrattacco ateniese, che culmina in una clamorosa sconfitta di beoti ed euboici.
Poco dopo, gli spartani premono sulla Lega peloponnesiaca per un intervento contro il nuovo regime politico di Atene e per la restaurazione della tirannide di Ippia; ma i corinzi si oppongono, invitando gli spartani a una riflessione storica sui mali della tirannide.
L’opera di dissuasione ha successo: la democrazia ateniese respira e guadagna ormai il tempo per consolidarsi.
La restante Grecia accetta, un po’ rassegnata, che una forma politica del tutto nuova abbia diritto di cittadinanza e libero corso storico: in pratica, rinuncia ad interferire e si acconcia alla nuova situazione creatasi; turbata da forti diffidenze e timori, per il momento decide di stare a guardare.
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Con le conquiste di Ciro il Grande e del figlio Cambise l’Impero persiano aveva raggiunto dimensioni vastissime: tre milioni di chilometri quadrati, dalle coste occidentali dell’Asia Minore al Caucaso, al confine con l’India, all’Egitto.
L’avvento di Dario certamente introdusse nuove forme organizzative nella struttura dell’impero e un nuovo dinamismo nella sua politica verso l’esterno.
Al sovrano la tradizione (Erodoto, 3. 89 sgg.) attribuisce un’organizzazione amministrativa e fiscale dell’impero in venti satrapie, che consente introiti annui di 14560 talenti d’argento euboici.
Alla luce di questo sforzo organizzativo, e dei caratteri nuovi della politica di Dario, va anche giudicata la sua spedizione contro gli sciti, svoltasi intorno al 513, a circa otto anni dall’insediamento del re, e la sua stessa politica verso i greci, i cui eventi più significativi si addensano nella parte finale del suo regno, dal 500 al 490 circa.
Sembra difficile negare che questi importanti momenti della politica di Dario segnino un atteggiamento in qualche misura nuovo in tema di confini come di conquista, perciò della politica greca del re.
Tuttavia sarebbe anche erroneo istituire una netta contrapposizione tra la politica dei regni anteriori a quelli di Dario: le più grandi conquiste furono infatti realizzati sotto i primi o, ove si consideri la politica estera sotto l’aspetto dell’espansione realizzata, il regno di Dario potrebbe, a conti fatti, rappresentare persino una battuta d’arresto.
Pag. 277-78
Le origini del conflitto greco-persiano vanno ricercate nelle condizioni dei greci della Ionia, nei loro rapporti con i dominatori persiani, nei loro malumori, in certe iniziative in parte infelici, come lucidamente vide e descrisse Erodoto, forte anche dell’esperienza di risultati ben diversi di conflitti greco-persiani di anni più recenti.
Pag. 279
Si è discusso a lungo se la rivolta degli ioni d’Asia contro la Persia sia motivata da insofferenza per lo sfruttamento economico, risultante dall’esazione del tributo da parte persiana, o da un desiderio di libertà: sembra chiaro che per i greci le due motivazioni siano strettamente intrecciate tra loro, e che il desiderio di libertà comporti anche libertà dal tributo, in cui si materializza la sopraffazione.
Non è poi da sottovalutare il fatto che si cadano creando coesioni, collegamenti, linee di influenza e di intesa.
Ciò non va confuso con un determinato sentimento nazionale, quasi fosse possibile parlare id una coscienza nazionale unitaria, politicamente operante: ancora la spedizione di Serse metterà in luce le articolazioni e divaricazioni profonde del mondo greco.
Pag. 280
Anno di preparativi per la spedizione punitiva contro ateniesi ed eretriesi fu il 491; quindi, nella primavera del 490, conducevano una flotta, dapprima verso le Cicladi, poi verso l’Eubea e l’Attica, Artaferne, nipote del re, e il medo Dati.
Nasso fu, questa volta, piegata e distrutta, le Cicladi si sottomisero; a Delo lo stesso Dati celebrò un solenne sacrificio.
Poi fu la volta di Eretria, presto conquistata e data alle fiamme, mentre i cittadini venivano trapiantati ad Ardericca, presso Susa.
Da Eretria il passaggio in Attica è rapido e facile, nella parte nord-orientale della regione, quella in cui, tra l’altro, aveva avuto le sue basi politiche principali Pisistrato (il padre di Ippia, che, dal suo possedimento nel Sigeo, aveva seguito i persiani e ne aveva guidato i movimenti).
A Maratona sbarcò un esercito di circa 20000 persiani; ad Atene si decise di uscire dalla cerchia delle mura (dein exienai, secondo il dettato del cosiddetto “decreto di Milziade”) e di diffondere il nemico a Maratona.
Fu l’affermazione, celebrata anche in una precisa prospettiva ideologica, della tattica oplitica: 6000-7000 opliti ateniesi, al comando del polemarco Callimaco e dei dieci strateghi fra cui Milziade.
I due eserciti si fronteggiarono per alcuni giorni: furono poi gli ateniesi, secondo Erodoto, ad attaccare, percorrendo tra l’altro di corsa, nonostante le pesanti armature, l’ultimo tratto che li separava dai persiani.
Di questi restarono sul campo 6400 uomini; dei greci solo 192, che furono sepolti nel celebre soros (tumulo): fra di essi il polemarco Callimaco.
Questo è il racconto erodoteo: e non c’è ragione di preferirgli la costruzione di Beloch, fondata su una rapida osservazione di Cornelio Nepote, Milziade 5, secondo cui furono i persiani a prendere l’iniziativa dell’attacco, perché timorosi dell’imminente arrivo degli spartani.
I persiani aggirarono subito con la flotta il capo Sunio; si aspettava l’esito ci intese con una parte ateniese connivente, probabilmente con gente amica dei Pisistratidi, benché l’accusa colpisse (ingiustamente, per Erodoto) gli Alcmeonidi.
L’esercito ateniese era però già schierato sotto le mura; e i persiani non poterono che prendere la via del ritorno.
Pag. 282-83
L’anno successivo (488) si apre invece per Atene un altro conflitto, quello con Egina, preceduto da una guerra, combattuta forse dalla neonata democrazia circa il 506 a. C., e dimostrazione palmare di quel tharrein (prender coraggio), che Aristotele lucidamente attribuisce al demos, dopo la vittoria di Maratona.
E’ chiaro che Atene va maturando una coscienza diversa del proprio ruolo all’interno del mondo greco, coscienza che non è puramente e semplicemente di contrapposizione nazionalistica al barbaro, ma anche di costruzione di una propria potenza e di un proprio ruolo, in perfetto parallelismo con il formarsi e lo svilupparsi di un nuovo regime, di un nuovo clima e di una nuova coscienza politica all’interno della città.
La politica segue ormai ad Atene nuovi binari: quanto meno, appaiono indimostrabili quelle collusioni degli ultimi Pisistratidi con la Persia, che spesso si danno per scontate, sempre e solo sulla base di un nome, quello di Ipparco figlio di Carmi, che fu anche il primo degli ostracizzati nella storia di Atene.
Non si può considerare come segno di un orientamento filopersiano della politica di Atene la guerra contro Egina ed ammettere al tempo stesso un significato antipersiano della contemporanea espulsione di Ipparco (ca. il 487): il fatto è che ormai nella politica ateniese si era impiantata una logica nuova.
Pag. 284
Quanto a Temistocle, è vero che con la sua proposta comincia a prender corpo la politica imperialistica della democrazia ateniese, di cui Egina era stata solo un’infelice avvisaglia.
Aristide in questa fase è, con ogni verosimiglianza, contro la politica imperialistica in quanto politica di ‘sacrifici’.
A modificarne l’atteggiamento sarà la guerra contro i persiani, con la sua forza di fatto ineludibile, e la conseguente relativa facilità per Atene di darsi uno strumento efficace di potenza navale con il sacrificio, o almeno il contributo, degli alleati.
Non è dimostrabile, insomma che, anche nella sua primissima fase, la politica di Aristide sia antinavale in assoluto; è ben più probabile che in gioco fosse una concezione del sistema dei rapporti, e degli obblighi e diritti dei cittadini, all’interno della polis, cioè una maggiore attenzione al privato di tipo tradizionale, attenzione che in questo casi giocava anche contro la legge navale di Temistocle, che era invece assai più orientata verso un’idea di preminenza di quello che per Temistocle era l’interesse pubblico.
Pag. 287
Allo sfondamento della posizione delle Termopili faceva seguito il dileguarsi dei focesi, e la resa dei beoti e dei locresi opunzi; è incerto se Delfi, che prima dell’arrivo persiano aveva tenuto un atteggiamento di prudenza e di sostanziale cedimento nei confronti delle richieste del re, sia stata saccheggiata.
E’ certo invece e illuminante ai fini dell’intero problema della qualità della coscienza nazionale greca, che la spedizione persiana mette in luce diversità di comportamenti nell’ambito del mondo greco e il formarsi di una solidarietà forte piuttosto fra i greci delle regioni meridionali della penisola, che sono anche quelle in cui la forma cittadina ha avuto un maggiore sviluppo.
E’ insomma vero che si forma una solidarietà nazionale greca, ma è anche vero (ed è un dato fermo nel tempo) che questa solidarietà nazionale è assai lontana dall’identificarsi con l’intera area della grecità culturale e politica, ha invece l’asse portante in Atene e, per il momento, in Sparta: una situazione, questa, che prelude all’altra, in cui Atene diventerà la punta avanzata di tale coscienza, senza che vi si accompagnino reali progetti di unificazione politica della Grecia intera.
Pag. 290
La flotta greca si concentra a Salamina, al comando dello spartano Euribiade; quella nemica, dalle acque dell’Eubea, raggiunge il Falero.
Ateniesi, egineti e megaresi ottengono che i greci affrontino i persiani nel canale tra Salamina e l’Attica e non all’altezza dell’Istmo, che avrebbe garantito la sicurezza del solito Peloponneso.
Una sera di settembre del 480 la flotta persiana, che contava contingenti fenici e ionici, forza il canale, mentre truppe persiane sbarcano a terra, nell’Attica, e nell’isoletta di Psittalia (H. Gheorghios? o Lipsokoutala?), sita nel canale.
Lo scontro avvenne al mattino, sotto gli occhi del re, che aveva fatto installare il suo trono sulla costa ateniese: agilità, capacità di manovra, esperienza dei luoghi giocarono a favore della flotta greca, che riuscì a sospingere quella persiana verso la costa attica, che si trovava a Salamina, sbarcava ora a Psittalia, facendo strage della guarnigione persiana.
Pag. 291
Gli eventi che seguono sono storicamente dei più significativi.
Da un lato si verifica la ribellione di tutti gli ioni, l’abbattimento delle tirannidi filopersiane e l’inserimento delle isole di Samo, Lesbo e Chio nella Lega greca: in definitiva, nel 479 si realizzano i fini della rivolta di Aristagora del 499.
Ma, insieme, un importante passaggio verso l’esito imminente ed epocale del 478/477 (cioè verso la fondazione della Lega navale delio-attica) è costituito dall’andamento delle operazioni, e dai diversi tipi di comportamento tra i greci, nei mesi successivi alla battaglia di Micale.
Come. Sull’Ellesponto, Abido e Sesto erano ancora nelle mani dei persiani, la flotta greca si dirige verso la zona degli Stretti, ottenendo subito la defezione di Abido; ma con l’arrivo dell’autunno i peloponnesiaci se ne tornano a casa, lasciando il campo agli ateniesi, che assediano e poi prendono per fame Sesto (primavera 478), con la cooperazione degli ioni, che già in questa campagna risuscitano quel rapporto privilegiato con Atene che avevano avuto agli inizi della rivolta del 499.
Pag. 294
In definitiva, dopo gli anni (481-477) in cui aveva esercitato un ruolo fondamentale nella storia nazionale greca, Sparta, pur forte di grande prestigio fra i greci, rientra in una dimensione politica quasi regionale (che però è nella storia greca il dato più costante e caratteristico); Atene invece procedeva, in una lega di cui deteneva l’egemonia, per libero e autonomo consenso degli alleati ioni, ad un’organizzazione sistematica dei rapporti che si erano andati rapidamente annodando intorno alla città, in un processo che sembra presentare i caratteri di un fenomeno spontaneo e improvviso, ma che affonda invece le sue radici in tradizioni più remote nel tempo e nella stessa comunanza di vicende, saltuaria ma non casuale, tra Atene e il mondo ionico durante la rivolta dell’inizio del 5. secolo, con tutte le conseguenze che ne erano derivate alla città e alla Grecia intera.
Pag. 295
Il sesto secolo rappresenta il periodo di massima fioritura della Magna Grecia: al che corrispondono spinte espansionistiche, volte a modificare le delimitazioni areali originarie.
Se la nozione di Megale Hellas ha avuto realmente corso in epoca arcaica, il periodo a cui questa denominazione più si attaglia è certamente quello in cui le città achee si impegnarono a costituire un’area unitaria e a cancellare ogni traccia di intrusione.
Magna Grecia è nozione che fa pensare a una comparazione possibile, e forse neanche la più probabile: l’espressione può stare a significare il dilatarsi verso Occidente della grecità in quanto tale e, solo secondariamente, un’area coloniale specifica.
La ‘grandezza’ è al tempo stesso culturale e politica, secondo una concezione arcaica che certamente non conosce ancora l’opposizione di valutazioni materialistiche e spiritualistiche.
Se ebbe davvero corso prima di Pitagora, l’espressione tuttavia non poté non avere una rinnovata diffusione proprio in epoca pitagorica, quando alla fama delle città dell’Italia meridionale, e in particolare di Crotone e di Metaponto, tanto contribuì la presenza, la dottrina, l’opera, l’influenza culturale e politica del Maestro e dei suoi discepoli; molto improbabile invece che l’espressione sia nata alla fine del quinto secolo, quando le città achee conoscono un’ultima fase di riorganizzazione, ma si avviano già al declino.
Quando comparirà nei testi (Timeo?, Polibio), la definizione sarà solo un’espressione di nostalgia di una perduta e forse anche mitizzata grandezza.
Megale Hellas diventa dunque, presso gli autori del secondo e del primo secolo a. C., una denominazione che evoca il passato, e che al passato appartiene; è la celebrazione nostalgica di una grandezza che è stata e che or non è più.
Così si conclude la storia di una regione che all’origine (nel sesto-quinto secolo a. C.), era stata un ‘oggetto del desiderio’, e che alla fine (nel secondo secolo a. C.), soprattutto a seguito dell’invasione dell’Italia da parte di Annibale, e per le connesse distruzioni e rovine, era quasi completamente deleta, pur avendo ospitato una civiltà capace di grandezza, dal punto di vista culturale, materiale e anche politico.
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Nel 474, intervenendo a favore di Cuma, egli sconfisse duramente la flotta etrusca in una battaglia che ebbe conseguenze storiche decisive per i greci ed etruschi di Campania.
Nulla più che un episodio du l’installazione a Pitecussa (Ischia) di un presidio siracusano, presto rimosso a causa degli incessanti fenomeni tellurici; a Pitecussa sopraggiunse il dominio di Neapolis (città nuova), fondata sul sito dell’antica Partenope (ora divenuta Palaipolis, città vecchia), debba la sua fondazione all’impulso del tiranno siracusano.
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Nota integrativa
Come tutte le rivolte fallite, quella della ionia contro la Persia ha avuto nella letteratura storica giudizi severi, a cominciare da Erodoto, che ne ha ricavato, o almeno visto confermata, la sua convinzione del velleitarismo degli ioni.
La personalità di Aristagora appare la più esposta a una critica demolitrice; notevole il tentativo di difesa e riabilitazione operato da G. De Sanctis, legato alla convinzione che la rivolta ridestasse il ‘sentimento nazionale’ dei greci.
Più che mettere alla prova il criterio nazionalistico, che nel mondo greco può avere solo una temperata applicazione, serve interrogarsi sul coordinamento della rivolta, la coesione dei rivoltosi, la chiarezza sui fini da raggiungere; e che la rivolta sotto questi aspetti mostri gravi carenze, lo dimostra il dato ineluttabile della profonda disparità di opinioni fra i più illustri greci della stessa Ionia, o fra gli stessi milesii; Ecateo, ad esempio, era palesemente contrario.
E’ in discussione anche il tema della responsabilità, rispettivamente di greci e di persiani, nello scoppio dei conflitti che seguirono, tra il 492 e il 479, alla repressione della rivolta.
Che la Persia ambisse ineluttabilmente all’annessione della Grecia è tesi giustamente contestata da G. Nenci.
H. Bengston giudica giustamente indimostrabile, dal canto sui, la tesi che i persiani abbiano favorito di proposito sul piano commerciale i porti fenici a detrimento di quelli ionici (come riteneva Th. Lenschau), ma ammette che la conquista di Cambise chiudesse ai greci l’accesso commerciale all’Egitto e che la spedizione scitica di Dario minacciasse i traffici greci, e in particolare milesii, col Mar Nero.
Altro comunque è il problema dell’aggressività dei persiani verso la penisola greca, altro quello della responsabilità persiana verso il mondo greco in generale: è chiaro, dalla disponibilità all’emigrazione anche di uomini (come Ecateo) non favorevoli al conflitto con la Persia, che il dominio persiano sui greci di ionia, impiantatosi dopo la caduta del regno di Lidia, doveva apparire sempre più intollerabile.
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E’ innegabile che quei processi che in ambito greco condussero alla nascita della storiografia siano stati nella Ionia d’Asia più intensi che altrove.
Dei dodici archaioi syngrapheis, “antichi storici”, fioriti prima della guerra del Peloponneso, che Dionisio d’Alicarnasso ritiene di poter elencare nel Saggio su Tucidide, cap. 5, 5, ben nove provengono da città dell’Asia minore o isole vicine, due sono nativi delle Cicladi, solo uno, Acusilao di Argo, è originario di una città (dorica) della penisola greca.
All’ambiente ionico appartiene Ecateo, che, in una famosa definizione del lessico bizantino Suida, è considerato come “il primo che abbia pubblicato una historia in prosa”, e contrapposto a Ferecide, forse l’ateniese, che fu invece “il primo autore di una syngraphé” (anche se non sono impossibili più sottili implicazioni, sembra trattarsi di un’antitesi tra la ‘vera e propria’ storia critica e una semplice esposizione complessiva o narrazione in prosa).
Di una città originariamente dorica, ma poi ionizzata, dell’Asia minore, Alicarnasso, e nativo Erodoto, il pater historiae della celebre definizione ciceroniana (De legibus 1. 1, 5).
Comunque, una caratterizzazione della storiografia greca come un prodotto esclusivo della cultura ionica va evitata.
Con il termine ‘logografi’ sono frequentemente indicati, nella letteratura moderna, gli autori di storie e di cronache fioriti anteriormente a Tucidide, gli storici cioè del sesto e del quinto secolo a. C., fino a Ellanico di Mitilene, con esclusione di Erodoto.
E’ stato più volte osservato, e ribadito anche il recente (von Fritz), che in Tucidide, 1. 21, 1, logographoi indica semplicemente i “prosatori” in quanto distinti dai poeti, e fra essi Tucidide sembra voler comprendere anche Erodoto.
“Logografo” non sta dunque a caratterizzare uno scrittore, che faccia uso di una tecnica particolare o che pratichi un ‘genere letterario’ realmente distinto da quella che potremmo chiamare la ‘grande storiografia’ del quinto secolo a. C., la storiografia ‘non locale’ (altro è il significato di logographos [nel quarto secolo], come “autore di discorsi giudiziari”).
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Di che tipo di materiale facevano uso i ‘logografi’?
Si trattava soprattutto di tradizioni orali o di testi scritti?
La nascita della storiografia è certo un momento della storia della cultura scritta.
Il primo verbo usato da Ecateo nelle sue Genealogie è grapho: “queste cose scrivo, come a me sembrano vere”; e il verbo è, in certa misura, in antitesi con la parola logoi, “discorsi, racconti” (un termine ambivalente, che indica innanzitutto i racconti orali, ma che per sé potrebbe anche indicare il contenuto narrativo di testi scritti).
Ciò che noi cogliamo in primo luogo nei frammenti conservati dei ‘logografi’, è certo la rielaborazione di tradizioni mitiche, genealogiche, etnografiche, che in larga parte, anche se non esclusivamente, erano mediate dalla tradizione epica, e poetica in genere; e il pieno affermarsi della cultura scritta (cioè la diffusione ampia della scrittura, e la funzione di principale e generale veicolo d’informazione e comunicazione che la scrittura assume) appartiene solo ad epoca più tarda, cioè alla fine del quinto secolo a. C.
Nell’insieme, è sullo sfondo di questa limitata diffusione e funzione della scrittura che va vista una teoria esposta da Dionisio d’Alicarnasso sulle origini della storiografia greca nel Saggio su Tucidide , capp. 5 e 7, secondo il quale gli archaioi syngrapheis sarebbero stati in sostanza degli editori di cronache locali.
Mi sembra che Dionisio prospetti un processo del genere: le tradizioni orali si depositano in memorie scritte (mnemai-graphai), cioè cronache locali conservate in archivi sacri e profani, commiste di elementi leggendari, che gli antichi storici pubblicano, lasciandole sostanzialmente invariate.
Egli descrive dunque un processo che si svolge in tre fasi: quella della diffusione orale di tradizioni miste di elementi mitici; quella della redazione in forma scritta, ma di una scrittura di tipo archivistico, cioè di scarsissima o nessuna ‘diffusione’; quella infine della diffusione nelle forme storiografiche primitive.
Dionisio ci parla da un’epoca (fine del primo secolo a. C.) di piena diffusione della scrittura, come mezzo di comunicazione; per questa ragione (e per altre ancora) il quadro che egli prospetta potrebbe contenere delle forzature; tuttavia, fermo restando l’idea di una funzione e diffusione limitata della scrittura in epoca arcaica, l’esistenza di cronache locali non pare impossibile, soprattutto in base a considerazioni di ordine comparatistico e alle analogie riscontrabili nel mondo orientale.
Il problema è aperto, anche se discusso da tempo: è noto come, proprio per l’Atthis, cioè la storiografia locale dell’Attica, Wilamowitz sostenesse, alla fine dell’Ottocento, l’ipotesi della derivazione dell’attidografia letteraria da una cronaca di esegeti, che sarebbe stata pubblicata circa il 380 a. C., ipotesi che Jacoby ha invece fortemente contrastato.
Le opere di Erodoto e di Tucidide, pur così radicalmente diverse fra di loro per il metodo storiografico ei criteri di scelta del contenuto, presentano almeno un punto in comune: sono il risultato del reperimento di un materiale in larga misura nuovo, cioè non depositato precedentemente in cronache o tradizioni locali in qualche modo codificate; tramite è la tradizione orale, in Erodoto anche quella di origine e provenienza remota, in Tucidide quella più direttamente verificabile, e relativa in prevalenza a fatti contemporanei.
La preferenza data da entrambi gli storici alla tradizione orale (a parte riserve di Tucidide sul quale v. pp. 452 sgg.) comporta nell’uno e nell’altro uno scarso gusto (certo più scarso in Erodoto che in Tucidide) per il reperimento del documento, della pezza scritta d’appoggio, su cui si fonda invece per lo più il metodo storiografico moderno (Momigliano).
Come del resto ha osservato lo stesso Momigliano, una storiografia, come quella erodotea, che si ispira ai criteri della historie (la ricerca critica), è programmaticamente, e di fatto prevalentemente, disancorata da tradizioni locali scritte, da cronache locali, dalla documentazione d’archivio.
La ‘grande storiografia’ greca, la storiografia non locale, quella che potremmo definire alla meglio come la storiografia ‘dei grandi conflitti’ (anche se questa definizione, proprio per Erodoto, va integrata e quindi modificata), farà scuola su questo punto.
La cultura greca esprimerà il gusto per il documento e per la ricerca d’archivio nel quarto secolo, soprattutto per effetto delle ricerche svolte in ambiente peripatetico, e poi nei grandi centri di cultura e di erudizione dell’ellenismo; e nell’ambito della storiografia questo gusto per la ricerca libresca, d’archivio e di testi epigrafici, sarà per esempio espresso nell’opera di Timeo di Tauromenio (circa metà quarto – metà terzo secolo a. C.); ma Polibio, il più insigne storico dell’età ellenistica, criticherà Timeo per il fatto che nello storico siceliota l’interesse per l’informazione documentaria appare scisso dall’esperienza militare e dalla visione diretta dei luoghi da descrivere (i due momenti che, nella metodologia storiografica polibiana, devono precedere lo studio dei documenti).
Lo scarso interesse dei grandi storici del quinto secolo per la documentazione scritta è in effetti l’altra faccia della loro esigenza di esperienza diretta delle cose narrate.
Eraclito aveva affermato che gli occhi sono testimoni più veritieri delle orecchie: Erodoto sembra condividere questa opinione (18,2); ciò non significa che egli non tenga conto delle tradizioni orali pervenute attraverso un lungo percorso orale (che sono gran parte della sua storia), ma che egli considera tanto più valida la sua testimonianza e quella altrui quanto più fondata su un’esperienza diretta.
Ecateo: figlio di Egesandro, nacque da famiglia nobile a Mileto, nella Ionia d’Asia, circa il 560-50 e morì circa il 490-80 a. C.
Ecateo fu un viaggiatore: di sue esperienze in Egitto, che dovevano stimolare in lui un atteggiamento critico verso le tradizioni mitico-genealogiche dei greci, racconta Erodoto (2. 143).
Il clima intellettuale della città natale e l’esperienza di vita si dovevano riflettere nelle due opere di Ecateo, di cui conserviamo solo scarsi frammenti: l’opera geografica, in 2 libri (Europa e Asia: per il secondo libro sussistono invero nella tradizione problemi di attribuzione), citata dagli autori antichi come Perieghesis o Periodos ghes (Descrizione o Circuito [Carta] della terra: per alcuni studiosi il secondo titolo indicherebbe specificamente la carta geografica collegata con l’opera), e a cui appartengono i più dei frammenti rimasti; e quella storica, più precisamente genealogica (indicata nella tradizione come Istoriai o Genealoyiai [forma ionica Gheneloyai] o Erooloyia, in 4 libri); le due opere furono composte tra il 520 e il 490 circa, forse nell’ordine di successione che abbiamo ora dato.
Del ‘razionalismo’ di Ecateo (F. Jacoby, FGrHist 1) si suol vedere una conferma nel disinvolto e accorto realismo dei consigli dati al tempo dell’insurrezione ionica contro la Persia, 499-494 a. C. (Erodoto, 5. 36; 125).
Complesso il rapporto di Erodoto con Ecateo, che è insieme di derivazione e di critica.
Erodoto: figlio di Lyxes (un nome cario), nacque intorno al 484 ad Alicarnasso, una città dell’Asia minore, fondata dai Dori, ma ionizzata nella lingua e almeno in parte della popolazione, al più tardi nel corso del sesto secolo.
Aristocratico di nascita, Erodoto conobbe ancora giovane l’esilio, dopo un tentativo di abbattere la tirannide di Ligdami: suo rifugio fu l’isola di Samo.
Circa il 455 contribuì alla caduta del tiranno.
Erodoto non visse a lungo nella città natale; oltre alle vicissitudini politiche di cui s’è detto, lo allontanarono da Alicarnasso i ‘grandi viaggi’ in quelle regioni del vicino Oriente (Egitto, Fenicia, Mesopotamia, Scizia) che descrive nella sua opera (avvenuti all’incirca tra il 455 e il 445); un soggiorno ad Atene e in altre città della penisola greca, in cui egli tenne letture (a pagamento, almeno in parte) delle sue Storie (si ricordano, accanto alle conferenze ad Atene, quelle ad Olimpia, Corinto, Tebe); un soggiorno a Turii, la fondazione panellenica nella Magna Grecia (444/3), ispirata da Pericle, della quale ebbe anche la cittadinanza.
Erodoto vide gli inizi della guerra del Peloponneso, e perciò morì non molto dopo il 431 a. C.
Le sue Storie, in 9 libri (ma la ripartizione è di epoca alessandrina, e forse ancor più tarda la designazione, già nota a Luciano, di ciascun libro con nome di una Musa), si sogliono comunemente considerare come una storia delle guerre persiane.
In realtà le guerre greco-persiane, quella del 490 e quella degli anni 480 e seguenti, sono narrate solo dal sesto libro in poi.
Ciò che precede, si presenta come una storia soprattutto dell’Oriente e della Grecia, dalla metà del sesto secolo in poi, sino all’insurrezione ionica compresa (con ampie digressioni etnografiche, sull’Egitto, sulla Sicilia, su Cirene ecc.), in cui un’essenziale funzione di limite storico è assolta dall’espansione persiana.
Nell’Ottocento si fondava una “questione erodotea”: che posto hanno le guerre persiane in un’opera così composita?
Si è sostenuto che l’opera risulti dalla fusione di varie monografie (logoi: è la teoria di Schöll, 1854, e di Bauer, 1878, poi perfezionata da Jacoby); che il tema sia quello di una storia persiana (Persika) in generale, e dei vari popoli, nell’ordine secondo il quale vennero a conflitto coi persiani e ne furono assoggettati (De Sanctis), una storia che perciò culmina solo progressivamente nella narrazione delle guerre persiane; o che, nata da interessi geografici, sia maturata solo col tempo e in un’opera storica (von Fritz).
Oggi comunque l’apparente dispersione e complessità della storia erodotea viene piuttosto studiata con l’occhio rivolto al particolare tipo di storiografia che rappresenta (in cui l’oralità ha ancora il suo peso) e al pubblico vario a cui è destinata; si cerca più di apprezzare la ricchezza dell’informazione e il modo di procedere dell’esposizione (per associazione di idee), che commisurarla a rigidi canoni di unità e staticità.
Pag. 309-12
Si parla spesso delle guerre persiane come fattore decisivo nella formazione del sentimento di unità nazionale presso i greci.
Quanto queste proposizioni siano frutto di indebiti trasferimenti di nozioni moderne (e non-elleniche) al mondo greco, risulta già dalla semplice constatazione che, poco dopo, esplose (e coinvolse i greci) il conflitto fra Atene e Sparta; che Sparta non esitò a servirsi dell’aiuto persiano contro Atene nella guerra del Peloponneso; che la Persia influenzò le vicende greche per vari decenni del quarto secolo.
Di volta in volta, certo, alcuni greci combatterono contro i persiani, ma mai tutti i greci contro i persiani.
Vero è che le guerre persiane furono un eroico combattimento: in favore della libertà greca, che in quegli anni era minacciata da una politica persiana sempre arrogante e allora divenuta invadente.
Ma dire che, dopo Salamina e Platea, per 150 anni un esercito straniero non calpestò più il suolo greco (Bengston), lascia un po’ in ombra il fatto che la Grecia anche prima del 490, e per secoli, non era stata toccata da alcun esercito straniero.
Le condizioni per la coscienza di un Hellenikon, dell’”ellenicità”, s’erano date già molto prima, come somma globale della coscienza di parentele culturali: si pensi al periodo della colonizzazione del Catalogo delle navi; al periodo in cui Archiloco parla di “miseria panellenica” (Panhellenon oizus) raccolta a Taso; al periodo stesso delle tirannidi (la gara, quasi panellenica, di pretendenti alla mano di Agariste): e così via di seguito.
Sono altrettanti indirizzi dell’esistenza di una ‘coscienza ellenica’, che le guerre persiane ribadirono (e non senza eccezioni e spaccature), ma non crearono per la prima volta né in forme radicalmente nuove.
Pag. 313
Bibliografia
Introduzione alle guerre persiane / G. Nenci. – 1958
La rivolta ionica / P. Tozzi. – 1978
Plutarco e il quinto secolo / M. A. Levi. – 1055
Temistocle, Aristide, Cimone, Tucidide di Melesia fra politica e propaganda / L. Piccirilli. – 1987
La spedizione di Serse da Terme a Salamina / G. Giannelli. – 1924
Tra Orfeo e Pitagora: origini e incontri di culture nell’antichità / a cura di M. Tortorelli… et al. – 1996-98
Poesia e pubblico nella Grecia antica / B. Gentili. – 1984
Società antica / D. Musti. – Laterza, 1973
Il razionalismo di Ecateo di Mileto / A. Momigliano. – 1931
Intorno al razionalismo di Ecateo / G. De Sanctis. – 1933
La composizione della storia di Erodoto / G. De Sanctis. – 1926
Il momento del classico nella grecità politica / M. Pavan. – 1972
La forma proemiale: storiografia e pubblico nel mondo antico / L. Porciani. – 1997
Prime forme della storiografia greca / L. Porciani. – 2001
Cap. 5. Il cinquantennio dall’età di Temistocle all’età di Pericle
Per pentecontaetia i moderni intendono il periodo di circa 50 anni che intercorre tra la fine delle guerre persiane (con la conseguente fondazione della Lega navale delio-attica) e l’inizio della guerra del Peloponneso.
L’espressione non è così antica, come può far ritenere il suo aspetto, né di uso così frequente ed univoco nelle fonti antiche come può far credere la sua diffusione nei testi moderni.
L’astratto pentecontaetia (“cinquantennio”) è anzi di uso rarissimo; nella storiografia di Diodoro Siculo appare l’equivalente concreto “periodo di cinquanta anni”; ma l’idea di considerare unitariamente quegli anni ricchi di eventi diversi e complicati, che investono teatri storici disparati, configurabili in fasi realmente distinte tra loro, è di Tucidide, perciò nel fondo antica e in parte, anche se solo in parte, giustificata.
Per Tucidide il periodo è un’ampia premessa alla narrazione della guerra del Peloponneso, la lunga gestazione dello scontro tra Atene e Sparta.
Al di là di aspetti particolari, e diversità d’opinioni possibili solo in questioni specifiche, il modo in cui Tucidide (nel primo libro delle Storie) rappresenta le vicende e le responsabilità storiche del cinquantennio di preparazione alla guerra del Peloponneso è alquanto chiaro.
In esso si mescolano (e sarebbe insensato tentare di distinguerle, contrapporle, privilegiare una sull’altra) due nozioni fondamentali.
L’una è quella secondo cui gli Stati tendono a crescere (auxanesthai) come esseri organici; se perciò in un determinato spazio storico, geografico, politico coesistono e concrescono due realtà di questo tipo, è anche una sorta di dato naturale, fisiologico, che esse si scontrino; ed è appunto quel che è inevitabile accada fra Sparta e il mondo peloponnesiaco da un alto, e Atene e il suo impero dall’altro.
Con questa concezione naturalistica di fondo (di radicale e fatalistico pessimismo) si intreccia una concezione, più critica, delle responsabilità di ciascuna di queste realtà: Sparta è la città che psicologicamente si configura come il mondo della conservazione, dell’avversione al nuovo, del timore di ciò che è diverso, distante, in movimento; Atene è la città del coraggio, dell’audacia, dell’iniziativa, dell’intraprendenza che sconfina nel gusto del rischio, dell’avventura, del nuovo e del grande, spesso del troppo grande.
Pag. 322-23
Secondo il giudizio di Beloch, Pericle aveva più qualità di ‘parlamentare’ che di ‘uomo di Stato’.
Appare evidente il significato che qui viene ad assumere la figura dell’uomo di Stato: essa è misurata nei termini della politica di potenza.
In Beloch operava anche una nozione negativa del parlamentarismo e dell’uomo politico in genere; per questo gli sfuggiva quello che è invece l’apporto specifico e più creativo di Pericle.
Si può dare a ‘Stato’ una nozione assai vasta, come comunità fornita di un suo autonomo potere, dotata di un suo territorio, di sue risorse, suoi mezzi di difesa o anche di offesa.
Ma si può proporre una nozione più restrittiva ed esigente, in cui la statualità è direttamente proporzionale alla definizione e al consolidamento di un sistema di funzioni e valori pubblici, che si forma, di fatto, proprio attraverso uan decantazione del pubblico (che è, evidentemente, al tempo stesso una decantazione del privato).
Il separarsi delle due sfere e il consolidarsi di quella pubblica sono da considerare, all’interno della storia politica greca, come il processo e il momento di formazione dello Stato, nel senso più rigoroso del termine.
Di questo processo certamente, nella storia greca, massimo fautore fu Pericle, come vedremo attraverso l’esame delle decisioni e innovazioni politiche più significative.
Dal punto di vista della politica estera, Pericle appare come un personaggio di più discutibile profilo, perché il suo periodo di governo ingloba il momento della maggiore espansione della Lega delio-attica, ma anche momenti di grave crisi interna, connessi con le ribellioni (451-440) di Mileto, dell’Eubea (Calcide ed Eretria), di Samo, e con l’avvio di un conflitto, la guerra del Peloponneso, che doveva produrre la scomparsa dell’impero medesimo.
La strategia di Pericle, di contenimento e logoramento dell’avversario, ebbe pochissimo tempo per esplicarsi, dato il rapido sopravvenire della morte dell’uomo politico (nel 429), nel corso della peste scoppiata ad Atene nel 430.
Poté così restare, consegnato alle parole di Tucidide e alle pagine di altri scrittori, il dubbio circa gli esiti che avrebbe avuto la guerra tra Atene e Sparta, se nel corso degli anni fosse stato dato semplicemente seguito alla strategia di Pericle.
Ma né oggi né ieri la storia, cioè la ricostruzione storica, si è potuta fare con i se; e nella storia resta più la responsabilità di Pericle, di aver voluto o aver fatalisticamente accettato lo scontro globale con Sparta, che non il merito di una conclusione politicamente buona.
Pag. 336-37
E tuttavia va detto qualcosa di più sul problema del predominio del politico, poiché questo c’è si, nella polis del quinto secolo (come anche del quarto), ma solo a livello ideologico.
Infatti, l’ambito del privato si configura come il regno dell’individuale (o familiare) e del diverso, e anche della divergenza; così come il pubblico si presenta coem il regno dell’uguaglianza e dell’omologia.
Due cose distinte e diverse, dunque, in prima istanza; eppure due cose che debbono essere messe in rapporto e d’accordo, fra loro, nella visione periclea.
Ed è qui, solo qui, solo a questo punto che appare il famoso (ma bisognoso di corretta definizione) ‘predominio del politico’.
Infatti il problema storico che si pone per Pericle è quello di conciliare, di raccordare, di armonizzare; ma poiché il luogo privilegiato dell’accordo, della concordia, dell’omologia è per definizione (definizione di Pericle, in primo luogo) quello del politico, per questo il risultato complessivo (ma storico e mediato) porterà il segno del politico.
Lo Stato pericleo si incaricherà quindi, in quanto realtà politica, di realizzare l’accordo e l’armonia (il consenso dunque) tra il mondo del diverso e del conflitto, che è quello del privato e dell’economia, e quello dell’accordo e dell’intesa, a cui corrisponde la sfera dei diritti politici generalizzati, la sfera del pubblico.
In parole povere, e riducendo all’essenziale: le leggi, nello Stato pericleo, consentono di essere ricchi (e di arricchirsi); ma sono appunto le leggi che lo consentono.
Tuttavia, poiché siamo su un terreno di sviluppo storico, che la ricerca degli elementi sistematici non dovrebbe mai farci dimenticare, bisogna attenuare l’impressione che il valore del pubblico proprio della democrazia periclea sia storicamente qualcosa di radicalmente nuovo: lo è, in quanto a sua volta ‘liberato’ dal sociale, cioè dalle vecchie distinzioni aristocratiche secondo connessioni familiari e rango economico, e in quanto definito in nuove istituzioni; ma è anche vecchio, perché esso è anche l’estensione e lo sviluppo (in altro ambito e in diversa misura e con diversa qualità) del vecchio valore ugualitario dell’isotes, e di valori omogenei, prodotti dalle precedenti comunità aristocratiche.
Direi però che questo è l’aspetto più noto dei nostri studi di storia greca.
E’ più stimolante invece considerare l’aspetto correlato: il privato della democrazia greca è sì in gran parte il privato tradizionale, quello della proprietà e del privilegio, che Pericle lascia di fatto in vita, ma è anche (segno dei tempi nuovi, del clima culturale nuovo che alla democrazia periclea si accompagna) un privato di tipo molto individuale, quello dei nuovi bisogni, di un’educazione più ricca e di un uso libero della mente come del corpo: sì, anche del corpo, quale Pericle rivendica (diciamolo a scanso di equivoci modernizzanti) in antitesi all’educazione militaristica spartana, che vincola il corpo al di là di quel che gli ateniesi ammettono per sé.
Questi, secondo ciò che dice Pericle, sanno goderne liberamente, e senza inutili costrizioni, e però sanno anche, al momento opportuno, combattere e morire per la propria città.
Il valore politico appare qui ancora una volta come una sorta di terminale ideologico, che alle spalle si lascia però, nella realtà conosciuta e accettata, un forte spazio disponibile.
Pag. 339-40
Non tutte le spedizioni ateniesi in direzione di Cipro significano la potenza e l’iniziativa di Cimone, anche se è vero l’inverso, che cioè Cimone, già all’epoca della battaglia (o delle battaglie) dell’Eurimedonte (470?) e poi ancora alla fine della sua vita (451-449), mostra interesse a interventi nell’isola in chiara funzione antipersiana, complessivamente nazionalista, in coerenza con i principi della sua politica estera.
La prima spedizione ateniese contro Cipro veniva antedatata da Beloch, convinto che la si dovesse connettere con un’iniziativa di Cimone: ma la meccanicità del criterio, e il silenzio di Tucidide, interessato, per affinità ideale e legami di parentela, alle azioni di Cimone, inducono a rigettare un collegamento di questo con la spedizione ateniese a Cipro e in Egitto degli anni 460/459 e seguenti.
Alla spedizione in Egitto si attribuisce di solito una finalità di ordine economico: la conquista di un paese produttore di grano.
Non siamo certo di coloro che negano che nella storia il movente economico svolga un ruolo importante; tuttavia, proprio in questo caso sembra diversa la dinamica del conflitto.
Inaro, principe dei Libii ai confini con l’Egitto, invita a intervenire in Egitto gli ateniesi, che si accingevano ad attaccare Cipro con 200 navi.
In primo luogo, dunque, la spedizione d’Egitto fu determinata da un’occasione presentatasi in un contesto diverso.
L’attacco a Cipro rientrava nel quadro di una liberazione del Mediterraneo dai persiani e la rivolta dell?Egitto offriva innanzi tutto l’occasione per completare l’opera.
Pag. 346-47
E’ l’inizio di quella che nei manuali viene spesso indicata come prima guerra del Peloponneso.
L’espressione è impropria e fuorviante, rispetto al vero significato della Guerra del Peloponneso per eccellenza, l’unica guerra nota con questa definizione alla tradizione antica.
Il significato di quel complemento di specificazione (“del Peloponneso”) è che si trattò della guerra portata dai peloponnesiaci contro Atene: quel genitivo è un genitivo (come ben osserva Pausania in un passo, 4. 6,1, che confronta la definizione con altre di tipo oggettivo, quale ad esempio “guerra di Troia”, la guerra cioè che ebbe Troia come oggetto e teatro degli scontri).
Parlare di una prima guerra del Peloponneso, per una serie di conflitti tra Atene e Sparta (459-446), che per la massima parte ebbero come teatro il Peloponneso, significa dunque pregiudicare – e in senso improprio - il significato autentico dell’espressione Peloponnesiakos polemos.
Quest’ultima è definizione, per la guerra scoppiata nel 431 a. C., largamente diffusa nei testi antichi, che trae però la sua origine dall’impostazione stessa di Tucidide: infatti, a parte il complesso problema delle responsabilità ultime, per Tucidide non sussiste dubbio sul fatto che, ad aprire le ostilità nell’immediato, fu appunto la Lega peloponnesiaca, capeggiata da Sparta.
La guerra del Peloponneso è insomma per lui una guerra che viene portata dal Peloponneso contro l’Attica.
Pag. 348-49
Più difficile delineare la politica ateniese nelle regioni del Mediterraneo occidentale.
I racconti centrati intorno a grandi personalità, anche se inseriti nel contesto di opere a carattere storico e non specificamente biografico, ricevono, dalla stessa cornice in cui si trovano collocati, caratteri di continuità; per i moderni è quindi, tutto sommato, facile raccogliere le spedizioni ateniesi nel Mediterraneo orientale intorno all’iniziativa di un personaggio, visto che la storiografia antica ha già preparato il terreno in questo senso.
Per le stesse ragioni, è difficile tracciare una chiara linea di sviluppo della politica e delle imprese di Atene in Occidente.
Si questi fatti le fonti sono eterogenee (scarsi cenni letterari, che si presentano come rinvii casuali da fatti successivi) o epigrafi di non facile datazione, o non chiare nella definizione del carattere di novità o di ripetizione dell’alleanza che registrano.
Negli anni Cinquanta Atene persegue una politica di intese con gli elementi non greci (anche se grecizzati) della Sicilia occidentale (gli Elimi di Segesta, con cui stipula forse un’alleanza nel 458/457 o 454/453), con città non doriche di Sicilia (Leontini) e d’Italia (Reggio, le cui vicende tradizionalmente si mescolano con quelle della città di Sicilia).
A questo ambiente si rivolge l’iniziativa dell’invio di una flotta da parte di Atene nel golfo di Napoli, in data non definibile.
Di spiriti diversi sarà l’iniziativa della fondazione della colonia panellenica di Turii nel 444/443.
Le imprese degli anni Cinquanta sono dirette anche verso regioni lontane da Atene: Egitto e Sicilia, due sogni grandiosi, che danno la misura di una ricerca del ‘grande’, nello spazio come nella mole dell’impresa, in piena corrispondenza con quel clima di esaltazione della democrazia ateniese, che si avverte nella politica come nella psicologia di massa (le prospettive di acquisizione di aree granarie restano per ora forse solo all’orizzonte).
Nonostante lo scossone, risultante dalla sconfitta in Egitto nel 454, i piani grandiosi non vengono ancora meno.
Pag. 351-52
Atene diventa ormai la portatrice dell’idea democratica: un atteggiamento che accentua il conflitto ideologico, la creazione di fronti contrapposti nel mondo greco.
Non bisogna evidentemente immaginare (ciò che abbiamo già detto lo dimostra) che Atene esportasse la democrazia univocamente in tutte le direzioni.
Le distanze contano, e con esse le coerenze geografiche: in Eubea (con maggiore intransigenza) come in Beozia, come forse a Megara, Atene ha cercato, già negli anni tra Enofita e Coronea, di esportare il regime democratico.
A maggior distanza l’irradiazione è meno sistematica, ma i tentativi (o le tentazioni) non mancano.
Dice la diversità e gradualità delle interferenze la complessa vicenda della ribellione (sarebbe meglio dire ‘delle ribellioni’) di Samo tra il 441 e il 439.
Ma è la seconda metà degli anni Quaranta il periodo in cui si consolida la politica sociale di Pericle, l’attività nel campo dell’edilizia pubblica, la costruzione dello Stato sociale, la democrazia nautica, la ricerca di una centralità per Atene nel mondo greco.
Come il modello si rafforza, l’opposizione interna cresce.
Ma Pericle è ancora in grado di vincere: di qui, l’ostracismo di Tucidide figlio di Melesia, probabilmente nel 444/443.
Le iniziative di politica estera sono meno ispirate a mania di grandezza: nel 444/443 viene fondata, sul sito dell’antica Sibari, una colonia panellenica.
Sulle dieci tribù, che rappresentano l’impronta attica più evidente, solo quattro, l’Atenaide, la Iade, l’Euboide e la Nesiotide, richiamano Atene e il mondo ionico; tre sono del Peloponneso non dorico, l’Arcade, l’Acaide, l’Elea; due, forse tre, della Grecia centrale, la Beotica, l’Anfizionica, e la Doride, come credo, e non ai dori del Peloponneso).
Il sito è lontano, ma l’atteggiamento non è di mera conquista e di sfida al restante mondo greco.
Ma entro l’impero navale i contorni della politica di dominio, della lotta ideologica, dell’immagine nuova di Atene da proiettare verso l’esterno e verso l’interno, si fanno più netti.
Si è parlato spesso di un imperialismo pacifico che seguirebbe, dopo la pace trentennale del 4467445, a un imperialismo aggressivo, bellicista.
Forse è più giusto parlare di un imperialismo più duro all’interno dei confini dell’impero, e ideologicamente più connotato, che succede a un espansionismo, degli anni fino al 446, che agli antichi (e talora anche a noi) appare alquanto megalomane e dissennato.
Si vanno determinando le condizioni di una spaccatura netta, politica e ideologica, all’interno del mondo greco.
In termini di storia culturale, è anche il vero periodo ‘classico’ della storia greca: dove il momento del ‘classico’ coincide, nei suoi pregi e nei suoi costi, nel bene e nel male, con quello delle grandi divaricazioni, delle rigorose decantazioni.
Pag. 355-57
Non si può costruire la storia politica e ideologica di questi anni, complessa nei particolari ma chiara negli sviluppi complessivi, su una considerazione rigidamente formalistica dell’uso di demos e democrazia, rispettivamente.
La presenza della seconda parola è certo argomento più forte; quella di demos resta più ambigua, anche se può essere una semplice variante.
L’elaborazione dell’idea democratica come segno di contraddizione compie un netto passo in avanti intorno al 440, ma è già una realtà negli anni che immediatamente precedono.
Il sistema fondato da Pericle portava in sé i suoi rischi e le sue contraddizioni.
La parabola politica percorsa da Pericle è quella di un leader democratico in grado di controllare il rischio di un declino del favore popolare, quando (come è nel 430) Pericle chiede al popolo ateniese vistosi sacrifici in guerra, senza evidenti vantaggi o sbocchi positivi.
Pag. 358
La politica di Pericle sembra piuttosto configurarsi come un complesso sistema, che innovò per alcuni aspetti, conservò per altri, e verso cui si fece comunque sentire profondamente un’opposizione conservatrice, quale si esprime, con un alto grado di probabilità, nella Costituzione degli ateniesi pseudo-senofontea.
Naturalmente si poteva anche dare una qualche strumentalizzazione, ad opera di oppositori di parte conservatrice, proprio degli atteggiamenti tradizionalistici della grande massa.
In questo potrebbe risiedere la genesi delle accuse di empietà (asébeia), rivolte ad Anassagora, il filosofo di Clazomene, teorico del nous (la mente) come principio universale, amico e maestro di Pericle e degno rappresentante di quell’impulso razionalistico che il secolo della democrazia conosce, al tempo stesso promuovendolo e mettendolo a frutto.
A muovere le accuse fu un chresmologos (raccoglitore e interprete di oracoli), degno rappresentante di una religiosità popolare delle più tradizionaliste e retrive, Diopite (forse attivo a Sparta circa il 400 a. C. nel diffondere oracoli contro lo zoppo Agesilao).
Le accuse sono assai simili a quelle che circa il 400 a. C. saranno mosse a Socrate.
Anassagora si sottrasse alla condanna abbandonando Atene e ritirandosi a Lampsaco, in Asia minore, nella regione, anche se non nella città, da cui proveniva (vi morrà nel 428).
A lui, nativo di una città dell’impero, Atene aveva aperto le porte, in quel clima di larga circolazione di uomini e di idee, che l’Impero ateniese aveva creato.
Pag. 359-60
Non convince del tutto, in queste condizioni, la definizione di Pericle come “re non coronato” di Atene.
In tutti i suoi sviluppi l’età di Pericle appare come quella in cui i meccanismi di una democrazia autentica vengono lasciati funzionare, almeno in linea di principio, in quella autonomia che ne è la quintessenza.
Pericle cerca di bloccare i singoli sviluppi, ma non sembra aver mai rimesso realmente in discussione i principi stessi.
Socialmente questi meccanismi, una volta introdotti, potevano portare alla ribalta uomini come Cleone: Pericle potrà non aver gradito esiti del genere, ma era certo ben consapevole che il suo sistema comportava, tra le diverse possibilità, anche questa.
La risposta di un democratico alla Pericle poteva solo essere quella di chi cerca di far sì che, dal campo di possibilità una volta posto in essere la democrazia, emerga questo determinato sviluppo concreto e non quello, lasciando però che il campo di possibilità uan volta creato sussista per intero.
Se, d’altra parte, Pericle avesse subito una vera opposizione popolare, nel segno di una contrapposizione ideologica, e questa si fosse sommata con l’opposizione conservatrice, egli non avrebbe continuato ad essere eletto annualmente stratego, come fu invece anche dopo il ritorno dell’ostracismo di Tucidide di Melesia (4337432), un rientro che avrebbe dovuto operare la combinazione e la sommatoria delle due opposizioni presenti.
Il primo vero conflitto col popolo produrrà solo nel 430, quando i ‘sacrifici’ della guerra faranno individuare (e neanche del tutto a torto) un capro espiatorio in Pericle, che viene deposto dalla strategia, per essere però subito rieletto stratego nel corso del 430/429.
La peste lo stroncò nell’esercizio di una ormai pluriennale funzione.
Pag. 363
Nota integrativa
In tema di migrazioni culturali significative, dopo la diaspora di eminenti personalità della cultura ionica verso Occidente, avvenuta per effetto della conquista persiana della Lidia (546) o della restaurazione seguita alla repressione dell’insurrezione ionica (494/493), il movimento più cospicuo è quello dell’afflusso di intellettuali ad Atene, quale si determina dopo le guerre persiane e soprattutto nel clima della democrazia efialteo-periclea.
Atene diventa un centro capace di richiamo per gli uomini e le espressioni culturali più diversi, un ambiente intrinsecamente cosmopolita, dove l'intellettuale viaggiatore sa di poter trovare ascolto, e occasioni di incontro e di confronto.
Le provenienze sono le più disparate: da centri dell’impero navale, come da regioni del Peloponneso meno soggette (o non soggette) al controllo spartano, o da centri dell’Occidente greco meno legati alle città della lega peloponnesiaca.
Da Clazomene giunge, intorno agli anni Sessanta, Anassagora, il teorico del nous (la mente) della forza determinante che produce le distinzioni all’interno della mescolanza del chaos; la sua riflessione rappresenta il punto d’arrivo (e insieme il superamento) del naturalismo ionico, nella direzione di un intellettualismo e id un razionalismo, che contribuisce (e al tempo stesso corrisponde) alle caratteristiche culturali di fondo della democrazia periclea.
L’ultima fase periclea e il periodo della guerra archidamica e delle connesse convulsioni che attraversano il mondo greco sono caratterizzati dall’arrivo dei grandi sofisti: Protagora, dalla vitale Abdera in Tracia (fondazione degli ioni emigrati dall’asiatica Teo), da cui proviene probabilmente l’atomista Leucippo e certamente il discepolo Democrito; intorno agli anni Cinquanta da Elea (in Italia) vengono Parmenide e Zenone, i teorici dell’’essere’; qualche decennio più tardi da Leontini (Sicilia) verrà Gorgia, da Ceo (nelle Cicladi) Prodico, dall’Elide Ippia.
E’ un vitale afflusso, incontro, proliferare di idee intorno al ruolo dell’uomo come misura di tutte le cose (Protagora), ai modi e all’efficacia della persuasione retorica (Gorgia), alle infinite possibilità di distinzione che il linguaggio consente (Prodico), alla necessità di scansioni cronologiche di validità generale (Ippia).
Il clima della democrazia periclea e post-periclea è però idoneo allo scontro, non meno che all’incontro delle idee: alla riflessione critica verso la religione tradizionale di un Anassagora di Clazomene, di un Diagora di Melo (Diagora l’ateo), dello stesso Socrate, fa riscontro da un lato il tradizionalismo battagliero di un Tucidide figlio di Melesia o di un Diopite, e dall’altro, semmai, l’introduzione di nuovi culti dall’Oriente o la crescita e la diffusione ci culti greci che nel passato erano stati minori (come, rispettivamente, la tracia Bendis o il greco Asclepio).
Pag. 373-74
Bibliografia
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L’economia in Grecia / D. Musti. – Laterza, 1981
L’ideologia del potere e la tragedia greca: ricerche su Eschilo / V. Di Benedetto. – 1978
Teatro e storia della Grecia antica / F. Sartori. – In: La polis e il suo teatro. – 1979
Storia dell’urbanistica: il mondo greco / E. Greco, M. Torelli. – Laterza, 1983
Pittura greca: da Polignoto ad Apelle / P. Moreno. – 1987
Arte e artigianato in Grecia / V. Saladino. – 1988
Protagonismo e forma politica nella città greca / D. Musti. – In: Il protagonismo nella storiografia classica. – 1987
Lavoro manuale e lavoro intellettuale nell’antica Grecia / B. Farrington. – 1953
Polis: lavoro e tecnica / R. Mondolfo. – 1982
L’Atene di Aristofane / V. Ehrenberg. – 1957
Urbanistica delle città greche / A. Giuliano. – 1966
Alimentazione e demografia della Grecia antica / L. Gallo. – 1984
Gli schiavi nella Grecia antica dal mondo miceneo all’ellenismo / Y. Garlan. – 1984
Cap. 6. La guerra del Peloponneso come guerra civile dei greci
La pace del 446/5 tra gli spartani (e la Lega peloponnesiaca) e gli ateniesi, prevista per trent’anni, ne durò assai meno.
Si può dire che già gran parte degli anni Trenta siano percorsi dalle avvisaglie del conflitto che lacererà il mondo greco (pur con una grande pausa) dal 431 al 404: la guerra del Peloponneso.
Dal nome, che antichi e moderni hanno attribuito al conflitto, si può essere indotti a collocarlo nella serie dei numerosissimi eventi bellici che punteggiano la storia greca in una serie quasi ininterrotta.
E’ invece evidente che si tratta di una guerra che, pur avendo come oggetto, come di consueto, la potenza o il potere, ha in più una fortissima connotazione ideologica, corrispondente alla radicalizzazione dello scontro politico in Grecia.
E’ la ‘guerra civile’ dei greci: ma, appunto, combattuta alla greca, cioè da quei soggetti storici preminenti nella storia ellenica che sono le poleis.
E’ dunque la contrapposizione cruenta non di due partiti all’interno di un territorio nazionale unitario, ma di due tendenze politiche, cui aderiscono le molteplici entità del variegato mondo greco, le poleis, come altrettante molecole di questo scontro: anche se, ovviamente, anche all’interno di queste, c’è un riflesso di questo scontro interstatale; ci sono dunque città democratiche e città oligarchiche e inoltre, all’interno di molte singole città, di nuovo i due partiti contrapposti.
Se questo è il profilo generale e la collocazione complessiva all’interno della storia dei conflitti greci, la dinamica specifica va perseguita un paio di decenni più in alto, sulla scorta, del resto, di Tucidide, che nella pentecontaetia (1. 23 sgg.) dà una rappresentazione complessivamente unitaria (anche se certo non statica) dei processi che conducono allo scoppio del conflitto nel 431.
Si assume coem data d’inizio l’invasione dell’Attica da parte dell’esercito peloponnesiaco, guidato dal vecchio re di Sparta Archidamo 2.; onde il nome, esteso un po’ impropriamente a tutto il primo decennio di guerra (431-421), di guerra archidamica (il re spartano morì invece già nel 427).
Pag. 393-94
Le guerre nascono, nella genesi immediata, come guerre territoriali; i conflitti dunque hanno dimensioni e coerenze areali.
Alla guerra del Peloponneso si attribuiscono, sempre sulla scorta di Tucidide, come cause reali, tre o quattro grandi fatti: l’intervento di Atene nel conflitto scoppiato tra Corinto e la sua colonia nel mar Ionio, Corcira, per il comportamento da tenere nel conflitto civile tra i democratici e gli oligarchici ad Epidamno (a Corcira si rivolgono gli esuli oligarchici, a Corinto i democratici che si sono impadroniti del potere); la ribellione di Potidea, colonia corinzia sull’istmo della penisola Pallene, la più occidentale della Calcidica, contro la pretesa ateniese di indebolirne i rapporti con Corinto; il decreto di Atene contro i diritti commerciali di Megara, sita appunto tra Atene e Corinto.
Si può forse premettere un episodio del 437, che investe già l’area corinzia, cioè l’intervento dello stratego ateniese Formione a favore degli epiroti nel conflitto con Ambracia, altra colonia corinzia, nella parte sud del territorio epirota, in posizione diagonale rispetto ad Azio.
Sono le colonie di Corinto, dunque, il bersaglio diretto di Atene (che presto dimostrerà, indirettamente negli anni Trenta, direttamente più tardi – non senza precedenti ancora più antichi – un’analoga ostilità contro la colonia corinzia d’Occidente, Siracusa).
In questo primo blocco di dati si riscontrano le consuete contrapposizioni di ordine territoriale (Corinto poteva sentirsi minacciata ad esempio dall’eventuale presenza ateniese nella confinante Megara) e forse altre ancora, di natura economica anch’esse, ma di tipo diverso (una concorrenza mercantile).
La matrice corinzia di queste cause immediate della guerra del Peloponneso è dunque evidente, non meno del profilo di contrapposizione tra Sparta e Atene, che il conflitto assume.
Sono i due piani sui quali occorre situare il conflitto, che da conflitto ‘areale’, non privo di connotazioni ideologiche (eppure le costellazioni corinto-democratici di Epidamno da un alto, e Atene-Corcira-oligarchici di Epidamno dall’altro, nel 436 a. C., non sono ancora di questo segno), diventa presto conflitto fra due gruppi di Stati, due schieramenti, due ideologie.
Pag. 394-95
Gli interventi ateniesi furono numerosi, e lo furono a causa delle insufficienze volta per volta dimostrate dai corpi di spedizione (prima 30 triremi con 1000 opliti, poi 40 triremi con 2000 opliti), e della necessità di contrattaccare e fronteggiare Perdicca 2. di Macedonia, a cui fu tolta dapprima Terme e minacciata Pidna, e poi (nell’estate del 431) restituita la vitale posizione di Terme.
Di fronte a una Lega peloponnesiaca sempre più disposta a controazioni, Pericle compì un passo che doveva rivelarsi decisivo, ma anch’esso dello stesso spirito politico delle precedenti misure: una decisione ostile, che colpisce nei fatti una città della Lega peloponnesiaca, ma che si presenta come una decisione interna alla Lega navale attica: proibizione ai megaresi di frequentare l’agorà attica e i porti dell’impero.
Questo significava strangolare l’economia di una città che, come Megara, viveva delle esportazioni di tessuti e vesti di lana, connesse con il ruolo della pastorizia in un’economia che poteva contare molto di meno su terra da coltivare.
Pag. 397
La tradizione antica ha talora attribuito a Pericle la responsabilità della guerra e ha individuato i motivi di questa scelta nell’intento di creare un diversivo per le difficoltà suscitategli dall’opposizione, e nel desiderio di tutelare la sua posizione di potere: un quadro accolto anche da alcuni moderni.
Ma questa non è né la sola né la prima decisione di Pericle, che subisca in una parte della tradizione un’interpretazione di segno personalistico, forse non destituita di ogni fondamento e tuttavia fortemente riduttiva della portata politica della decisione medesima; anche dell’istituzione del sistema dei misthoi (indennità), così centrale nell’ideologia periclea e nella sua concezione dello Stato (perciò nella storia stessa dell’idea di Stato, in assoluto), fu data nella tradizione una motivazione personalistica (crearsi col denaro pubblico quella popolarità che non ci si poteva dare con i modesti mezzi finanziari privati).
D’altra parte un’interpretazione ben più complessa e rispettosa delle forze storiche in movimento, dei processi storici in atto, è quella che fornisce Tucidide.
Questi vede, nello scontro tra Atene (con tutto il suo impero) e i peloponnesiaci, l’esito ineluttabile di un processo naturale, quello della crescita (auxesis) di un organismo in piena espansione, qual era l’impero ateniese; l’intraprendenza storica che esso esibisce (puntuale riscontro dell’audacia, che è il segno storico complessivo dell’avanzata delle masse) fa contrasto con i timori di parte peloponnesiaca, timori che proprio quel fenomeno di crescita va ad alimentare fino alla reazione finale.
Il giudizio di Tucidide è chiaro: nella dinamica dei fatti l’iniziativa della guerra è dei peloponnesiaci (in questo senso, la guerra è del – cioè dal – Peloponneso); nelle cause ultime la responsabilità è dell’espansionismo ateniese.
Nonostante tutte le discussioni moderne, il quadro interpretativo tucidideo resta ancora oggi più valido.
Gli si potrà imputare un accentuato naturalismo e fatalismo nella concezione di fondo; si noterà il marcato psicologismo e pessimismo nella formulazione; si avvertirà anche l’inevitabile conseguenza del deciso sovraccarico di responsabilità ateniese, che a questo quadro naturalistico e psicologico logicamente inerisce, ma difficilmente si potrà andare oltre lievi correttivi, modesti aggiustamenti, opportune integrazioni.
Dunque l’espansionismo e il dinamismo ateniese da un lato, la dura volontà di difesa, che a un certo punto si rovescia in offesa e cerca di togliere l’iniziativa all’avversario, dall’altro, descrivono bene, nell’insieme, il sistema di cause che determina lo scoppio della ‘guerra civile’ dei greci.
A monte c’è il progressivo costituirsi degli elementi di due società, che pur con i numerosi fili che attraversano – come sempre nella storia greca – le distinzioni e le opposizioni, si vanno però costituendo come entità storiche in larga misura distinte e tendenzialmente fra loro alternative.
A che cosa mira però l’espansionismo ateniese, come interpretato ora da Pericle?
A che cosa si deve la resistenza di tanta parte della Grecia?
Sarebbe riduttivo anche solo tentare di individuare una direzione e un’intenzione unica.
Ma impostiamo la questione in un primo momento al negativo.
L’espansionismo ateniese non aveva necessariamente il fine di un’unificazione politica di tutta la Grecia; nel solco della tradizione e della consapevolezza delle possibilità interstatali greche, gli ateniesi potevano desiderare di allargare sempre di più, cominciando dalle zone più vicine, la loro sfera di influenza; e sempre più chiara avevano l’utilità di una esportazione del modello democratico come strumento di dominio.
Che essi abbiano invece progettato un’unificazione totale della Grecia (per esempio anche compresa Sparta) sotto il loro dominio, e la eliminazione, o anche solo la forte contrazione, delle diverse entità cittadine, cioè la costituzione di un’unità e continuità territoriale sotto il dominio di una sola capitale, non è dimostrabile; ciò non era forse neppur pensabile, almeno a quello stadio di sviluppo storico e di eventi.
Viceversa i peloponnesiaci si impadroniscono subito, alla vigilia della guerra, della bandiera stessa dell’eleutheria e dell’autonomia.
Il campo della demokratia, che era propriamente quello di Atene, se ne lasciava privare (e per la demokratia ciò rappresentava un costo storico pesantissimo).
Alla fine del conflitto, nel 404, il giorno in cui dopo la resa di Atene si abbatteranno le Lunghe Mura, sarà salutato come data d’inizio della libertà greca, e occorreranno vari anni prima che Atene possa, giovandosi degli errori e delle insufficienze di Sparta, recuperare alla parte democratica le parole d’ordine, decisive più di ogni altra nei rapporti interstatali greci, di libertà e di autonomia, facendo ricadere su Sparta l’accusa di voler minare in Grecia proprio quei principi.
Pag. 398-400
E’ del tutto comprensibile che, fra le due grandi rivali, sia Atene a impostare piani ispirati a grandiosità di iniziative e di progetti, alla capacità di muoversi su uno spazio assai ampio, di condurre guerre a distanza.
In un primo momento la nuova strategia sembra rendere bene; i peloponnesiaci stentano ancora a seguire gli avversari su questa strada.
La situazione è destinata a rimanere senza grandi mutamenti fino al 424, quando, con Brasida, gli spartani si metteranno su una strada simile, ma alla prova dei fatti un po’ più fruttuosa.
Per il momento le strategie grandiose si presentano ancora ricche di promesse: deve passare qualche tempo, perché la lentezza dell’adeguamento dei fatti e dei risultati concreti alle impostazioni grandiose getti, in Atene, una luce di sospetto sulle stesse linee strategiche, e perché gli avversari imparino la lezione.
Ma tra il 427 e il 425 l’idea della guerra deve aver ottenuto in Atene una nuova popolarità.
Pag. 407
Non potrebbe risultare più chiaro, dal seguito degli eventi, come sia improprio distinguere rigidamente tra un partito della pace e un partito della guerra: almeno agli inizi, è più un succedersi di comportamenti più o meno bellicisti, più o meno pacifisti, che non di partiti (nonostante l’innegabile propensione di fondo di ciascuno dei soggetti).
Nella primavera del 424 è Nicia a togliere agli spartano l’isola di Citera, a sud-est della Laconia: la nuova strategia, decisamente post-periclea, di attacco diretto alle basi nemiche, sembra essersi ormai imposta.
Pag. 409
La pace ‘di Nicia’ si presenta come un accordo di tregua di 50 anni, stipulato tra gli ateniesi e gli spartani e i rispettivi alleati.
Di fatto, essa fu rifiutata, per la parte peloponnesiaca, da corinzi, elei, megaresi e dagli stessi beoti, cioè da una parte cospicua dell’alleanza anti ateniese.
Le clausole furono giurate da 17 personalità per parte: le stesse che, poco dopo, giureranno un nuovo trattato, questa volta di alleanza militare bilaterale tra Sparta e Atene.
Non deve sorprendere che l’aspro scontro tra le due città si concluda con la formazione di una specie di asse preferenziale tra di esse.
Sparta e Atene assolvono, nelle dimensioni del mondo cittadino greco, il ruolo di grandi potenze, in grado certo di fare complessivamente prevalere la loro volontà, ma anche, tutto sommato, più capaci degli altri Stati di decisioni responsabili, almeno nella stessa misura in cui, viceversa, quando esse accendono conflitti o intervengono in conflitti già in corso, la loro presenza dà una dimensione ben più ampia e toni più aspri alle guerre.
Può capitare, in queste condizioni, che le due città trovino punti d’accordo, persino a dispetto dell’ostilità dei rispettivi alleati; insomma esse configurano, nel mondo greco, un classico caso di bipolarismo.
Pag. 413
La pace di Nicia si ispira al principio sopra illustrato delle restituzioni, o delle compensazioni obbligate ove le restituzioni non siano possibili (fra le premesse è ad esempio la rinuncia a Platea, da parte ateniese, contro la conservazione di Nisea).
Dopo aver garantito la libertà di tutte le espressioni culturali tradizionali e aver segnatamente riconosciuto l’autonomia del santuario delfico e di Delfi stessa, il trattato di pace prevede che fra i due schieramenti non siano posti in essere atti di ostilità di nessun tipo, e che le controversie siano risolte in base ai principi del diritto e ai giuramenti.
Ad Atene verrà restituita Anfipoli (un impegno che gli spartani non potranno mantenere: né Atene occuperà mai più la città in tutta la sua storia); ma le città ribelli della Calcidica (Argilo, Stagiro, Acanto, Scolo, Olinto, Spartolo, cui poi si aggiungono nel trattato Meciberna, Sane e Singo) devono essere autonome, pur pagando agli ateniesi il tributo ‘del tempo di Aristide’: alla Lega ateniese esse aderiranno solo se lo vorranno.
In altre aree, gli ateniesi avranno (al confine attico-beotico) Panatto, gli spartani (dal Peloponneso alla Locride) Pilo (Corifasio) e Citera, Metana e Pteleo e Atalanta; otterranno inoltre la restituzione dei prigionieri di Sfacteria.
Ma poi il trattato (di cui la struttura a mosaico dice forse la lunga gestazione) torna sul tema della Calcidica (divenuto, evidentemente, negli ultimi anni e sviluppi, decisivo): gli ateniesi potranno fare quel che vorranno di Scione, Torone e Sermilia (città che hanno ormai sotto controllo), a patto di rilasciare spartani e alleati che siano in loro mano (altrettanto vale per i prigionieri ateniesi in mani spartane).
Il trattato, da riconfermare con giuramento ogni anno (una clausola non frequente nei trattati, e di tanto più significativa), sarà pubblicato, su steli di pietra, nei grandi santuari panellenici (a Olimpia, Delfi, all’Istmo) e in santuari delle due grandi città (ad Atene sull’Acropoli, a Sparta nell’Amyklaion).
Pag. 414-15
Con la guerra decennale, Atene non aveva fatto un solo passo avanti, dal punto di vista territoriale, rispetto allo stato del 431 a. C.; ma certo otteneva che fosse, almeno da Sparta, riconosciuta, come un dato storico (e di diritto) acquisito e irreversibile, la consistenza e la struttura del suo impero.
Le gravi perdite umane ed economiche subite erano fortemente controbilanciate dall’acquisizione di una maggiore autorità storica da parte di Atene, nel riconoscimento concesso da parti cospicue e assai rappresentative dell’’altra’ Grecia.
Se il dinamismo ateniese si fosse attenuato, e quel magma in movimento anche soltanto solidificato, c’era per Sparta ragione di temperare i propri timori; ma il mondo greco – e Atene e il nuovo mondo democratico da essa suscitato – era ancora in fermento.
Al confronto e al conflitto i greci tornano immediatamente dopo la stipula degli accordi del 421.
Il mondo greco non conosce ancora a questa data quei meccanismi di raffreddamento che, solo dopo il disastro del 404 e le convulsioni di vari decenni, cominceranno a imporsi alla coscienza dei greci, caricandosi però assai presto dei doni dell’utopia.
Pag. 416-17
Appena stipulata la pace di Nicea, cominciò a farsi avvertire la difficoltà di realizzarne i complicati meccanismi, gli equilibristici scambi.
Il nuovo generale spartano del settore tracico, Clearida, non fu in grado di assicurare la restituzione di Anfipoli, non voluta dai calcidici; perciò Atene non restituì né Pilo né Citera, né (in un primo tempo) i prigionieri di Sfacteria.
Corinzi e beoti si sentivano d’altra parte frustrati nelle loto attese, per non essere stata prevista la liberazione di Potidea o Corcira, o di altre città.
A questo punto Elide, Mantinea, Corinto e i calcidici stringono alleanza con Argo, libera ormai dagli obblighi del patto trentennale con Sparta.
Tuttavia altra motivazione, prospettiva e consistenza ha l’alleanza con Argo di Stati del Peloponneso in tradizionale conflitto o antagonismo con Sparta, altra la fronda di alleati insoddisfatti e inquieti verso la città loro egemone, o addirittura verso la stessa idea di una doppia egemonia da spartire tra le due grandi, ora rappacificate.
Con i suoi alleati, Sparta cerca dunque di riannodare rapporti, sollecitando anche l’attuazione del trattato di pace, ad esempio la distruzione della fortezza di Panatto, al confine attico-beotico.
Ma per il 420 sono eletti, fra gli efori spartani, alcuni ostili alla pace.
E da parte ateniese si aggiunge l’elezione di Alcibiade alla strategia, nella primavera del 420, per l’anno 420/419: subito segue la stipula di un’alleanza difensiva di Atene con Argo, Mantinea e l’Elide e, nell’inverno 419/418, la denuncia ateniese della violazione della pace da parte spartana.
Pag. 417
La complessa situazione ateniese, e l’assenza di un vero ‘partito della pace’, o almeno di una sua autorevole rappresentanza, spiegano la dinamica della nuova spedizione ateniese in Sicilia, la più famosa e disastrosa, quella degli anni 415-413.
La richiesta di aiuto da parte di Segesta, città elima di Sicilia, e degli esuli di Leontini, città di origine calcidese, contro Selinunte (fondazione di Megara Iblea), in contrasto con Segesta per questioni di territorio e di matrimoni), e contro Siracusa (la potente colonia corinzia), mette in moto la macchina di guerra ateniese.
Si fa balenare ad Atene l’idea dell’esistenza di grandi ricchezze da mettere a disposizione per la guerra; si fa leva sul timore che i dori di Sicilia possano intervenire a fianco di quelli del Peloponneso.
Ad Atene la sollecitazione e i timori hanno l’effetto voluto.
Invano Nicia fa presente il vantaggio di un timore reverenziale prodotto da lontano, rispetto a una minaccia insufficiente portata da vicino; inutilmente egli ricorda il gran numero e la potenza delle città da combattere.
Senso di sicurezza, mania di grandezza (Alcibiade parla di conquista della Sicilia e della stessa Cartagine), voglia di nuovo (vivissima, come sempre, ad Atene, soprattutto fra i giovani) hanno la meglio.
Atene si conferma come la città che osa, come Tucidide l’ha già rappresentata nei capitoli del primo libro della pentecontaetia; e, soprattutto, osa per inesperienze di un’isola vasta, abitata da popoli diversi e da tante vecchie e potenti colonie greche (6. 1-5).
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La dinamica dei fatti ha comunque una sua interna plausibilità: ha tutti i tratti della grande provocazione e, come tutte le provocazioni, si attua in più ampi tempi, di apparenza diversa, ma cospiranti a un medesimo fine destabilizzatore.
Primo tempo, mutilazione delle erme (neo volti, sembra), turbamento pubblico e presagi negativi per la spedizione che sta per partire: si cercano gli autori di questo crimine, , come di altri dello stesso tipo; comincia, per usare un’immagine anacronistica, la caccia alle streghe.
Alcibiade, che è vittima prima del gesto degli ermocopidi (tagliatori di erme), e che non può certo considerarsi fra gli autori di quell’episodio, viene coinvolto direttamente nell’accusa di sacrilegio in quello che è, visto al rallentatore, il prevedibile secondo tempo del complotto, il tempo cioè della caccia alle streghe.
Si cerca l’empio e lo si trova proprio in Alcibiade, accusato di aver parodiato, in casa sua, i misteri di Eleusi, di aver cioè celebrato, per continuare con anacronistiche metafore, una sorta di nefanda messa nera.
Alcibiade chiede di essere giudicato subito, con l’impazienza caratteristica di chi vede sorgere intoppi di carattere giudiziario o burocratico a imprese che sta realizzando: ma (e anche questo sembra un terzo tempo ben calcolato) sulla testa è lasciato pendere l’accusa, lo si spedisce in Sicilia (troppo forti erano i rischi connessi con la presenza di un’armata pronta a partire ed impaziente), e si rinvia solo a un secondo momento il suo richiamo.
La spedizione parte nell’estate del 415, rotta Egina, poi Corcira; quindi, tagliando il Mar Ionio, raggiunge l’Italia.
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Già al momento dell’invio di Gilippo (414) gli spartani avevano progettato di occupare e fortificare Decelea in territorio attico, circa 20 km a nord-est di Atene; nel corso dell’anno ci furono scontri di breve respiro tra spartani e argivi, dapprima con incursioni nei rispettivi territori, seguite poi (e il fatto era decisamente più grave) dall’intervento ateniese e da una serie di sbarchi sulle coste orientali della Laconia.
La pace di Nicia era ormai palesemente violata, con lo scontro diretto tra le due grandi città; perciò nella primavera del 413 il re Agide Secondo invadeva l’Attica e dava inizio all’occupazione stabile di Decelea, adottando una strategia diversa da quella delle incursioni periodiche degli anni 431-425.
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Nel fitto susseguirsi degli eventi, intrecciarsi di situazioni, sovrapporsi di piani diversi di azioni politiche che costituiscono il secondo grande spezzone della guerra del Peloponneso (413-404), iniziatosi con l’occupazione spartana di Decelea, possono individuarsi, e debbono segnalarsi al lettore per una più immediata intelligenza del periodo, almeno quattro aspetti fondamentali, in parte nuovi rispetto alle caratteristiche della guerra archidamica (431-421).
In primo luogo spicca il ruolo di Alcibiade, di una personalità politica, che tra il 415 e il 411 determina in senso negativo le vicende di Atene, sia in Sicilia, con i consigli di intervento rivolti agli spartani, sia in Egeo, con l’intesa da lui promossa tra Sparta e la Persia, sia in patria, con l’ideazione (che a lui in prima istanza risale) del cambiamento di regime da democratico ad oligarchico nel 411.
Non era certo una novità la presenza e l’influenza di una forte personalità politica: ma se un Pericle o un Cleone avevano rappresentato, con fondamentale coerenza, un punto di vista e una linea politica e di comportamento, in Alcibiade si vede all’opera una personalità che assoggetta (o crede di assoggettare) ai suoi disegni e alla su aidea di rapporto col popolo, comportamenti e politiche in fiero contrasto fra di loro: e (fatale per Atene) i disegni che più andarono ad effetto furono proprio quelli più avversi alla sua città.
Segno di contraddizione in Atene e nella Grecia intera, al centro di amori e di odii violenti, che si scontrano intorno alla sua persona, uomo di fondamentale formazione democratica (nonostante i rinnegamenti occasionali e strumentali), ma assai meno capace di Pericle di tenere quella linea divisoria tra pubblico e privato, tra la realtà politica e la sua persona, a cui lo zio e tutore aveva ispirato la sua propria visione e azione politica, Alcibiade rappresenta l’esplodere della personalità in un contesto in cui i valori comunitari erano stati finora decisivi.
Lo registra la storiografia nei fatti che racconta di lui; lo significa il fiorire di interesse biografico intorno alla sua persona, che Plutarco puntualmente sottolinea.
Ad Alcibiade si deve l’avvio di quei contatti con i governanti persiani dell’Asia Minore, che dovevano procurare l’intervento di questi nella guerra greca e l’appoggio del re a Sparta (secondo caratteristica della nuova fase di guerra).
Che poi nel corso delle trattative egli abbia cambiato posizione, e cercato di sfruttare a vantaggio di Atene il patrimonio di relazioni che aveva accumulato e imbastito, se da un lato rivela la vera propensione di Alcibiade, dall’altro toglie però assai poco al fatto che l’idea, nata nella mente dell’ateniese, abbia poi preso corpo e marciato per conto suo: i trattati spartano-persiani del 412/411 sono la distante ma logica premessa delle fervida intesa tra il viceré persiano di Sardi, Ciro (il giovane), e il generale spartano Lisandro dal 408 in poi.
Ad Alcibiade si devono ancora iniziative, presto rinnegate, per modifiche nella costituzione ateniese, ed è questo il terzo motivo caratteristico del periodo.
Le avvisaglie sono da riconoscere nel clima di complotto rivelato dall’episodio delle erme del 415; primi sviluppi di aspetto legalitario sono nell’istituzione, nel 413, di una commissione di 10 probuloi (consiglieri che ‘istruivano’ le varie questioni), presto portata a 30 membri; infine, nel 411, il colpo di Stato oligarchico.
E’ nel senso di quanto s’è già sopra osservato il fatto che Alcibiade avviasse il processo oligarchico, sostenendo che esso sarebbe stato gradito alla Persia (al momento in cui aveva deciso, in un nuovo revirement, di trasferire a beneficio di Atene le sue aderenze persiane), ma che poi si decidesse a rientrare a vele spiegate nel campo democratico, che era in definitiva quello della sua vera vocazione politica, pur se adulterata e resa inquietante da marcate componenti personalistiche.
Un quarto aspetto da sottolineare risiede nelle dimensioni e nel ruolo che assume in questa nuova fase della guerra greca il problema degli alleati di Atene.
Fra tutti, questo è certo il motivo meno nuovo, perché tutta la storia dell’impero navale ateniese è percorsa da tensioni tra Atene e i suoi symmachoi, tensioni che ogni vota assumono un grado e una caratteristica diversi.
Nell’ambito della seconda fase della guerra del Peloponneso, le stesse fonti distinguono, in riferimento all’area dove la guerra si svolge, una ‘guerra ionica’.
L’episodio di ribellione ad Atene – tutto sommato isolato - che aveva affiancato la guerra archidamica nell’Egeo orientale, nell’area latamente definibile della Ionia (la rivolta di Mitilene), ora si moltiplica e diventa sistematico; e vi si intrecciano la rivolta spontanea degli alleati ionici di Atene, la sollecitazione e la presenza spartana e, ancora una volta, dello stesso Alcibiade (Tucidide, 8. 6, 3; 17, 1), lo scontro fra le flotte dei due grandi schieramenti greci e gli interventi finanziari, militari, politici dei persiani.
Del resto, la guerra del Peloponneso si deciderà soprattutto qui, nell’Egeo settentrionale e orientale, fra le isole prospicienti le coste e presso le stesse coste dell’Asia Minore occidentale.
Abido, Cizico, Notion, le Arginuse, Egospotami, sono tutti nomi di luoghi ‘asiatici’ o di aree vicinissime all’Asia Minore, connessi con svolte e con fatti decisivi della guerra del Peloponneso: per gli antichi non v’era dubbio che la vittoria di Lisandro, nell’estate del 405, ad Egospotami sull’Ellesponto (dal versante europeo), fosse, in senso lato, la diretta premessa della resa di Atene, avvenuta solo otto mesi dopo.
Pag. 429-31
Dopo la presa di Mileto da parte peloponnesiaca, comincia la serie di trattati di Sparta con la Persia: sono tre, procurati rispettivamente da Calcideo, Terimene e Tissaferne.
Tucidide sembra credere che ogni nuovo trattato fosse risultato da un progressivo miglioramento delle condizioni del trattato con i Lacedemonii; un’analisi più attenta mostra che i tre testi sono soltanto l’uno più preciso dell’altro; e un ulteriore passo avanti dovrebbe indurre a vedere nei primi due le versioni provvisorie, rispetto a cui il terzo trattato è solo la versione definitiva: i primi due trattati non sono in realtà altro che lo stesso (unico) trattato di volta in volta presentato in una versione diversa, dapprima in una che rispecchia di più la ‘competenza’ spartana, cioè l’insieme delle clausole che più specificamente attengono a Sparta (trattato di Calcideo), poi in un’altra che rispecchia di più la ‘competenza’ persiana (trattato di Terimene); un rapporto di speculazione sussiste tra i due, di cui sintesi e formalizzazione è il terzo (un complesso processo diplomatico, a determinare la forma del quale appare decisiva la presenza di un contraente orientale, quale il re persiano).
La materia dello scambio è in effetti la rinuncia, da parte spartana, alla difesa dell’autonomia dei greci d’Asia dal re di Persia e la concessione di aiuti finanziari per la guerra, da parte persiana,
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Sono ormai date le condizioni per una svolta politica in senso oligarchico, coem logico sviluppo di precedenti avvisaglie, come reazione agli insuccessi della politica estera democratica, come maturazione delle trame più o meno occulte tessute da Alcibiade con gli ufficiali ateniesi della flotta di Samo.
Se un fattore del deterioramento delle posizioni ateniesi nell’Egeo orientale era l’alleanza spartano-persiana, la situazione si poteva ribaltare, secondo Alcibiade, mutando il regime da democratico in oligarchico: Pisandro, trierarco a Samo, raggiunge Atene, latore di queste proposte.
In realtà, per gradi, Alcibiade sta tentando di rientrare nel gioco politico ateniese: quando il disegno sarà maturo, il suo interlocutore sarà, come agli inizi della sua carriera, il regime democratico.
Ostacoli al nascente regime oligarchico potevano venire, e di fatto vennero, dalla stessa flotta di Samo, da cui erano partiti gli ufficiali istigatori del complotto (Pisandro e altri).
Erano infatti numerosi i cittadini impiegati negli equipaggi; e questi vennero presto a trovarsi nella condizione di contrastare gli sviluppi politici ateniesi.
Occorre comunque tenere distinte le vicende della città di Samo e quelle della flotta e degli equipaggi della flotta ateniese a Samo stessa.
Nell’estate del 412 c’era stata nell’isola una rivoluzione democratica, che aveva fatto strage di capi oligarchici e privato gli altri di diritti politici e di proprietà.
Nel 411 sono gli oligarchi a tentare di rovesciare la situazione, contando sugli ufficiali cospiratori, e uccidendo Iperbolo.
L’intervento degli equipaggi ateniesi democratici e dei nuovi strateghi da essi eletti (tra cui Trasibulo di Stiria e Trasilo) è decisivo per soffocare il tentativo ologarchico.
Preoccupati per i fatti di Samo, gli oligarchi di Atene (fra cui spiccano l’oratore Antifonte, Frinico e Teramene) cercano di ammansire gli uomini della flotta, sforzandosi di mostrare che, una volta passati effettivamente i poteri dei Cinquemila, nulla praticamente sarebbe stato diverso dal passato: ad Atene tanti e non più sarebbero i cittadini che frequentavano di norma l’assemblea.
L’argomento passava evidentemente al di sopra di tutte le questioni di principio e di diritto.
Pag. 435
Ed ecco che, alla fine della guerra del Peloponneso, riappaiono (a dimostrare la validità dell’impostazione originaria da noi data all’esposizione dei fatti) i due fili che abbiamo distinto all’inizio.
Corinzi e tebani (o almeno un tebano, un certo Eriante) volevano la distruzione di Atene e la dispersione, con la validità della schiavitù, dei suoi cittadini; ma il governo spartano si oppose, nonostante l’orientamento estremistico di Lisandro e Agide 2.
Le condizioni furono: rinuncia di Atene a tutti i possedimenti esterni, anche le cleruchie di Sciro, Lemno e Imbro (il vitale corridoio ateniese verso l’Ellesponto); abbattimento delle fortificazioni del Piero e delle Lunghe Mura; consegna delle flotte da guerra, tranne 12 triremi; richiamo degli esuli; revisione della costituzione, che doveva tornare ad essere quella ‘patria’.
Il 16 Munichione del 404 Lisandro entrava con la flotta nel Piero; l’abbattimento delle Lunghe Mura era avviato al suono dei flauti: quel giorno sembrava l’alba della libertà, degli ateniesi all’interno di Atene e dei greci tutti verso la città che li aveva dominati.
Qualche mese ancora resisterà Samo, che alla fine dovrà arrendersi e subire un nuovo mutamento di regime, questa volta in senso oligarchico.
Anche ad Atene, del resto, gli sviluppi politici saranno nel senso dell’oligarchia: per la seconda volta, in pochi anni, la democrazia era abolita, dopo aver (dal 508 al 411) esibito in grado notevolissimo di stabilità.
Lo svolgimento degli eventi tra la capitolazione e l’instaurazione della commissione dei trenta “costituenti” (syngrapheis), incaricati di redigere le “leggi patrie”, la “costruzione patria” (patrioi, nomoi, patrios politeia), non è del tutto chiaro.
Si parla di conflitti civili e si propone di datare in questo periodo, della durata di un paio di mesi, una congiura di parte democratica (Strombichide, Eucrate) mirante a una strage di capi oligarchici; si ha notizia del resto (in Lisia, 12. 43) di un collegio di cinque efori, tra cui Crizia ed Eratostene, a capo di un gruppo di oligarchi, ancora al tempo della democrazia.
Presto Crizia e Teramene diventeranno protagonisti di un conflitto che sarà fatale per entrambi.
Alla fine della guerra del Peloponneso qualcuno, come Crizia, può credere seriamente di poter trasformare Atene in una nuova Sparta: un paradosso storico, che costituisce un’emblematica conclusione del periodo storico, che costituisce un’emblematica conclusione del periodo storico qui trattato, e un’ideale formula di passaggio alla considera<ione delle spinte e situazioni che fermentano nella nuova epoca storica dischiusa dalla disfatta di Atene.
Pag. 441-42
E’ del tutto comprensibile che un teatro propositivo come quello di Euripide possa dimostrarsi per più aspetti impegnato, più o meno esplicitamente, sui grandi temi di politica estera, di politica interna, di storia della cultura e della civiltà, che investono il mondo ateniese, e in generale il mondo greco, negli ultimi anni di Pericle e nel periodo della guerra del Peloponneso e della democrazia post-euclidea.
Delle 17 tragedie conservate, le più antiche (Alcesti, 438, Medea, 431), che sono quelle dell’età periclea, appaiono come originali ripensamenti del mito, ove già emerge un interesse per ciò che, all’interno dello stesso mondo greco, si presenta coem esotico e che avrà poi particolare espressione nelle tragedie degli ultimi anni (dalle conservate Baccanti all’Archelao).
Il tema della guerra è ben presente nelle tragedie del periodo del conflitto peloponnesiaco; dall’Andromaca, ca. 429, all’Ecuba e alle Supplici degli anni 424-423 (?), alla trilogia troiana del 415 (Troiane, Alessandro, Palamede, di cui solo la prima conservata), in cui gli accenti pacifisti si vanno sempre più accentuando.
Sul terreno della forma politica Euripide mostra di concordare, nelle Supplici (forse posteriori al 424), con l’idea di democrazia quale Tucidide attribuisce a Pericle, nelle Storie 1. 37 sgg.: esaltazione della forma democratica e dell’uomo medio che ne è il portatore.
Quando Euripide scriveva questa cose, la democrazia era a uno stadio ancora più avanzato, che già faceva apparire come miracolo (e un miraggio) di equilibrio la democrazia periclea.
D’altra parte, neanche in Euripide la tragedia viene meno a quello che è il suo compito specifico, che è di registrare e insieme creare il consenso della comunità, assai più che di immettervi elementi di lacerazione: quest’ultima è piuttosto la funzione della commedia politica, anche se è subito da aggiungere che la stessa commedia concepisce comunque la lacerazione solo come una fase intermedia, attraverso la quale si intende pervenire al fine ultimo, che è pur sempre quello della ricostituzione, nella comunità, di una totalità di armonico consenso intorno ai propositi del poeta.
I miti del mondo dorico, specialmente per i momenti di più positivo contatto con l’Atene micenea, hanno in Euripide un posto ancor più significativo che negli altri tragici, ove pur sono ben presenti: dagli Eraclidi (428?) ancora alle Supplici (dopo il 424?) all’Eracle (tra 421 e 416) all’Oreste del 408, per non parlare delle tragedie – non conservate se non per frammenti – come l’Archelao o i Temenidi, che illuminano le relazioni tra l’ambiente argolico e la Macedonia.
Come è stato anche di recente richiamato, è difficile dare letture univoche, in chiave di politica contemporanea, di tragedie che abbiano per argomento miti argivi: quanto riflettono esse di favore per Argo, quanto di attenzione, perfino di stampo pacifista, per il mondo dorico in generale?
Non si può dimenticare che il complesso dei miti argivi costituiva uno dei pilastri delle tradizioni epiche nel mondo greco miceneo (un altro è il ciclo tebano: e Tebe è condannata con chiarezza nelle Supplici, per la non disponibilità, a restituire i corpi degli argivi, caduti combattendo contro di essa).
La verità è che il mondo dei miti greci è una rete di tradizioni intrecciate tra loro, un patrimonio comune di archetipi, i quali, nella rappresentazione poetica, non contano tanto o soltanto per la loro pertinenza geografica.
E tuttavia la tesi di una evoluzione complessiva del rapporto di Euripide con la società democratica ateniese in sé molto di vero, pur se non se ne possono individuare tutte le tappe.
E’ un dato di fatto che Euripide lascia nel 408 Atene; e che l’elogio dell’autourgos (il coltivatore diretto) nell’Elettra (413) o la critica ai demagoghi contenuta nell’Oreste (408) segnano un certo ripiegamento rispetto alla più fiduciosa affermazione di una ideologia democratica fatta nelle Supplici.
C’è qualcosa, nella parabola di Euripide, che ricorda quella di Socrate: impensabili i suoi inizi, e gran parte della sua riflessione in genere, fuori del clima culturale della democrazia ateniese, impensabile quella spregiudicatezza di toni che è un portato anch’essa della democrazia, ma che alla fine comincia a ritorcere la sua punta proprio contro di questa, senza che tuttavia il processo critico giunga a totale compimento.
Pag. 447-48
La commedia archaia è per definizione ‘politica’ e dotata, per lo più (Cratete è un’eccezione) di iambikè idéa, cioè di una attitudine aggressiva, in cui si esprimono l’opinione pubblica, il conflitto tipicamente democratico delle idee e la velenosità dell’attacco personale, che vari decreti (di Morychides nel 440, di Syrakosios ca. 415) tentano di arginare.
Complessivamente, la commedia esprime posizioni conservatrici, ostili ai personaggi della democrazia radicale.
Ma niente è così istruttivo, circa il carattere relativo di tali distinzioni, quanto il fatto che di generazione in generazione la commedia cambi bersaglio, e quel che era il capro espiatorio di un tempo diventi, per la legge del tempo, il segno e l’oggetto della nostalgia per il buon tempo andato.
Così, una prima generazione di comici è tutta contro Pericle, lo Zeus kephalegherétes (che “raccoglie la testa”, non, come il dio dell’épos, nephelegheréta, “raccoglitore di nubi”); lo Zeus schinoképhalos, cioè “dalla testa (a forma) di cipolla” (allusione al cranio grande e allungato, del politico che si atteggia a superuomo) nelle commedie Chironi e Tracie; e le ingiurie, i nomignoli, le critiche finiscono puntualmente nella biografia plutarchea di Pericle.
Pag. 449
Con ciò è dato il quadro storico per una valutazione d’insieme dell’unico poeta della commedia antica, di cui ci siano pervenute commedie intere, Aristofane.
Tutto il nuovo della democrazia viene passato al setaccio della sua critica pungente ed estrosa.
Aristofane (vissuto all’incirca dal 445 a qualche tempo dopo il 388), che nei Banchettanti e nei Babilonesi (non conservati se non per frammenti) e ancora negli Acarnesi (425, prima delle 11 commedie conservate) si era servito, per ragioni di età o di prudenza, di un prestanome, Callistrato, sottopone a critica la politica estera ateniese, per il suo bellicismo (Acarnesi) e i comportamenti ingiusti verso le città alleate (Babilonesi): il poeta vuole essere portavoce, o anche promotore, di un’opinione pubblica cittadina (o anche intracittadina, con riferimento agli alleati), potenzialmente esistente.
Il demagogo conciapelli Cleone è bersaglio già delle prime commedie, ma in modo particolarissimo dei Cavalieri (424), in cui la scelta di Aristofane è inequivocabile, in favore della élite stessa del demos ateniese e del popolo di proprietari e contadini, e contro i demagoghi nuovi ricchi: naturalmente nella prospettiva della costituzione del consenso dell’intero demos, o quasi, intorno alla sua parte migliore.
Non è solo il nuovo sociale della democrazia ad attirare gli strali di Aristofane; lo è anche il nuovo sul terreno della cultura e dell’educazione, nelle Nuvole (423, da noi conservate però in una redazione più tarda), al cui centro è un Socrate sofista, studioso delle cose trascendenti e di quelle sotterranee, ancora fortemente anassagoreo: il riconoscimento che il Socrate aristofaneo, pur così diverso da quello di Platone e dello stesso Senofonte, registri uan prima autentica esperienza intellettuale diversa da quella successiva, è ormai così diffuso, da costituire un luogo comune e ben giustificato.
C’è solo da aggiungere che questa prima fase (anassagorea) di Socrate non solo appare come fondamentalmente storica, ma addirittura coerente con quella successiva: e la coerenza è data dalla comune temperie culturale democratica e urbana che è al fondo delle due fasi dell’esperienza socratica.
E un ulteriore elemento di coerenza è proprio nell’ostilità di Aristofane, solo che non si rinunci alla caratterizzazione del poeta coem un tradizionalista e conservatore, che si colloca però pur sempre all’interno della democrazia (in questa stessa luce, per le ragioni già dette sopra, va vista l’ostilità ad Euripide, che si dichiara nelle Tesmoforiazuse, del 411 o 410, e nelle Rane, del 405).
Il nuovo regime democratico, consistente nell’assistenzialismo (corruttore, agli occhi di Aristofane) dell’elargizione delle indennità (misthoi) per i giudici, è rifiutato nelle Vespe (422), che trattano il tema dell’’isterismo giudiziario’ dell’uomo comune della democrazia ateniese, smanioso di esercitare funzioni di eliasta e di percepire il relativo soldo (scarso e umiliante, sempre per Aristofane).
E contro il bellicismo della democrazia radicale, e in favore dell’ampia base rurale della democrazia ateniese, si pronuncia la Pace, che nel 421 precede pochissimo la stipula della pace di Nicia.
La serie delle commedie successive conservate si apre con gli Uccelli del 414, e continua con la Lisistrata del 411, le Tesmoforiazuse del 411 o 410, le Rane del 405, le Donne in assemblea del 393-391 (?), il (secondo) Pluto del 388 (edizione di ben 20 anni successiva alla prima, che è del 408).
E’ ben difficile negare il cambiamento complessivo di tono: se nelle commedie della prima fase della guerra del Peloponneso il poeta di era impegnato in una lotta politica, che lo vedeva ancora determinato e fiducioso nella contrapposizione e contestazione diretta del nuovo della democrazia, già con gli Uccelli egli sceglie le vie dell’evasione – sempre nella misura possibile a un autore che continua pur sempre, fino in fondo, ad occuparsi della vita reale.
Non viene certo meno né lo spirito polemico né l’orientamento suo proprio, ma sembra appannarsi la fiducia nel senso stesso della battaglia da svolgere; la polemica del poeta aggira in qualche misura lo scontro politico diretto, non è più semplice e immediato rovesciamento del dato esistente: è il suo aggiramento realizzato mediante l’invenzione fantastica di una realtà in tutto e per tutto diversa.
Un’altra città, in un altro tempo, in un altro modo, in un altro dove, fuori dei confini e magari dello stesso linguaggio dell’umanità, è la città degli Uccelli.
Nella Lisistrata è l’utopia di una pace panellenica, realizzata con una trovata fuori del comune, lo sciopero dell’amore, da quella parte della città in guerra che meno conta (o che non conta), nella guerra come nella politica, le donne.
E sempre dal coté delle donne, e della città in quanto da esse rappresentata – questa volta in una festa reale e di tutto rispetto, in onore di Demetra Thesmophoros -, si esprime il malumore di Aristofane verso il teatro e la persona stessa di Euripide, che toccherà l’apice del capolavoro nella ricostruzione della storia del teatro ateniese, fatta in chiave, diremmo, etico-politica; e dopo ciò che abbiamo detto sul carattere della ‘prima democrazia’, quella pre-periclea, non sorprenderà che il conservatore Aristofane decida du riportare in vita Eschilo (che a quella fase di ‘prima democrazia’ largamente appartiene).
Ancora dal coté delle donne (sorta di segno convenzionale del carattere utopico della proposta) il progetto di riforma ugualitaria e comunistica presentato nelle Ecclesiazuse (Le donne all’assemblea), e nel Pluto, dove è in primo piano il problema del pauperismo, cui solo un miracolo (la guarigione del cieco dio della ricchezza) potrà, per poeta, porre rimedio.
Utopia e attesa del miracolo (che in definitiva è solo un rapporto privilegiato con la potenza soprannaturale del dio, da cui il singolo attende la sua individuale salvezza, quando comincia a scindere il suo personale problema di salvezza da quelli che riguardano più in generale la comunità) sono segno di nuovi tempi, nei quali (come ho avuto modo di studiare altrove), si assiste, con solo apparente contraddizione, a un affievolirsi dell’impegno politico del cittadino comune e contemporaneamente a una partecipazione interessata (per il percepimento di gettoni di presenza) alle assemblee politiche.
Pag. 450-52
La storia degli anni 431-411 è narrata per estati e inverni (thére e cheimones): un nuovo progresso nella ripartizione e definizione del tempo narrativo.
In Tucidide la dimensione spaziale è del tutto subordinata a quella temporale: è il periodo scelto che detta legge, che determina anche la dimensione geografica del racconto, che condiziona la struttura dell’opera, conferendole quell’aspetto generale di compattezza, che la distingue così nettamente dalla struttura della storia erodotea.
Per questa via s’inizia anche una tradizione storiografica per cui uno storico continua (o integra) l’opera dello storico che l’ha preceduto.
In Tucidide, alla riduzione del campo storico nella sua dimensione temporale come in quella spaziale, si affianca anche una particolare scelta del contenuto.
Un posto privilegiato è fatto agli aspetti politico-militari della storia, perciò ai conflitti (la cui importanza Tucidide valuta, nella rapida sintesi della più remota storia della Grecia contenuta nei primi capitoli dell’opera, in relazione allo sviluppo economico generale dell’età in cui le guerre avvengono).
L’attenzione di Tucidide è concentrata sugli aspetti ‘dinamici’ della storia umana, sulla potenza e i conflitti di potenza, lasciando in ombra gli aspetti ‘statici’, le ‘costanti’, cioè le istituzioni, le tradizioni religiose, i costumi, il mondo dei nomoi insomma, che tanto stimolava la curiosità di Erodoto (Strasburger).
Si configura nell’opera di Tucidide un tipo di storiografia selettiva, concentrata sugli aspetti politico-militari (e solo in termini generali interessata a certi presupposti economici), che è in forte contrasto con la varietà del tessuto narrativo dell’opera di Erodoto.
In questa occupavano un larghissimo posto gli aspetti geografici ed etnografici, la curiosità per usi e costumi singolari, il gusto per l’aneddoto e per il meraviglioso, insomma le mille cose raccontate con l’autentica e trascinante gioia di ridire ciò che la propria mai sazia curiosità è riuscita a scoprire (accanto all’ispirata narrazione e celebrazione delle guerre combattute e vinte dai greci contro i persiani in difesa della loro libertà).
Alla ‘struttura larga’ dell’opera erodotea Tucidide contrapponeva una pretesa di tipo monografico.
La rinuncia, compiuta da Tucidide, a tanta ricchezza di temi era il prezzo pagato in nome di un ideale di ‘oggettività’, di ‘verità’, di ‘utilità’, che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso una approfondita (e perciò necessariamente limitata) indagine sui fatti storici e sulle loro connessioni causali.
L’ineguagliata profondità del pensiero di Tucidide s’impose all’amministrazione degli storici che seguirono; lo sforzo di una rigorosa rappresentazione dei fatti avvenuti (e di una riproduzione il più possibile fedele dei discorsi pronunciati), nonché di un’approfondita analisi delle cause, non poteva non suscitare il più grande rispetto (e nessuno storico greco seppe elevarsi al livello di queste esigenze tucididee come Polibio), anche se la complessità del suo stile suscita la critica dell’erodoteo Dionisio d’Alicarnasso.
A Erodoto invece neanche i più convinti ammiratori sentivano di poter riconoscere una qualità, che Tucidide sembrava aver posseduto in sommo grado: la veridicità (Momigliano).
D’altro canto, l’aspirazione all’oggettività che caratterizza il metodo tucidideo non risolve davvero la storia di Tucidide in un resoconto freddamente oggettivo dei fatti.
Per quanto si possa discutere sui particolari della visione politica di Tucidide, è innegabile che egli mostri avversione per certe forme dell’imperialismo espresso dalla democrazia ateniese; e mi pare che l’elogio riservato all’oligarchia riservato all’oligarchia moderata del governo dei Cinquemila (in 8. 97, 2) concorra con lo scarso entusiasmo per le masse popolari (in quanto si assumano o consentano ai demagoghi responsabilità di conduzione politica) a configurare una posizione politica conservatrice (con cui non contrasta né l’ammirazione per l’uomo e il politico Pericle né quella per gli aspetti umani e civili del regime politico ateniese, espressa per bocca di Pericle, in 2. 35-46).
Con una schematizzazione non priva di utilità, si possono distinguere nella storia della storiografia greca (mi riferisco al periodo più ‘creativo’, quello che va grosso modo dalle origini sino a Posidonio) due grosse correnti: quella della storia politico-militare (o ‘pragmatica’, per usare un termine della metodologia polibiana), che ha i suoi massimi rappresentanti appunto in Tucidide e Polibio, e quella che evita la rigida selezione che la storiografia ‘pragmatica’ comporta, e dà rilievo alla rappresentazione di caratteristiche e curiosità etnologiche e individuali (accanto alla narrazione dei conflitti): la corrente, insomma, etnografica, descrittiva (con cui è più direttamente in rapporto, per l’esigenza, cui dà luogo, di una rappresentazione della realtà nei suoi aspetti spettacolari e patetici, la storiografia ‘mimetica: cfr. più avanti, Duride).
Tra le due correnti non ci sono comunque nette barriere di separazione, e in diversa misura, secondo il temperamento, al qualità, la coerenza con le istanze metodologiche dei vari scrittori, l’un tipo di storiografia è permeato dalle esigenze e dagli apporti dell’altro.
Pag. 453-55
Bibliografia
Aspirazione al consenso e azione politica in alcuni contesti di fine quinto secolo a. C.: il caso di Alcibiade / a cura di E Luppino Manes. – 1999
La crisi del 411 a. C. nella Athenaion Politeia di Aristotele / F. Sartori. – 1951
La posizione di Tucidide verso il governo dei Cinquemila / G. Donini. – 1969
Iperbolo ateniese infame / G. Cuniberti. – Il Mulino, 2000
La moneta in Grecia e a Roma / M. H. Crawford. – Laterza, 1982
L’Atene di Aristofane / V. Ehrenberg. – 1957
Cap. 7- Crisi e ricomposizione della “polis” dopo la prima guerra del Peloponneso
Il crollo di Atene nella guerra del Peloponneso vale comunemente quale avvio della crisi della città greca.
Ma che cosa vuol dire “crisi”?
Si può vedere la crisi della polis come scadimento di valori; non è però questo il miglior modo di affrontare il tema.
Parlare di crisi significa constatare e analizzare una “trasformazione”: ma la storia è sempre trasformazione; paradossalmente, si potrebbe dire che la crisi è la forma stessa della storia.
Parliamo, tuttavia, di crisi quando la trasformazione investe uan larga parte degli elementi che compongono l’assetto esistente, e quando i mutamenti si addensano in un determinato periodo, cioè la trasformazione conosce un’accelerazione.
Ne risulta la rottura dell’equilibrio esistente, cui segue poi un altro equilibrio.
I periodo di non-crisi non saranno certo di staticità assoluta, ma di conservazione del rapporto di determinati elementi.
E una cesura importante, nella storia della polis classica, è appunto la fine della guerra del Peloponneso, con la sconfitta di Atene da parte di Sparta e della lega peloponnesiaca (404).
Atene e Sparta, protagoniste, sono emblematiche nel quinto secolo in uan misura ben più netta di quanto lo saranno nel quarto secolo, e dal quarto in poi.
Nel quinto secolo rappresentano non solo città diverse e nemiche, ma modelli di società, di economie, di culture diverse.
La guerra del Peloponneso, che cronologicamente coincide con il momento più alto della classicità, è anche il momento del più consapevole divario all’interno del mondo greco: ne risulta lo scontro e il disastro, la trasformazione non solo per i vinti ma anche per i vincitori.
Basti considerare come l’Atene democratica produca, subito dopo la sconfitta, un’oligarchia dai tratti tirannici e, dopo il suo abbattimento, una democrazia, che, per lo più identica con la precedente sul piano formale, non sarà però la stessa, ma fondamentalmente più moderata, nella sostanza politica.
D’altra parte, questa democrazia alquanto attenuata diventerà la forma politica più diffusa, che investirà la struttura anche delle città che si coalizzarono con Sparta contro Atene.
E’ una vera osmosi.
Le due città, le due società si affrontano, combattono, danneggiano a vicenda, perché diverse; poi finiscono per diventare, proprio attraverso il conflitto, ciascuna un po’ più simile all’altra.
Lo vediamo anche nell’economia: se Atene rappresenta la forma più avanzata dell’economia, in cui accanto all’attività primaria (quella agraria), ha largo sviluppo l’attività secondaria (artigianale, mercantile, monetaria, e nel quarto secolo bancaria di primaria importanza), i germi di questa trasformazione economica finiscono con l’investire le città nemiche di Atene, persino Sparta, roccaforte dell’economia agraria e antimonetaria, la quale conoscerà sussulti, e poi via via un vero sviluppo verso la forma comune dell’economia delle città greche, anche se attraverso vari stadi e momenti drammatici.
Pag. 462-63
Sparta aveva fatto la guerra in nome dell’autonomia delle città greche; ma per un significativo scambio di ruoli, che si verifica via via, toccherà semmai ad Atene, dopo la sconfitta, e l’oligarchia dei Trenta Tiranni, di raccogliere in qualche misura il programma dell’autonomia, quello per cui Sparta aveva fatto la guerra.
Certamente, Atene aveva conseguito una superiorità di cultura e civiltà, di cui gli ateniesi erano orgogliosi: basti ricordare il testo che alla fine del quinto secolo più rappresenta questa affermazione orgogliosa, Tucidide 2.-35-46.
Pag. 463
E’ che stanno emergendo sulla scena politica altri fattori, che intervengono nel gioco.
Se non proprio la Grecia delle campagne, emergono i centri di minore urbanizzazione; è caratteristica in questo senso l’egemonia tebana, che culmina negli anni 371-362 a. C., tra le battaglie di Leuttra e di Mantinea.
Per il modo in cui si esplica, essa non fa che riproporre quel policentrismo, che sarà di nuovo – ma con aspetti diversi rispetto all’epoca arcaica in cui aveva già avuto la sua espressione – la caratteristica della Grecia, nel suo insieme.
Ne segue l’appiattimento del ruolo politico e della funzione di aggregazione, e insieme disarticolazione del mondo greco, propri delle città egemoni, e perciò l’emergere di nuovi poli, il formarsi e l’assestarsi di una facies politica e culturale, policentrica da un lato e insieme ormai relativamente omogenea al suo interno: sono le novità del quarto secolo, sul piano dei rapporti interstatali, novità che preparano l’assetto della Grecia di età ellenistica e romana.
L’immagine canonica della Grecia, quella che ci è stata trasmessa dagli scrittori romani, è anche quella formatasi nel quarto secolo, al di là dei fulgori e dei contrasti netti del periodo classico.
Pag. 464
Al tempo stesso, sempre per restare nel tema dei rapporti interstatali, si verifica una depressione complessiva della Grecia sul piano internazionale, rispetto a fattori interferenti, o perfino dominanti, come la Persia in una prima fase, e la Macedonia e i regni ellenistici poi.
La fine della guerra del Peloponneso è la cesura intorno a cui si addensano tutte queste trasformazioni.
Ora, perché cesura si sia nella storia, occorre che essa sia sentita come tale.
Sul piano politico, il significato della perdita dell’impero da parte di Atene, la responsabilità della democrazia radicale nello scoppio e nell’esito della guerra, le trasformazioni di ordine sociale e politico che democrazia e impero hanno insieme prodotto, sono ben colti nella storiografia e nella letteratura greca in generale.
Persino chi dell’Impero ateniese dà una rappresentazione sostanzialmente positiva, come Isocrate nel Panegirico, che risale al 380 a. C., si vede poi costretto a dare un’immagine in qualche modo edulcorata dei rapporti all’interno dell’impero, per adeguare l’immagine di Atene a quel che avrebbe dovuto essere e non fu.
In forma, si può dire, contraddittoria e paradossale, emerge anche nell’orazione isocratea la consapevolezza delle responsabilità che Atene si era assunte nell’esercizio dell’impero.
Vero è che questa rappresentazione idealizzante, che consapevolmente adegua alla forma il fatto, potrebbe essere vista come frutto di propaganda, intesa a favorire la ricostituzione della Lega navale.
E’ la tesi, non del tutto accettabile, del grande Wilamowitz (nell’opera Aristotele e Atene, del 1893), che il Panegirico isocrateo sia in qualche modo la carta ideologica che prepara la rifondazione della Lega navale di Atene.
Pag. 464-65
Dal punto di vista della storia economica e sociale, il quarto secolo registra fenomeni che sono nuovi per intensità e qualità, ma che nella sostanza continuano fatti e fenomeni del quinto secolo.
Si afferma talora che nel quarto secolo la comunità civica stessa, specie ad Atene, di essere “socialmente omogenea”, per inglobare categorie economiche diverse: contadini, artigiani, mercanti, proprietari terrieri, schiavi, oziosi: contemporaneamente però questo composito gruppo sociale, in seno al quale le disparità economiche e sociali si sono accresciute, rafforzerebbe la sua unità politica, presentandosi come demos, come insieme di cittadini la cui sovranità si esprime nelle assemblee e nei tribunali.
Il quadro storico sarebbe quello di una comunità civica socialmente omogenea nel quinto secolo, che nel quarto cesserebbe di essere omogenea e rafforzerebbe, però, al tempo stesso, il suo livellamento politico.
Pag. 465-66
C’è da sottolineare, nell’economia del quarto secolo, lo sviluppo delle banche private: prima le banche erano soprattutto templari.
Ma il tempio, il sacro, è l’altra faccia del ‘pubblico’, il pubblico visto in rapporto con la divinità.
E’ l’età ellenistica quella della fioritura delle banche private.
Vi sono banche private ad Atene dalla fine del quinto secolo; su 33 casi di banche private note, pochissimi sono di età preellenistica e si ritrovano ad Atene, Corinto, Delfi, Bisanzio, Olbia, Egina, ecc.
I primi trapeziti di Atene sono, nel quinto secolo, gli stranieri Antistene e Archestrato, col tempo accolti nella cittadinanza; il denaro preme sulle strutture cittadine.
Nel quarto secolo è solo un’eterogeneità più accentuata, che si realizza attraverso nuove forme di aggregazione, ma che affonda le sue radici in pieno quinto secolo.
Il vero problema, chiarissimo alla coscienza degli antichi, è dunque quello di un’accurata analisi del rapporto tra privato e pubblico.
Il privato non manifesta la sua forza solo nel quarto secolo; esso ha una sua larghissima possibilità di espressione già nel quinto.
Molte volte si legge che il quarto secolo rappresenta l’esplodere del conflitto tr ala città e l’individuo, il momento in cui fiorisce l’individualismo.
Socrate, personaggio simbolico, identificherebbe es esprimerebbe questo conflitto in maniera drammatica.
Ma bisogna fare una premessa essenziale, che era ben chiara alla coscienza degli antichi: va distinto, in certa misura, fra privato e individuale.
I due termini non coincidono completamente: si potrebbe infatti dire che il privato è una individualità strutturata; anche il privato è in rapporto, fra individui e fra gruppi di individui.
Un singolo animale ha una vita individuale; ma non sarebbe facile parlare della vita privata di un animale senza suscitare il riso; il privato è l’individuale come si esplica all’interno di una società e delle sue strutture.
Credo che alcune delle aporie di quel complesso problema che è la definizione del rapporto di Socrate con la città risultino dal fatto che si è immediatamente adottata come chiave di lettura quella antinomia fra città e individuo, che è soltanto il caso estremo di un rapporto assai frequente e storicamente più significativo e costruttivo, fra pubblico e privato, inteso, quest’ultimo, come qualcosa di più che pura individualità.
Ricordiamo che il più grande sociologo dell’antichità, Aristotele, nel Primo libro della Politica (1253 a), propone la ben nota definizione dell’uomo come “animale politico”, intendendo contrapporre quella forma associativa che è la polis (culmine di un processo ideale, che passa attraverso forme associative minori, quali la famiglia e il villaggio)a una di isolamento totale “che compete soltanto agli dèi o alla bestie”.
Nell’isolamento individuale ci possono essere livelli diversi, che qui vengono esemplificati con due estremi.
Il privato rappresenta una categoria più complessa del puro individualismo.
Quest’ultima è stata la chiave di lettura di tutta una tendenza idealistica, che, nella scelta tra la città che condanna Socrate, e Socrate stesso, non ha naturalmente altra possibilità che scegliere Socrate – cosa che nessuno di noi potrebbe non fare -, ma non si lascia la possibilità di capire le ragioni della città.
A livello di produzione letteraria l’eterogeneità si nota di meno, sembra che tutto questo crogiolo si sia composto come non mai in un ideale di omogeneità, specie nella retorica.
Mai come ora la storiografia ha prospettato un ideale di concordia sociale; mai come ora è forte l’ideologia della polis: reazione alla disgregazione incipiente, ma anche capacità di manipolazione e omologazione a livello ideologico.
L’assetto sociale resta quello del quinto secolo, ma in esso si accentua la divisione ricchi-poveri; la società tende però a rappresentarsi come unità.
L’idea di una forte trasformazione avviatasi intorno al 404, data della sconfitta di Atene e della fine dell’Impero navale e della democrazia radicale, resta comunque valida in relazione ai fatti politici e militari.
Sul terreno istituzionale, attraverso e al di là dell’oligarchia dei Trenta, si passa a una democrazia di stampo moderato, o meglio più moderato; nel quarto secolo, aspetti particolari del radicalismo pericleo e post-pericleo si vanno attenuando.
Trasibulo è il restauratore della democrazia dopo aver abbattuto i Trenta costituenti, che abbozzavano l’idea di limitare a 3000 i cittadini – con fortissima limitazione, se i liberi maschi adulti erano circa 30.000 (era una radicale decimazione, se la scure dell’esclusione dai diritti politici doveva cadere sui 8/10 dei cittadini).
Trasibulo, esule dall’Attica, dapprima con altri 70 a File, fortezza alle falde del Parnete, si trasferisce al Pireo e si batte a Munichia, nel 403, in uno scontro in cui muore Crizia; ma solo nell’anno di Euclide, settembre del 403, gli oligarchi si ritireranno ad Eleusi, creandovi uno Stato altamente improbabile, che chiude la sua esistenza già nel 401/400.
Nel marzo del 399 Socrate è condannato.
Pag. 467-68
Per gli eventi politico-militari, la data del 404 è una cesura storica.
Ma se pensiamo a Socrate (470/69-399), il 404 è data convenzionale; egli è maestro già nelle Nuvole di Aristofane, anche se il testo che abbiamo è la rielaborazione fatta solo dopo il 423.
L’incontro con Platone è del 407/408, quando già ad Atene si ha sentore che le cose andranno male.
Si può dire che Socrate esercitò l’insegnamento nell’epoca post periclea, nella democrazia degli artigiani, dei bottegai.
Ridurre anche Socrate alla sua misura storica, e riflettere sull’ambiente in cui egli vive, è essenziale.
La singolare vicenda dell’uomo condannato a morte dalla città che egli rispetta più di ogni altro, merita risposta solo dopo l’esame del rapporto Socrate-città; la posizione distaccata del filosofo di fronte alla morte è l’esito di un rapporto complesso.
Socrate appartiene, per formazione, all’epoca periclea: fu visto dai contemporanei come uno dei sofisti (Protagora e Gorgia, più anziani, Prodico e Ippia, più giovani: rispettivamente di Abdera, Leontini, Ceo, Elide – tutti stranieri ad Atene).
Socrate si differenzia già perché puro ‘animale di città’, tipico rappresentante dell’inurbamento alimentato da Atene nel quinto secolo.
E’ ben nota la difficoltà di Socrate ad allontanarsi dalla città prodottasi con il forte inurbamento della metà del quinto secolo, per la politica forse di Aristide, certo di Pericle.
E la ‘missione’ dell’insegnamento socratico cade già dopo il 431, la data più bassa da accettare, con Tucidide, per l’inurbamento.
Aristotele e i peripatetici antedatavano il fenomeno dell’inurbamento, collegandolo con le maggiori disponibilità di denaro e lo sviluppo dell’industria nautica del Pireo, che si integra alla città, formando con l’asty una entità bicefala che emerge come quell’ambiente urbano in cui si svolge l’interrogare (exétasis) di Socrate.
Anche il gusto di Socrate per il rapporto dialettico e i destinatari del suo ‘insegnamento’ si spiegano con la città nella città.
Sul piano filosofico c’è la nuova attitudine socratica a rivolgere l’attenzione all’uomo, di contro alle filosofie naturalistiche.
Socrate non ha certo scoperto l’anthropos, ché l’uomo è già per Protagora “misura di tutte le cose”; educare gli uomini è il compito storico che Protagora si è assunto, secondo il Protagora platonico.
Ma la finalità pratica dell’insegnamento è prevalente per il sofista.
Socrate ha dimensioni e profondità diverse.
Il problema educativo dei sofisti con lui si approfondisce, c’è un progredire e caratterizzarsi nuovo della filosofia.
Del resto, psicologismo, moralismo, pedagogismo (con la correlata verbosità che è, essa stessa, un problema di cultura) segnano l’influenza della nuova riflessione filosofica sulla letteratura.
Confluiscono perciò téchnai diverse in quella storiografia che era allo stato puro in Erodoto e nei logografi.
Ma psicologismo, moralismo, pedagogismo hanno bisogno delle premesse socratiche e delle reazioni a Socrate.
La storiografia conta allievi di Socrate, come Senofonte, e di Isocrate, come Eforo e Teopompo.
Isocrate (436-338 a. C.) esprime il pensiero dell’uomo medio, che è poi la realtà storica con cui si ha a che fare.
Interessante è il rapporto di questo retore con la filosofia, il quale considera filosofia il proprio insegnamento (negli anni 380-370 a. C. ci si contendeva anche l’etichetta di filosofia).
Tutti gli insegnamenti sono filosofici, così anche l’insegnamento pratico di Isocrate, il quale resta personalmente fuori della vita politica; questo atteggiamento lo associa a Socrate, che da Delfi ha avuto il precetto di ‘vivere da privato’; ma con l’insegnamento (si pensi al ruolo di Timoteo, ai rapporti con Filippo di Macedonia) Isocrate vuole condizionare la politica.
Il suo è un insegnamento etico-politico; egli si tiene fuori della politica quotidiana, come Socrate; i loro rapporti con la politica sono dunque mediati.
Pag. 469-70
Diodoro (16. 5) fa intervenire in suo aiuto Socrate, di cui – egli dice – Teramene era discepolo.
Nelle genealogie culturali, non c’è limite alla fantasia degli antichi: Teramene sarebbe stato anche il maestro di Isocrate.
Si creerebbe così una linea genealogica Socrate-Teramene-Isocrate, interessante per ciò che ciascuno rappresenta in filosofia, politica, retorica; interessante anche per le assimilazioni che questa ideale genealogia istituisce, in primo luogo per il problema di Socrate e la posizione mediana, centrista, che a conti fatti si individua in lui.
Del resto, per Isocrate e la sua scuola, democrazia e patrios politeia finiscono con l’identificarsi.
Quelle che erano le tre posizioni politiche vigenti ad Atene dal 404, secondo lo schema aristotelico, finiscono col dar luogo a uan sostanziale ricomposizione; sicché, nel corso del 4. secolo, si ha una convergenza di fatto delle posizioni che si riconducono all’idea di patrios politeia, e persino certe istanze di parte oligarchica possono figurare sotto il connotato della democrazia.
La patrios politeia non riuscirà a diventare il nuovo modello politico; formalmente sarà la democrazia, infatti, a vincere, ma essa si adatterà (e qui si completa il processo di ricomposizione) ad assorbire tante istanze della patrios politeia, e in tanto essa non sarà contrastata, in quanto si sarà trasformata.
Il processo, anche sul piano lessicale, è chiaro, se seguiamo con attenzione la storia della parola demokratia, che nel 4. secolo si avvia a significare di nuovo “forma libera, repubblicana”, a recuperare cioè quel significato generico di opposizione alla tirannide o alla monarchia, che però non oblitera mai in assoluto la possibilità di un significato più specifico.
Pag. 474
Nell’emendamento di Clitofonte si parla di patrioi nomoi, cioè di “leggi patrie”; nel 404 si parlerà con certezza di patrios politeia.
C’è differenza?
Alla lettera una gran differenza non c’è.
Finley considera alcuni momenti della storia politica anglosassone e americana e il senso che ha in essa il richiamo alla ‘costituzione degli antenati’, cioè al valore costitutivo del passato; la trasformazione politica non si può proporre, se non operando su modelli.
Qualcosa di più e di diverso bisogna dire però sul mondo greco.
Certo, patrioi nomoi non significa “leggi specifiche”, di contro a un patrios politeia che indicherebbe le “leggi di livello costituzionale”.
Per questo aspetto non si può distinguere; ma è tutto il contesto delle due esposizioni che va rimeditato.
Noi vediamo che i patrioi nomoi, nell’emendamento di Clitofonte, appaiono come un correttivo, un elemento accessorio, della proposta di Pitodoro di riformare la costituzione “per la salvezza” di Atene, di fronte ad un’idea generale ancora indefinita, c’è la ricerca del ‘meglio’ politico.
In concreto, per Clitofonte si tratta di recuperare le leggi poste da Clistene quando istituì la democrazia, in quanto la sua costituzione viene sentita in ambienti oligarchici come non troppo popolare, ma alquanto vicina alla costituzione di Solone.
Così si pensa di garantirsi nei confronti degli affezionati alla democrazia: si tutelano quelle leggi di origine lontana, che sono state accolte, fra le altre, nel fascio di leggi della democrazia.
Pag. 478
Socrate è condannato, tra l’altro, come maestro di Crizia e di Alcibiade, nel 399.
Perché solo allora e non nel 403?
Taylor si è posto il problema, e lo risolve, supponendo che gli ateniesi non ebbero materialmente il tempo nel 403, al rientro della democrazia, di mettere sotto processo Socrate.
La spiegazione è che la rivoluzione e la controrivoluzione (404/403) avessero portato il caos nel lavoro ordinario dei tribunali: tutto il corpo delle leggi attiche dovette essere sottoposto a revisione, e codificato, ad opera dei 500 nomothétai, che conclusero i loro lavori sono nell’anno 401 (altri nomothétai, sistematori di leggi, sono attivi comunque nel 4. secolo).
Ecco perché il procedimento contro Socrate non poté essere avviato nel 403; in realtà Anito si sarebbe mosso non appena fu praticamente possibile.
La spiegazione è di carattere formalistico; l’interpretazione più soddisfacente, ma che va resa un po’ esplicita, è quella di De Sanctis: l’integrale unità della polis, che si voleva ricostruire al prezzo della rinuncia alle vendette, sarebbe stata frantumata dal logos di Socrate e dal suo daimon; in sostanza, la riconquistata unità esigeva che si eliminassero gli autori di azioni dissolvitrici, come Socrate.
Sostanzialmente, ciò coglie nel vero, anche se possiamo tentare di veder meglio i fattori, le condizioni, le circostanze di questa nuova unità.
Mi pare comunque da escludere quell’impostazione, in parte di tipo individualistico, in parte centrata sul tema dell’empietà, che finisce con il relegar in secondo piano le considerazioni di ordine politico, che invece spiegano le ragioni della scelta di quella data.
E’ la posizione di Finley, per il quale sia Platone che Senofonte lasciano intendere che la risposta nella scelta del momento per il processo a Socrate sarebbe di carattere individuale: Anito, Meleto e Licone si sarebbero coalizzati contro il filosofo per ragioni personali, su cui possiamo fare soltanto delle congetture.
Eppure in Platone, Apologia di Socrate 23 2 24, si parla appunto dell’attacco sferrato da “Meleto adirato a nome dei poeti, da Anito a nome dei demiourgoi (scil. Degli artigiani), e da Licone a nome dei retori”.
Nei Memorabili di Senofonte ricorrono pettegolezzi sulle ragioni personalissime di rivalità fra Anito e Socrate, il comune interesse per Alcibiade; e tutto ciò fa parte di una aneddotica, che in teoria potrebbe anche avere un qualche fondamento, ma che non emerge affatto in primo piano.
Sociologicamente legato all’esperienza della cultura democratica e urbana, certamente Socrate non rappresenta l’ala democratica; sappiamo attraverso quali e quanti momenti passi il suo maturare posizioni politiche diverse.
Egli ebbe un continuo contatto con l’ambiente degli artigiani, ma – questo risulta esplicitamente dai Memorabili di Senofonte – era convinto che si dovesse riformare il sistema elettorale ateniese, eliminando il sorteggio, perché - dice Socrate in un famoso passo dei Memorabili (1. 2, 9) – “quando ci affidiamo a un timoniere, o a un falegname, o a un flautista, non lo scegliamo col sorteggio; invece i governanti li scegliamo col sorteggio”.
Quindi, semmai, c’era in lui l’interesse a modificare i sistemi elettorali nel senso della scelta non con il sorteggio, ma con un voto di designazione che premiasse le competenze reali nel campo politico.
Egli vuole trasformare (e proprio in questo è la genesi del suo tendenziale distacco dalla democrazia) la politica in una téchne, cioè in una attività di ‘competenti’.
Pag. 484-85
Le accuse a Socrate furono fondamentalmente due nella formulazione definitiva, quella che noi troviamo in Diogene Laerzio, 2. 40.
La prima era il theous ou nomizein (il “non onorare gli dei”, che Socrate estremizza nel “non credere negli dèi”, perché più facilmente smentibile, visto che lo si accusava di onorare nuovi daimonia); l’altra accusa è quella di avere “guastato” i giovani.
Anche nei Memorabili di Senofonte c’è quest’ordine nelle accuse.
Platone ha stabilito un nesso fra le due: della negazione del culto cittadino e dell’introduzione di nuove divinità egli ha fatto l’oggetto stesso di quest’opera di “corruzione”; il contenuto dell’opera di corruzione è esattamente la sollecitazione all’empietà; di fatto egli ha reso il diaphtheiren tous néous la forma, e il theous ou nomizein la sostanza, delle accuse a Socrate.
Quando si prescinda dalla formulazione dell’accusa nei termini in cui fu scritta, appare comunque evidente il peso che ebbe il richiamo alla responsabilità di Socrate come maestro di Crizia e Alcibiade.
Nel 399 si è a poca distanza di tempo dalla seconda e definitiva conciliazione tra democratici e non democratici, essendo stata cancellata l’autonomia di Eleusi.
E’ anche l’unico momento per cui Senofonte, alla fine del secondo libro delle Elleniche, richiama esplicitamente l’amnistia, la formula del mè mnesikakein come impegno formale del “non recriminare”.
Aristotele ha certo esaltato il 403 come il momento della homonoia, della concordia; ma quand’è che veramente la frattura si salda?
Appunto, quando rientrano anche gli oligarchi di Eleusi, nel 401/400 e comincia la vera ricomposizione.
Allora la storia arriva a compimento, ed emergono Anito e Meleto; di Licone sappiamo poco.
Pag. 486-87
Quindi non si capisce l’itinerario di Socrate, senza vederne l’inizio nella realtà democratica ateniese.
La tradizione aristocratica della ricchezza e della posizione sociale è un valore di crisi, ma al suo posto, d’altro canto, è emersa ad Atene un’altra tradizione, quella dei grandi personaggi politici della democrazia.
Nel Menone Socrate ammette che ciascuno dei grandi del passato (Temistocle, Aristide e Pericle in primo luogo, e poi anche Tucidide di Melesia) siano degli agathoi; ma nega che i figli ne abbiano ereditato la virtù politica.
A lui Anito replica, difendendo il ruolo della gente comune e delle leggi nell’educazione politica e reagisce con durezza e minacce all’ironia sottile da Socrate sulla galleria di personaggi eminenti della storia democratica.
Pag. 488
Torna quindi utile l’idea di ‘parabola’ che si completa, per dare una plausibile ricostruzione della vicenda di Socrate.
La sua fine credo che aiuti realmente a chiarire i suoi inizi e tutto l’arco della sua storia.
C’è in Socrate un atteggiamento nativo, originale, di ricettività, di docilità, che si verifica sotto vari aspetti.
Non sembri, così, un Socrate eccessivamente passivo: primo, perché non lo è, in quanto sull’atteggiamento iniziale di ricettività, di docilità (che è solo la condizione preliminare), immediatamente si imposta in lui tutto quel che compete alla sua potenza intellettuale, alla sua autentica ansia di ricerca.
Egli svolge la sua attività, di fatto educativa, nella forma dell’interrogazione, dell’esame (exétasis), e già questo dice quel suo carattere originario di philomathés (“colui che ama apprendere”).
Ma l’interrogazione è soltanto il varco attraverso cui passa la comunicazione con l’altro; ed è ovvio che a personalità in quel rapporto più potente (che è senza dubbio Socrate) percorra questo varco a svantaggio dell’altro; e la domanda finisce con l’essere solo lo strumento che cattura l’altro nella logica di chi comanda.
Dunque, sulla preliminare forma passiva reagisce immediatamente tutta la potenza intellettuale di Socrate.
Nella bibliografia, vastissima, sono addirittura rappresentate posizioni che presentano Socrate come un pensatore del tutto passivo e non costruttivo, coem un uomo che “non aveva nulla da dire”; esse sono state giustamente respinte.
Ci si domanda perché Socrate, che per tutta la vita ha posto a base del suo ragionare il dubbio e ha contestato qualunque forma di autorità di principio, accetti l’ingiunzione, che gli viene dalle leggi, di morire perché la città lo ha condannato.
Ma, paradossalmente, proprio la condanna a morte e l’accettazione di questa condanna rappacificano Socrate con la città e con se stesso.
La fine lo riconduce ai suoi inizi: e i suoi inizi erano quelli di un atteggiamento di nativa obbedienza, di originaria, nativa docilità.
A questo lo riconduce la condanna a morte, e questo traspare dal discorso che, nel Critone platonico, Socrate immagina gli rivolgano le Leggi.
Le Leggi (Nomon) nel famoso dialogo che Socrate immagina esse intreccino con lui, iniziano con il ricordi dell’infanzia: come Socrate nacque e come fu educato (50c-e).
Le Leggi qui si propongono come figure protettive e materne (o paterne, se si vuole tener conto del genere maschile di nomoi).
Le prime parole che le leggi dicono a Socrate, sono: ”Noi ti abbiamo generato. In virtù di noi, per opera nostra, tuo padre ha preso tua madre e ti ha seminato e piantato”.
Cioè a generarlo sono state le Leggi, il padre ha soltanto fatto opera di colui che pianta (phyteuei).
E gli domandano: “Hai da lamentarti di quelle fra noi che regolano i matrimoni?”.
Tutta la sua storia biologica, affettiva, educativa (sono le Leggi che gli hanno imposto l’apprendimento della ginnastica e della musica), è dovuta ad esse.
La prima risposta di Socrate è ou mémphomai: “Non ho nulla da rimproverarvi”.
Questo è un ritorno completo, un rientro nel grembo materno; la fine veramente qui illumina il principio,
Socrate non muore disperato o maledicendo la città, la città storica, cioè la città democratica.
Chi avesse veramente percorso per intero un cammino di rottura, avrebbe finito gridando contro la città.
Invece Socrate immagina di lasciarsi guidare con molta docilità alla morte, quando gli amici potevano permettergli una fuga altrove.
Ma la replica di Socrate, dell’uomo che, settantenne, è condannato a morte, è nella sostanza: “Questa è la mia casa: dove mai dovrei andare?”.
E’ come dire: la città dà, la città toglie.
Pag. 489-90
Il problema dell’affinità, o della diversità, delle idee politiche di Socrate e di Platone trova il suo campo di verifica più diretto nel tema del filolaconismo, cioè del giudizio di entrambi su Sparta e dell’atteggiamento favorevole nei confronti della costituzione aristocratica spartana, che, evidente in Platone, va invece verificato in Socrate.
In relazione all’analisi che di Socrate e di Platone faceva Karl Popper – tutta in chiave di condanna del totalitarismo platonico, e di difesa, invece, del messaggio politico socratico, che Popper trovava affine a quello dei vari umanitari ed ugualitaristi che vanno da Protagora ad Antistene – va osservato che egli si doveva confrontare con un passo del Critone (52e-53°), che, inteso come prova di filolaconismo in Socrate, gli si raccomandava per l’espunzione.
Ma non c’è nessun bisogno di espungerlo, perché la tesi di Popper, e in generale di coloro i quali negano l’assimilazione, soprattutto sul terreno decisivo del filolaconismo, tra Socrate e Platone, resta tesi valida anche senza eliminare questo passo.
Esso sta invece bene come suggello all’interpretazione di tipo dialettico, che di Socrate ha proposto, in relazione alla città democratica, alla cultura democratica e urbana, di cui egli in prima istanza è frutto ed espressione (non in senso deterministico naturalmente, ma nel senso che quella cultura è la grande condizione storica, da cui può nascere, per virtù propria, l’opera e il messaggio socratico).
La sua appare come una tensione irrisolta fra le sollecitazioni che vengono dalla città democratica, dalla cultura democratico-urbana con cui egli è tanto legato, da un lato, e le prospettive che, per le forme del suo insegnamento per l’ambiente che lo recepisce e per alcune sue autentiche riflessioni su carenze della democrazia in cui egli vive, lo portano, dall’altro, ad orientarsi verso una prospettiva aristocratica: ma non approda alla scelta definitiva che sarà di Platone.
Interpretazione dialettica significa che la tesi e l’antitesi convivono in una sintesi, che, fra l’altro, ha una storia nel tempo.
La prova è sempre nel discorso che le Leggi fanno a Socrate per convincerlo a restare e a subire la condanna: “Tu ti accingi a violare quei patti, quegli accordi, che hai stretto con noi, non per costrizione e nemmeno per inganno, e nemmeno costretto a decidere in poco tempo, se noi non ti piacevamo e se non ti sembravano giusti i patti stretti. Ma tu non hai preferito ad Atene né Sparta né Creta, che, ogni volta che puoi, dici ben governate (eunomeisthai), né alcun’altra delle città greche o barbariche; e ti sei poi allontanato da Atene meno di quanto facciano gli zoppi, i ciechi, e gli altri invalidi. Così straordinariamente, rispetto alle altre città, ti piaceva la città di Atene, ma evidentemente anche noi leggi ti piacevamo: a chi potrebbe infatti piacere una città senza le leggi? E ora, dunque, non resterai ai patti stretti? Si, se ci dai ascolto; e tu, Socrate, non diventerai ridicolo, uscendo dalla città”.
Sembra quasi che Platone replichi a una possibile obiezione, che Socrate fosse legato solo all’ambiente fisico di Atene e alle relative abitudini; ora, sono state proprio le Leggi, quelle leggi di quella città, a trattenere il filosofo ad Atene e a fargli accettare la condanna.
Posizioni critiche, ma legaliste, di questo tipo, ci potevano essere nella democrazia ateniese (si pensi a un personaggio come Cimone); ma ancor di più Socrate è innervato in questa storia democratica e urbana, perché ha origini umilissime, e con questa città è legato fino in fondo: di questa città egli accetta l’ambiente fisico, ma anche tutte le leggi, pur se riconosce di aver simpatia per l’eunomia, cioè per i principi di “buon governo”, che vigono altrove.
Dunque, Socrate non ha scelto la costituzione spartana, non ha scelto il complesso delle leggi spartane.
Il passo del Critone non nuoce a chi sostiene il non compiuto filolaconismo di Socrate, e non giova a chi lo considera un elemento di dimostrazione dell’opzione spartana del filosofo; al contrario, lascia vedere il giusto rapporto tra la concezione socratica e quella platonica, che è pienamente aristocratica e attinge, naturalmente modificandolo, al modello storico spartano.
All’inizio del quarto secolo, probabilmente i cittadini spartani sono un po’ più di 3000; questo è un modello, rispetto a cui la polis myriandros (di circa 10.000, o da 10.000 cittadini in su) rappresenta una soglia di rischio.
E invece al di sotto, o entro quella che sembra ancora una soglia rispettabile, si ha una città di dimensioni possibili, una comunità di cittadini che non significa necessariamente la comunità di tutti gli abitanti, perché il modello spartano prevede anche la possibilità dell’esistenza di liberi, che non siano né servi, né cittadini.
Ad Atene, la democrazia è tentata da progetti riduttivi, che non passano, sicché il contrasto politico si trasferisce all’interno della stessa città democratica, in uno sforzo di riassestamento dei rapporti fra il vecchio strato oplitico-proprietario e i nuovi ricchi da un lato, e i teti dall’altro, che hanno avuto molta voce in capitolo nel quinto secolo, e ne avranno di meno nel quarto.
Pag. 491-93
Tra i tre aspetti della libertà che noi cogliamo nella triade eleutheria, demokratia, autonomia, è l’eleutheria quello di cui Sparta prova a farsi campione nel corso della guerra del Peloponneso e subito dopo di essa.
Eleutheria è la libertà come principio, l’indipendenza cioè, ma, più in generale, e in assoluto, la libertà; il comportamento di Lisandro è però una smentita della prospettiva politica di libertà come principio.
La demokratia non può certo essere la parola d’ordine della politica spartana, e perciò la libertà politica interna dell’uomo greco non può essere il fine di tale politica e, meno che mai, quella di Lisandro.
Tuttavia, per quanto riguarda l’indipendenza dei greci nei confronti della Persia, con le campagne di Tibrone, Dercillida e Agesilao in Asia Minore – che si svolgono tra il 400 e il 394 a. C. -, Sparta tenta di assolvere il ruolo di patrona della grecità in generale: il risultato ultimo di questa politica sarà nei fatti la pace di Antalcida (386), che certamente non sancirà la libertà per le città greche d’Asia, anzi sarà uan rinuncia da parte spartana alla funzione di patronato nei confronti dei greci d’Asia.
Tuttavia Sparta si era mossa realmente, da Tibrone ad Agesilao, nel senso di una difesa dell’eleutheria delle città greche d’Asia.
Pag. 496-97
Che cosa insomma di singolare in questa guerra?
Il fatto che essa sia al fondo una guerra di cui non si può venire a capo senza soluzioni drastiche: da un lato c’è l’esigenza di autonomia dei greci, che coincide con il desiderio di liberarsi dalla paura di una minaccia sempre incombente, dall’altro il re persiano non rinuncia all’affermazione della sua sovranità fino alla linea della costa.
Una volta affermato questo principio, e rifiutata l’autonomia e la libertà ai greci, si potranno infatti prelevare tributi, e si potrà collocare (ma non è detto che lo si debba) una guarnigione persiana nelle città o nel territorio.
Si profilano i dati del rapporto tra città e sovrano, che i greci vivranno soprattutto nel periodo ellenistico (salvo che gli stati territoriali con cui avranno a che fare saranno allora greco-macedoni).
Le città greche temono la grande potenza territoriale alle loro spalle e invocano l’aiuto dei confratelli della madrepatria, in questo momento degli spartani, che, avendo distrutto l’impero di Atene (il quale, bene o male, rappresentava un supporto militare, politico e morale per i greci d’Asia), ora devono coerentemente subentrare allo scomparso patronato ateniese delle città della Ionia.
Pag. 504-5
Si verifica un nuovo ribaltamento della politica spartana nei confronti della Persia; un ribaltamento che sarà appena contraddetto da qualche fatto episodico di segno diverso.
Il protagonista di questo rovesciamento di fronti è Antalcida (o Antialcida, secondo la forma epigraficamente attestata).
D’altra parte nel 392 c’è lo stesso interlocutore che troveremo negli anni 388-386, Tiribazo, il satrapo persiano di Sardi, di orientamento filospartano.
Anche la Persia, ovviamente, opera un mutamento di linea politica.
A Sparta, la linea filopersiana certamente trova in Antalcida un interprete costante; ancora per buoni 25 anni egli continuerà a praticare una politica di intesa strettissima con la Persia, e quando, circa il 367, conoscerà un fallimento su questa strada, si suiciderà.
Agesilao ha certo al suo attivo tutta la campagna antipersiana; però ad esercitare una costrizione, con minaccia di intervento, sui beoti e sugli argivi e i corinzi perché accettino la pace del re (o pace di Antalcida), sarà nel 386, proprio Argesilao.
Quindi momenti e atteggiamenti sono probabilmente diversi, nei comportamenti dei due spartani, ma non si concretano realmente in uno scontro di linee politiche contrapposte.
Antalcide è comunque l’interprete della svolta filopersiana di Sparta tra il 393 e il 392, una svolta che, alla prova dei fatti, viene largamente condivisa nella città.
E’ Antalcida a denunciare (nel 393), al governatore di Sardi Tiribazo, il fatto che gli ateniesi, con i soldi ricevuti da Fornabazo, ricostruiscono le Lunghe Mura, e si dotino di una flotta.
Senofonte presenta la denuncia in una maniera molto obiettiva, fornendoci elementi per imputare di grettezza Sparta, che, per la sua rivalità con Atene, non esita a rinunciare a una politica, cui ha dedicato impegno, forze, vite umane.
Sparta cambia quindi direzione.
E seguono, nel racconto senofonteo, le trattative di pace di Sardi.
Antalcida, dopo aver fatto le sue denunce, offre dunque al governatore persiano la rinuncia alla tutela dell’autonomia delle città greche d’Asia.
Come si diffonde la voce di questa intesa persiano-spartana, vengono a Sardi anche i rappresentanti degli ateniesi, degli argivi e dei tebani.
Il compenso per Sparta, il principio su cui Tiribazo e Antalcida possono intendersi, è quello dell’autonomia delle città greche non d’Asia.
Quelle d’Asia sono dunque rimesse alla sovranità del re di Persia, quelle della madrepatria dovranno regolarsi e organizzarsi secondo il principio dell’autonomia.
Ma l’autonomia è concetto polivalente, che può usarsi contro i persiani (e, sotto questo aspetto, gli ateniesi continuano a difendere i greci d’Asia, mentre gli spartani vi rinunciano); può valere però, in quanto applicato al mondo greco e ai suoi rapporti interni, contro Atene e contro tutti quelli che vogliono costituire coalizioni regolate da un rapporto egemonico, e opposte a Sparta.
Sparta è interessata alla seconda faccia del principio dell’autonomia, e quindi a un regime di autonomia interna al mondo greco, che possa frenare le pretese egemoniche di Atene, o quelle di Argo (concretatesi nell’annessione di Corinto), o quelle dei tebani sull’intera Beozia.
Di fronte al rischio di vedere frustrate le proprie aspirazioni egemoniche, ateniesi, argivi e tebani rifiutano la proposta di Tiribazo di una pace fondata da un lato sulla rinuncia alla difesa dell’autonomia dei greci d’Asia, dall’altro sull’estensione generalizzata del principio di autonomia ai rapporti intragreci.
Gli ateniesi, secondo Senofonte, non volevano questa pace perché temevano di essere privati di Lemno, Imbro, Sciro; gli argivi non la volevano perché si vedevano privati di Corinto, che avevano assorbito nella nuova Argo (ed è oggetto di scandalo, nella storia dei greci, l’annientamento di un’identità cittadina); non la volevano i tebani, che intendevano conservare la loro egemonia in Beozia.
In Senofonte, che è un filospartano, si riconosce certo un’interpretazione riduttiva delle ragioni del comportamento dei nemici di Sparta, ma è lui stesso a informarci che Conone aveva convinto Farnabazo a lasciare autonome le città, e a descrivere, in maniera oggettiva, i sondaggi degli spartani presso i persiani, e le loro denunce, che nessuno potrebbe giudicare come un comportamento molto onorevole.
L’oggettività storica è qui realizzata, forse un po’ meccanicamente, come somma di due valutazioni di segno diverso.
Pag. 509-11
Il re Artaserse “ritiene giusto” che siano le sue città d’Asia, e insieme Cipro e Clazomene (un’isola grande e una piccolissima che si trova in un’ansa della costa asiatica a nord di Teo e a oriente di Eritre e contiene il nucleo delle città, che ha un suo territorio anche sul continente).
In queste precisazioni c’è il rigore della definizione del confine geopolitico (le due isole appartengono all’Asia e quindi spettano alla sovranità del re); ma esse erano state anche veramente oggetto dell’attivismo degli ateniesi negli ultimi anni.
Diverso è il discorso per le altre città greche: in Europa esse possono, anzi devono, essere autonome.
Il re sancisce l’autonomia di città piccole e grandi, tranne Lemno, Imbro e Sciro; le cleruchie dovranno essere ateniesi, come già erano prima.
Se qualcuno si opporrà a questa pace, o non l’accoglierà, il re gli muoverà guerra su tutti i fronti e con tutti i mezzi.
Diodoro dice che la pace lasciò malumore fra gli ateniesi, i tebani e alcuni altri dei greci, per il fatto che con essa erano state cedute le città greche d’Asia; ad esserne lieti furono solo gli spartani.
Senofonte dal canto suo ricorda che tutti i greci accettano e giurano: salvo che i tebani vorrebbero giurare per i beoti, con questo mettendosi già in conflitto con la pace che stanno giurando, perché non vogliono evidentemente riconoscere l’autonomia alle città beotiche.
A ciò si oppone Agesilao; gli ambasciatori tebani tornano per consultazioni a Tebe; ma Agesilao nel congedarli annuncia loro un intervento militare, se non accetteranno la pace soltanto a nome di Tebe, senza quindi invocare l’egemonia sulla Beozia e la sua rappresentanza.
In effetti, egli non si limita a minacciare la spedizione, ma già la organizza e stabilisce il quartier generale a Tegea in Arcadia.
Ma quando a Tebe si sa dell’imminenza dell’attacco spartano, si accetta la condizione di ‘firmare’ a solo proprio nome, e non in nome della Beozia.
Come si vede, non c’è nessun sostanziale conflitto tra la linea politica di Agesilao a e quella di Antalcida: il primo è in definitiva solo il braccio armato della politica di Antalcida.
A Corinto c’è un certo ritardo nella esecuzione degli impegni: la parte democratica al potere teme che, una volta rimossa la tutela argiva, gli oligarchici rientrati possano farle pagare le stragi che nel 392 essa aveva compiuto, perciò trattiene la guarnigione di Argo; a una nuova minaccia spartana segue l’attuazione degli impegni anche da parte corinzia.
A questo punto, Sparta ha finalmente ottenuto ciò che voleva: ha abolito l’egemonia tebana in Beozia, ha reso autonoma Corinto, ponendo fine all’annessione argiva, ed ha ottenuto, almeno in linea di principio, da parte di Atene, il riconoscimento che i rapporti interstatali nel mondo greco si debbano regolare sul principio dell’autonomia (il che comporta almeno una certa remora alla ricostituzione di un suo impero navale).
Pag. 517-18
L’esito ultimo è la magna charta, la “carta di fondazione” (o piuttosto il “manifesto” di ampliamento del nucleo) della Lega navale attica, che si trova iscritta nella stele detta “di Nausinico” dal nome dell’arconte (378-377) sotto cui si data la rifondazione della lega e la redazione dei principi su cui essa si rifonda.
Questo decreto, proposto dall’ateniese Aristotele di Maratona, è datato alla settima pritania, quella della tribù Ippotoontide, il che ci porta al febbraio-marzo del 377.
Il testo del decreto di questa “carta di rifondazione della Lega navale ateniese” occupa la faccia anteriore della pietra e serve a registrare i nomi di coloro che aderirono al patto federale in diversi periodi.
Il testo si articola in due parti: indica, innanzi tutto, le finalità della symmachia (alleanza), che sono sostanzialmente due: che gli spartani lascino vivere in pace i greci “liberi e autonomi”, e inoltre che venga fatta salva la “pace generale”, che i greci e il re avevano giurato.
Come è evidente, il principio dell’autonomia, che era stato solennemente sancito dalla pace di Antalcida, viene esplicitamente richiamato, come un fondamento che non si intende in alcun modo violare; ma la pace di Antalcida viene messa abilmente a frutto dagli ateniesi, che si ritagliano, all’interno del nuovo assetto interstatale greco garantito dal re, tutti gli spazi possibili ed usano il principio di libertà ed autonomia, questa volta (con uan esplicitezza che è rara nello stile epigrafico, spesso incline ad eufemismi e preterizioni), proprio contro Sparta.
Il principio si ritorce ora contro Sparta: nell’ottica ateniese, Sparta è servita; il cerchio, apertosi con la guerra del Peloponneso e la sconfitta del 404, si chiude 26 anni dopo.
Pag. 518-19
Quali le condizioni della città per l’avvenire?
Ora figurano motivi autocritici sull’esperienza del quinto secolo.
Gli alleati devono aderire rimanendo liberi ed autonomi, conservando il regime politico che vogliono.
Salvaguardia, dunque, nei confronti di Sparta, che aveva fatto un cattivo uso del principio della eleutheria e dell’autonomia, con l’imposizione delle guarnigioni ed altro ancora, ma anche critica verso il comportamento ateniese del quinto secolo, quando c’erano state forti interferenze nei regimi politici, abusi nell’occupazione di terre degli alleati e altre forme di limitazione della loro sovranità; e, soprattutto, all’oppressivo tributo annuale (phoros) vengono sostituite le contribuzioni occasionali (syntaxeis); le decisioni saranno prese dall’assemblea di Atene e dal consiglio degli alleati (a cui è dunque riconosciuto un qualche diritto di veto).
Pag. 521
Note integrative
Sul rapporto di Platone con la politica
Non è possibile qui dare neanche sommariamente conto dell’opera del filosofo Platone (427-347 a. C.); converrà limitarsi a indicarne il ruolo dal punto di vista delle interconnessioni tra politica e cultura.
Nell’opera di Platone confluiscono le più diverse esperienze di pensiero, come l’idea dell’essere dell’eleate Parmenide, filtrata attraverso la pluralità dell’essere uno di Anassagora o di un Democrito, e la nozione socratica di eidos (idea).
Profonda è inoltre l’influenza del pitagorismo, forse mediata già da personaggi della diaspora pitagorica nel Peloponneso e in Beozia, susseguente alle rivolte antipitagoriche in Italia meridionale della metà (?) del quinto secolo, nonché di personaggi tebani già della cerchia socratica, ma certo rafforzata dai rapporti di Platone con l’Occidente, che matureranno, negli anni ’60, nella stretta amicizia con Archita di Taranto.
E’ stato giustamente osservato che il pitagorismo ha su Platone una presa ben più forte che su Socrate (Isnardi Parente); d’altra parte, in lui il pitagorismo conosce una rivitalizzazione di prim’ordine, che si verifica mediante un contemperamento con esperienze politiche e culturali differenti, atto a rendere il pitagorismo accettabile anche in ambienti diversi da quelli intimamente congeniali dell’Italia meridionale.
La giusta chiave per l’interpretazione del pensiero di Platone è dunque quella, profondamente storica, che ne analizza le componenti; le dominanti sono di chiara impronta aristocratica, passate tuttavia anch’esse, necessariamente, attraverso esperienze culturali e politiche proprie dell’ambiente democratico ateniese.
Solo l’adozione di un modello interpretativo duttilmente storico, attento alle innegabili ascendenze, e insieme all’apporto personale che – in prima istanza – è quello dell’armonizzazione di esperienze molteplici, risparmia all’interprete di Platone il rischio di teorie volte a evidenziare contraddizioni, pentimenti, deviazioni, a fare cioè uso di categorie negative.
Visione storica significa visione positiva delle componenti e dei nuovi equilibri che fra esse si determinano, certo nell’elaborazione creativa del filosofo.
Realismo e idealismo sono forme di pensiero coesistenti, in grado diverso nelle diverse fasi, nella teoresi platonica: il mondo dell’esperienza quotidiana si presenta perciò in essa come mimesi del mondo delle idee, ma ora come mera ombra dell’essere reale (il mito della caverna nel decimo libro della Repubblica) ora come dispiegamento di modelli primi; la teoria del corpo come tomba (soma/sema) non produce ancora una rinuncia alla cura della fisicità.
La condanna, che nella Repubblica riguarda in blocco le arti figurative, si definisce poi più precisamente /nel Sofista) come condanna del pathos che investe l’arte post-fidiaca.
Da un punto di vista sociologico, del resto, l’esperienza delle attività artigianali, in qualche misura familiare, almeno teoricamente, ad ogni buon ateniese, e che era stata così strutturalmente importante nella riflessione socratica e non aveva mancato di influenzare persino un oligarca estremo come Crizia, si rivela presente in tutto l’arco della riflessione platonica, sia come accortissima eco dell’atteggiamento di Socrate, nei primi dialoghi, sia nell’ideazione della struttura della città nella Repubblica, sia infine (anche se ormai piuttosto sul terreno delle grandi metafore di impiego teoretico) nel Timeo, con la concezione del dio-creatore come dio-artigiano (demiurgo).
E’ vano negare il filolaconismo di Platone, anche se, ovviamente, da un costruttore di teorie non ci si attenderà che egli si limiti a fare richiamo a un modello storico definito, da riprodurre sic et simpliciter.
Il nuovo tipo di ‘intellettuale’ dell’epoca, che si pone in rapporto critico con la società che lo esprime, ma è anche desideroso di influenzarla, non è comunque quello di un intellettuale neutrale nelle scelte politiche di fondo, che sono appunto scelte aristocratico-laconiche o (che è molto simile) aristocratico-pitagoriche: ne deriva il ruolo dei filosofi governanti e dei guerrieri, nella città ideale della Repubblica, così come il ruolo del “consiglio notturno” e segreto dei supervisori nelle Leggi.
Questa sono scelte esplicite ed inequivocabili; solo che l’ambientazione culturali di questi orientamenti è profondamente e sapientemente attica.
E’ ben chiaro che l’ideale platonico in tema di governo politico è il gruppo, selezionato e chiuso, di grandi saggi, che siano essi stessi il governo o che lo affianchino come consesso di eminenze grigie, ma l’esperienza attica non è certo passata invano, nel sangue e nella mente di Platone.
Ed è essa che spiega la sua attenzione alla scrittura, alla quale viene affidata la diffusione delle idee; l’apprezzamento codificato nelle Leggi, delle legislazioni scritte, a cui si accompagna una rivalutazione del ruolo della proprietà privata, dopo le proposte di tipo collettivistico (di matrice laconico-pitagorica, cioè aristocratica) della Repubblica; la connessione della sua scuola con un ginnasio pubblico.
Tutto ciò, oltre alla diversificazione ormai crescente, e divenuta consapevolezza della separabilità, tra ruolo intellettuale e funzione politica, spiega perché Platone corresse, in patria, assai meno rischi di Socrate.
Senofonte
Figlio di Grillo, nacque ad Atene, secondo l’opinione prevalente tra il 430 e il 425 (secondo una tradizione, recuperabile in Diogene Laerzio, 2. 22, 48 sg., 55, 58 e in Strabone, 9. C. 403, circa il 440) e morì verso o poco dopo il 354 a. C.
Nel 404 pare militasse per i Trenta Tiranni contro Trasibulo.
Fu discepolo di Socrate.
Partecipò alla spedizione dei Diecimila al seguito di Ciro il Giovane contro Artaserse 2. di Persia; prese parte alla battaglia di Cunassa, nel 401, e assunse fra i superstiti della sfortunata spedizione funzioni di comando, che tenne fino alla primavera del 399.
Forse rimase in Asia tra il 399 e il 396, anno in cui lo troviamo al seguito del re spartano Agesilao.
Quest’amicizia si spinse al punto che nel 394, nella battaglia di Coronea, egli si trovò dalla parte dei nemici di Atene e forse combatté contro la sua città.
Ne seguirono la condanna all’esilio da parte ateniese e invece onori da quella di Sparta, che concesse a Senofonte un possedimento a Scillunte, a Trifilia.
Il riavvicinamento progressivo tra le due città, in vista del pericolo tebano, tra il 375 r il 369, condusse a un miglioramento dei rapporti di Senofonte con la madrepatria: Senofonte ottenne il richiamo in patria, ma non sappiamo se vi rientrasse davvero.
Nel 371 egli aveva dovuto lasciare Scillunte, avendo gli spartani perduto la Trifilia: dopo tappe intermedie, si era trasferito a Corinto, dove morì )secondo un’altra tradizione sarebbe invece tornato e morto a Scillunte).
Le vicende personali e i rapporti con l’ambiente spartano influenzano le idee politiche di Senofonte, in cui alle riserve verso la democrazia, quella ateniese in particolare, si associa l’ammirazione per l’oligarchia spartana e una fonte di disponibilità per l’ideale monarchico, che prepotentemente s’introduce nel pensiero politico greco del quarto secolo.
Il Corpus senofonteo è vastissimo e comprende opere storiche e pedagogiche, e di memorie socratiche; alcune sono considerate spurie (come il trattatello di spiriti oligarchici sulla Costituzione degli ateniesi).
Le opere di carattere storico si presentano in parte come la narrazione di vicende personali (l’Anabasi, parzialmente l’Agesilao), in parte come la continuazione dell’opera tucididea (i 7 libri delle Elleniche, che coprono il periodo 411-362, fino alla battaglia di Mantinea).
Diversa per profondità critica e per aspetti della struttura narrativa da quella tucididea, l’opera di Senofonte è comunque nella linea del tipo di storia politico-militare e contemporanea proposto da Tucidide.
Esiste una questione di composizione delle Elleniche: secondo alcuni studiosi i libri più antichi sono 3.-5. (De Sanctis) o 3. -4. (Sordi); seguirebbero i libri che completano il programma tucidideo (1. -2.), quindi gli ultimi; altri si considerano a considerare più tardi degli altri i primi due libri (Treu); altri accettano infine la successione della tradizione manoscritta.
Esiste anche un problema di formazione generale di Senofonte: iniziò come memorialista per maturare come storico (De Sanctis)?
O le due cose sono, ancora nel quarto secolo, piuttosto inscindibili (Mazzarino)?
Anche nei libri più filolaconici (3.-5.) si colgono in realtà, accanto all’innegabile favore per Agesilao, giudizi obiettivi su Sparta (vedi sopra nel testo); e la tesi che accetta la successione tradizionale dei libri non manca di buoni argomenti.
Pag. 521-24
Bibliografia
Le eterie nella vita politica ateniese del sesto e quinto secolo a. C. / F. Sartori. – 1957
Maledetta democrazia / U. Bultrighini. – 1999
La parola e l’azione: studi su Crizia / A. Iannucci. – Il Mulino, 2002
Studi sulla patrios politeia / S. Cecchin. – 1969
Socrate: un problema storico /M. Montuori. – 1984
Un progetto di riforma su Sparta: la Politeia di Senofonte / E. Luppino Manes. – 1988
Egemonia di terra ed egemonia di mare: tracce del dibattito nella storiografia tra quinto e quarto secolo a. C. / E. Luppino Manes. – 2000
La strada dei Diecimila / V. Manfredi. – 1986
Ricerche intorno alla guerra corinzia / S. Accame. – 1951
Studio sulle Elleniche di Ossirinco / G. Bonamente. – 1973
Conone / G. Barbieri. – 1955
Cap. 8. Dall’egemonia spartana al nuovo policentrismo greco
La pace di Antalcida non risolveva di colpo tutti i problemi né dissipava tutti i conflitti.
Ciò vale per i greci come per lo stesso impero persiano, provato da ribellioni e spinte centrifughe nelle sue regioni di frontiera.
Lo dimostrano la resistenza del re egiziano Akoris agli attacchi del gran re (385-383) e quella di Evagora di Cipro, che si giovò anche del sostegno egiziano, e finì per cedere al persiano Tiribazo, benché non come un servo di fronte al re ma come un re di fronte al gran re (380).
L’Impero persiano era del resto turbato da ribellioni al suo interno (come quella dell’ammiraglio Glos e, successivamente, di suo figlio Tachos).
Pag. 530
Ad Atene la situazione politica presenta nuove articolazioni rispetto al passato: gli oltranzisti della guerra su due fronti, contro Sparta e la Persia, come Agirrio e gli uomini del suo gruppo, sono condannati a morte.
Fra gli altri politici, duttili e realisti anche se non rinunciatari, emergono Callistrato di Afidna, nipote di Agirrio, e, come generali, Cabria e Ificrate, e il figlio di Conone, Timoteo, che era un vivo contatto con la classe colta ateniese, amico e allievo di Isocrate e in rapporto con lo stesso Platone.
Pag. 531-32
Il periodo che segue, fino alla battaglia di Leuttra (luglio 371), si presenta, dal punto di vista della storia politica e militare, come un’epoca di grande movimento, non nel senso puro e semplice dell’intensità dei fatti d’ordine politico, militare, diplomatico (che non è certo caratteristica esclusiva di questo periodo), ma nel senso di un mutamento complessivo di posizioni, di comportamenti fondamentali delle città più importanti e, di riflesso e in generale, del mondo greco nel suo insieme.
E’ il periodo (378-371) in cui Sparta cerca in vario modo di contrastare i fatti nuovi emersi dopo la pace di Antalcida, cioè la ribellione e l’ascesa di Tebe da un lato, la ricostituzione dell’impero navale ateniese e la sua rapida espansione in acque di recente venute sotto il controllo di Sparta, o addirittura adiacenti al Peloponneso, dall’altro; ma alla fine del periodo Sparta si troverà ad aver perduto le posizioni di forza che aveva al suo inizio.
Pag. 533
Il rimescolamento di carte all’interno del mondo greco continua vertiginoso.
Atene si allea con l’Arcadia (per l’iniziativa di Licomede, assassinato sulla via del ritorno da Atene in Arcadia), Corinto con Tebe: Eufrone di Sicione, isolato, cerca il sostegno di Tebe; è assassinato in questa città durante le trattative, ma al potere gli succede il figlio Adeas.
Sparta, che ha perduto il sostegno del re persiano, punta ora su una carta diversa, quella del satrapo ribelle della Frigia ellespontica Ariobarzane, che il vecchio re Agesilao, nel 365, viene ad aiutare contro altri due satrapi, Autofredate di Lidia e Maussollo di Caria, assumendo il comando dei mercenari di Ariobarzane.
Atene tenta di trarre vantaggi dai conflitti interni all’impero persiano, con l’invio di Timoteo, che conquista Samo, impiantandovi una cleruchia di 2000 cittadini (365), per poi passare sul continente in aiuto d’Ariobarzane, che cede agli ateniesi, per ricompensa, Sesto e Critote nel Chersoneso tracico.
Il re si riconcilia ora con Atene, riconoscendole i diritti su Anfipoli, e Timoteo si sposta, nel 364, in area macedone, dove si impadronisce di Pidna (dal 410 tornata alla Macedonia) e di Metone, nonché di Torone e di Potidea in Calcidica; fallisce invece l’occupazione di Anfipoli (364).
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La conclusione delle Storie di Senofonte contiene un giudizio, divenuto poi canonico, sulla durata dell’egemonia tebana: dopo la battaglia di Mantinea in Grecia vi fu più confusione e disordine di prima.
In termini meramente negativi Senofonte trasmette un’intuizione storica di primaria importanza, che cioè in Grecia non v’era più spazio per l’egemonia di una polis.
L’egemonia tebana aveva prodotto quel che poteva produrre l’ultimo tentativo di questo genere: lo smantellamento, appunto, dell’idea stessa di egemonia.
Una pace generale, da cui si tenne però fuori Sparta, sanciva lo status quo, l’indipendenza della Messenia e l’esistenza di due leghe arcadiche, l’una intorno a Tegea e Megalopoli, l’altra intorno a Mantinea; fondamentale era comunque il fatto che l’Arcadia confinante con la Laconia fosse anche quella antispartana.
L’intuizione dello storico Senofonte, e la periodizzazione da lui operata all’interno della storia greca di quegli anni, che doveva diventare canonica, erano certamente favorite dalla vicinanza dello scrittore a quelle vicende e dal fatto che egli non vi sopravvisse di molto.
Ciò non significa che le prospettive egemoniche fra le poleis cessassero di colpo: a suo modo, ciascuna delle tre maggiori città di Grecia continuava a perseguirle, ma con più incertezza, minore slancio e minore coesione interna, quindi con un’efficacia storica sempre più limitata.
Sparta non intendeva rinunciare alla Messenia e al suo ruolo nel Peloponneso; Atene manteneva, e forse momentaneamente, accentuava, la sua posizione egemone all’interno della Lega navale; Tebe continuava a tener viva la propria ostilità verso Sparta e anche, benché in minor misura, verso Atene, ma soprattutto cercava di conservare un ruolo fondamentale nella Grecia centrale e nella stessa Tessaglia.
Lo scontro tra queste ormai sempre più inefficaci ambizioni creò, nei fatti, le condizioni per il conflitto accesosi nella Grecia centrale intorno al santuario di Delfi, non a caso nelle vicinanze e per l’iniziativa stessa dei tebani: una nuova guerra sacra (la terza della storia del santuario delfico), che si apriva come conflitto regionale, rigorosamente contenuto all’interno del mondo delle poleis, e però doveva svilupparsi e chiudersi (segno, questo, di un’epoca veramente nuova) come conflitto coinvolgente anche i macedoni, e con una pace, quella di Filocrate (346), in cui Filippo 2. era parte determinante, anzi già dominante.
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Durante la grande spedizione ateniese in Sicilia degli anni 415-413, Cartagine era stata a guardare, certamente decisa a impedire che i sogni di conquista che si attribuiscono ad Alcibiade diventassero realtà, ma non del tutto sfavorevole alla spedizione ateniese, che da un lato colpiva una sua nemica, Siracusa, dall’altro era diretta a sostenere quegli elimi di Segesta che dai cartaginesi in Sicilia erano i tradizionali alleati.
E proprio da uno strascico della recente spedizione ateniese e dall’annoso conflitto tra Selinunte e Segesta, che ne era stata la causa occasionale, deriva l’intervento cartaginese del 409, che provocò la distruzione di Selinunte e di Imera e il conseguente massacro delle popolazioni, particolarmente nella prima città, e a cui seguì, tra il 406 e il 405, la distruzione e annessione di Agrigento, Gela e Camarina da parte cartaginese.
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Nell’estate del 405 i cartaginesi attaccavano Gela.
Dionisio non riuscì ad espugnare l’accampamento del nemico, che assediava la città: fallì, proprio come i suoi predecessori ad Agrigento.
Gela e Camarina furono perciò evacuate.
L’esito deludente diede spazio a un ultimo tentativo dei cavalieri di Siracusa, la élite aristocratica della città, di abbattere la nuova tirannide: la casa del tiranno in città fu devastata, la moglie percossa a morte.
Ma Dionisio sopravvenne da Camarina con la sua soldataglia, uccise alcuni dei cavalieri, che già celebravano incautamente il successo, altri ne cacciò dalla città.
Anche da parte cartaginese il pericolo veniva meno, non da ultimo per l’effetto deterrente dell’epidemia che ne aveva decimato le truppe.
Verso la fine del 405 si stipulava la prima pace tra Dionisio e i cartaginesi.
Se a Gela e Camarina Dionisio aveva fallito, non si può negare però che la riorganizzazione militare e politica da lui realizzata valesse a circoscrivere e consolidare la frana delel posizioni greche in Sicilia.
Selinunte, Imera, Agrigento appartenevano a Cartagine; i cittadini di Gela e di Camarina diventavano tributari di questa, che esercitava la sua autorità su Elimi e Sicani, e insieme assumeva di fatto la tutela dell’autonomia dei siculi; stessa condizione di autonomia era garantita a Messina e Leontini; a Dionisio però veniva riconosciuto il dominio su Siracusa.
Camarina, Gela, Agrigento furono così parzialmente ricostituite (le prime due dovevano restare però prive di fortificazioni); non a caso, diverso fu il destino delle due città greche più vicine al territorio punico di Sicilia, i due avamposti distrutti nel 409; Selinunte non risorse più; nei pressi di Imera già nel 407 i cartaginesi avevano, in una zona di acque termali, fondato Terme, in cui furono accolti gli imeresi superstiti.
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Oltre la linea dell’istmo, e al di là di questi confini, Dionisio cerca solo posizioni di egemonia, di prestigio, di controllo: ma il dominio ‘continuo’ non risulta essersi esteso, e forse neanche doversi estendere, oltre quell’istmo.
Come tutti gli stati territoriali dell’antichità, anche questo esperimento di creazione di uno di essi, ad opera di una città, dà luogo a una realtà composita ed eterogenea, che costituisce un complesso ‘sistema’ di rapporti.
Affidato al limitato respiro di un uomo e della sua discendenza, questo impero si sgretolerà già sotto Dionisio 2.: ma esso è, se non un modello, certo un sicuro antecedente degli stati territoriali creati da una città nel mondo mediterraneo.
Lo stesso dominio di Roma è, per eterogeneità, un sistema non meno complesso e in definitiva analogo; la differenza fondamentale è che Roma concepisce l’impero come un compito che va al di là del respiro di uno o di pochi individui, di una o due generazioni, come il compito storico di una intera classe dirigente, che se lo trasmette di generazione in generazione, in una continuità di secoli: sicché, il vero segreto per la comprensione della formazione del dominio romano è lo studio della sua classe dirigente e del suo atteggiamento di fronte ai problemi della conquista e del dominio.
Ma, in embrione, l’impero di Dionisio 1. fonda il tipo di complessa continuità territoriale, che è l’unica forma di dominio territoriale che una polis del mondo classico può aspirare, o riuscire, a costituirsi.
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Reggio rappresentava, nel conflitto che si profilava col tiranno siracusano, il principio cittadino e autonomistico, contro il principio dello Stato territoriale costituito intorno a Siracusa, che Dionisio da parte sua perseguiva e rappresentava.
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Dal canto suo il mondo italiota esprimeva forme di organizzazione federale anche nel periodo del declino.
Dolo la seconda rivolta antipitagorica a Crotone e in altre città magnogreche, rivolta databile poco prima del 453 o dopo il 448 (nella prima data, se la rifondazione di Sibari ad opera di Tessalo riflette una crisi di Crotone; nella seconda, se la vittoria di Crotone sulla nuova Sibari sta a testimoniare una forza non ancora profondamente incrinata), nelle città italiote più lacerate dai conflitti civili intervenivano come mediatori gli achei di Grecia.
La lega raccolta intorno al santuario di Zeus Homarios, tipico culto acheo (di Egio), comprende del città dell’area achea meridionale, capace ancora di uno sforzo unitario: Dionisio e i barbari (lucani, evidentemente) le renderanno difficile la vita.
Intorno a questo nucleo caratteristicamente acheo si va coagulando però un’alleanza più vasta, che non è detto sopprima sic et simpliciter la lega di Zeus Homarios, ma che forse non ne rappresenta neanche un puro e semplice ampliamento (così caratteristicamente achee sono le istituzioni di quella lega): Turii, se non è già inclusa nella lega di Zeus, Elea, Reggio, si aggiungono dunque dall’esterno a quel nucleo.
Non ci sono invece serie ragioni per ammettere che ne facciano parte Metaponto o Taranto.
La fondazione della Lega italiota, che aveva come obiettivo di resistere ai lucani e di opporsi a Dionisio, è ricordata da Diodoro (14., 91) sotto l’anno 393 a. C., ma la data dell’evento non è ricavabile con sicurezza dal testo.
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Reggio, isolata, dapprima trattò col tiranno e gli versò 300 talenti e consegnò ostaggi.
Poi Dionisio chiese ‘mercato’ ai reggini, con l’intento di fare incetta di viveri e ridurli senza riserve; come i reggini, capito il suo piano, si rifiutarono di rifornirlo ulteriormente, egli pose un assedio che durò undici mesi e costò sofferenze enormi alla città, ridotta all’isolamento e alla fame.
Probabilmente nella primavera del 386 avveniva la resa.
Ai superstiti, ridotti ormai a cadaveri ambulanti, fu consentito di riscattare la vita con il pagamento di una mina; quelli che non potevano pagare, furono venduti schiavi a Siracusa.
Sulle rovine della città Dionisio eresse un palazzo, con i suoi famosi platani; solo Dionisio 2. ricostituirà il nucleo di una nuova Reggio, chiamata, dal nome della divinità più cara alla città, Febia.
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La vicinanza ideale a Sparta e la notorietà del personaggio ad Atene, sommate insieme, spiegano in misura non trascurabile i primi due dei tre viaggi di Platone in Sicilia (ca. 388 e, poco dopo la morte di Dionisio 1., 367/366): a questi due dati ne va aggiunto un terzo, la consapevolezza, che ha il mondo greco, della relativa facilità con cui in Sicilia si poteva procedere a operazioni di ingegneria politica, disfacendo vecchie città e costruendone di nuove.
A un riformatore e sognatore di un nuovo Stato, come Platone, doveva sembrare la terra promessa.
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Nota integrativa
Le ragioni dell’impoverimento e della crisi sociale nel mondo greco del quarto secolo non vanno dunque cercate solo, o principalmente, nell’ambito della produzione agraria.
Bisogna cercare in altre direzioni.
Atene, ad esempio, non riesce nel quarto secolo a ricostituire un impero del tipo di cui aveva goduto nel secolo precedente: sotto l’aspetto finanziario ed economico in genere, come del resto sotto l’aspetto politico, la Lega attica del quarto secolo non è comparabile con quella del quinto.
Ciò comporta necessariamente una crisi dell’artigianato interno, in primo luogo di quello legato al grande sviluppo edilizio dell’epoca periclea.
Ma anche l’artigianato che produce per l’esportazione conosce, nel corso del secolo, un declino, per il quale finora non si è ancora trovata uan spiegazione migliore di quella , ormai classica, legata al nome di Michael Rostovtzeff, secondo cui esso sarebbe dovuto al fiorire di artigianati locali, che precedentemente erano stati infrenati dalla presenza delle superiori esportazioni attiche; ma queste ultime ora vengono imitate in loco, e non c’è più posto per la produzione originale.
A ben riflettere, questo è però solo un campione di un fenomeno più generale, che si potrebbe definire come la ‘crisi degli imperialismi greci’ nel quarto secolo a. C.
La rappresentazione classica della storia delle più brevi egemonie succedentisi nei primi decenni del secolo, da quella spartana (404-394 o -371), a quella tebana, che non dura un decennio (371-362 a. C.), altro non è se non il riscontro, sul piano politico-militare, di un fenomeno più ampio che consiste nell’esaurirsi delle forme imperialistiche (politiche ed economiche insieme) nell’ambito delle città greche.
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I greci non conoscevano, di norma, imposte ordinarie dirette sul reddito e perciò sul patrimonio dei cittadini: una imposta diretta e ordinaria veniva tradizionalmente sentita come imposizione tirannica.
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Bibliografia
I sinecismi interstatali greci / M. Moggi. – 1976
Isocrate: retorica e politica / A. Masaracchia. – 1995
L’Atene di Iseo: l’organizzazione del privato nella prima metà del quarto secolo a. C. / S. Ferrucci. – 1998
Contro Alcibiade / P. Cobetto Ghiggia. – 1995
Contro Leocare / P. Cobetto Ghiggia. –2002
La Sicilia dal 368/7 al 337/6 a. C. /M. Sordi. – 1983
Dionisio 2.: storia e tradizione letteraria / F. Muccioli. – 1999
Storia economica del mondo antico / F. Heichelheim. – Laterza, 1972
Platone e le tecniche / G. Cambiano. – Einaudi, 1971
Imercenari nel mondo greco / M. Bettalli. – 1995
L’imposizione progressiva nell’antica Atene / G. Gera. – 1975
Strabone e la Magna Grecia: città e popoli dell’Italia antica / D. Musti. – 1988
Cap. 9. La Macedonia dalle origini al regno di Filippo 2.
Nel quinto secolo a. C. il territorio macedone sottoposto alla dinastia degli argeadi appare organizzato intorno ai grandi fiumi Haliakmon e Axios; su di esso incombono, da nord-ovest, occidente e sud-ovest, le regioni dell’alta Macedonia: la Lincestide (intorno al lago Begorritis e fino all’altezza di Eraclea Lincestide), l’Orestide (gravitante sul lago Kastoria), l’Elimiotide (lungo il corso superiore e medio dell’Haliakmon).
Già questa prima descrizione del territorio macedone segnala l’esistenza di varchi diversi, che in epoche diverse devono aver consentito l’afflusso di popoli dalla regioni illiriche e da quelle epirotiche (coem anche dalla Tracia o dalla Frigia).
Non è neanche escluso che un varco verso la Macedonia si aprisse più direttamente dal sud, se non altro attraverso la valle di Tempe, percorsa dal fiume Peneo, e che si allunga tra i massicci dell’Ossa, a destra, e il basso Olimpo a sinistra.
Che queste condizioni territoriali favorissero uan qualche mistione etnica, non v’è dubbio; e non v’è dubbio che nella lingua, nella toponomastica, oltre che naturalmente nella controversia stessa che divide i greci circa la realtà (o almeno il grado) della grecità di quel popolo, traspaia qualcosa di questa mistione etnica e culturale.
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Nel nome makedones è del resto da riconoscere, con ogni verosimiglianza, un riferimento all’altezza, non tanto delle persone, ma dei luoghi che esse abitavano.
Abitanti dunque dei luoghi alti, “montanari”; e già l’accezione così indeterminata di quel nome incoraggia alla conclusione che i macedoni si presentino come una realtà etnica mista: anzi macedoni, in principio, non è neanche un etnico.
Chiarissimo il parallelismo con epiroti: come gli ‘epiroti’ sono in primo luogo gli ‘abitanti del continente’ in rapporto, con ogni probabilità, con le isole prospicienti e i loro abitanti (l’ambiente di Corcira, di matrice corinzia, sembra il più adatto a produrre ex antithesi una simile nozione), così i ‘macedoni’ saranno stati gli abitanti ‘dei luoghi alti’, per gli abitanti greci della costa della bassa Macedonia, o della Calcidica, di origine euboica, o anche di origine corinzia (quelli dell’eretriese Metone o quelli della corinzia Potidea).
I ‘macedoni’, cioè i ‘montanari’, identificavano dunque agli occhi dei greci un popolo dell’interno, con tutto il relativo carico di connotazioni di ordine culturale ed economico, un popolo tenuto distinto dai dori della Grecia centrale, ma anche sentito in una suggestiva contiguità con essi, come risulta da Erodoto, 1. 56: al punto che, degli stessi dori, questi dice che, prima di assumere il nome più noto, quando ancora erano nella regione 8montagnosa) del Pindo, erano chiamati Makednoi (che è nome diverso da Makedones, ma appena di poco).
Inoltre, nei movimenti che lo storico attribuisce loro per l’epoca anteriore alla presunta discesa nel Peloponneso, i dori si avvicinerebbero alla zona dell’Olimpo e dell’Ossa, prima di ripiegare verso il Pindo, e poi trasferirsi nel Peloponneso.
Pag. 584-85
Sul piano politico, a parte le incertezze nei confronti della Persia e dalla causa nazionale greca – che fecero correre ad Alessandro 1. nel 480 il rischio di essere tacciato di tradimento -, il comportamento posteriore a Platea, segnarono l’inizio dell’ascesa della Macedonia.
Questa si concretò in una spinta espansionistica, che si fece parzialmente sentire nella zona tra l’Axios e lo Strimone; lo sfruttamento delle miniere d’argento del Dysoron comportò l’introito di un talento al giorno per la Macedonia, che diede allora inizio alla coniazione di una propria moneta d’argento.
Ma, dirigendo l’attenzione verso l’area dello Strimone e del Pangeo, che sorge ad est di questo fiume, Alessandro veniva a interferire nell’area degli interessi di Taso, prima, e poi della stessa Atene: e se con Taso egli poteva assolvere la funzione di protettore degli interessi greci contro i traci, con Atene rischiava uno scontro diretto, per cui comunque la Macedonia non era ancora matura.
Forse ad Alessandro 1. va anche attribuita una riorganizzazione dell’esercito, attraverso la creazione di un’armata di pezeteri (o eteri appiedati), una fanteria cioè che veniva ad affiancarsi alla cavalleria degli eteri, probabilmente preesistente, e che, nel nome che ne è alla base (hetairoi = compagni), rappresentava un esplicito affermarsi, anche sul piano formale, di quei tratti omerici, che erano nella realtà assai congeniali al grado di sviluppo delle istituzioni politiche e militari della Macedonia.
Pag. 587-88
Liberazione progressiva dal vassallaggio verso la Persia e prima collocazione culturale e politica nel mondo greco possono considerarsi come gli apporti principali del regno di Alessandro 1.
Il regno del figlio e successore Perdicca 2., che dovette dividere il potere per alcuni anni col fratello Filippo, e che regnò da solo almeno dal 437 circa fino al 414/413, si segnala per un più attivo inserimento della Macedonia nello scontro di potere che si determina all’interno del mondo greco, e che ha i suoi poli in Atene e Sparta.
La Macedonia non può non subire in questi difficili decenni l’iniziativa politica altrui; e i comportamenti di Perdicca 2. hanno molto dell’abile altalena e del furbesco barcamenarsi.
Tuttavia non si tratta in alcun modo di un indifferente barcamenarsi tra Atene e Sparta; e non si può neanche parlare di una politica del tutto passiva e rinunciataria.
La Macedonia non sfugge a una condizione e a una sorte che riguardano l’intero mondo greco: il grande duello politico e ideologico, che si svolge fra le due città e fra gli stessi schieramenti che si costituiscono intorno a ciascuna di esse, è un fatto storico che va molto al di là della possibilità di replica dei singoli Stati del mondo greco.
Comunque, nell’incertezza della Macedonia di Perdicca 2. tra Sparta ed Atene, si capisce che il vero problema politico e storico della Macedonia è Atene: nel bene e nel male, questo è il suo referente; l’altalena di Perdicca 2. è tra l’accettazione dell’egemonia di una città, il cui ruolo culturale è vitale per la Macedonia, e il rifiuto di forme di dominio che contrastino troppo direttamente con gli interessi della Macedonia e dei suoi vicini.
Pag. 588-89
Dal punto di vista della crescita culturale della Macedonia, che non può che significare una sua crescente ellenizzazione, il regno di Archelao è di fondamentale importanza.
Alla sua corte giungono poeti ateniesi, coem i tragici Agatone, Cherilo e soprattutto Euripide, che alla corte del re (che sembra aver trasferito la capitale da Ege a Pella) compose le Baccanti (406: importante riflesso della forte diffusione dei riti bacchici nell’area tracica e specificamente in quella macedone, che conosce tra l’altro nomi tipici per le donne partecipanti a quei riti, come Klodones e Mimallones), l’Archelao e i Temenidi: segno dell’importanza del dramma, e al suo interno particolarmente della tragedia, coem veicolo di cultura.
In Macedonia certo Euripide avrebbe, nel racconto tradizionale, trovato la morte, perché sbranato dai cani molossi di Archelao.
Pag. 591
La storia dei rapporti tra Filippo 2., la Macedonia e la Grecia ha subìto negli ultimi decenni una radicale revisione rispetto alle impostazioni ottocentesche del problema.
E’ stata soprattutto (ma non soltanto) la cultura tedesca dell’Ottocento e del primo Novecento a proporre una interpretazione nazionalistica dello scontro tra Macedonia e Grecia al tempo di Filippo 2. e di Demostene, e ad interpretarlo alla luce delle vicende della Germania del 19. secolo, quando la Prussia, con al quale Beloch paragonava la Macedonia, svolse davvero la funzione di Stato promotore dell’unità tedesca.
Ma l’applicazione di una chiave di lettura nazionalistica allo scontro Macedonia-Grecia sarebbe inadeguata sia sul versante macedone sua sul versante greco.
La Macedonia di Filippo 2. non si pose il problema di una unificazione politica, indifferenziata e centralizzata, del restante mondo greco intorno alla Macedonia; così come neanche il mondo delle città greche riuscì realmente a produrre, nonostante qualche parere contrario sull’argomento, un’idea di unità nazionale (quella di cui ancora parlava Jaeger), ma al massimo, e anzi con particolare fervore, produsse un programma panellenico, che di fatto non andava oltre uno schema politico associativo e confederativo di Stati autonomi, stretti intorno all’egemonia di uno di essi.
Ancor meno sarebbe lecito oggi applicare la chiave di lettura nazionalistica al problema etnico, che attraversa tutta la tematica del confronto Macedonia-Grecia in questi anni.
La Macedonia infatti, benché le ricerche linguistiche e archeologiche recenti mirino, e con successo, a mettere in evidenza il forte fondo greco vuoi della lingua vuoi della cultura di quella regione, difficilmente tuttavia può rappresentarsi nei termini di una compattezza etnica, che non lasci spazio ad aspetti di eterogeneità, mistione, fusione culturale.
Sull’altro versante occorre ribadire che un ideale nazionale, che cancellasse le differenze regionali e cittadine ed etniche, non fu mai della Grecia classica.
Un’altra chiave di lettura discutibile, anche se ha avuto una durata più lunga della tesi nazionalistica, è quella che contrappone a una Macedonia promotrice dell’asservimento del mondo delle libere città greche una Grecia delle poleis, portatrice esclusiva dell’ide adi libertà e di democrazia.
Anche per questo aspetto, più difficile da giudicare (perché è impossibile che non interferisca nel problema più propriamente la consapevolezza degli esiti di epoca ellenistica, che, se non furono di asservimento delle città, furono però di forte loro condizionamento), occorrerà tener conto del fatto che la politica egemonica perseguita da Filippo 2. presenta moduli diversi di politica estera e di forme di predominio, a seconda delle diverse aree e delle diverse regioni a cui quella politica espansionistica è destinata.
Se è vero che nell’area macedone e trace, e in generale nell’Egeo settentrionale, Filippo 2. perseguì una politica di espansione e annessione territoriale, di unificazione territoriale secondi principi di continuità e compattezza di dominio, nelle restanti regioni del mondo greco egli perseguì moduli diversi, i quali ricalcano fedelmente le tradizioni delle diverse regioni e in qualche modo recuperano possibilità intrinseche alla storia stessa del potere e del dominio in quelle regioni.
Infatti in Tessaglia Filippo assunse la carica di tago, cioè il ruolo di ‘generalissimo’, investito di ampi poteri non solo militari ma anche finanziari nell’ambito delle città tessaliche; benché io non creda che si debba parlare di ‘unione personale’, tra Macedonia e Tessaglia, perché una tale formula la riserverei alla situazione in cui sulla stessa testa si concentrano due corone, tuttavia in Tessaglia Filippo ereditava per sé possibilità egemoniche che la storia tessalica aveva contenuto e prodotto.
A sud delle Termopile infine, là dove incomincia il vero vivaio delle città greche, fra cui spiccano Tebe, Atene, Sparta, Argo e così via di seguito, la politica di Filippo non poteva che essere di egemonia, cioè di controllo dall’esterno, dapprima attraverso l’utilizzazione di organismi panellenici preesistenti (come l’Anfizionia delfica) e poi, quando questi organismi ellenici preesistenti non bastavano più allo scopo, perché ad essi non si lasciava raccordare la politica di Atene o di altre città, attraverso la creazione di nuove forme associative e federative, improntate al principio dell’autonomia (certo coronata, per così dire, dall’egemonia, cioè dal preminente ruolo militare di Filippo 2.
Pag. 595-97
Tuttavia è storicamente giusto considerare almeno due aspetti della questione.
Il primo è che in realtà l’impero sulle regioni asiatiche, conquistato da Alessandro, fu quel che la propaganda panellenica greca, di impronta antipersiana, aveva vagheggiato da almeno mezzo secolo.
Quando da quella conquista furono nati i regni ellenistici, il sogno greco aveva avuto in qualche modo una sua realizzazione: si trattava infatti di Stati a dirigenza greco-macedone, in larga parte indigena.
Il sogno dei greci si ritorceva però in qualche modo contro di essi; e a questo proposito vale la seconda considerazione.
Anche a non tener conto delle azioni ostili, volta per volta dirette da singoli sovrani e regni ellenistici contro città greche, il solo fatto che accanto ad esse nel mondo greco ormai esistessero realtà territoriali, militari, economiche, politiche di tanto più forti e imponenti delle vecchie libere città, era di per sé un fattore di condizionamento e di sgomento per i greci.
Tuttavia, anche se può ricevere soluzioni diverse – quella ottimistica di Alfred Heuss, l’altra più realistica e pessimistica di Elias Bikerman -, il problema storico resta quello del reale grado di autonomia che le città greche, vecchie e nuove, riuscirono a garantirsi nei confronti degli Stati territoriali.
Ed è innegabile che sul piano formale il rapporto fu di autonomia, ma, sul piano sostanziale, esso cambiò a seconda degli uomini, dei tempi, delle condizioni.
E’ però merito dell’impostazione storicamente duttile, sensibile, differenziata di Filippo 2., se la storia politica ellenistica fu, nonostante tutto, caratterizzata da una forte tensione tra il principio dell’autonomia, che la battaglia di Cheronea come tale non aveva né sconfitto né il fine di sconfiggere, e il principio dell’egemonia (di fatto trasformatasi in vari casi di dominio) dei regni ellenistici.
I primi anni del regno di Filippo 2. sono contrassegnati da azioni dapprima diplomatiche, poi militari, e sempre più decisamente militari, rivolte a contenere e successivamente a respingere la pressione degli illiri, dei peoni, dei traci sui confini della Macedonia.
E certamente decisiva fu l’azione condotta da Filippo 2. contro il re illirico Baedylis, al quale fu strappato il controllo della Lincestide fino al lago Licnitide (odierno lago di Ochrida).
La fase successiva (357 e anni sgg.) del regno di Filippo 2. rappresenta il periodo in cui si pongono le premesse dello scontro con Atene.
In un trattato stipulato segretamente con Atene, il re macedone si era dimostrato disponibile a conquistare per Atene medesima Anfipoli e a consegnargliela, in cambio della città macedone di Pidna.
Ma nel 357 Filippo 2. procedeva alla annessione di Anfipoli.
Il gesto di Filippo, che inizia una serie di conquiste nell’ambito dei possedimenti o delle località di influenza ateniese nell’area traco-macedone (Pidna e Potidea nel 356; Metone nel 354), e che inaugura la politica dell’unificazione territoriale della Macedonia e delle contigue aree, si inserisce in un momento di grave crisi per Atene.
Pag. 597-98
Quando nella conquista di Anfipoli si indica l’inizio della politica di provocazione di Filippo 2., non bisogna dimenticare che c’è una forte e significativa coincidenza storica tra l’espansionismo di Filippo e il declino dell’imperialismo di Atene, che è, come abbiamo già detto altrove, un declino non soltanto di fatto ma anche di volontà e di orientamento politico generale.
In ogni caso, la presa di Anfipoli si colloca nel periodo in cui la Lega navale ateniese subisce una prima grave crisi a seguito della ribellione delle città alleate con Chio, Rodi, Cos, cui presto si aggiunge Bisanzio, per sollecitazione del satrapo di Caria Mausollo (guerra sociale).
Da parte ateniese si reagisce con l’invio di una flotta al comando di Carete e di un’altra al comando di Cabria.
Ma nell’attacco intrapreso contro il porto di Chio (357) il generale ateniese Cabria trovò la morte.
Pag. 598-99
Si era intanto aperto, qualche tempo dopo l’inizio della guerra sociale, di cui abbiamo ora rammentato gli avvenimenti, un altro e decisivo capitolo della storia non solo della Grecia centrale, ma della Grecia in generale.
E’ quello della terza guerra sacra, che già nel suo nome dichiara che essa si svolge intorno al santuario di Delfi e alle sue ricchezze.
Tuttavia, da un punto di vista meramente politico, la guerra sacra nasce come espressione del tentativo di Tebe di assicurare la continuità della sua egemonia, una egemonia che lo storico Senofonte aveva intuito essere stata di fatto compromessa dalla battaglia di Mantinea del 362 a. C. (e a cui, sulla sua scorta, i moderni libri di storia attribuiscono una durata appena novennale).
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Scoppia dunque la guerra, che è sacra in quanto proclamata dagli Anfizioni contro i Focesi; ne segue una spaccatura all’interno del mondo greco: per il santuario, e contro i focesi, si schierano i beoti, i locresi, i tessali con i loro perieci; ai focesi prestano il loro aiuto gli ateniesi, gli spartani e alcuni peloponnesiaci.
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In due successivi scontri Filippo 2., seguito dai tessali, che forse lo riconoscono già in questo momento come tago (o arconte), viene sconfitto da Onomarco.
E’ l’anno più critico (353) nella storia dell’ascesa politica di Filippo 2. e dell’espansione della Macedonia.
Come egli stesso ammise con vigorosa immagine, ne seguì una ritirata strategica: “Non sono scappato, mi sono solo ritirato, per tornare a cozzare come un montone infuriato”.
Dai fatto, nel 352 Filippo 2. rientra per attaccare Licofrone di Fere.
Questi però ricorre all’aiuto dei focesi; all’appressarsi di un esercito focese di 20.000 fanti e 500 cavalieri, Filippo induce i tessali ad associarsi a lui, con un esercito che supera i 20.000 fanti e 3000 cavalieri.
In uno scontro a Campi di Croco (Pagase), sul Golfo di Volo, Filippo consegue una straordinaria vittoria su Onomarco: dei focesi e dei loro mercenari periscono più di 6000, fra cui lo stesso generale; non meno di 3000 i prigionieri.
Filippo impicca Onomarco già morto e fa annegare gli altri come profanatori del tempio delfico.
Nel 352 Filippo ha dunque ormai una posizione preminente, e di tutta legittimità, nel conflitto greco.
Pur non essendo ancora intervenuto a sud della Termopile, egli aveva battuto e punito il profanatore del santuario; gli si poté certo rimproverare un’eccessiva crudeltà nella punizione.
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Ma la resa focese si ebbe soltanto dopo che in Grecia si fu raggiunto un accordo tra i macedoni, gli ateniesi e gli altri greci, con la cosiddetta pace di Filocrate.
Gli ateniesi inviarono due ambascerie, l’una a trattarem l’altra a scambiare giuramenti con Filippo 2., e ricevettero, nell’intervallo fra le due, la controambasceria macedone, incaricata di ottenere il giuramento degli ateniesi, a convalida di un testo di pace il quale escludeva espressamente sia i focesi sia la ftiotica Alo.
Dalla seconda ambasceria ateniese, quella incaricata di ricevere il giuramento di Filippo 2., fu invece portata e fatta valere l’esigenza di rinunciare almeno alla formale esclusione dei focesi: questa formale concessione Filippo la diede, senza però impegnarsi a una rinuncia all’intervento in Focide.
Tale intervento seguì più tardi e fu del tipo che abbiamo detto: un intervento poco cruento, ma politicamente assai duro.
D’altra parte, conseguenza dell’intervento di Filippo 2. fu la piena legittimazione del re nel quadro di quello che era, all’epoca, lo strumento panellenico per eccellenza, il sinedrio anfizionico, nel quale i due voti dei focesi passavano ormai a Filippo 2. (mentre forse dalla Anfizionia era esclusa Sparta).
Così Filippo aveva realizzato il disegno di intervenire nel mondo delle città greche nella posizione e forma più legittima possibile, e addirittura prefigurava, rispetto all’Anfizionia delfica, quella posizione di capo militare (hegemon), che egli perfezionerà, dopo la battaglia di Cheronea, con la creazione della Lega di Corinto.
A Filippo fu anche attribuita la molto onorifica presidenza (agonothesia) dei giochi pitici.
Il rapporto tra Filippo 2. e Atene si conferma di notevole complessità: c’è una vocazione reciproca all’intesa tra Filippo 2., da un lato, e alcuni circoli ateniesi, dall’altro.
E non si tratta soltanto dell’ambiente dell’oratore Eschine; tra la pace di Filocrate e la resa dei focesi si colloca, nel corso del 346, il Filippo, l’importante pamphlet di Isocrate, che vagheggia per Filippo il triplice ruolo di benefattore dei greci, re dei macedoni e signore dei barbari.
D’altra parte, Filippo 2., ancora dopo l’insediamento nel consiglio anfizionico e il rifiuto da parte ateniese di partecipare ai giochi pitici (una protesta contro la concessione della agonothesia al re macedone), rifiuta di accogliere uan richiesta dell’isola di Delo per una completa autonomia di Atene, e impone dunque all’isola delle Cicladi di continuare ad appartenere al dominio di Atene (condizione da cui Delo sarà libera tra il 314 e il 166).
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A sud delle Termopile il vero problema, per un Filippo che voleva tutta la Grecia dietro di sé (a parte Sparta, un caso di ostilità insanabile), era quello di una scelta tra Tebe e Atene, proprio in considerazione dei conflitti che da sempre dividevano le due città.
Si può affermare con buone ragioni che Filippo perseguisse di preferenza un disegno panellenico, volto a non scegliere tra gli interessi opposti di queste città: ma, realista com’era, naturalmente conosceva l’ostilità ateniese verso Tebe e, quando avesse dovuto rischiare una contrapposizione e fare una scelta, certamente egli l’avrebbe fatta in favore di Atene stessa.
Per chi volesse attraversare i disegni politici di Filippo 2., le regole del gioco e i termini della questione erano dati in maniera chiara.
Per Demostene perciò contrastare Filippo significava da un lato operare in modo che Filippo non scegliesse in favore di Tebe, dall’altro avere Tebe al fianco di Atene nell’opposizione comune a Filippo.
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L’accusai di Eschine dovrebbe servire al disegno di Filippo: quello di avere Atene dalla sua in una guerra sacra contro i locresi di Anfissa.
Quale sarebbe stato però l’atteggiamento di Tebe?
Certo i rapporti tra i beoti e locresi erano molto stretti, e quindi l’azione anfizionica contro i locresi non doveva trovare il consenso di Tebe: ma era quello che invece Filippo sperava, e che dovrebbe nei suoi intenti determinato appunto l’auspicata costellazione politica, quella cioè di un’Atene alleata di un Filippo riconosciuto egemone, che si trascinasse però dietro anche nella guerra sacra, obtorto collo, la riluttante Tebe.
In ipotesi subordinata, Filippo sperava di avere con sé almeno Atene, e Tebe contro.
Il gioco era difficile e complesso, e il rischio di non riuscirvi era notevole.
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L’associazione di Tebe alla politica e all’azione ateniese contro la Macedonia nell’autunno del 339 fu però il coronamento del lungo e intensissimo sforzo prodotto da Demostene nell’organizzare un coerente campo di resistenza greca all’azione, spesso blanda e diplomatica, ma talora più aggressiva e d’intervento, dispiegata da Filippo 2.
L’alleanza con Tebe fu il capolavoro politico di Demostene (cui però non seguì il successo militare); e ad esso l’oratore arrivò per gradi, che si possono perseguire sin dai primi anni che seguono alla pace di Filocrate.
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Negli ultimi anni prima di Cheronea lo scontro fra Atene e la Macedonia assume quindi sempre più i contorni di un conflitto personale di dimensioni titaniche.
In realtà, al di là della passione per il potere (più che per il puro e semplice, brutale, dominio), che muove Filippo, non si può fare a meno di notare che sono all’opera due intelligenze politiche di prima grandezza, che raccolgono, riassumono, interpretano eredità storiche, condizioni, istanze che vanno assai oltre le loro personali passioni, e che soprattutto appaiono impegnate nella costruzione di sistemi di alleanze contrapposte, intese a raccogliere dall’una o dall’altra parte il massimo di ‘grecità’ possibile, con il massimo di coerenza territoriale.
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Per Filippo, nel 340, dopo i fallimenti delle campagne di Perinto e di Bisanzio, si era ormai creata una sorta di stallo: difficile avanzare nella zona degli Stretti; difficile consolidare alleanze e possedimenti nel Peloponneso, nell’area del golfo di Corinzio, in Eubea; lo strumento che ora egli poteva attivare era l’Anfizionia e il ruolo da lui detenuto in quel sinedrio; e così fece, con quel gioco politico sottile e penetrante che egli spinse fino alla dichiarazione della guerra sacra contro i locresi di Anfissa (339/338), di cui abbiamo sopra descritto l’intera dinamica.
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Nel momento della vittoria si confermano così luminosamente coem più non si potrebbe, tutti i caratteri fondamentali della politica estera di Filippo 2. e in particolare della stessa politica seguita verso Atene, quali fin qui da noi enunciati: intransigente costruzione di un coerente dominio territoriale nel nord (in Macedonia e Tracia); buona disposizione verso Atene (che equivale a una vigorosa valutazione del suo insostituibile ruolo politico e culturale), anche, e in particolare, nel confronto con Tebe (a cui invece si assestano più volentieri colpi duri, anche se non ancora mortali); tenace volontà di non distruggere Atene, ma di aggregarla al proprio disegno panellenico: di inserirla nel gioco politico macedone, non di farne la vittima designata.
Al re fu eretta una statua nell’agorà di Atene, al figlio Alessandro, che riportava in città i resti dei caduti ateniesi di Cheronea, fu concessa la cittadinanza; ad altri generali furono tributati onori minori.
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Seguì il congresso di tutti ‘i greci a sud delle Termopile’ (la grande cesura, geografica e storica, del mondo greco), cui rimase estranea Sparta.
Fu dapprima proclamata una pace generale ((koinè eiréne), e l’autonomia di tutti gli Stati greci: non vi dovevano essere mutamenti violenti né nei regimi né nei rapporti di proprietà.
Si creò un consiglio comune di tutti i greci (koinon synhédrion), con sede a Corinto, con voto ‘ponderato’ attribuito ai partecipanti; in caso di guerra, il comando generale (heghemonia, una funzione militare, in questo caso) per terra e per mare sarebbe spettato a Filippo; il greco che prestasse servizio militare presso una potenza straniera (si intendeva evidentemente la Persia) era considerato traditore (337).
Tutto era ormai pronto sul versante greco (politicamente, socialmente, militarmente) per la grande impresa contro la Persia.
Poco dopo Filippo 1. sposava Cleopatra (Euridice), una giovane della più alta nobiltà macedone (nipote di Attalo9, che presto gli avrebbe dato un figlio, o forse due.
Fu la grande passione della vita di Filippo 2.; Olimpiade si sentì ripudiata e abbandonò la capitale macedone per l’Epiro; Alessandro si chiuse in un sordo rancore.
“La più grande dynasteia (potentato, potenza) d’Europa” è definizione che Diodoro (16. 1 e 5) riserva sia al dominio lasciato da Dionisio 1. (morendo nel 367 a. C.) a Dionisio 2., sia al dominio di Filippo 2.
Anche lasciando al superlativo meghiste dynamis il senso di superlativo relativo, non c’è contraddizione insanabile fra i due passi di Diodoro, perché la tirannide di Dionisio 1. va dal 404 al 367 a. C. e ha quindi la sua aritmetica akmé circa il 383, mentre il regno di Filippo va dal 382 al 336 a. C., e quindi ha la sua akmé circa il 359 a. C.: potrebbero appartenere addirittura a due generazioni successive.
A Filippo fu dato di inviare soltanto un’avanguardia sul territorio asiatico come premessa della guerra contro la Persia; l’assassinio del re, per mano del suo ex-favorito, Pausania, nel teatro di Ege, avvenuto durante le cerimonie per le nozze di Alessandro il Molosso che alla fine era riuscito a legare la Grecia al suo carro, pur lasciando in vita tanta parte delle condizioni preesistenti, e quella del figlio, il conquistatore di un immenso impero.
Pur senza immaginare diversità assolute, che non hanno posto nella storia, e comunque non l’hanno nel confronto fra i due grandi sovrani macedoni, possiamo tentare di dare dell’uno e dell’atro una caratteristica di massima.
Del primo era stata l’azione instancabile, che alternava e fondeva l’iniziativa militare con l’abile tessitura politica, così opportunamente e duttilmente calibrata sulla diversità delle singole situazioni storiche proprie del mondo greco; dall’altro fu la conquista fulminea di spazi immensi, l’impresa straordinaria che sembrava forzare le strettoie della storia, per sconfinare nella favole, ma che in realtà creava soltanto una nuova storia, e condizioni profondamente diverse che per il passato, al mondo greco e tutt’intorno ad esso.
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Note integrative
Sull’esperienza politica di Aristotele
Ad Atene Aristotele (n. a Stagira nella Calcidica nel 384, m. 3229 è uno straniero, che proviene da una regione la cui storia è collegata con quella della Macedonia (il padre Nicomaco era stato medico personale del re Aminta 3.).
Tra il 343 e il 341 Aristotele fu a Mieza maestro di Alessandro, figlio di Filippo 2.
Prima di questi anni si colloca l’esperienza ateniese di Aristotele, coem scolaro di Platone.
L’estraneità alla polis ateniese e l’appartenenza a un mondo come quello macedone, in rapida e straordinaria ascesa, gli dà una completa disinibizione nel giudizio storico, la capacità di apprezzare le grandi realizzazioni storiche della polis democratica, pur se si tiene lontano da posizioni radicali ed auspica, nella Politica (ca. 335 a. C.), una politeia basata sul ceto medio, formato essenzialmente da gente dedita all’agricoltura.
Il rapporto con la polis è dunque meno complesso, meno ambiguo, forse proprio perché sin dall’origine meno sofferto, di quello di Platone: in definitiva, è un rapporto solidamente storico.
E historia in senso lato, cioè ricerca scientifica nelle più diverse branche del sapere (perciò sapere specializzato), è quello che si praticherà nella scuola di Aristotele, nel Peripatos, la “passeggiata”, sita nella sede della scuola, che si appoggia al ginnasio Liceo (come quella platonica al ginnasio di Academo), forse nella zona di Licabetto: fu Teofrasto ad acquistare un terreno confinante col parco del ginnasio.
Anche qui ci si trova di fronte a un’iniziativa privata (come è normale per una utenza dell’età dei suoi frequentatori, sui vent’anni o ancor più), che è però in un rapporto di coabitazione con un’istituzione cittadina, come il ginnasio.
Lo spirito di fervida e obiettiva ricerca induce in Aristotele e nella sua scuola un atteggiamento di interesse e rispetto per le forme tradizionali della polis, un tradizionalismo che in un certo senso appare espressione di una stagione politica e culturale più arcaica, rispetto all’aristocraticismo progettatore di Platone, il quale si pone, nel fondo, in una posizione di rifiuto della polis tradizionale.
L’impressione di più forte individualismo e di minore creatività si disperde naturalmente, appena si distolga lo sguardo dalla storia del pensiero e lo si rivolga a quella delle comunità cittadine che – pur nel difficile confronto con gli Stati territoriali dell’ellenismo e poi con Roma – avranno ancora molto da dire nella storia della cultura e delle istituzioni greche.
Aristotele e la sua scuola dedicano perciò le loro cure alla descrizione delle Politeiai (costituzioni) greche, ben 158 (di cui è conservata quasi per intero la preziosa Costituzione degli ateniesi): in questa dimensione panoramica si riflette quel che abbiamo chiamato il nuovo policentrismo greco del quarto secolo, da un alto, lo spirito di erudizione del Peripato dall’altro.
Aristotele ebbe in sorte di vivere di persona, per la prima volta nella storia greca, il difficile rapporto tra la nuova monarchia greca del quarto secolo, quella della Macedonia, e le vecchie poleis.
Storicamente egli si faceva carico, proprio in virtù dell’attitudine scientifica che lo caratterizzava, di tutto il bagaglio culturale e politico della tradizione greca.
Ad Alessandro egli trasmise il patrimonio di tradizioni omeriche, la convinzione della indiscussa superiorità dei greci sui barbari, l’importanza dei valori istituzionali delle libere poleis e un quadro della esperienza costituzionale greca, in cui la basileia era solo una delle forme costituzionali possibili, e non al costituzione migliore fra quelle possibili.
La distanza crescente di Alessandro da molte di queste posizioni conobbe anche la forma del conflitto aperto, nell’opposizione e nella condanna del nipote di Aristotele, lo storico Callistene di Olinto, nel 327 a. C. Aristotele continuava comunque ad avere, sul piano della politica quotidiana, uno stretto rapporto con i governanti di Macedonia, nella fattispecie con Antipatro: proprio le collusioni che gli si imputavano con il reggente di Macedonia, nel clima di rancore e di rivolta che caratterizza il periodo della guerra lamiaca, lo indussero a lasciare prudentemente Atene per l’Eubea, dove morì però nel 322 ad Eretria.
La scuola fu poi protetta dal peripatetico Demetrio del Falero, tra il 317 e il 307, ma fu in seguito esposta agli attacchi di personaggi dell’ala democratica antimacedone, quali un certo Sofocle, promotore di un decreto che vietava esercitazioni filosofiche non autorizzate, e Democare, nipote di Demostene.
La collusione del Peripato con la Macedonia, sul piano della politica contingente e di una crescente propensione della scuola verso un moderatismo di stampo oligarchico, poco toglie al fatto che, delle grandi novità culturali e politiche connesse con la conquista di Alessandro, i celebratori e i riecheggiatori non furono i Peripatetici, bensì i rappresentanti di indirizzi di pensiero molto più sensibili alle istanze cosmopolitiche, cui la conquista macedone diede l’indispensabile supporto della creazione di nuovi Stati e nuove città
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E’ da riconoscere comunque che – pur se individuato come peculiare – il nucleo lessicale macedone resta per vari aspetti collegati al greco comune, e che il risultato generale dell’analisi linguistica conferma il quadro fornito nel testo per il rapporto tra i greci e i macedoni.
Questi ultimi (già in virtù della loro designazione generica ed ambientale) non sembrano costituire fin dall’inizio un unico popolo; ma vi è innegabile la presenza di un nucleo molto forte di greci, che, essendo periferici rispetto al grosso dei greci, presentano peculiarità linguistiche e costituiscono tuttavia l’elemento storicamente unificante, in un progressivo diffondersi e consolidarsi della cultura ellenica: un processo, questo, che conosce due o perfino tre fasi distinguibili fra loro.
Le diverse fasi sono: 1) quella connessa con l’avvento della dinastia argeade, alla fine dell’ottavo secolo a. C.; quella di Alessandro Filelleno e dei suoi successori, dall’inizio del quinto all’inizio del quarto secolo; 3) infine, l’epoca di Filippo 2. e di Alessandro Magno, che perfeziona il processo di assimilazione, ma anche suscita, sul terreno dello scontro tra poleis classiche e Stato territoriale emergente a potenza mondiale, nuove ed esagitate polemiche riguardo al problema della nazionalità macedone.
Pag. 624
Bibliografia
Il protagonismo nella storiografia classica. – Genova, 1887
La grecità politica da Tucidide a Aristotele /M. Pavan. – 1958
Cap. 10. Alessandro il Grande e le origini dell’Ellenismo.
Tra l’estate del 336, data dell’assassinio di Filippo 2., e l’autunno del 335, quando Alessandro Magno distrugge Tebe, che si era ribellata alla Macedonia, privando la Grecia della sua ‘luna’, mentre lo stesso suo ‘sole’, Atene, era minacciato dagli eventi.
La storia della Macedonia sembra ripercorrere itinerari consueti; il regno sembra stentare a riprovare il livello di potenza e di efficienza a cui Filippo lo aveva portato: ma si trattava solo di fatti transitori, in definitiva di mere apparenze.
Gli inizi di Alessandro furono faticosi e per tanti aspetti foschi: ma le speranze dei greci ostili, come dei persiani impegnati in un’ultima azione difensiva, dovevano rivelarsi vane.
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Ma subito doveva risultare chiaro come Alessandro avesse ben presente il significato di ognuna delle tappe dell’itinerario politico di Filippo 2. verso l’egemonia in Grecia e intendesse ribadirne la definitiva acquisizione, come suo erede a tutti gli effetti: in Tessaglia gli è confermata, quasi posizione ereditaria, la tagia; alle Termopile egli ottiene il rinnovato riconoscimento di protettore del santuario delfico; Tebe e Atene sono indotte a formali tributi d’ossequio; a Corinto si rinnova il trattato stipulato fra greci e Filippo, e Alessandro ne eredita la posizione di strategos autokrator (generale con pieni poteri).
Tutti i punti del complesso disegno egemonico di Filippo sono fermamente ribaditi.
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La spedizione di Alessandro si caratterizza nel suo insieme come l’impresa di un grande Stato continentale; la flotta (di 160 navi), al comando del macedone Nicanore, era costituita soprattutto da navi greche ed era certamente inferiore a quella persiana.
Fra i primi atti di Alessandro, in terra asiatica vi furono la visita di Troia e gli onori resi alla tomba di Achille.
Il sogno di Isocrate, di una impresa che unificasse il mondo greco in una spedizione punitiva contro l’Asia, al rivale di sempre dalla guerra di Troia ai conflitti con i persiani, sembrava dunque avere una prima realizzazione.
Da parte di Alessandro tutto ciò equivaleva a conferire un tratto personale in più a quel riaffiorare di livelli culturali ‘omerici’ nella storia del mondo greco, che aveva connotato l’ascesa di uno Stato come la Macedonia.
Era il risultato dell’intreccio tra obiettive caratteristiche arcaiche della società macedone, decifrabili al di sotto degli innegabili elementi di sviluppo storico, e le scelte soggettive, culturali, di Alessandro (l’Alessandro ‘giovane’), a cui non era estranea l’influenza di Aristotele, di Callistene e della stessa tradizione di pensiero isocrateo.
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Una scelta politica obbligata, per quanto riguarda i regimi interni, fu quella di restaurare la democrazia a Efeso e altrove, visto che le oligarchie locali erano quelle tradizionalmente più legate al persiano, che del resto, ancora dopo il Granico, era presente e capace di resistenza nella parte occidentale dell’Anatolia.
Alessandro prendeva quindi, nell’autunno del 334, la decisione di rinviare a casa la più gran parte della già modesta flotta, decisione nient’affatto sorprendente per chi capisce il senso della conquista macedone dell’Asia (vittoria di uno Stato continentale su uno Stato continentale).
Egli doveva affrontare, nell’avanzata verso sud, un altro punto di resistenza in Alicarnasso, che cinse d’assedio e di cui riuscì a conquistare la città bassa, dopo qualche tentativo andato a vuoti e il ritiro nottetempo del rodio Memnone, che trasferì le sue forze nell’antistante isola di Cos.
La satrapia di Caria, dove continuava la resistenza di Mindo e di Cauno (oltre che la stessa cittadella di Alicarnasso), fu affidata ad Ada, una sorella di Maussollo e di Pixodaro, in sostituzione di Orontobate, un persiano che praticava una politica filopersiana.
Il re avanzò in Licia e Panfilia e poi ancora nel cuore della Frigia fino a Gordio, dove con la spada tagliò di netto il nodo che legava un giogo a un carro, e il cui scioglimento, realizzato dal macedone con drastica decisione, doveva, in virtù di un’antica profezia, assicurargli il dominio dell’Asia.
Dunque già ora, circa l’inizio del 333, Alessandro comincia a mandare segnali e cercare conferme del suo disegno di conquista dell’Asia, sia nel senso di una conquista in assoluto, sia nel senso dell’acquisizione di un’eredità storica (ed è già ora qualcosa di diverso dell’idea iniziale, quella del ‘vendicatore della grecità’ sull’Asia).
E’ probabile che la stessa presenza e resistenza di numerosi mercenari greci nelle file persiane, oltre alla freddezza mostrata da alcuni degli alleati greci (a cominciare da Atene) nella partecipazione all’impresa comune, abbia determinato un mutamento di prospettiva assai precocemente, cioè poco dopo la vittoria del Granico.
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Sulla via dell’Egitto Alessandro non ebbe altri ostacoli oltre Gaza, che, occupata da una guarnigione persiana, resisté per due mesi.
La campagna di Alessandro in Egitto 8inverno 332/333) era favorita dal fatto che l’elemento indigeno aveva fresco il ricordo del periodo dell’indipendenza dai persiani, conservata dal 404 al 343 a. C., cioè fino ad appena dodici anni prima.
E’ naturale che qui il macedone fosse accolto come un liberatore, e trovasse anche il modo di visitare l’oasi di Siwah, ove sorgeva il santuario oracolare di Zeus Ammone; i sacerdoti proclamarono Alessandro figlio di Ammone, in quanto signore dell’Egitto; ma dal canto suo egli poteva trovarvi la conferma di quel che la stessa madre Olimpiade aveva detto di lui: che fosse figlio di Zeus, e non di Filippo 2.
E qui, entrato ormai per la prima volta a tutti gli effetti nel ruolo di signore riconosciuto di un paese straniero, Alessandro poteva dare vita a una fondazione cittadina, sorta col suo nome, presso il ramo canopico del delta del Nilo, sul sito del villaggio indigeno Rhakoris.
Intanto, manovre di disturbo dei persiani nelle retrovie anatoliche (in Frigia) fallivano per il valore di Antigono (il futuro diadoco).
Pag. 643-44
Nell’inverno 331/330 Alessandro sostò in Perside, dove aveva dato alle fiamme il palazzo di Persepoli; in primavera (330) mosse ancora verso l’interno.
Dopo Gaugamela la sua avanzata ha ormai le motivazioni, ma anche la velocità e il tratto romanzesco di un lungo inseguimento, in cui il fuggiasco stesso sembra fatalmente segnare ed aprire la strada all’avanzata e alla conquista dell’inseguitore.
Dario fugge in Media e poi nelle estreme regioni orientali, in Battriana (Afghanistan); Alessandro lo incalza in Media, raggiungendo Ecbatana, dove lascia Parmenione, e continua nella sua avventurosa marcia attraverso regioni impervie, dietro un nemico che sembra solo confessare la propria debolezza e la strepitosa grandezza di Alessandro, fuggendo su un territorio così vasto, come un uomo braccato e senza scampo.
La storia, in questi vasti spazi, riempiti dalla fuga dello sconfitto e dall’implacabile caccia che gli dà il vincitore, sembra ridursi a un tragico duello, a un dramma e a un’epopea individuali.
Pag. 647
Ormai i ruoli tra il macedone e il satrapo di Battriana sono completamente rovesciati, nel rapporto con il potere monarchico persiano.
Alessandro s’impadronisce della salma di Dario e la trasferisce in Perside, per una solenne sepoltura nelle necropoli regale di Persepoli.
Tutto, negli atti di Alessandro, è inteso a presentarlo coem il legittimo successore di Dario 3., e questo ha una serie di conseguenze: 1) l’obbligo morale di continuare nell’inseguimento di Besso, che di fronte ad Alessandro, come già di fronte a Dario, è ormai scaduto al ruolo di usurpatore; 2) la spinta a completare la conquista delle regioni orientali dell’Impero persiano, fino ai suoi confini, storici e naturali; 3) la forte ideologizzazione dell’ulteriore conquista di Alessandro, le cui iniziative e i cui gesti si caricano ormai tutti di sensi valori simbolici; 4) il progressivo entrare del re macedone nel ruolo e nei panni del re persiano, di cui egli è il legittimo successore; 5) il formarsi di una opposizione macedone (e poi greco-macedone) ad Alessandro, nel suo stesso entourage, il prodursi cioè di congiure, o quanto meno il costituirsi di un humus ad esse propizia e perciò di un clima di sospetto nella cerchia di Alessandro, a cui risponde la vendicativa ira del re.
Pag. 647-48
Raggiunti ormai i confini (o meglio uan parte del confine complessivo) del caduto regno di Persia, Alessandro poteva in teoria pensare alla conquista dell’India.
Devo dire che si apre, a questo proposito, un problema riguardo alle autentiche finalità e intenzioni di Alessandro al momento della campagna indiana (estate 327 estate 325), sulla quale gravano a mio avviso molti equivoci.
Ci si è spesso lasciati suggestionare da quelle tradizioni antiche che parlano dell’impulso di Alessandro verso uan marcia senza sosta e senza confini, volta alla conquista di sempre nuovi mondi, di un Alessandro, dunque, di irrazionalità e di sogno.
Chi consideri però attentamente sia l’esito e la consistenza storica della campagna indiana di Alessandro, sia le parti dello stesso racconto degli storici antichi riguardanti di atti concreti di Alessandro e la loro effettiva concatenazione e motivazione converrà che, sul terreno dei fatti, la spedizione indiana di Alessandro abbia molto meno di romanzesco e di irrazionale di quanto si immagina sulla base di scarse indicazioni degli scrittori antichi.
Alessandro sembra aver mirato, in realtà, a ricostituire l’intera struttura del confine naturale e storico dell’impero persiano, cioè del fiume Indo (compresi ovviamente tutti gli immissari, il cui completo controllo era la condizione perché si potesse esercitare un controllo effettivo del fiume stesso).
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Anche l’operazione di rientro, terrestre e navale, presenta due piani diversi di lettura, entrambi realmente esistenti, e dei quali nessuno va sacrificato all’altro.
Qui non è in gioco la scelta interpretativa tra una spinta emotiva alla conquista dell’ignoto e una razionale delimitazione dei compiti: c’è infatti, da un lato, il dichiarato intento di verificare la sicurezza dell’Indo dalla parte della foce, dall’altro certamente anche il desiderio di conoscere le nuove realtà geografiche o di definire vecchi problemi (come quello del rapporto, che ormai si rivela insussistente, dell’Indo col Nilo, la cui valle costituiva comunque un altro grande confine fluviale dell’Impero): ma questo desiderio naturalmente non esclude affatto l’intento della sicurezza militare e quindi politica.
E’ per questo che al cretese Nearco viene affidato il comando della flotta che dalla foce dell’Indo deve prendere il mare, attraverso l’Oceano Indiano, lo stretto di Hormuz e il golfo Persico, sino alla foce del Tigri; l’esercito venne così diviso tra Cratero ( (per un itinerario Aracosia-Carmania) e Alessandro stesso (per un itinerario Gedrosia-Carmania) (estate del 325); le fatiche e le perdite umane delle traversate terrestri furono notevolissime.
In Carmania ci fu il ricongiungimento delle tre forze, che anche per queste vie avevano esplorato e consolidato le regioni di confine dell’impero.
Pag. 654
L’anno 324 segna dunque per Alessandro, dopo il lungo periodo di movimento e di conquista, quello dell’esplosione dei vati problemi organizzativi, l’anno in cui si mette in luce il nodo che tutti in lega, cioè il problema dei rapporti fra le diverse nazionalità.
Una risposta programmatica e simbolica è quella data dal re con le nozze in massa, celebrate a Susa, l’antica capitale degli Achemenidi, nella primavera di quell’anno.
Già sposato alla battriana Rossane, Alessandro ora prendeva come mogli Statira, una figlia di Dario, e Parisatide, figlia di Artaserse Oco (il suo comportamento può forse aiutare a chiarire, per analogia, il vero rapporto che sussiste tra i diversi matrimoni del padre Filippo).
Efestione sposò Drypetis, un’altra figlia di Dario; 80 ufficiali si unirono ad altrettante nobili persiane; fu anche l’occasione per una premiazione ufficiale dei numerosi soldati macedoni che avevano sposato donne bianche.
Pag. 657
Ma la concezione della monarchia universale in Oriente non era mai andata, storicamente, oltre la continuazione reale di un grande dominio e la proclamazione, di principio e solo potenziale, del dominio sugli altri popoli (il primo vero dominio universale nella storia mediterranea resta quello di Roma, come ben comprese Polibio).
E soprattutto, gli atti compiuti nel 323 da Alessandro (allestimento di una spedizione terrestre e navale di conquista dell’Arabia, tra Indo e golfo Persico, da un lato, ed Egitto, dall’altro) non vanno al di là di quel razionale progetto di consolidamento e perfezionamento del confine (in questo caso, un confine interno, data la posizione dell’Arabia), che abbiamo visto all’opera nella campagna dell’Indo, qualunque fosse la portata dei sogni o delle remote intenzioni.
Da buon greco, Alessandro non rinunciò mai, per quanti ideali e idealità gli si possano attribuire, a tener ben fermi i piedi sul terreno della realtà.
Quando già tutto era pronto per la spedizione arabica, il re cadde malato: una febbre, probabilmente dovuta a un male recidivante che Alessandro si portava da anni, lo consumò in appena dodici giorni.
La conservazione di tracce delle efemeridi reali (il “diario”, la cronaca ufficiale delle giornate del re), nella storiografia su Alessandro, consente di aver nozione dell’avvicinarsi giorno per giorno della morte, che giunse il 24 giugno del 323.
Pag. 661.
A questi interrogativi presto se ne aggiungerà un altro, che si rivelerà assai meno formale e più concreto e drammatico: le posizioni centrali erano da intendere come realmente sovraordinate ai poteri regionali dei generali a cui furono attribuite le diverse satrapie dell’impero, o dovevano valere invece solo come centri di coordinamento fra questi poteri, che per sé si profilavano non solo come distinti ma anche come assai più fondanti di quelli centrali, proprio in quanto legati alle realtà regionali?
Si apriva insomma il conflitto fra il principio unitario, che si presentava sotto diverse forme e in differenti versioni, e il principio particolaristico, destinato a prevalere storicamente in meno di venti anni.
Pag. 662
Alessandro affronterà uno dopo l’altro i popoli barbari dell’Italia meridionale (messapii, peucezi, lucani); libererà Siponto ed Eraclea, e da Paestum (forse non ancora sotto il dominio politico lucano) farà una sortita per affrontare e sconfiggere in battaglia sanniti e lucani.
Egli stringe anche un patto con i romani.
Presto però si incrinano i rapporti con Taranto, e questo ha motivazioni sia contingenti sia di più vasta portata: da un lato l’istinto di autodifesa della città dall’autorità del sovrano, dall’altro però l’ampliarsi troppo rapido dell’orizzonte delle ambizioni del Molosso, che investono l’intera Italia meridionale, in una prospettiva che scavalca lo stesso orizzonte politico di Taranto; infine, a Taranto prende sempre più piede una linea politica che è di competitività, certo, ma anche di possibile intesa, sul lungo periodo, con le popolazioni italiche, in virtù di un riassestamento delle alleanze della città greca verso gli stessi vicini lucano, dopo la prima guerra romano-sannitica.
Taranto sembra interpretare sempre di più il suo ruolo come quello di una città egemone dell’intera Italia, greca e indigena, decisa semmai a contrastare l’avanzata di un altro, più distante e più temibile popolo ‘barbaro’, il romano.
Il Molosso, e con lui le città greche che non a caso gli sono e restano devote (come Turii e Metaponto, in tradizionale posizione di antagonismo o almeno di guardinga difesa nei confronti di Taranto), sono invece più legati alla tradizionale politica di opposizione all’elemento barbarico lucano-brettio, che è al momento il più attivo e geograficamente il più vicino (i lucani premono sullo Ionio centrale, i bretii occupano Sibari sul Traente, Terina, Ipponio, Turii [?]).
Alessandro cerca anche di sfruttare a suo vantaggio i conflitti interni al mondo lucano, che in quest’epoca è in fase al tempo stesso di espansione e di fermento; ma sarà ucciso a tradimento a Pandosia proprio da un esule lucano.
Poco dopo la morte del Molosso, intorno al 330 a. C., sembra doversi fissare la data della presa di posidonia (poi Paestum) da parte dei lucani, piuttosto che intorno al 400 a. C., come i più ritengono.
La condizione dei greci in Italia nel settantennio fra le due date in esame (400 e 330 circa a. C.) può descriversi come uno “stato di sofferenza”, esattamente come la rappresenta per Siracusa e la Sicilia greca, negli anni 353-351 a. C., l’autore della Settima e dell’Ottava lettera platonica (che sia Platone o altro autore, comunque di tutto rispetto): condizione di trypé, di opulenza e benessere economico, ma anche di crisi morale, avvertita nel rischio di perdita dell’identità ‘nazionale’, linguistica e politica, pur in un periodo in cui si conserva ancora l’indipendenza politico-militare, tuttavia minacciata, in senso lato, dal punto di vista culturale.
Pag. 666-68
L’ellenizzazione è rilevante, ma resta pur sempre (come del resto è implicito nel termine stesso) un fenomeno di acculturazione, un capitolo suggestivo della storia della grecità di frontiera, con tutta la sua complessità storica.
L’area ha scambi significativi col mondo greco-egeo e più in particolare con Atene, che ne riporta grano, pesce, salato, schiavi ecc. e vi esporta olio, e prodotti artigianali vari; nel regno bosporano però fiorisce anche un artigianato notevole (ceramica, toreutica, ecc.).
A una certa distanza, restano indipendenti e latamente collegate alla vicenda storica, le città greche di Chersoneso (presso Sebastopoli), di origine megarese, in Crimea e Olbia (di fondazione milesia), alla foce del fiume Ipani (Bug).
Pag. 669
Bibliografia
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La fortuna di Alessandro Magno dall’antichità al medioevo / C. Frugoni. – 1978
Alessandro Magno tra storia e mito / a c. di M. Sordi…et al. – 1984
Magna Grecia: il quadro storico / D. Musti. – Laterza, 2005
Società antica / D. Musti. – Laterza, 1973
Cap. 11. L’Alto Ellenismo
L’ampia portata delle conquiste di Alessandro, la preesistente organizzazione di quei vastissimi territori, l’assenza di un erede che fosse all’altezza del sovrano scomparso o nell’età giusta per succedergli, condizionarono fortemente gli eventi successivi alla sua morte, che vanno sotto il nome di guerre dei Diadochi (successori) e degli Epigoni (la seconda generazione di successori), ed occupano complessivamente un quarantennio (dal 323 fino alla battaglia di Curupedio, 281 a. C.).
Il primo ‘ventennio’ (323-301) è il periodo di maggiore tensione, quando tutto è rimesso in discussione, il potere centrale nelle regioni conquistate, come la stessa egemonia macedone in Grecia.
Con la battaglia di Ipso (301), cioè con la sconfitta e morte di Antigono Monoftalmo, l’assetto complessivo, che comporta una netta distinzione tra Egitto, Asia ed Europa macedone, può dirsi ormai consolidato.
Pag. 682
Senza l’esistenza formale ed effettiva della regalità macedone, era del resto poco giustificato l’esercizio di un dominio unitario di tutti i territori conquistati.
Il dramma della successione ad Alessandro è tutto qui.
Già quando il conquistatore era in vita, si era posto per lui il problema di affidare l’amministrazione dei singoli territori a governatori, forse già allora indicati come satrapi.
Per lo più si era trattato di macedoni o di greci; ma non erano mancati casi di utilizzazione di persiani (o d’altri orientali) collaborazionisti.
Con la morte di Alessandro il principio della ripartizione territoriale si estende, ma si applica anche in maniera complicata, che va molto al di là delle stesse ripartizioni tradizionali, rese plausibili dalla geografia come dalla storia: salvo per l’Egitto, di cui Tolomeo ebbe l’acume politico di garantirsi il controllo, che mai più (caso unico fra tutti i Diadochi) perderà.
Pag. 683
Il secondo periodo delle lotte dei Diadochi (321-316) è dunque caratterizzato da una progressiva assunzione del ruolo di erede di Alessandro in Europa da parte di Cassandro, e di erede in Asia da parte di Antigono; restano sullo sfondo residui progetti legittimistici, di cui sono protagonisti Eumene, Poliperconte, Olimpiade.
Il realismo della politica di spartizione è già presente nell’azione politica di diversi personaggi, ma non riesce a conseguire subito tutti i suoi risultati.
Contro le ambizioni imperiali di Antigono si determina, coem già un tempo contro le posizioni legittimistiche di Poliperconte, una coalizione di quei sostenitori del principio particolaristico che ormai, dopo i drammatici eventi del 316, escono pienamente allo scoperto: Tolomeo, Lisimaco e lo stesso Cassandro.
Padrone dell’Asia di là del Tauro, Antigono rivolge ora il suo sforzo di conquista, nella stessa esaltata logica territoriale e politica di Perdeca, verso i domini di Tolomeo.
La sua marcia contro l’Egitto comporta l’invasione di Siria, Fenicia e Palestina: egli conquista Ioppe e Gaza, pone l’assedio a Tiro (315), cerca di sottrarre a Tolomeo il possesso dell’isola di Cipro e a tutta prima vi riesce per la maggior parte delle città dell’isola (fa eccezione Salamina, soggetta a Nicocroente); subito però Tolomeo riprende il controllo della situazione.
Pag. 690
L’accordo comportava la rinuncia al confine dell’Indo, un confine in teoria ‘naturale’, ma di fatto assai ‘innaturale’, in quanto strategicamente poco difendibile, scelto per il suo impero da Alessandro Magno, con scarsa considerazione dell’impossibilità di rafforzarlo sul versante occidentale, col supporto di territori iranici orientali strategicamente utili: si trattava infatti di regioni impervie o desertiche, difficili da raggiungere, come anche di difendere partendo dalle altre regioni iraniche.
Nella primavera del 301 l’offensiva contro Antigono si scatena su tutti i fronti: in Grecia, Cassandro avanza fino a Elatea; in Fenicia Tolomeo si porta sino all’altezza di Sidone, che stringe con un assedio destinato a concludersi al sopraggiungere d’una falsa notizia, che dava Antigono vincitore in Anatoli su Lisimaco e Seleuco.
Era accaduto il contrario: a Ipso (presso Sinnada, in Frigia) avevano vinto i collegati contro Antigono, soprattutto per l’impatto degli elefanti di Seleuco soverchianti per numero (480 contro 75), ma anche per l’imprudenza di Demetrio, abbandonandosi a un sconsiderato inseguimento della cavalleria avversaria: Antigono, che invano aveva sperato nel ritorno del figlio, trovava una gloriosa morte sul campo (estate del 301).
Pag. 703-4
Il personaggio Pirro è caratterizzato da un attivismo inquieto, che si dispiega su tutti i fronti.
Già parecchio tempo prima dell’intervento a favore di Taranto nel 280, egli è, fra i diadochi ed epigoni di Alessandro, quello più attento alle possibilità d’intervento in Occidente: ve lo indirizzano la posizione geografica dell’Epiro e la tradizione dei re di quella regione, in particolare l’esperienza di Alessandro il Molosso.
All’impegno dispiegato su larga scala non corrisponderà mai un reale e stabile successo.
La prima parte della sua vita è quindi condizionata da altri fattori, quelle lotte dei diadochi che sembrano più grandi di lui: le vicende dei successivi 25 anni sono tanto brillanti, quanto improduttive.
In esse egli portava però la genialità e il valore del grande generale, rafforzato poi dal mitistorico richiamo ad Achille e al figlio Pirro Neottolemo, come propri antenati.
Questa coscienza Pirro porterà durante la spedizione in Italia, dove egli combatterà come un re panellenico, quasi un nuovo Achille contro i romani discendenti dei troiani, e come un nuovo Alessandro Magno contro i barbari.
Questa interna attitudine non trasforma naturalmente il disegno occidentale di Pirro in un piano eminentemente distruttivo verso Roma né Roma nel suo principale bersaglio: ché il suo scopo è di vendetta e di difesa, ma anche di lata unificazione della grecità occidentale, per la quale si erano culturalmente create, tra quinto e soprattutto quarto secolo, ampie premesse.
Pag. 707
La caduta del regno euroasiatico di Lisimaco, determinata dalla vittoria di Seleuco a Curupedio, pone fine ad una realtà composita, che poco era durata, e la cui scomparsa non poté certo di per sé produrre quelle conseguenze negative che taluno le attribuisce.
Non è la struttura composita che ne costituisce la funzione, ma, semmai, l’arte di governo di Lisimaco, la sua qualità di costruttore di città.
Il comportamento di Seleuco dopo la vittoria e le vicende di cui fu protagonista Tolomeo Cerauno sono al contrario nel segno di una rinnovata separazione dell’area europea già sul versante europeo, tra Macedonia e Tracia.
Pag. 715
Lo stesso sviluppo culturale, che assumeva connotati particolari dall’educazione filosofica del sovrano, un seguace del fondatore della Stoa, Zenone di Cizio, era il naturale seguito della rilevante apertura culturale che aveva caratterizzato, con sempre maggiore incisività, la Macedonia del quinto e quarto secolo: solo che ora interlocutore, invece della sola Atene, era il mondo ellenistico nelle sue più ampie dimensioni, e con le caratteristiche cosmopolitiche che a queste nuove dimensioni e strutture corrispondevano.
Con Pirro si protrasse lo scontro, soprattutto nel Peloponneso, fino al 272, anno della morte di quell’irrequieto sovrano: ma alla fine degli anni Settanta Antigone aveva sotto il suo controllo anche la Tessaglia, e ampie zone della restante Grecia; aveva del resto suoi uomini di fiducia (tiranni) nel Peloponneso e guarnigioni opportunamente dislocate nei tre punti strategici dell’Ellade (Demetriade sul golfo di Volo, Calcide euboica sull’Euripo, Corinto sull’istmo): i tre ‘ceppi dell’Ellade’, nella rappresentazione polibiana del dominio del Gonata.
Pag. 718
Un pieno consolidamento del dominio seleucido in Asia minore fu ostacolato da alcuni fattori e condizioni, che in determinati periodi operarono congiuntamente, procurando i più gravi momenti di crisi al regno di Siria.
In primo luogo, va tenuto conto del fatto che la conquista seleucida dell’Anatolia ad Ovest del Tauro era stata fin dall’inizio limitata al controllo della grande arteria di collegamento con la costa egea dell’Asia minore, e della costa medesima, cioè dell’area delle vecchie e nuove città greche, sì che permanevano, e rientravano spesso attivamente nel gioco politico, Stati che mai i Seleucidi avevano assoggettato o assoggetteranno, come il Ponto, la maggior parte della Cappadocia, la Bitinia.
Per conseguenza anche regioni un tempo soggette, come quella di Pergamo, si rendono autonome, sollecitando l’ulteriore sfaldamento del dominio seleucidico, che fu contrastato solo temporaneamente da governatori seleucidici resisi indipendenti dal potere centrale impiantato ad Antiochia, e dallo stesso re, Antioco terzo, in un tentativo – rivelatosi alla fine di breve respiro – di ricomporre la vecchia unità del regno.
Il terzo fattore, che costituirà la causa di maggior durata delle condizioni di relativa insicurezza, in cui cronicamente versa il regno di Siria, è la vicinanza di un Egitto, assillante nella sua pretesa di controllo dell’area siriaca, quanto meno di quella meridionale: un controllo inteso a ricostituire a proprio vantaggio, dopo la scomparsa dell’impero achemenide, una coerenza territoriale delle regioni del Mediterraneo orientale, da Cipro e Cilicia, alle coste e regioni siro-fenicio-palestinesi, fino all’Egitto medesimo.
le diverse guerre di Siria (o di Celesiria), che si succedono tra Siria ed Egitto tra il 280 e il 168, seguono quasi sempre lo stesso copione: raramente gli esiti sono tali da stravolgere il rapporto e i tormentati e labili confini fra i due regni; per lo più i risultati, a vantaggio ora dell’uno ora dell’altro contendente, quindi di volta in volta di segno diverso, non sono tali da coinvolgere la sicurezza delle parti centrali dei due regni in conflitto.
Pag. 718-19
Sono comunque, questi decenni centrali del terzo secolo a. C., anche quelli della medesima fioritura politica e culturale dell’ellenismo, gli anni più propriamente definibili di ‘alto ellenismo’, dando all’espressione un senso valutativo (in senso meramente cronologico la definizione abbraccia anche i decenni da Alessandro magno in poi).
Benché sia difficile trovare dopo il 260 anni di pace, e di uguale solidità dei tre regni, tuttavia, nei decenni centrali del secolo, alla sostanziale stabilità interna dell’Egitto e della Macedonia corrisponde una tenuta del regno seleucidico.
L’ellenismo, in senso politico e culturale, conosce insomma la sua acme tra il 280 e il 220 circa.
Pag. 723
Dei nuovi Stati a dirigenza macedone e greca, sorti in seguito alle conquiste di Alessandro Magno e al successivo smembramento del suo impero, l’aspetto più caratteristico è l’estensione territoriale: un dato fondamentale, cui conseguono direttamente vari altri, di ordine demografico, amministrativo, socio-economico, politico.
Alla grande estensione territoriale sono collegati, coem conseguenze immediate, il numero cospicuo degli abitanti, e in molti casi il carattere composito della popolazione dal punto di vista etnico, nonché l’eterogeneità dei caratteri geografici ed economici del territorio.
Manca un centro urbano unico, intorno a cui la chora si disponga e si distenda, quasi in fasce circolari, come è nel caso della polis, né vi si riscontra una pluralità di centri equivalenti in diritto, o politicamente collegati con un centro egemone, come è in una lega o in uno Stato federale.
Lo Stato monarchico territoriale comporta l’esistenza di una capitale, cui si affianca una chora, in cui sorgono altre poleis (questo, tutto sommato, è il caso di Alessandria, nel suo rapporto con l’Egitto), o di una capitale primaria, accanto a cui sussistono alcune secondarie (come è il caso di Antiochia sull’Oronte, Seleucia sul Tigre, Sardi nel periodo di maggiore fulgore del regno seleucidico) e di un territorio che presenta una notevole complessità di strutture geografiche, etniche, economiche, politiche.
La vastità della chora disponibile in generale è la causa immediata dell’estensione del territorio appartenente allo Stato, o al re in quanto incarna lo Stato, della chora basiliké, accanto alla quale sussistono (anche se di volta in volta occorre chiarire l’autentico rapporto giuridico) proprietà private e templari, che possono assumere dimensioni, o collocarsi in un rapporto col centro del potere, diversi che nell’ambito di una polis.
Il territorio dei regni ellenistici per la sua estensione si presta inoltre ad una suddivisione che risponde ad esigenze di carattere amministrativo, fiscale, giudiziario, mentre la prima conseguenza sul piano dell’organizzazione militare è la dislocazione delle forze in più punti, cui si accompagna la creazione di più centri di comando, ovvia occasione di conflitti.
Dal punto di vista delle forme politiche espresse, il territorio di un regno ellenistico presenta una varietà, determinata dalla presenza, nel tessuto compatto della chora del regno, di entità politiche autonome, come le poleis, organizzate di norma secondo gli istituti della demokratia e fornite di un più o meno alto grado di autonomia e di eleutheria.
Pag. 728-29
Le strutture fondamentali dei regni ellenistici non rappresentano una novità sostanziale nella storia di quegli spazi geografici e politici.
Il regno seleucidico eredita la maggior parte dei territori e delle relative strutture dell’Impero persiano; l’Egitto recupera strutture di epoca faraonica, al di là dei periodi (527-404; 343-331), in cui (con lunghi intervalli di indipendenza) aveva costituito una provincia dell’Impero achemenide.
La novità consiste nel sopravvenire di un elemento etnico estraneo alla regione, nettamente minoritario, e differente da qualsivoglia fra gli elementi etnici prevalenti in epoca precedente.
Se nell’Impero persiano l’elemento iranico (nelle regioni propriamente iraniche a quelle anatoliche) non sarà stato di molto inferiore alla metà degli abitanti del territorio (escluso l’Egitto), nell’Impero seleucidico i macedoni non dovettero mai superare il 10% e in Egitto rappresentavano una percentuale ancora più bassa.
La presenza greca era assicurata da un lato da una forte immigrazione, che avveniva così al livello dei soldati, di uomini di cultura o persone professionalmente qualificate, come anche di piccoli e grandi commercianti, dall’altro dalla sopravvivenza di vecchie città greche, numerose soprattutto sulle coste dell’Egeo.
Per tutti questi elementi rappresentava una novità la creazione di Stati a dirigenza greco-macedone, rispetto agli Stati che li avevano preceduti e in cui gli elementi greci avevano costituito un corpo estraneo e in qualche modo sottomesso.
Ma tutto sembra mostrare che i greci non arrivassero mai ad elaborare una teoria politica dello Stato ellenistico, inteso come fusione di elementi etnici diversi e distribuzione di responsabilità politiche fra queste stesse componenti.
Pag. 730
Predominante è infatti, nel periodo anteriore alla pace di Apamea (del 188), la città stessa di Pergamo, i cui rapporti con le poleis dell’angolo nord-occidentale dell’Asia minore sarà difficile concepire (come pure talora si è fatto) nei termini di una pura e semplice symmachia egemonica.
Dopo la pace di Apamea, che segna l’assorbimento di territori già appartenenti allo Stato seleucidico (Frigia e Lidia, Lcaonia, Pisidia, Panfilia, Cibiratide, Chersoneso tracico, che s’aggiungono alla Misia, che già nel regno faceva parte: domini che si estendono per più di 170.000 km, con una popolazione di circa 5.500.000 abitanti), il regno di Pergamo risulta costituito dal vecchio nucleo, fortemente accentrato intorno alla città, e da un’ampia area annessa, che presenta quella mistione di strutture cittadine e di villaggio (spesso in colonie militari) e quei problemi dunque di carattere politico e sociale, che erano stati propri del regno dei Seleucidi.
La peculiarità storica dei due più grandi Stati ellenistici di nuova creazione (Egitto e Siria), e di vari altri Stati minori d’Asia minore, è proprio la coesistenza delle strutture di villaggio con le strutture cittadine, e l’importanza generale delle prime, che si rivelano come fattori di ordine sociale ed economico di grande resistenza; a costituirle sono i cosiddetti laoi.
Definire lo status del laoi in generale e specialmente dei laoi basilikoi degli Stati ellenistici, è compito tanto spesso affrontato, quanto difficile da assolvere fino a soluzioni definitive e convincenti.
Laoi, in generale, definisce l’elemento indigeno rispetto a quello greco: è la popolazione, la cui speciale connessione con la terra viene definita volta per volta nel contesto, ma non è contenuta a priori nel termine stesso.
Più chiaro il rapporto di dipendenza, quando si aggiunge l’aggettivo basilikoi, come troviamo in iscrizioni seleucidiche e pergamene.
E’ più facile dire che cosa non sono i laoi, che dire che cosa sono.
Vi erano chora basiliké pergamena, come risulta da OGIS 338, il decreto cittadino emanato nel 133 a. C., dopo la morte dell’ultimo re, Attalo 3.; ma i laoi basilikoi non sono schiavi.
Ostinarsi su questo punto è sfondare una porta aperta, perché nel termine laoi, anche se accompagnato dall’aggettivo basilikoi, e in quel po’ che si ricava sulla loro condizione dai testi, nulla significa una condizione schiavile.
Non sono schiavi, e gli studiosi li considerano di volta in volta liberi, quasi-schiavi, servi, servi ereditari, o suggeriscono l’affinità della loro condizione con quella dei pelatai del Bosforo o dei coloni romani ecc.
In un passo dell’iscrizione relativa alla vendita di un terreno da parte di Antioco 3. a Laodice, si legge che alla regina, che qui appare come acquirente di una porzione di chora basiliké, è stato venduto un villaggio, col suo ‘castello’, con la terra che gli appartiene, con il topoi ivi compresi, i laoi con le loro cose e tutti i loro beni e le entrate del 59° anno.
Pag. 733-34
Per l’Egitto tolemaico si ammette generalmente uan situazione più semplice, per un processo di adeguamento a condizioni preesistenti, proprie dell’epoca faraonica e del periodo di dominio persiano.
Arrivati come capi di soldati macedoni, i Tolomei assunsero anche il ruolo di eredi dei faraoni; come tale, il re ellenistico è figlio di Ammon-Ra, e perciò proprietario del suolo e dei sudditi.
E’ questa convinzione di fondo che presiede alla ripartizione che il Rostovtzeff propone della terra dell’Egitto tolemaico in due grandi categorie: ghe basiliké “terra regia”, e ghe en aphései “in concessione”, cui si potrebbe affiancare una terza categoria, quella della chora cittadina (ma si sa quanto poche siano le poleis dell’Egitto tolemaico).
Della “terra in concessione” farebbero parte: 1) la terra dei santuari; 2) terreni destinati alla remunerazione dei servitori dello Stato; 3) la terra dei cleruchi; 4) le vaste tenute donate a grandi personaggi dell’entourage civile e militare del re; 5) la terra dei privati.
Si tratta di una concezione alquanto rigida, che considera tutta la terra come proprietà del re o, in linea di diritto, solo provvisoriamente dei domini regi.
Pag. 739
Il territorio del regno pergameno, che considereremo nel momento del suo massimo sviluppo, con la pace di Apamea (188 a. C.) si presenta articolato in: 1) città; 2) colonie militari; 3) proprietà temporali; 4) domini reali; 5) tribù semi-indipendenti.
Nell’insieme la situazione è quella tipica di ogni regno ellenistico, con una vicinanza maggiore, nella struttura di base, al regno seleucidico, soprattutto per la presenza di numerose città, di elemento etnici abbastanza eterogenei, di proprietà templari (OGIS 335 attesta ad esempio affinità di comportamento di Seleucidi e di Attalidi verso la città di Pitane, alla quale Antioco 1. aveva venduto delle terre, e a cui Filetero prima e poi Eumene 1. di Pergamo confermano la panktetikè kyreia, cioè la piena e assoluta proprietà, della chora).
Ma per alcuni aspetti la politica degli Attalidi poté essere diversa da quella dei Seleucidi.
In generale, verso il territorio gli Attalidi sembrano aver perseguito una politica di espansione delle proprietà demaniali.
Pag. 741
Che Alessandro Magno abbia praticato una politica di fusione tra macedoni e orientali è cosa che viene molto naturale ammettere sia sulla base della politica matrimoniale da lui perseguita (si pensi ai suoi matrimoni, prima con Rossane, figlia del sogdiano Oxyartes, e poi, nel 324, con Statira e con Parisatide e alle nozze in massa dei suoi ufficiali e soldati con donne iraniche, nel medesimo anno), sia in considerazione di aspetti dell’organizzazione militare da lui voluta (la costituzione di un corpo di 30.000 epigonoi persiani, addestrati nel suo esercito; l’inserimento di cavalieri battriani, sogdiani, aracosi, zaranghi, arei, parti, euaci, nella cavalleria eterica; la formazione di una quinta ipparchia, non per intero costituita da barbari, al comando di un Battriano; l’ammissione di singoli nobili iraniani nel ruolo di Aghema) e del suo comportamento personale e di governo.
Certo, non mancarono drammatici ritorni indietro, nella politica perseguita da Alessandro verso gli orientali (basti pensare all’eliminazione violenta, nella primavera del 324, dei satrapi persiani della Perside, della Susiana, della Carmania e alla rimozione di altri); ma nell’insieme una politica di fusione, almeno sul piano delle strutture amministrative militari e civili, doveva essere nei piani di Alessandro, e sembra esagerare chi nega che ci siano tracce di politica di fusione al di fuori delle nozze di Susa, perché Alessandro avrebbe fatto divieto ai veterani di portare in Macedonia le mogli iraniche: anche se tale politica di fusione non assume quella dimensione universalistica e quasi evangelica che le attribuiva W. W. Tarn, il quale vi riconosceva l’idea dell’unità fra gli uomini e (nel prosieguo dell’indagine) quella di un dio che fosse padre comune di tutta l’umanità, e inoltre il senso di una missione divina, da svolgere nel senso della fondazione della homonoia (concordia) universale, e l’aspirazione a che tutti gli uomini fossero partecipi (e non sudditi) del regno di Alessandro.
Pag. 742
Un famoso brano di Polibio (21. 43, 2) dà una nozione immediata delle forme in cui si esprimeva verso le “città libere” la dominazione di un regno.
Riferendosi alla mutata condizione delle città dell’Asia minore occidentale dopo la pace di Apamea, egli ricorda coem questa le liberasse “quale dal tributo, quale dalla guarnigione, tutte dai prostagmata regi”.
Polibio si riferisce al metodi di governo seleucidici.
Eppure fu proprio il regno seleucidico a doversi confrontare, soprattutto nelle regioni occidentali dell’Asia minore, con le aspirazioni tradizionali delle poleis greche, sul piano internazionale e interno, aspirazioni che si riassumono sotto i tre concetti di eleutheria, autonomia, demokratia.
Nell’insieme si potrà ben ammettere (come sosteneva A. Heuss in un vecchio libro sui rapporti tra città e sovrano in età ellenistica) che le istituzioni fondamentali della polis non venissero toccate o alterate dal potere monarchico; ma è anche innegabile l’astrattezza di questo punto di vista, quando si consideri che cosa significhi sul piano della politica reale la presenza di guarnigioni imposte alle città dai sovrani, o l’invio di prostagmata da parte del monarca, o l’esazione di un tributo o l’imposizione di un epistates (ho epi tes poleos).
Pag. 744
- Bikerman ha formulato in maniera precisa i fondamenti su cui poggia la monarchia ellenistica: 1) il diritto di vittoria; 2) la trasmissione ereditaria del diritto uan volta acquisito.
Il locus classicus della storiografia antica che fonda il principio del diritto di conquista connesso alla vittoria è Senofonte, Ciropedia 7. 5, 73.
In particolare, il concetto di chora doriktetos (terra conquistata con la lancia) è richiamato più volte in Diodoro 17.-21., per fatti relativi al periodo 334-301 a. C., mentre le pretese di Antioco 3. sulla costa egea della Tracia sono fondate proprio su questo concetto, secondo Polibio, 18. 51, 3-8 (cfr. 28. 1, 4, per Antioco 4.).
L’importanza dell’idea è diversa comunque da regno a regno e nelle diverse epoche.
La monarchia si fondava sulla capacità di guidare un esercito e di amministrare saggiamente la cosa pubblica: una concezione che si contrapponeva all’idea che la posizione monarchica fosse fondata o sulla nascita o su un diritto.
A sua volta il sovrano diventa legge animata e vivente, nomos empsychos, un’idea che risale certo in larga misura a Platone (Politico 293 sgg.; Leggi 9. 875 c), e ad Aristotele (Etica nicomachea 5. 1132 a).
Le definizioni teoriche della figura e delle funzioni del re dell’età ellenistica (o di derivazione ellenistica), indicano tre funzioni essenziali: 1) quella del comandante militare; 2) quella del giudice; 3) quella del sacerdote.
Pag. 747
Le strutture e gli aspetti tecnici fondamentali dell’esercito macedone dell’epoca di Filippo 2. e di Alessandro Magno erano rappresentati da: 1) compresenza di fanteria, cavalleria, peltasti-mercenari; 2) organizzazione falangitica della fanteria; 3) presenza di una guardia di opliti e cavalieri indicata talora col vecchio nome di Aghema; 4) carattere territoriale e regionale del reclutamento.
Buona parte di queste caratteristiche permangono negli eserciti dei regni ellenistici.
La possibilità di un collegamento del soldato alla terra, attraverso l’assegnazione di un kleros individuale, o la fondazione di colonie militari, è nota all’antico regno macedone, ma diventa una connotazione anche più caratteristica delle armate ellenistiche.
Nella sua struttura composita l’esercito tolemaico riproduce in larga misura il tipo di organizzazione militare macedone.
Concorrono a costituirlo: 1) i Makedones, come forza regolare: un nome che non ha più un preciso valore etnico a cominciare dal 3. secolo (ma è difficile dire se il suo valore si limiti a quello di un equipaggiamento “di tipo” macedone; 2) i mercenari; 3)gli indigeni.
E’ la grande e progressiva incidenza di questi due ultimi elementi che caratterizza etnicamente e sociologicamente le armate di età ellenistica.
Come ausiliari compaiono, già sotto il primo Tolomeo, i machimoi, indigeni che servono in corpi speciali e rappresentano un residuo di epoca faraonica.
Ma dopo Rafia gli indigeni entrano in massa nelle forze regolari.
Seguono poi: 4) la guardia del re, che non ha nome speciali; e 5) le forze di polizia.
Più che gli aspetti organizzativi e tecnici, per il quali basterà una sommaria esemplificazione di titoli, gerarchie, funzioni, ci interessano gli aspetti sociali della storia dell’esercito, come il fenomeno di massa: aspetti verificabili, per presenza di documentazione, soprattutto per il regno tolemaico.
Questo tipo di indagine assume un significato particolarissimo per l’epoca ellenistica, che è giustamente definita “un’epoca militare”.
Quello dell’esercito è un terreno sul quale si può valutare il rapporto dell’elemento militare col potere centrale e la classe dirigente, da un lato, e l’integrazione tra stranieri e indigeni, dall’altro: e ciò in Egitto, come s’è detto, molto meglio che in altri regni ellenistici.
L’esercito è un terreno di confronto tra gli stranieri, affluiti dalla Grecia, Asia minore, Palestina, fin verso la fine del 3. secolo a. C., gli indigeni e il popolo dominatore.
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Agatocle si rivela personaggio capace di concepire piani di ampio respiro, che comportano la centralità di Siracusa, l’unificazione tendenziale della Sicilia, un orizzonte strategico così vasto da includere un attacco diretto ai territori africani di Cartagine, un orizzonte politico e diplomatico che coinvolge, sempre in prospettiva anti Cartagine, lo stesso Egitto tolemaico.
Non sorprende che egli, finita l’avventura africana, riprenda i piani di Dionisio 1. Per la costituzione di un dominio in Italia e la creazione di stabili punti di appoggio siracusani nell’Adriatico, recuperando anche quell’orizzonte di interessi corinzi, che, mai infondo venuto meno, era stato reso però nuovamente attuale proprio dall’intervento di Timoleonte e dai suoi seguiti storici.
L’eredità di Dionisio 1., in tema di politica territoriale ed egemonica, viene dunque per intero assorbita da Agatocle e persino trasferita a un livello di maggiore completezza ed organicità.
Tutto questo sembra innalzarlo, anche tenuto conto dei termini di confronto possibili nella sua epoca, a un significato storico che va ben oltre il riconoscimento di Scipione l’Africano, il quale associava Agatocle a Dionisio per fattività e audacia (Polibio, 15. 35, 6): è l’intero giudizio di Polibio (35, 3-6)che va tenuto presente: in esso si riconosce ad entrambi non solo la capacità di fare carriera, partendo da umili origini (Agatocle avrebbe cominciato lavorando al tornio e alla fornace, come ceramista), ma anche di diventare, oltre che tiranni di Siracusa, “basileis di tutta la Sicilia e signori di alcuen parti d’Italia”.
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Agatocle è lì a tessere la sua tela grandiosa, alla prova dei fatti troppo ambiziosa per le forze e la durata della vita di un individuo.
Allestisce una grande flotta, destinata sempre al sogno della guerra anti cartaginese; rompe con Pirro; fa divorziare da lui la figlia Lanassa, che resta in possesso di Corcira; stringe intese con Demetrio Poliorcete, nel frattempo divenuto re di Macedonia.
Ma una grave malattia accellera la fine del sovrano siracusano, ormai settantaduenne.
Non fu senza colpa di Agatocle se, poco prima della morte, si complicò oltre ogni dire la questione della successione al trono siracusano, cui era stato destinato in un primo tempo il nipote Arcagato, figlio dell’Arcagato morto nella spedizione africana; avendo avuto però Agatocle un figlio da un secondo matrimonio (Agatocle il giovane), egli preferì all’ultimo momento la successione del figlio, segnandone così il destino, perché Arcagato fece assassinare il giovane, per liberarsi di un rivale.
Il nonno, morente, ne vanificò l’ambizione, che non arretrava di fronte al crimine; concesse infatti ai siracusani la libertà, cioè restaurò la Repubblica (289).
Con la fine del re siracusano, tutti i tradizionali problemi della storia politica della Sicilia (conflitti fra greci e cartaginesi: conflitti all’interno del mondo greco; problema dei mercenari di origine extra-siceliota) si ripropongono puntualmente, senza che ci sia più un uomo capace di venirne a capo in una linea politica d’indipendenza.
Sicché ormai i problemi del governo della Sicilia si incaricheranno di risolverli potenze estranee all’isola.
Si va costituendo il terreno per quella prima guerra tra Cartagine e Roma, in cui una larga parte dei sicelioti sentirà la propria sorte e cultura meglio rappresentata da Cartagine che non da Roma.
Ancora una volta Siracusa (allora sotto il governo di Ierone 2.) rappresenterà l’intera parabola dei sentimenti e degli atteggiamenti greci e farà presto la scelta militarmente e storicamente vincente.
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Abbiamo già detto del trattato che stabiliva limiti alla navigazione romana nel golfo di Taranto, e della lungimirante intenzione della città greca di tener Roma lontana anche dai greci della costa.
Nei confronti dei lucani, Taranto voleva esercitare in prima persona la funzione di tutrice delle popolazioni greche (anche se, nell’esercizio di questa funzione, non mancava di ambiguità).
Quando perciò, nel 282, Turii chiese aiuto ai romani contro i lucani e Roma inviò G. Fabrizio Luscino con un esercito che sgominò gli italici, Taranto reagì come di fronte a un’interferenza grave: sequestrò una squadra navale romana, che era comparsa nel golfo di Taranto, e impose alle truppe che presidiavano Turii di lasciare la città.
Comunque si debba valutare l’aspetto giuridico della questione, Taranto certamente mostrava di capire che l’intervento romano a tutela di una città greca del golfo tarantino comportava un salto di qualità nella politica della città la tina verso la Magna Grecia, svolta che aveva certo precedenti significativi nel foedus con Napoli del 326, ma che significava ormai l’arrivo delle armi di Roma fino all’ultima spiaggia della grecità italiota, quella che era stata storicamente il nucleo stesso della Magna Grecia.
Come già mezzo secolo prima ad Alessandro il Molosso, Taranto si rivolgeva ancora una volta a un re epirota, perché esercitasse una funzione di tutela, che la grecità d’Italia chiedeva contro il ben più temibile barbaro che si affacciava ormai sulla costa greca.
Pirro, sfortunato pretendente al trono di Macedonia, aveva le mani libere per un’impresa del genere, e Tolomeo Cerauno, salito al trono macedone nel 281, gliene fornì i mezzi, in uomini (5000 fanti e 4000 cavalieri) ed elefanti (50).
Con la spedizione di Pirro, l’Oriente ellenistico s’immette di forza nella storia dell’Occidente greco, ma solo per registrare la fine dell’indipendenza di quest’ultimo.
L’incertezza dei piani di Pirro in Occidente è reale: non è solo un’apparenza, prodotta dalla insufficienza della tradizione letteraria.
Sembra in effetti che i suoi progetti abbiano avuto comunque come perno la Grecia e la Macedonia.
La spedizione in Italia e quella in Sicilia sono un grandioso hors-oeuvre, uno straordinario fuori programma, anche se preparato dai processi storici in cui erano state coinvolte nell’ultimo secolo e mezzo l’Italia e l’isola.
La progressiva assimilazione fra i destini storici delle due aree faceva sì che Pirro potesse considerare l’azione in Italia quale preludio alla conquista della Sicilia; il disegno di assoggettarsi l’isola era stato preparato anche dalle intese con Agatocle, ed era confortato dall’esistenza di un figlio dato a Pirro da Lanassa (Alessandro), al quale era probabilmente destinato il regno sull’isola, come appendice di un regno paterno saldamente impiantato nella penisola greca.
Con Pirro, dopo più di mezzo secolo, sembra rovesciarsi il rapporto tra grecità occidentale e grecità peninsulare (ché i predecessori, da Archidamo a Cleonimo, dovevano essere, per gli italioti, solo degli splendidi ausiliari; mentre con Pirro – anche per l ‘incombere di minacce storiche ormai sempre più pesanti sulla grecità occidentale – i greci sembrano più disposti a considerare l’eventualità di un salvatore che sia anche il sovrano dell’Occidente ellenico).
La storica traversata (diabasis) dell’Adriatico da parte di Pirro avvenne nel maggio del 280.
Egli portava con sé un cospicuo esercito (circa 25000 tra fanti e cavalieri e 20 elefanti da guerra).
P. Valerio Levino tentò di impedire il contatto tra Pirro e i suoi alleati lucani; ad Eraclea ebbe luogo il primo scontro con i romani, che fu vittorioso per l’epirota, ma costò 4000 uomini, contro i 7000 caduti di parte romana.
Nel clima della vittoria si crea quell’unione greco-italica contro Roma, che era stata già da tempo il programma politico di Taranto.
Sanniti, lucani e Brettii, fra i greci, Crotone e Locri passano subito dalla parte del re epirota, mentre a Reggio la guarnigione campana installata da Roma approfitta della posizione di forza per brutalizzare la popolazione e saccheggiare gli averi, conservando però in compenso e di fatto la città all’alleanza romana.
Pirro si spinse fino ad Anagni, nella sua avanzata verso Roma, che però veniva subito validamente presidiata con truppe fatte rientrare dall’Etruria e con nuove leve.
Già allora cominciano tra i romani e Pirro (o meglio il suo celebre ambasciatore Cinea) trattative di pace (la cui esistenza chiarisce di per sé i limiti della spedizione dell’epirota; ma esse si rivelano infruttuose, anche per l’opposizione di Appio Claudio Cieco.
Nel secondo anno (279), Pirro cerca di venire a capo dei romani anche in Apulia (dai suoi movimenti è chiaro quanto fosse determinante il disegno strategico di liberare Taranto sui due fronti, quello lucano e quello apulo); presso Ascoli Satriano (in Puglia), a nord dell’Aufidus (Ofanto), i romani furono nuovamente battuti; ma ancora una volta le perdite di Pirro si avvicinavano a quelle subite dagli sconfitti (4000 caduti contro 6000 del nemico).
La ripresa delle trattative (che nell’intenzione di Pirro dovevano produrre la rinuncia di Roma al dominio sull’Italia meridionale, nelle componente greca, come in quella italica dai sanniti ai Brettii) fu resa vana dall’intervento di Cartagine, che consolidò e ampliò i vecchi trattati con Roma, e che mirava soprattutto a bloccare il prevedibile intervento di Pirro contro i cartaginesi, i quali cingevano d’assedio Siracusa, allora sotto il governo di Thoinon e in conflitto con Sosistrato di Agrigento.
Chiamato dai greci in Sicilia, Pirro passò nell’isola nell’autunno del 278, confermando così il carattere della sua missione, che era di liberazione dell’intera grecità occidentale dalle minacce incombenti, sia quella di Roma in Italia, sia quella di Cartagine in Sicilia.
Chi pensi alla storia dei decenni successivi (fino al 201 e oltre) – che nel Mediterraneo occidentale saranno occupati dal confronto tra Roma e Cartagine – misurerà a pieno la portata storica del tentativo di Pirro di bloccare due forze crescenti, minacciose per la libertà d’azione dei greci e destinate a scontrarsi fra di loro.
Pirro fu eletto egemone e basileus, ma sul trono di Sicilia era previsto probabilmente come suo successore Alessandro, come si è già detto.
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Ad attirare i romani in Sicilia furono i mamertini.
Dapprima, contro la pressione dei siracusani, essi avevano chiesto e ottenuto un presidio cartaginese, ma successivamente prevalse un orientamento ‘nazionalistico’ e perciò filoromano, che faceva leva sulla coscienza (evidentemente allora, al cospetto di realtà esterne come greci e cartaginesi, alquanto diffusa) dell’affinità di stirpe tra osci e romani.
Con la tentata traversata di Appio Claudio nel 264 e la riuscita diabasis dello stretto ad opera di M. Valerio nel 263, cominciava la Prima guerra punica (264-241), che doveva rendere i romani padroni della Sicilia, ponendo fine – dopo circa tre secoli – all’esistenza di un dominio cartaginese dell’isola.
Ma anche l’elemento greco divette adattarsi a una situazione radicalmente nuova in Sicilia.
Ierone aveva stretto alleanza in un primo momento con i cartaginesi, dopo lo sbarco e le prime vittorie romane, egli decise di voltar pagina: nessuna resistenza trovò perciò l’esercito romani che nel 263 avanzava da Messina nella valle del Simeto, prendeva successivamente Adrano, Alesa, Catania e poi conquistava Enna e perfino località della costa occidentale, come Camarina e Gela Finziade.
Quando M. Valerio si avvicinò a Siracusa, trovò Ierone disposto a cedere assai più che a combattere: il re accettò infatti di rinunciare alle città conquistate da Roma, e a confinare il suo dominio a Siracusa, Leontini, Acre, Noto e Tauromenio; si impegnò al versamento di 100 talenti e naturalmente si alleò con Roma contro Cartagine, venendo così a trovarsi di fatto dalla parte di quei mamertini che per circa un decennio erano stati i suoi nemici e il bersaglio della sua azione politica.
Come già in Italia, nonostante le cospicue resistenze e i progetti diversi che erano di volta in volta affiorati (e che nella duplice spedizione di Pirro avevano trovato la loro più sistematica espressione), anche in Sicilia si determinava quel blocco storico tra romani, greci e italici, che doveva produrre, coem esito ultimo, la costituzione di una nuova, composita ma fondamentalmente salda unità culturale, a detrimento di altri elementi, destinati a rimanere estranei alla compagine della nuova Italia.
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Nota integrativa
Sulle correnti di pensiero in età ellenistica
L’influenza del Peripato sulla cultura ellenistica sul terreno in cui esso è più innovatore: quello della nuova, sistematica e articolata ricerca scientifica, rivolta ai saperi specifici.
Anello di passaggio essenziale è l’opera di Demetrio del Falero, dopo la sua fuga da Atene e il suo arrivo alla corte di Tolomeo 1.
Al nuovo signore dell’Egitto, Demetrio consigliò (e da lui ebbe l’incarico) di realizzare il Museo, come centro di ricerche, estese alle più diverse branche del sapere (matematica, geometria, meccanica, musica, medicina, zoologia, botanica, retorica, politica, astronomia, economia).
Nella storia della cultura si fonda un’organizzata disciplinarità, esito storico della spinta alla sistemazione del sapere, storico e non, che aveva percorso tanta parte dell’esperienza greca del quarto secolo.
La Biblioteca “grande” avrebbe raggiunto, all’apice della sua storia, addirittura i 700.000 volumi; altre decine di migliaia erano ospitate nella Biblioteca di Serapeo.
Mezzi finanziari, spazi adeguati, strutture organizzative per imprese simili potevano essere forniti solo da entità come le grandi monarchie; le nuove istituzioni non potevano essere ambientate che nelle nuove metropoli, le sole in grado di garantire loro frequentazione, circolazione di uomini e di idee, funzionalità, vitalità.
In questo è il collegamento più genuino col cosmopolitismo dei nuovi tempi di una scuola di pensiero così legata per origine all’esperienza tradizionale delle vecchie poleis.
Che l’individualismo, da un lato, e il cosmopolitismo, dall’altro, siano le due forme mentali (e comportamentali) che esprimono e promuovono la cosiddetta crisi della polis, è un luogo comune, non privo di una certa dose di verità, ma pur bisognoso di integrazioni e correzioni.
In realtà, già l’esperienza democratica attica aveva dato spazio per la sua stessa natura (e non, come spesso si afferma – con effetti disastrosi sui più disparati terreni interpretativi – per una sorta di deviazione dai valori della polis!) a una vastissima riflessione critica (però, istituzionalmente accolta ed ammessa dalla polis) fin dalla metà e seconda metà del quinto secolo.
Essa dava libero corso, con tutti i rischi del caso (rischi congeniti, però, e non inaspettate deviazioni), alle esigenze del ‘privato’, quindi a forme crescenti d’individualismo; aveva creato in sé – con il richiamo fortissimo esercitato su pensatori, artisti, commercianti stranieri – spazi cosmopolitici, che la sua stessa forma mentale comportava.
E’ evidente però che le due grandi spinte innovatrici, quella individualistica e quella cosmopolitica, la prima era destinata ad avere nella polis uno spazio amplissimo se non illimitato, nella misura in cui la strutturale coabitazione di pubblico e privato volgeva verso un equilibrio sempre più favorevole al privato; ma le possibilità cosmopolitiche di una sola città, e di una città di vecchia fondazione – con disponibilità finanziarie, ambientali e politiche limitate, rispetto alle nuove metropoli e megalopoli dei grandi regni ellenistici – non potevano soddisfare le esigenze di scambio delle nuove esperienze culturali fra greci dei più diversi ambienti; una città come Atene non poteva racchiudere in sé più diversi ambienti; una città come Atene non poteva racchiudere in sé l’intero mondo delle esperienze scientifiche, tecniche, culturali, religiose.
Atene poteva rimanere, e rimase, la capitale della teoresi filosofica.
Alle vecchie scuole se ne aggiungevano, sul finire del quarto secolo, due nuove, destinate ad esercitare uan grande influenza, e rispondenti, in misura diversa e con diversa enfasi, alle istanze profonde dei nuovi tempi.
Il filosofo Epicuro (n. a Samo nel 341, m. ad Atene nel 270) fonda ad Atene, dopo la caduta del governo di Demetrio del Falero, la scuola del “Giardino” (képos).
La concezione epicurea della realtà sviluppa le premesse già poste dall’atomismo democriteo (a riprova del fatto ch ei nuovi modi di pensare d’età ellenistica nascono dal cuore stesso dell’esperienza culturale di Atene nel quinto secolo: Democrito era di Abdera, una città che ebbe parte nella Lega delio-attica); gli dèi esistono, ma non si occupano degli uomini; questi possono conoscere, delle cose come degli dèi, solo le parvenze.
Il mondo dei principi diventa sempre più remoto; l’individuo cerca la sua salvezza e sicurezza nell’imperturbabilità (ataraxia); il “giardino”, chiuso alle sollecitazioni e ai turbamenti che provengono dall’esterno (in primo luogo dalla vita politica), diventa simbolo di un’etica individualistica, che porta al massimo quell’esigenza di ‘privato’ che ha lunghe radici nella storia ateniese: e non è un caso che abbia origini così squisitamente attiche (e possibilità di espansione in tutte quelle società e situazioni che a quell’istanza danno più spazio).
Da Cizio, nell’isola di Cipro, proviene Zenone (335-263), figlio di un commerciante, e all’inizio commerciante egli stesso.
Ad attirarlo ad Atene sono dunque in primo luogo le tradizioni mercantili e cosmopolitiche della città, e poi le possibilità di frequentare le lezioni di filosofi come Cratete e Stilpone.
Egli fonda quindi una sua scuola, che prende il nome dal “portico” (stoa), sede delle lezioni.
Per vari aspetti la riflessione stoica equivale a uno sviluppo di nuove idee e istanze (in cui non sono secondarie quelle religiose degli ambienti semitici da cui proviene il fondatore).
I tratti cosmopolitici della città platonica, ma soprattutto quella politeia cosmica che è il Timeo, diventano il fondamento per l’elaborazione di una teoria dell’unità profonda dell’umanità.
Questa si appoggia a sua volta a una concezione del mondo come una realtà pervasa da un’anima, un soffio vitale, verso cui l’individuo può concepire solo un rapporto che sia di forte familiarità e progressiva appropriazione (oikeiosis), resa possibile dalla profonda solidarietà (sympatheia) che sussiste fra le diverse parti del cosmo.
Lo stoicismo appare, fra le diverse correnti di pensiero espresse dall’ellenismo, la più atta a giustificare la monarchia e i nuovi Stati territoriali (e naturalmente Roma sarà la più naturale beneficiaria dei risvolti concreti delle teorie politiche della Stoa, attraverso la riflessione di Panezio e di Posidonio), e al tempo stesso ad esprimere nuove istanze religiose, soprattutto in quanto volgenti a un panteismo di impronta monoteistica, quale si esprime nell’Inno a Zeus di Cleante di Soli o neo Phainomena (Fenomeni) di Arato di Soli.
Zenone ebbe il tempo di influenzare un sovrano come Antigono Gonata, che allo stoicismo deve la sua concezione del regno come endoxos douleia (“gloriosa servitù”, “glorioso lavoro”); rifiutò tuttavia di raggiungerlo a Pella e si limitò a inviargli gli scolari Perseo, Filonide, Arato.
Egli restò ad Atene, la città della discussione e dell’elaborazione teorica, dove d’altra parte la scuola accademica e quella peripatetica si rivelavano sempre meno idonee (e forse sempre meno interessate) a dare risposte sul terreno politico; la teoria peripatetica si andava sempre più dissolvendo nell’esperienza delle nuove scienze, il pensiero accademico sviluppava fino alle estreme conseguenze dello scetticismo il metodo dialettico (a cui doveva in definitiva la sua stessa origine), con Arcesilao di Pitane (315-240) e Carneade di Cirene (circa 215- metà del secondo secolo), fondatori, rispettivamente, dell’Accademia di mezzo e della nuova Accademia.
Accanto, è un pullulare di tendenze, che ripetono la loro origine del socratismo e ne interpretano esigenze diverse, sul terreno delle scelte di vita, come su quello della ricerca teorica (cinici, megarici, ecc.).
Aspetti religiosi
Se l’ellenismo è per i greci epoca di fusione tra le forme della cultura greca e alcune espressioni delle culture orientali, ciò si verifica in sommo grado sul terreno religioso.
Questo è del resto il processo mediante il quale il cristianesimo trova tanta diffusione nell’intero mondo antico.
L’Oriente è da sempre di casa in Grecia; e culti stranieri, originari delle regioni orientali, sono praticati – in prima istanza certo da stranieri residenti – già in epoca classica: si pensi solo alla precoce presenza di Afrodite; o a quella di Cibele, , la Gran Madre, conosciuta e venerata nella grecità d’Occidente già nel settimo secolo e ad Atene in pieno quinto secoli; qui compaiono nello stesso secolo divinità traciche, come Bendis, assimilata ad Artemide, e Sabazio, assimilato a Dionisio.
Questi fenomeni non fanno che moltiplicarsi in età ellenistica: l’accentuato cosmopolitismo, da un lato, e l’influenza della cultura religiosa dei regni ellenistici, dall’altro, ne favoriscono l’intensificazione, la diffusione, la sincretistica osmosi.
In effetti, si può parlare di una ‘cultura’ religiosa più che di una ‘politica’ religiosa dei regni ellenistici: ed è la cultura religiosa propria di Stati polietnici.
Non vanno tuttavia sottovalutate spinte che, almeno in parte, muovono dal potere centrale.
Nel regno seleucidico coglie l’importanza delle vecchie divinità olimpiche: Zeus e Apollo alternano il loro predominio nelle figurazioni sulle monete: il primo, sotto Sleeuco 1. e, di nuovo, sotto Antioco 4. Epifane, il secondo da Antioco 2. a Seleuco 4.; al tempo stesso si verifica però la vitalità di espressioni cultuali specificamente macedoni.
Naturalmente, non solo continuano a fiorire i culti locali, ma si determinano forme di assimilazione e di incalzante sincretismo, che raccordano fra loro divinità greche, divinità orientali precocemente acquisite al culto greco, e divinità orientali nella forma più pura (come accade tra Cibele, Artemide, Agdisti, Anahita, Afrodite, Atargati).
Il regno tolemaico è certamente il più produttivo, sul terreno della creazione e diffusione di divinità che, egiziane nella sostanza, abbiano un volto e un nome più accessibile per il greci: Sarapide (o Serapide), una sintesi di Osiris e Apis, che unisce insieme o tratti di adolescenza del primo e le caratteristiche di divinità animale del dio toro Apis, perciò, tutto sommato, ampiamente assimilabile a Dioniso; e Iside, di cui precocemente e soteriologicamente rappresenta la loro miscela, quale espressa nei misteri ufficiali di Eleusi e nei più esoterici riti orfici: in età ellenistica, i greci continuano insomma la reductio ad unum, e l’assimilazione a idee e rappresentazioni familiari, delle esperienze apparentemente più esotiche.
Del resto, figure eroiche squisitamente greche assurgono via via a rango divino, e si incaricano di rispondere all’esigenza individuale di salvezza o di guarigione: è la storia della straordinaria ascesa di Asclepio, associato ad Apollo Maleata ad Epidauro, e divenuto poi qui figura dominante di dio guaritore, le cui installazioni e le forme cultuali si espandono rapidamente in età ellenistica (in Cirenaica, a Creta, in Asia minore [Pergamo, Smirne], ma soprattutto a Cos), per non parlare della diffusione del suo culto a Roma (293-291 a. C.) e in Italia.
Asclepio e Serapide hanno ciascuno la propria sfera regionale di particolare influenza, ma altre divinità concorrono con loro, come risposta al bisogno di tutela e salvezza divina: i cabiri di Samotracia, che sono presto assimilati ai Dioscuri, e le cui installazioni cultuali, presenti anche sul continente (oltre che a Lemno), includono teatri di probabile funzione cultuale.
Dioniso vive una grande stagione, per la sua ricorrente presenza nelle più diverse combinazioni cultuali: è assimilabile a Osiride, ma è anche sentito come uno dei cabiri; è collegato a Demetra e Core ad Eleusi e nelle pratiche orfiche, ed è presente nelle più diverse forme orgiastiche, praticate prima in ambiti sociali più elevati, poi, dal 4.-3. secolo in poi, anche negli strati più umili, nei quali ampiamente si diffonde il culto del bacchismo.
Al pari di Eracle, egli è uno dei modelli mitici di Alessandro Magno nella sua avanzata in Oriente; è quindi divinità che porta molte delle sue caratteristiche essenziali (Dioniso è un dio forte e vincente) ai sovrani ellenistici, in particolare a quelli di Pergamo, ma ha precocemente diffusione anche in altre dinastie; si presta a rappresentazioni e processioni atte a suscitare gli entusiasmi e le speranze delle moltitudini.
Celebre la descrizione di una processione dionisiaca (pompé) in Egitto, sotto Tolomeo Filadelfo, fatta da Calisseno (2. sec. a. C.?) e riportata da Ateneo (5. 196 sgg.).
Suscitatore di un associazionismo che spesso in età ellenistica ha ancora carattere pubblico, il dio è in grado di soddisfare le esigenze di comunione mistica, di esaltazione, di rapporto col divino in strati sociali diversi.
Se talora gli esiti di quell’associazionismo sono socialmente o moralmente dirompenti, come accade per la diffusione dei Baccanali nell’Italia dell’età postannannibalica (che provoca i ben noti interventi repressivi di Roma nel 186 a. C.), il culto dionisiaco, finché tenuto sotto controllo degli Stati ellenistici, monarchici o cittadini, è in grado di produrre forme associative e rituali, che sono passate attraverso la ‘normalizzatrice’ coabitazione del dio con divinità ‘della norma’, ad Eleusi come a Delfi; e intorno al culto del dio si formano associazioni di technitai, cioè di ‘artisti’, diffuse dall’Asia minore all’Occidente greco (Sicilia e dintorni).
Sarebbe difficile descrivere la miriade di culti locali e regionali, fioriti in età ellenistica, e che tra 2. e 1. secolo beneficiano tutti di un incremento di popolarità: la regionalità di un culto non è più avvertita come un ostacolo alla sua diffusione.
Certo, una religione più esigente, e più fortemente collegata con tradizioni nazionali, come il monoteismo giudaico, manifesta la sua diffusione come diaspora dei giudei stessi (particolarmente significativa quella che approda in Egitto e specificamente ad Alessandria o a Leontopoli, benché il fenomeno sia rilevante per tutto l’Oriente ellenistico), ma riesce anche a conquistare un buon numero di adepti, e diventa sempre più nota al mondo greco attraverso le opere di scrittori greci sui giudei (come Ecateo di Abdera circa il 300 a. C., o Alessandro Poliistore, nel 2. Sec. a. C.), la versione greca della Bibbia ad opera dei Settanta (secondo la tradizione, altrettanti dotti incaricati dell’opera di Tolomeo 2. Filadelfo; ma da ricondurre probabilmente al 2. o 1. Sec. a. C.), o anche attraverso gli scritti di ebrei ellenisti (quali Filone d’Alessandria, in età giulio-claudia, o Flavio Giuseppe, in età flavia); naturalmente anche gli scritti ostili ne diffondono, seppure in forma negativa, la notorietà.
Altre divinità venerate sono il nabateo Dusares, o i vari Zeus (o Juppiter) che rendono alla greca (o alla latina), i tanti Baal dei culti locali siriaci, o l’iranico Mitra, destinato, soprattutto dal 3. sec. a. C., a dar risposta a larga parte delle aspirazioni religiose del mondo greco-romano, come divinità della forza e dell’austerità, della vittoria e della luce, precocemente assimilata a Helios in ambio ellenistico-orientale.
Un punto di forza della cultura religiosa delle nuove entità statali ellenistiche, nei rapporti interni o con le poleis greche, fu certo il culto del sovrano, di cui abbiamo parlato nel testo.
Scienza e tecnica
Il cosmopolitismo investe la letteratura e la scienza dell’età ellenistica: nei grandi centri del sapere dei nuovi tempi, alla corte dei nuovi sovrani, si raccolgono greci di ogni regione del mondo ellenico e d’ogni ramo della scienza.
Lo si verifica in misura particolarissima ad Alessandria.
Poeti come FIlita di Cos, Callimaco di Cirene, Apollonio Rodio, Teocrito di Siracusa; scienziati come il fisico (e caposcuola peripatetico) Stratone di Lampsaco, studioso di meccanica, o come il grande teorico di geometria, Euclide (forse nativo della stessa Alessandria); il filosofo Teodoro di Cirene e successivamente il matematico Archimede di Siracusa, ed Eratostene di Cirene, filologo e cronografo, matematico e geografo; per riferirsi solo ad alcuen personalità dell’alto ellenismo.
Per Alessandria siamo in grado di tracciare una storia quasi completa del grande sviluppo intellettuale, letterario e scientifico, nel periodo ellenistico, compresi i momenti critici della cacciata degli scienziati ad opera di Tolomeo 8. Evergete nel 145 a. C., e la distruzione della Biblioteca del Museo, nella guerra alessandrina, in cui fu implicato G. Giulio Cesare 2., cento anni dopo.
Per le altre grandi capitali conosciamo almeno alcune collaborazioni illustri, di grandi pensatori o letterati, con famosi sovrani: Arato di Soli a Pella, ospite presso Antigono Gonata; il poeta ed erudito Euforione di Calcide, a capo della biblioteca di Antiochia dell’Oronte, sotto Antioco 3.
Alessandria si rivela, in misura particolare, centro di richiamo e di raccolta per intellettuali e scienziati dell’Asia minore e delle isole vicine, e della Sicilia greca.
Mezzi messi a disposizione, curiosità o interesse dei sovrani alle nuove scoperte della scienza (particolarmente forti, quando si tratta di macchine belliche), sollecitazioni e forme di coordinamento della ricerca, attirano nei grandi centri ellenistici persone, competenze, tecniche nuove.
La scienza ellenistica subisce qui le sue novità e i suoi progressi, che toccano i campi della matematica e dell’astronomia e geografia, come quelli della meccanica o della medicina.
Nel Museo di Alessandria si eseguono osservazioni astronomiche, indagini anatomiche e ricerche zoologiche.
Una serie di scoperte tecniche – organi ad acqua, pompe ed altre macchine a pressione – di uso anche bellico, sono dovute a Ctesibio, attivo al tempo d Tolomeo 2.
Nell’astronomia eccelle, nel 3. secolo, Aristarco di Samo, un vero precursore dei tempi moderni, come teorico dell’eliocentrismo; la sua opera fu portata avanti, nel 2. secolo a. C., da Ipparco di Nicomedia di Bitinia, in cui la ricerca astronomica si unì con l’interesse astrologico (una connessione destinata a rafforzarsi, non senza ambigui effetti, nel corso del tempo).
Meno siamo informati sulla consistenza e l’attività della biblioteca di Pergamo, inaugurata nel 2. secolo a. C. da Eumene 2., e presso cui fu attivo Cratete di Mallo, benché la presenza di intellettuali di formazione o di impronta stoica sia un dato acquisito.
Novità tecniche, sollecitate spesso dalle esigenze della guerra, sono note dai primi tempi dell’Ellenismo.
Esse sono preparate da scritti di tattica militare, di prevalente, anche se non esclusivo, orientamento teorico, come quelli di Senofonte (Ipparchico) o di enea Tattico (scritti di poliorcetica) nel 4. secolo, e promosse dall’interesse attivo di alcuni fra i tanti ‘signori della guerra’ dell’epoca, da Demetrio Poliorcete a Ierone 2., per limitarci al periodo che va dalla fine del 4. alla fine del 3. secolo.
Fu un’epoca anche di gigantismo nelle realizzazioni tecniche.
Perché il progresso qualitativo, nel campo delle macchine semoventi e dell’automatismo in genere, non sia stato così rilevante come farebbero attendere le premesse teoriche, è uno dei problemi fondamentali della storia della cultura greca e del rapporto tra l’uomo greco e la società (si rimase sul terreno di una elementare e quasi ludica sperimentazione, con scarsissima applicazione).
Le risposte date al problema sono le più varie: dallo scarso interesse alla realizzazione di strumenti automatici per il lavoro, data la disponibilità di manodopera schiavile, all’assenza di coraggio e volontà imprenditoriali da parte di privati desiderosi e capaci di rischiare, fino alle remore di ordine psicologico e religioso.
Nessuno di questi fattori negativo va escluso; ma c’è anche un semplice dato intrinseco alla storia della riflessione e sperimentazione tecnica: l’interesse ad una applicazione su larga scala di processi di automatismo (che avrebbe anticipato di secoli e forse di millenni aspetti dominanti della vita moderna) riesce nel momento in cui si riesce a produrre una grande quantità di movimento mediante il dispendio di una energia molto minore.
Ma quando il rapporto tra energia spesa e movimento prodotto tende alla pura e semplice uguaglianza, l’automatismo non interessa o di fatto non c’è; e, per questo effetto moltiplicatore, premessa indispensabile è la scoperta di sostanze e di composti chimici efficaci di cui il mondo classico non fu capace; il salto di qualità poteva essere garantito dai progressi della chimica e non, per esempio, dalla solita estensione del principio della pressione idraulica, del mulino ad acqua, della clessidra, e così via di seguito.
Ben altri progressi segnò la medicina; continuò a fiorire la scuola medica di Cos, che svolse una notevole influenza su quella, presto famosa, di Alessandria.
La medicina greca, diversamente da quella romana, fu esercitata prevalentemente da liberi.
L’assistenza medica all’uomo comune non doveva, comunque, né poteva avere carattere di continuità: frequente è la figura del medico itinerante; probabilmente, del personale che oggi chiameremmo paramedico avrà dovuto provvedere a gran parte delle esigenze quotidiane.
Anche nel campo della medicina si verifica d’altronde il consueto richiamo delle grandi corti (come avveniva già in epoca classica); i medici illustri sono accolti nelle grandi capitali (Erofilo di Calcedone, allievo di Prossagora di Cos, è attivo nel 3. secolo ad Alessandria; ad Antiochia s’illustrò il celebre medico di Seleuco e Antioco 1, Erasistrato, che diagnosticò la passione di Antioco per la matrigna Stratonice, preludio alle nozze di quest’ultima col figliastro, consenziente Seleuco).
Si diffonde l’istituzione del medico personale del sovrano, reso necessario così da ragioni di prudenza e di sicurezza, come da esigenze di pronto intervento nelle campagne di guerra.
Un campo scientifico in cui i progressi sono direttamente e necessariamente collegati con la conquista di Alessandro con la creazione e definizione dei confini dei nuovi Stati territoriali è la geografia.
Dal 4. secolo in poi si assiste a una serie di progressi delle conoscenze geografiche, sia per i confini orientali del mondo antico, sia, benché in altra forma, in diversa misura e con diversa efficacia, per i confini occidentali e settentrionali dell’Europa.
Possono considerarsi apporto alla conquista di Alessandro, e dei regni ellenistici, le spedizioni ed esplorazioni di Nearco, su incarico di Alessandro, nel golfo Persico; di Patrocle nel mar Caspio (pur con errori di valutazione); di Demodamas al di là del fiume Iaxartes (Syr Darya), per conto dei seleucidi; e va ricordato anche il viaggio a fini diplomatici, ma anche con inevitabile ‘ricaduta’ di scoperte geo- ed etnografiche, di Megastene e Daimaco a Pataliputra, oltre l’Indo, sempre per conto dei Seleucidi.
L’esplorazione del mar rosso e dell’Oceano Indiano fa notevoli progressi sotto i Tolomei, per analoghe ragioni di ordine politico, militare (se non altro nel senso della sicurezza) ed economico: nel 2. secolo a. C. un Ippalo, al servizio di Tolomeo 8., scopre il regime dei monsoni.
Già nel 3. secolo a. C., la Geografia di Eratostene è in grado di descrivere, con molta più esperienza dei geografi del 4., le regioni iraniche orientali, che formano in senso lato il confine, verso est, del mondo classico.
In Occidente, meno efficace e comunque meno riconosciuta l’attività esplorativa di Pitea di Marsiglia, che compie un periplo delle coste occidentali e settentrionali dell’Europa.
L’iniziativa individuale e il contesto cittadino, che caratterizzarono l’impresa di Pitea (4. secolo), spiegano anche la sua scarsa risonanza (sulla lunga durata) o cattiva risonanza per un Polibio o per un Posidonio.
Progresso geografico, in questo caso, significa solo progresso dell’opinione e dell’informazione generale su una determinata regione.
Tradizionalmente, nel mondo antico, le più efficaci esplorazioni e scoperte geografiche sono dovute a iniziative provenienti da grandi Stati, mossi da forti interessi territoriali.
La conoscenza, nel mondo mediterraneo, dell’Occidente e del Settentrione europeo, compie quindi passi decisivi solo con la conquista romana, in particolare con le campagne di Cesare nelle Gallie e in Britannia nel 1. secolo a. C. e con le successive guerre di età imperiale.
Alcuni temi ricorrenti nella letteratura ellenistica.
E’ del tutto naturale che a questa nuova cultura, di cui erudizione e realismo, tecnicismo e gusto per la scrittura, individualismo e cosmopolitismo, sono le caratteristiche salienti, corrisponda una letteratura in cui si coniugano un contenuto dotto, una forma ricercata, una tecnica raffinata.
Tra le opere di Callimaco di Cirene (circa 320-240) spiccano, per questi caratteri, gli Inni (conservati) e gli Aitia (“Origini”, di cui sono pervenuti frammenti) sulle origini di feste, istituzioni, riti, nomi, luoghi (per es. anche le origini delle città di Sicilia); la celebre Chioma di Berenice (di cui possediamo la versione fatta da Catullo) si caratterizza per i seguenti aspetti: rapporto personale con la corte (tolemaica), celebrazione di Berenice, sposa di Tolomeo 3., interesse per l’astronomia e l’astrologia (la chioma consacrata di Berenice si riteneva aver dato luogo a una nuova costellazione, individuata dall’astronomo Conone di Samo).
Il gusto per gli aspetti formali della scrittura si trascina dietro anche la condanna del libro di grandi proporzioni, la predilezione per l’opera breve, raffinata, preziosa.
L’attività erudita di Callimaco risulta anche da dottissimi Pinakes (tavole, cataloghi) di celebri autori della biblioteca di Alessandria.
Il gusto per una rielaborazione di tradizioni del passato, che permetta di mettere a frutto una vasta erudizione mito- e geografica, e di darle una nuova sistemazione d’insieme, si esprime negli Argonautika di Apollonio Rodio, che fu maestro di Tolomeo 3. (sul mitico viaggio degli Argonauti, da Iolco, lungo le coste dell’Anatolia, verso il Ponto Eusino e fino alla Colchide, e poi, di ritorno, in Grecia: un ruolo centrale ha la passione di Medea per Giasone).
Rapporto con le diverse corti ellenistiche, quella di Alessandria o quella della Siracusa della nuova monarchia di Ierone 2.: realismo; interesse per la vita quotidiana, come si svolge anche nelle nuove metropoli ellenistiche, ma soprattutto attenzione di carattere squisitamente letterario al mondo pastorale, benché non priva di qualche aggancio con la realtà delle campagne, connotano gli Idilli di Teocrito.
L’evasione verso il mondo della campagna, in particolare verso l’ambiente dei pastori, non è naturalmente da vedere come stridente contraddizione con la diffusione dell’urbanesimo o il progressivo adattamento delle forme di vita e di cultura alle nuove funzioni e possibilità dei centri urbani che si moltiplicano: è solo il suo naturale complemento.
Il rapporto e la dialettica del pubblico e del privato, che ha tanta importanza nella comprensione della cultura della polis, qui perde una parte della sua virtù illuminatrice.
La conserva invece per intero nelle commedie di Menandro (342/2-293/292, o 291/290), dove le condizioni individuali – come determinate nella nuova società cittadina di fine 4. e inizio di 3. secolo – appaiono al centro dell’attenzione del poeta: che si tratti della borghesia cittadina e mercantile, o invece del solitario autourgos, che cerca un suo personale modo di sopravvivenza, in un mondo di stenti e difficoltà, dove le uniche certezze o le uniche consolazioni possono venire dai sentimenti o comportamenti individuali.
La vasta produzione programmatica ed elegiaca è all’insegna del realismo, attento agli aspetti della vita quotidiana, anche di quella delle classi più umili, nell’epigramma peloponnesiaco e greco-occidentale; dell’erudizione e sottigliezza intellettuale, nella tradizione ionico-alessandrina; di un marcato erotismo nella produzione di poeti che provengono da centri della Fenicia.
Pag. 772-81
Di grande interesse ka definizione dell’economia regia e quella dell’economia satrapica, che è opportuno vedere, quasi in controluce, l’una sullo sfondo dell’altra.
Anche se l’esperienza mentale dell’autore sembra essenzialmente quella dell’economia persiana, tuttavia la comprensione dello scritto è fondamentale sia per il rapporto storico che si instaura, soprattutto nel 4. secolo, tra le economie greche cittadine e l’economia del gigantesco impero achemenide, sia per la continuità di certi fenomeni e di certi rapporti in epoca ellenistica, e specificamente nel regno seleucidico.
L’economia regia è definita dallo Pseudo-Aristotele “grandissima e semplicissima”; a comporne le voci concorrono: la moneta, le importazioni, le esportazioni, le spese.
Non si può a mio avviso capire il senso di questa ‘grandiosa semplicità’, se non a raffronto con l’economia satrapica, le cui entrate sono di ben sei tipi: 1) quelle della terra (in generale); 2) quelle dei proventi ‘privati’ della terra; 3) quelle dei vari tributi; 4) quelle delle greggi; 5) quelle delle attività commerciali; 6) quelle provenienti dagli uomini (e sono specificamente indicate dalla tassa personale, il kephalaion, e la tassa sulle attività artigianali, il cheironaxion).
Ma l’oikonomia basiliké rappresenta, a mio giudizio, il livello della maggiore ‘semplicità’, rispetto all’economia satrapica, proprio perché si fa carico di unificare al massimo l’intera attività economica che investe le diverse regioni (satrapie) dell’impero.
All’economia regia competono fatti di monetazione, di controllo (e profitto) sull’insieme dei movimenti dei prodotti (e delle merci), e il capitolo della spesa.
E’ dunque il movimento economico generale, in quanto tale, l’elemento costitutivo dell’economia regia: la circolazione, cioè, nella sua forma più generale e al livello di maggiore astrazione.
La sfera della produzione e del profitto immediato compete invece all’economia satrapica.
Fondamentale voce di tale economia è la terra: ed è da intendersi in primo luogo, in questo caso, la terra regia; infatti, quando si confrontino le voci dell’economia cittadina (oikonomia politiké) con quelle dell’economia satrapica, si osserva come l’economia cittadina (benché abbia certo anch’essa una prevalente base agraria) non presenti però, fra le sue voci, quella dei ‘proventi’ della terra, in generale, ma soltanto dei ‘proventi privati’ della terra, cioè essenzialmente la gamma delle forme di proprietà fondiaria privata, attinenti alle libere città.
L’economia satrapica contiene d’altra parte, come caratteristiche e specifiche fra le sei voci sopra indicate, quella dei ‘tributi vari’, quella delle ‘greggi’, e soprattutto quella degli ‘uomini’; l’indicazione specifica del kephalaion e del cheironaxion ci riporta all’ambito, rispettivamente, dei laoi della campagna (e, in generale, del territorio soggetto all’autorità regia) e della popolazione dedita alle attività artigianali (solo in parte e solo funzionalmente distinguibile dai precedenti, e connotata da una condizione complessiva di dipendenza che, se non raggiunge il livello della servitù, molto si avvicina).
E’ dunque, quella satrapica, un’economia fortemente controllata, con forti aspetti di dipendenza: in sostanza, essa si identifica con la sfera della produzione e del tributo, e soggiace a sua volta all’economia regia, la quale s’incarica di unificarne, promuoverne, espanderne i prodotti e gli impulsi, trasferendoli su un piano ‘più alto’ e mettendoli in rapporto con le economie esterne.
Tra le due oikonomiai ora descritte (la basiliké e la satrapiké) esiste dunque una intima ma evidente complementarietà, pur con tutte le differenze quantitative e qualitative: l’economia satrapica è infatti regionale e settoriale, perciò asseconda solo in parte le spinte verso la circolazione e il relativo movimento di beni: l’economia regia risponde invece a queste ultime caratteristiche nella maniera più piena, essendo improntata al fine dell’unificazione e movimentazione delle singole aree economiche.
La politiké oikonomia presenta alcune voci in comune con le economie precedenti, ma sempre in un grado quantitativamente minore: i prodotti della proprietà (privata) della terra; i diritti sulle attività commerciali e di transito; le entrate correnti (che in ambito cittadino saranno tasse, liturgie, contributi vari).
Una differenza, rispetto all’economia satrapica, che non vorrei andasse perduta, è nell’assenza di entrate ‘dalla terra’ in generale (l’autorità della città sulla terra non è del resto assimilabile al dominio del basileus sulla basiliké chora) e di tasse sulle persone in quanto tali (non ci sono – o per lo meno non sono segnalate qui come rilevanti e normali – forme tributarie che esprimano una condizione di dipendenza della popolazione cittadina o almeno di una parte di essa).
Tutte e tre queste economie sono evidentemente concepite dal nostro autore come ‘miranti’ (ciascuna per sé) a un solo scopo: in definitiva ci è una netta caratterizzazione e specifica funzionalità economica di ciascuna di esse.
L’economia privata (cioè del singolo e del suo gruppo famigliare) si presenta invece con dimensioni quantitative evidentemente assai ridotte, e molto varia nelle sue espressioni: le entrate consistono in prodotti della terra, in oggetti di uso quotidiano ed altre entrate correnti (enkyklémata?) e in denaro; rispetto alle oikonomiai intese ciascuna ‘a un solo scopo’, l’economia privata si presenta dunque come il mondo della dispersione, della frammentazione, della diversità dei fini; componente essenziale ne è il denaro, nella sua forma più astratta.
E’ chiaro, già da questa messa a punto, che le dimensioni del movimento economico nell’insieme, nel ‘blocco’, direi (finché blocco resta), delle economie regia e satrapica, rispettivamente, sono enormemente più vaste e complesse di quelle dell’economia cittadina: in esse, evidentemente, l’economico ha un campo di dispiegamento e un’occasione di trasformazione qualitativa dei rapporti generali, che non competono al più ristretto ambito dell’economia politiké.
Pag. 782-84
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Cap. 12. Il mondo greco e Roma
L’intervento di Roma nelle vicende politiche della Grecia è l’esito quasi naturale di una lunga storia di intensi scambi tra le due rive dell’Adriatico.
Il capitolo che precede immediatamente la prima ‘traversata’ (diabasis) con armi’ di Roma a est dell’Adriatico, come richiama solennemente Polibio, è quello delle ripetute aggressioni compiute dai pirati illirici ai danni dei commercianti italici, i quali riescono alfine a far valere la loro voce e la loro protesta presso il Senato romano, nel 230; per difendersi da quegli stessi nemici ricorreranno alla fides di Roma città greche come Corcira, Apollonia, Epidamno, Issa, e popoli dell’area illirica.
Nel 229 Roma aveva avuto dalla sua un dinasta di Faro, Demetrio: dieci anni dopo, nuovi danni arrecati alle città di area illirica sotto il protettorato romano, e a isole dell’Egeo, questa volta proprio da parte di Demetrio, provocano un secondo intervento, che si conclude con l’espulsione del principe illirico (219).
Pag. 803
Il tema dell’eleutheria greca sembra porsi, come principio ispiratore dell’azione romana a oriente dell’Adriatico, propriamente solo a partire dalla seconda guerra macedonica o addirittura solo dalle sue fasi più avanzate.
C’è molto di vero in una concezione evoluzionistica della politica romana, perché il tema della libertà dei greci non aveva esercitato un ruolo dominante né nell’avvio della prima guerra illirica (229/228), che era stata comunque l’occasione (se non anche la conseguenza) di più stretti rapporti tra Roma e varie città greche, né durante la prima guerra romano-macedonica.
Occorre in ogni caso riflettere sul fatto che una motivazione della guerra romana con la prospettiva dell’eleutheria greca diveniva matura e poteva essere solo nel momento in cui Roma fosse in grado di presentare il suo intervento come rivolto alla tutela della Grecia nella sua interezza o quasi.
La nozione stessa di libertà dei greci si configura infatti come una unità non frazionabile, almeno in linea di principio; sussiste perciò un chiaro rapporto causale tra l’assunzione di una rappresentanza, in senso lato, panellenica e l’adozione del tema propagandistico della libertà dei greci, che alla prima consegue.
A questa sorta di patronato panellenico, Roma era arrivata per gradi.
All’origine del primo intervento romano in armi ad est dell’Adriatico vi sono le ripetute pressioni esercitate dai mercanti italici, divenuti da tempo oggetto di attacchi dei pirati illirici; probabilmente solo più tardi, e comunque solo dopo aver provato altre strade per difendersi da quegli stessi nemici, sono raccolte sotto la protezione di Roma città greche come Corcira, Apollonia. Epidamno, Ossa, e popoli dell’area illirica (Polibio. 2. 1).
Ora, non è un caso che queste città greche si collochino, in gran parte, proprio lungo quella rotta, diretta verso le coste elleniche, che doveva essere alquanto battuta dai mercanti italici, perché potesse capitare loro di trovarsi esposti alle azioni di disturbo degli illiri.
La sufficiente prontezza con qui quelle città greche ricorrono alla protezione di Roma ha dunque verosimilmente la sua premessa nella frequenza e buona qualità dei rapporti commerciali greco-italici, in scambi cioè che possono aver operato come fattore o veicolo d’informazione e d’intesa politica, in un contesto e in un periodo della politica orientale di Roma, in cui il rapporto commerciale si presenta ancora con un alto grado di compatibilità, es esente (o scarsamente connotato) da aspetti propriamente conflittuali.
Pag. 805-6
A una più concreta assunzione del patronato panellenico Roma giungeva solo più tardi; gli inizi sono forse già da leggere nelle adscriptiones (includenti ad esempio Atene) alla pace di Fenice del 205 a. C., ma ancor di più nell’intensa attività diplomatica dispiegata verso il mondo greco (o ellenistico in generale) alla vigilia della seconda guerra macedonica; nel rinsaldarsi in quello stesso periodo dei rapporti con Atene; in un ultimatum allora rivolto ai macedoni “di non far guerra a nessuno dei greci”.
Ma il processo può dirsi maturo solo in una fase più avanzata del conflitto, cioè nell’autunno del 198 a. C., con l’acquisizione dell’alleanza della Lega achea, un fatto decisivo sotto il punto di vista della progressiva configurazione panellenica della politica romana in Grecia.
Se il panellenismo prima e durante la prima guerra macedonica era stato monito ispiratore dell’opinione pubblica greca contraria a Roma e più o meno cautamente filomacedone, Roma se ne appropriava ormai con un autentico scambio di ruoli, in seguito all’esperienza fortemente deludente della prima guerra macedonica.
Pag. 806
Fra gli Stati greci, migliorava nettamente la posizione di Atene (con l’acquisizione di Delo e di Aliarto); venivano duramente puniti gli epiroti (150.000 di essi furono venduti come schiavi) e i rodii che, per effetto della creazione di un porto franco a Delo (166), risultavano fortemente mortificati e multati nelle entrate portuali di cui avevano fino allora goduto (passando a 1 milione a 150.000 dracme annue, subendo cioè una perdita annua di più di 140 talenti!).
Anche ai grandi regni ellenistici era del resto dato di provare una sempre più decisa interferenza romana.
Quando, nel corso di una seconda spedizione nel cuore dell’Egitto, Antioco 4. Epifane fu giunto sotto le mura di Alessandria, deciso ad unire alla Siria quel regno, di cui aveva già precedentemente assunto la duplice corona, il console romano Q. Popi(l)lio Lenate, poco dopo la battaglia di Pidna, lo raggiunse ad Eleusi, un sobborgo di Alessandria, e gli ingiunse di lasciare il paese, imponendo tra l’altro una decisione immediata, dopo avergli tracciato intorno un cerchio, entro il quale Antioco doveva scegliere fra l’obbedienza ai romani e la guerra.
Il 168 e gli anni che immediatamente seguirono furono avvertiti nel mondo greco come quelli di una decisa sterzata nella politica estera romana, che adottava ormai, verso il mondo della città e dei regni ellenistici, moduli distruttivi sconosciuti al ‘sistema di equilibrio’ fino ad allora vigente fra le potenze ellenistiche del Mediterraneo orientale.
Ne è tormentato testimone Polibio, tanto ammirato dalla realizzazione storica del dominio romano su quasi l’intero mondo abitato, quanto toccato dagli aspetti di durezza e di cinismo della politica romana.
Ma delle qualità e dei principi della classe politica romana egli stesso poté essere lucido osservatore, per effetto della condizione di ostaggio che a lui, come ad un altro migliaio di uomini politici della Lega achea, fu imposta dai romani (dal 167 al 15 circa), per punizione e misura cautelare nei confronti di una Lega greca, che si era comportata in maniera alquanto comportata in maniera alquanto ambigua nel corso della guerra tra Roma e Perseo.
Nel quasi quarantennio che intercorre tra la battaglia di Pidna (168) e l’annessione del regno di Pergamo, con la conseguente creazione della provincia d’Asia (129), la politica orientale dei romani seguì due linee diverse, a seconda delle diverse aree in questione.
Nella penisola greca, e verso la Macedonia, la politica romana era di un’attenzione vigile, disposta all’intervento, e in particolare pronta all’interferenza nelle faccende interne degli Stati greci, che sembravano recalcitrare al nuovo rapporto di forze, e nelle vicende della Macedonia, divisa ormai in quattro repubbliche, ma ancora capace di fermenti indipendentistici e scossa da conflitti sociali.
E’ ben comprensibile che in Macedonia e in Grecia si compisse, prima che altrove, il processo di annessione diretta, con la creazione di una provincia (Macedonia, circa 147), e che l’espansionismo romano si manifestasse nelle sue forme più distruttive (distruzione di Corinto, 146 a. C., di qualche mese posteriore alla distruzione di Cartagine, avvenuta a compimento della terza guerra romano punica).
Più i processi, più graduali i modi della penetrazione nell’ambito dei regni ellenistici d’Oriente, peri quali tuttavia la complessità stessa della struttura poteva solo raccomandare ai romani di seguire e, ove possibile, assecondare. Accelerare e mettere a frutto processi disintegrativi interni, dovuti a mal calcolata intraprendenza, a errori politici, a conflitti dinastici o a incapacità di resistere alla pressione di popoli d’Oriente in fase di deciso risveglio ed espansione.
Pag. 816-17
Gli anni Sessanta e Cinquanta furono di intensa attività diplomatica dei romani sia verso gli Stati orientali sia in Grecia.
La potenza imperiale ebbe anche le sue vittime: in più d’un caso si verificarono aggressioni a legati romani.
Intanto, in Macedonia e in Grecia, si andavano accumulando risentimenti e motivi concreti per un ultimo disperato tentativo di ribellione.
Il primo segnale venne dalla Macedonia, dove, nel 15q e poi di nuovo nel 149 a. C., un uomo proveniente dalla città micrasiatica di Adramittio, un certo Andrisco, pretendendo d’essere Filippo, il figlio di Perseo (defunto, quest’ultimo, già da diversi anni), s’incoronò re a Pella, conseguendo poi un rilevante successo sul pretore romani P. Iuvenzio, che perì in battaglia.
Lo Pseudo-Filippo poteva contare sia sul rancore sempre vivissimo nei macedoni contro i romani per la spartizione del regno (nonostante la riapertura delle miniere, decisa dai romani nel 158 a. C.), sua su accordi con Cartagine, in guerra contro i romani dal 149 (terza guerra punica, 149-146 a. C.).
La campagna guidata da Q. Cecilio Metello pose fine all’avventura di Andrisco nel 148 a. C.
Lo Pseudo-Filippo veniva annientato presso Pidna; quindi la Macedonia fu ridotta a provincia (147/146?); le furono aggregati in un primo momento l’Illiria e l’Epiro, e più tardi, dopo la rivolta acaica (147-146), anche il resto della Grecia, fatta eccezione per le città liberae e immunes, a cui appartengono, nello spirito di una politica profilatasi con particolare evidenza dal 168 a. C., le poleis più rappresentative della Grecia classica.
I romani cominciano a mettere in mostra un atteggiamento quasi ‘archeologico’ verso tanta parte della Grecia classica: privata dell’indipendenza di fatto e, in molti casi, anche di diritto, la Grecia è ridotta, nell’ottica romana, in una condizione quasi museale, che ne mortifica la vitalità politica, pur se ne conserva o perfino consolida il ruolo culturale e l’immagine storica.
Pag. 818-19
Negli anni successivi Roma continuò nella pratica dello spremere contributi dalle città greche.
Qualche vantaggio derivò però, per le medesime, dalla lotta svolta finalmente con più decisione contro i pirati che si rifugiavano soprattutto nei porti di Cilicia e di Creta.
Nel 67, dopo le vittorie conseguite sui pirati, Pompeo riorganizzò la provincia di Cilicia (costituita già intorno all’anno 100 a. C.); nel 58 veniva annessa, e collegata con la provincia di Cilicia, l’isola di Cipro.
Ma, soprattutto, nel 63 a. C. veniva creata la provincia di Siria e circondata di stati clienti dei romani.
In Anatolia, oltre a principati minori (come il Ponto orientale o la Paflagonia), vanno ricordati la Cappadocia e la Commagene, due chiari esempi di ellenizzazione della dinastia e della forma del potere e dello Stato (pur con evidenti persistenze di un fondo non greco, nella popolazione, nell’organizzazione sociale, nei culti).
Intorno alla Siria si costituì dunque una fascia protettiva di Stati clienti.
Qui si poneva subito il problema del rapporto con lo Stato giudaico, che fu affrontato in maniera diversa da Pompeo, più inteso a espandere l’area dell’ellenizzazione, e da Cesare, che riconobbe invece vari privilegi ai giudei.
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Ancor più gravi le conseguenze della nuova guerra civile, scoppiata tra i cesaricidi, Bruto e Cassio, e i vendicatori di Cesare, anche perché i primi erano del tutto a corto di denaro, e dissanguarono le città o punirono per la loro resistenza Rodi e le città greche d’Asia.
L’Oriente greco divenne poi la base di Antonio, e tale rimase anche nel conflitto con Ottaviano, deciso virtualmente dalla battaglia di Azio (2 settembre 31 a. C.).
In questa Antonio ebbe dalla sua la flotta della regina egiziana Cleopatra, la figlia dell’Aulete, che aveva saputo già attirare a sé G. Giulio Cesare, con la sua intelligenza e una grazia non priva di difetti.
Cesare combatté, per conto della regina ed amante, una tipica guerra tolemaica di vecchio stampo, contro i ribelli di Alessandria (48/47 a. C.); Cleopatra gli diede un figlio, Cesarione.
Successivamente Cleopatra sostenne invece Bruto e Cassio; Antonio la convocò a Tarso, perché si discolpasse: dall’incontro nacque una nuova, fatale passione.
Cleopatra era pienamente compenetrata del suo ruolo di erede dei sovrani del passato; come il padre si era proclamato Nuovo Dioniso, essa fu la Nuova Iside.
Antonio intanto le andava ingrandendo il regno, con concessioni di territorio, dalla Celesiria a Cipro a parte della Cilicia; e nel 34 a. C. si arrivò a una solenne proclamazione dei ruoli di una intera ‘famiglia di re’, e alla relativa spartizione dei territori, fra Cleopatra e Cesarione, che divenivano ‘re dei re’ (ed esercitavano la sovranità sull’Egitto e su Cipro, considerati i nuclei del regno), e i figli di Cleopatra e Antonio (Alessandro Elio, che riceveva l’Iran; Tolomeo Filadelfo, che riceveva Siria e Cilicia; Cleopatra Selene, cui toccavano la Cirenaica e la Libia).
La centralità assegnata all’Egitto rappresentava un rovesciamento della politica pompeiana, che aveva fatto dirigere le vicende del regno del Nilo dal governatore romano di Siria: la svolta è certo connessa al ruolo e alla personalità di Cleopatra.
Fu facile ad Ottaviano presentarsi come il difensore della causa dell’Italia e dell’Occidente contro le pretese egemoniche dell’Egitto tolemaico, inopportunamente rese nuovamente attuali dalla politica del rivale Antonio.
Anche nella guerra di Azio i greci furono coinvolti e sottoposti a umilianti e faticose corvées in favore di Antonio.
La risposta di Ottaviano dopo la vittoria di Azio, e dopo la successiva campagna di Alessandria e i suicidi di Antonio e Cleopatra, fu misurata, ma risentì di quel cattivo inizio di rapporti.
Egli tenne distinta l’amministrazione di Siria e di Egitto: una soluzione diversa sia da quella di Pompeo sia, e ancora più chiaramente, da quella di Antonio.
Resta il dubbio se l’Egitto sia stato ridotto a provincia, o se sia prevalente il ruolo di dominio personale dell’imperatore; de facto il suo statuto è comunque di tipo provinciale.
Pag. 830-31
La tradizione antica delineò il carattere di Antonio come fondamentalmente bonario verso amici, collaboratori, sottoposti, soldati (salvo innegabili episodi di crudeltà nella sua vita, quale fu l’uccisione di Cicerone); ma lo dipinse anche come un carattere facilmente influenzabile dai personaggi femminili forti, a cui di volta in volta, nei vari matrimoni, egli si accompagnò, e addirittura dipendente da Cleopatra, della quale, dice Plutarco (Vita di Antonio 62), il triumviro era considerato una prosthéke (“appendice”).
La tradizione romana associa alla paura di una reviviscenza tolemaica, in quanto spalleggiata e sostenuta da una parte dei romani stessi, l’odio verso la regina, i suoi intrighi, le sue minacce, e però anche, a tratti (Orazio, Carmina 1,37), una cavalleresca ammirazione per il coraggio dimostrato da Cleopatra nel conflitto con Roma e, dopo, nella orgogliosa e irrevocabile scelta del suicidio, compiuta per sottrarsi all’umiliante esibizione sul catto trionfale di Ottaviano.
Con l’ammirazione per l’orgoglio della regina (e discendente di re) convivono dunque il timore e l’odio verso il fatale monstrum, come, con espressione ambivalente, vien definita Cleopatra, e fa contrasto l’”assordante silenzio” (in Orazio) sul rinnegato Antonio.
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Le conquista di Traiano in Oriente (Dacia e Partia) e l’attenzione ricolta a quell’imperatore alle condizioni finanziarie delle province orientali (come la Bitinia affidata a Plinio), unitamente alla svolta in politica estera rappresentata dalla politica di contenimento dell’espansione, e di consolidamento della pace, realizzata da Adriano (117-138), furono le premesse per quella poderosa dell’ellenismo, che caratterizza il governo di questo imperatore e degli Antonini suoi successori (Antonino Pio, 138-161; Marco Aurelio, 161-180).
E’ intanto di grande interesse il fatto che con Adriano e gli Antonini rinascita dell’ellenismo significhi rinascita dei centri, tradizioni, istituzioni, valori della Grecia propria.
Adriano costruisce, accanto alla vecchia Atene, ma distinta da essa, uan seconda Atene.
Egli non vuole essere il fondatore di un’altra città, ma di una nuova città, accanto all’antica.
Nulla è così significativo di questo suo atteggiamento come la duplice iscrizione della porta di Adriano: da una parte è la città di Teseo, dall’altra la città di Adriano, fisicamente distinte e affiancate.
L’imperatore filelleno porta al massimo livello quell’atteggiamento ‘archeologico’ verso la Grecia che anche prima era affiorato nella politica romana, ma che ancora durante il primo impero aveva lasciato spazio a forti interferenze nel tessuto monumentale e urbano dei vecchi centri greci.
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In Egitto, come altrove nel mondo ellenico, diventa difficilissimo indicare il momento finale della storia greca antica, per l’impressionante divario prodotto dalla dominazione romana tra la valenza politica dei greci, immediatamente rimossa, e il loro prestigio culturale.
Si può certo ancorare la storia (e la periodizzazione della storia) della grecità al fenomeno organizzativo più perspicuo, cioè alla storia delle città.
Ma per questo aspetto i rischi dell’indeterminatezza della fase conclusiva della storia greca sono ancora maggiori: ché la città, come forma di comunità e di amministrazione, appare in definitiva indistruttibile (finché questa o quella determinata città non sia programmaticamente distrutta da un potere politico-militare) e perciò si trasmette da un’epoca, e da una forma di organizzazione sociale, all’altra.
Tra un limite troppo alto per definire il punto d’arrivo della storia greca (quale la fine della libertà e della funzione politica dei greci) e un limite troppo basso, o addirittura strutturalmente non individuabile (come quello della fine della città come forme di vita e amministrazione comunitaria), converrà dunque adottare altri criteri (pur nella consapevolezza di dover così rinunciare a definizioni cronologiche troppo rigorose), come quello dell’esaurirsi, o del netto attenuarsi della funzione e dell’irradiazione culturale della grecità, conseguenze anch’esse, pur se ritardate di secoli, dell’obliterazione della funzione politica delle città.
Ma poiché le città come entità amministrative sussistono, è proprio in esse che si incentra e trova il suo principale supporto la cultura greca.
Sotto Roma la storia greca continua dunque essenzialmente come storia della cultura greca, nel senso più lato della parola.
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Quanto l’ellenismo, per stimolo della stessa Roma, si afferma in queste regioni nei secoli avanzati dell’impero, tanto esse restituiscono in culti locali, che hanno come vettori i militari, i commercianti, gli schiavi, e trovano sempre maggiore accoglienza in Occidente.
Tutto questo mentre si consolida la diffusione del cristianesimo, che si accinge a cogliere, con l’editto di Costantino del 313 (editto di Milano), al sua definitiva vittoria, nel riconoscimento – che allora ottiene – di religione ufficiale dell’impero.
Con ciò esso si individua come altro decisivo fattore, non della scomparsa della cultura ellenica, ma certo della radicale trasformazione della sua funzione storica.
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Dunque, neanche l’epoca di Diocleziano o quella dell’imperatore cristiano Costantino, possono considerarsi come il momento della morte della polis.
Una certa autonomia, nonostante l’interferenza della burocrazia imperiale (che però aveva avuto precedenti già nell’epoca ellenistica, in analoghi comportamenti della burocrazia regia), la conservano Antiochia e la stessa Alessandria.
L’estinguersi della cultura ellenica di tradizione pagana è segnata dallo scomparire, un po’ alla volta, di quelle tradizioni e istituzioni culturali che, quando accompagnate a un minimo di entità e autonomia amministrativa di una città, ne facevano, tutto sommato, una polis viva.
Non sbaglia perciò chi considera come fase conclusiva della storia greca l’epoca di Giustiniano, che vietò la retribuzione e l’esercizio dell’insegnamento pubblico dei maestri pagani ad Atene ne l529, quasi all’inizio del suo lungo regno (527-565); così come il predecessore e zio Giustino 1. aveva , nel 520, posto fine alle celebrazioni delle Olimpie di Antiochia, che continuavano probabilmente in qualche modo la tradizione di quelle feste e gare, che ad Olimpia di Elide si erano celebrate per l’ultima volta nel 393.
Tra queste due date, così significative per la storia della cultura greca (393 e 529), si colloca dunque l’esito di quei processi, graduali ma ormai tutti di un solo senso e segno, che si possono ragionevolmente identificare con la fase conclusiva della stori della grecità antica.
Pag. 849-50
Bibliografia
La teoria della “costituzione mista” nell’età imperiale romana / C. Carsana. – 1990
Manipolazione della storia in età ellenistica: i seleucidi e Roma / A. Mastrocinque. – 1983
Tra Grecia e Roma: temi antichi e metodologie moderne. – 1980
Cleopatra, regina d’Egitto / a cura di S. Walker, P. Higgs. – 2000
Storia economica di Roma antica / F. De Martino. – 1980
L’Impero romano e le strutture economiche e sociali delle province / a cura di M. H. Crawford. – 1986. – (Biblioteca di Atheneum ; 4)
La schiavitù nell’Italia imperiale, 1.-3. secolo / E. M. Staerman, M. K. Trofimova. – 1975
Il tramonto della schiavitù nel mondo antico / E. Ciccotti. – Laterza, 1977
Cronologia
6.-4. millennio a. C. ca. Neolitico in Grecia
2800-1100 ca. età del Bronzo in Grecia
2000-1100 ca. passaggio dall’antico al medio elladico: arrivo dei primi indoeuropei in Grecia
1900 ca. inizio della civiltà palaziale a Creta: i cd. primi palazzi
1700 ca. inizio dei cd. secondi palazzi
1600/1580-1500 ca. Tardo elladico (Miceneo 1.)
1500-1425 ca. Tardo elladico (Miceneo 2.)
1450-1370 ca. regno miceneo di Cnosso
1425-1100 ca. Tardo elladico (Miceneo 3.)
1200 ca. tavolette di Pilo (Miceneo 3. B)
1194-1184 Guerra di Troia (nella tradizione cronografica ellenistica)
1104 ‘Ritorno degli Eraclidi’ o migrazione dorica (nella tradizione cronografica ellenistica)
12. sec. ca. inizio dell’età del ferro in Grecia
Fine 11.-seconda metà 8. Sec. alto arcaismo (secondo la definizione proposta in questo volume)
1044 cronologia tradizionale per la fondazione di Mileto
Fine 11.-10. sec. ca. Colonizzazione greca dell’Asia minore occidentale e isole contigue
9.-8. sec. raggiungimento del definitivo assetto costituzionale a Sparta
8. sec. ca. definitiva costituzione dell’Iliade
Fine 8. (o 7.) sec. definitiva costituzione dell’Odisseo
Seconda metà 8.-inizio 6. Sec. medio arcaismo (secondo la definizione qui proposta)
776 inizio degli agoni panellenici ad Olimpia
770 ca. colonizzazione di Pitecussa (Ischia)
754/753 inizio della lista spartana degli efori
753/683 cronologia tradizionale per gli arconti decennali ad Atene
Metà 8. Sec. ca. (?) Guerra levantina
757-738 (o 743-724) cronologie tradizionali della prima guerra messenica
747-657 fase della ‘rotazione’ pritanica per la dinastia dei Bacchiadi a Corinto
734 ca. Fondazione di Nasso, prima colonia greca di Sicilia
733 ca. Fondazione di Siracusa
688 ca. Fondazione di Gela
684-668 cronologia pausaniana della seconda guerra messenica
683/682 inizio dell’arcontato annuale ad Atene
669/668 vittoria degli argivi sugli spartano a Isie
657-583 tirannide dei Cipselidi a Corinto secondo la cronologia tradizionale
650-630 (?) ca. Fidone tiranno di Argo
636 (632 ca.) tentativo di Cilone di instaurare una tirannide ad Atene
630 ca. Fondazione terea di Cirene
624-620 cronologia tradizionale per la legislazione di Draconte
610/600-580/570 ca. tirannide di Clistene a Sicione
600 ca. Coleo di Samo a Tartesso; fondazione focea di Marsiglia
Primo decennio del 6. sec. Prima guerra sacra
594/593 (o 592/591) arcontato di Solone ad Atene
582 riorganizzazione degli agoni pitici
582-580 arcontato di Damasia ad Atene
580 ca. Fondazione di Agrigento; spedizione coloniale di Pentarlo in Sicilia: Cnidii a Lipari
575 ca. conquista di Siri da parte delle colonie achee
561/560-556/555 primo periodo della tirannide di Pisistrato ad Atene
559-529 (o 530) Ciro 2. il grande, re di Persia
556/555 eforato di Chilone a Sparta
560-540 ca. vittoria dei locresi sui crotoniati nella battaglia della Sagra
549 (o 544) (?) inizio del secondo periodo della tirannide di Pisistrato
548 il santuario di Delfi è devastato da un incendio
546 conquista persiana della Lidia
539 conquista persiana di Babilonia
537 (o prima, tra 546 e 540)-522 ca. tirannide di Policrate di Samo
534/533-528/527 (?) terzo periodo della tirannide di Pisistrato
530 ca. arrivo di Pitagora in Italia
529 (o 530)-522 regno di Cambise in Persia
528/527-511/510 tirannide dei Pisistratidi
522-486 regno di Dario in Persia
514/513 complotto dei tirannicidi Armodio e Aristogitone ad Atene
513 ca. spedizione scitica di Dario
510 cacciata di Ippia da Atene: conquista e distruzione di Sibari ad opera di Crotone; Dorieo in Sicilia
508/507 riforme democratiche di Clistene ad Atene
506 vittoria di Atene su beoti e calcidesi
399-494 rivolta ionica
498 gli ioni conquistano Sardi; Caria, Licia e Cipro si uniscono ai rivoltosi; Atene ed Eretria si ritirano
498-491 Ippocrate tiranno di Gela
497 fallimento della rivolta di Cipro
494 battaglia di Lade: conquista persiana di Mileto
494 (?) sconfitta degli argivi a Sepeia ad opera degli spartani
494-476 tirannide di Anassila a Reggio
492 spedizione di Mardonio in Tracia
491-485/484 tirannide di Gelone a Gela
490 spedizione di Dati e Artaferne contro Atene ed Eretria; battaglia di Maratona
489 spedizione di Milziade nelle Cicladi (Paro)
488/487 nuovo conflitto tra Atene ed Egina
488/487 (o 487/486) prima applicazione dell’ostracismo ad Atene
488-472 tirannide di Terone ad Agrigento
487/486 (o 486/485) ridorma del sistema di elezione degli arconti ad Atene
486-465 regno di Serse in Persia
485/484-478 tirannide di Gelone a Siracusa
483/482 (o 482/481) costruzione della prima notevole flotta militare ateniese su proposta di Temistocle; ostracismo di Aristide
480 spedizione di Serse e Mardonio contro la Grecia
(giugno) l’esercito persiano varca l’Ellesponto
(fine luglio) battaglia presso le Termopile e l’Ertemisio
(settembre) battaglia di Salamina tra greci e persiani
battaglia di Imera (in Sicilia) tra greci e cartaginesi
479 (agosto) battaglie di Platea e di Micale; ribellione degli ioni ai persiani e persecuzione del conflitto nell’area degli Stretti
478 (primavera) conquista greca di Sesto (episodio conclusivo delle Storie di Erodoto)
478-467/466 tirannide di Ierone a Siracusa
478/477 fondazione della Lega navale delio-attica
476 eliminazione della presenza persiana a Eione sullo Strimone
475 ca. Cimone conquista Sciro
474 vittoria di Ierone, presso Cuma, sulla flotta etrusca
473 dura sconfitta di Taranto e Reggio a opera degli iapigi
472 Persiani di Eschilo (Pericle p corego)
471 (?) ostracismo di Temistocle; Atene riduce in schiavitù l’alleata Nasso
471/469 fine del reggente spartano Pausania
471/469 (?) battaglia di Eurimedonte
465 cacciata di Trasibulo da Siracusa e fine della tirannide dei Dinomenidi
465-463 ribellione di Taso, domata da Cimone
464-455 (o 454) terza guerra messenica (detta anche “del terremoto).
463(?) Supplici di Eschilo
461 ostracismo di Cimone. Riforme costituzionali (e uccisione) di Efialte
460/459 spedizione ateniese a Cipro e in Egitto
459 conflitti con Corinto e con Egina (che capitolerà nel 456)
458/457 (o 454/453) alleanza tra Atene e Segesta
457 battaglie di Tanagra e di Enofita
455 spedizione navale dell’ateniese Tolmide
454 fine della megale strateia ateniese in Egitto; trasferimento da Delo ad Atene del tesoro della Lega navale ateniese
453 Ducezio crea una confederazione di tutte le città sicule, eccetto Ebla
451/450 (?) tregua di cinque anni tra Sparta e Atene; pace trentennale tra Argo e Sparta
450 epilogo della rivolta di Ducezio, che è esiliato a Corinto
450/449 spedizione ateniese contro Cipro (morte di Cimone)
449 (?) pace di Callia
447 sconfitta ateniese a Coronea
446/445 pace trentennale tra Sparta e Atene
444/443 fondazione della colonia panellenica di Turi
443 ostracismo di Tucidide di Melesia
441/439 ribellioni di Samo, represse
435 vittoria di Corcira su Corinto presso il promontorio di Leicimma
433 epimachia tra Atene e Corcira e scontro presso le isole Sibota; ingiunzioni di Atene a Potidea
433-432 ca. (tentativi di) messa sotto accusa di persone dell’entourage pericleo (Fidia, Anassagora, Aspasia) e di Pericle stesso
432 ribellione di Potidea e intervento ateniese; sinecismo di Olinto
432/431 decreto ateniese contro Megara
431-404 guerra del Peloponneso
431-421 fase della guerra archidamica
431 (inizio della primavera) fallimento della sortita tebana contro Platea
(maggio-giugno) l’esercito peloponnesiaco guidato da Archidamo invade l’Attica per un mese; cacciata degli Egineti, sostituiti da cleruchi ateniesi
430 nuova invasione dell’Attica; inizio dell’epidemia di peste ad Atene; destituzione di Pericle
430/429 (inverno) capitolazione di Potidea
429 rielezione (e morte) di Pericle
428 terza invasione dell’Attica; rivolta di Mitilene
427 (primavera) capitolazione di Mitilene
(estate) capitolazione di Platea; prima spedizione ateniese in Sicilia guidata da Lachete e Careade
427-425 aspre lotte civili a Corcira
425 Cleone ridefinisce l’ammontare del tributo degli alleati della Lega navale
424 Atene rinnova con Dario 2. il trattato di Callia (trattato di Epilico); Atene occupa Citera e Nisea; spedizione di Brasida in Tracia; conquista di Anfipoli; disfatta degli ateniesi presso il Delio; congresso di Gela e rientro della flotta ateniese dalla Sicilia
422 morte di Cleone e Brasida sotto Anfipoli
421 accordo di tregua (pace ‘di Nicia’) e symmachia di 50 anni tra Atene e Sparta
420 Alcibiade è eletto stratego; alleanza difensiva di Atene con Argo, Mantinea e Elide
418 (agosto) battaglia di Mantinea: Sparta ristabilisce la sua egemonia sul Peloponneso
417 ostracismo di Iperbolo
Estate 416-inverno 416-415 spedizione contro Melo
415-413grande spedizione ateniese in Sicilia
415 (estate) partenza della flotta ateniese guidata da Nicia, Lamaco e Alcibiade
414 assedio di Siracusa; arrivo in Sicilia dello spartano Gilippo
414/413-399 Archelao re di Macedonia, successore di Perdicca 2.
413 (primavera) occupazione di Decelea: inizio della guerra deceleica
(fine luglio-settembre) disfatta ateniese in Sicilia
412 rivolta degli alleati di Atene; trattato tra Sparta e Persia
411 (maggio-giugno) colpo di Stato oligarchico ad Atene: governo dei Quattrocento
(agosto) costituzione dei Cinquemila (Teramene)
Scontri nell’area dell’Ellesponto: vittorie ateniesi a Cinossema (ultimo evento narrato nelle Storie di Tucidide) e Abido
410 (primavera) vittoria navale ateniese a Cizico
409 distruzione di Selinunte e Imera ad opera di Cartagine
408 (estate) trionfale rientro di Alcibiade ad Atene
407 (primavera) vittoria navale di Lisandro presso Notion; Alcibiade si ritira nell’Ellesponto
406 conquista cartaginese di Agrigento; Dioniso 1. è strategos autokrator
(tarda estate) battaglia navale e processo agli strateghi
405 sconfitta degli ateniesi a Egospotami: conquista di Gela e Camarina da parte cartaginese
(fine) prima pace tra Dioniso e i cartaginesi
404 (primavera) resa di Atene
(giugno-novembre/dicembre?) regime dei Trenta Tiranni ad Atene
(novembre-dicembre?) scontri di File e del Pireo tra gli esuli ateniesi guidati da Trasibulo e le truppe dei Trenta: secessione dall’impero persiano (fino al 343)
403 (settembre) restaurazione della democrazia, e amnistia, ad Atene; gli oligarchi si ritirano ad Eleusi
401/400 fine dello Stato oligarchico ad Eleusi; spedizione dei Diecimila
400-394 campagne di Sparta contro la Persia in Asia minore: Tibrone (400), Dercillida (399-397 ca.) e Agesilao (396-394)
tra il 400 e il 398 Agesilao diviene re di Sparta
399 morte di Socrate
(ca.) congiura di Cinadone a Sparta
397 Dionisio 1. conquista Mozia
396 Sbarco di Imilcone a Palermo; assedio di Siracusa; ritirata di Imilcone
395 Timocrate, dispensatore di oro persiano in Grecia; scaramucce tra focesi e locresi aprono la guerra corinzia
(autunno) morte di Lisandro ad Aliarto
394 (estate) vittorie spartane a Nemea e (Agesilao) Coronea; vittoria della flotta persiana guidata da Conone a Cnido
393-370/369 Aminta 3. re di Macedonia
393 rientro di Conone ad Atene
(?) fondazione della lega italiota
392 trattative di pace con la Persia a Sardi
(marzo) annessione di Corinto ad Argo (fino al 386)
392 pace fra Dionisio 1. e Cartagine
392/391 (inverno( (?) trattative tra greci e Sparta
390 Ificrate annienta presso Corinto una mora spartana
388 vittoria di Dionisio 1. sugli italioti presso il fiume Elleporo
386 (primavera) pace di Ant(i)alcida: capitolazione di Reggio assediata da Dionisio 1.
385 Dioikismos di Mantinea
384 Dionisio 1. saccheggia il santuario di Leucotea a Pyrgi
382 occupazione della rocca Cadmea (Tebe) da parte dello spartano Ferbida
380 Panegirico di Isocrate
379-374 ca. terza guerra cartaginese in Sicilia
379 capitolazione di Olinto e scioglimento della Lega calcidica
379/378 (inverno) liberazione di Tebe
377 (febbraio-marzo) fondazione della seconda Lega navale attica.
376 l’ateniese Cabria sconfigge la flotta peloponnesiaca presso Nasso
375/374 (autunno) pace tra Sparta e Atene
374/373 (o 373/372) Tebe distrugge Platea
371 (estate9 congresso di pace a Sparta; battaglia di Leuttra; conferenza di Stati greci ad Atene
370 morte di Giasone di Fere
(autunno) costituzione della Lega arcadica; prima discesa di Epaminonda nel Peloponneso
369 alleanza tra Sparta ed Atene: seconda discesa di Epaminonda
367 la “battaglia senza lacrime” tra arcadi e spartani; terza discesa di Epaminonda; ambascerie greche a Susa (accordo tra Tebe e il Gran Re); quarta guerra cartaginese in Sicilia; morte di Dionisio 1. (inverno 367/366)
367/366 secondo viaggio di Platone in Sicilia
365 conquista ateniese di Samo (Timoteo)
364 conquiste id Timoteo sulla costa macedone e in Calcidica
362 (estate) quarta discesa di Epaminonda nel Peloponneso; battaglia di Mantinea e morte di Epaminonda
361 terzo viaggio di Platone in Sicilia
359 Perdicca 3. di Macedonia muore durante una spedizione contro gli illiri; gli succede, dapprima solo come reggente, il fratello Filippo 2.
358 campagna di Filippo 2. contro gli illiri
357-355 guerra sociale della seconda Lega navale attica
357 Filippo 2. conquista Anfipoli; cacciata di Dionisio 2. da Siracusa e sua fuga a Locri
356 Filippo 2. conquista Pidna e Potidea
356-346 terza guerra sacra
354 Filippo 2. conquista Metone; battaglia di Neon
353 Onomarco sconfigge Filippo e i tessali
352 vittoria di Filippo sui focesi nella battaglia dei Campi di Croco
351 campagna di Filippo in Tracia
349-348 guerra di Olinto
347 morte di Platone
347/346 rientro di Dionisio 2. a Siracusa
346 pace di Filocrate e conclusione della terza guerra sacra; il Filippo di Isocrate
344 Filippo riorganizza la Tessaglia in quattro parti; Timoleonte inviato da Corinto in Sicilia
341 campagne di Filippo contro Perinto e Bisanzio
(?) vittoria di Timoleonte sui cartaginesi presso il fiume Crimiso
340 (autunno) Atene dichiara guerra a Filippo
339/338 guerra anfizionica contro i locresi di Anfissa (quarta guerra sacra)
338 il re spartano Archidamo 3. muore in Italia presso Manduria
(2 agosto o 1 settembre) battaglia di Cheronea
(autunno) campagna di Filippo nel Peloponneso
338/337 congresso dei ‘greci a sud delle termopile’ (koinè eiréne e autonomia di tutti gli Stati greci, creazione di un consiglio comune con sede a Corinto); Filippo è eletto dalla symmachia greca, riunita a Corinto, generale con pieni poteri per la guerra contro la Persia
338-326 Licurgo ‘ministro delle finanze’ ad Atene
337 Timoleonte depone la carica di strategos autokrator; poco dopo muore
336 (primavera) testa di ponte guidata da Parmenione e Attalo in Asia minore
(estate) assassinio di Filippo a Ege; Alessandro rinnova a Corinto l’alleanza stipulata tra i greci e Filippo
335 (primavera) campagna di Alessandro in area tracica, danubiana, peonica e illirica; moti antimacedoni in Grecia
(autunno) distruzione di Tebe
334 (primavera) diabasis di Alessandro in Asia minore
(maggio/giugno) vittoria di Alessandro presso il fiume Granico
334-331/330 Alessandro il Molosso in Italia
333 (autunno) vittoria di Alessandro Magno a Isso
332 (agosto) Alessandro in Fenicia: assedio e conquista di Tiro
332/331 (inverno) campagna di Alessandro in Egitto
331 (1 ottobre) battaglia di Gaugamela
(autunno) Agide 3., re di Sparta, è sconfitto da Antipatro presso Megalopoli
ca. morte di Alessandro il Molosso a Pandosia
331/330 (inverno) Alessandro Magno sverna in Perside
330 (luglio) Dario 2. assassinato da Besso, satrapo di Battriana; Alessandro fa uccidere Filota e Parmenione
330/329 Alessandro sverna ai piedi del Paropamiso
329 cattura e uccisione di Besso
328-primavera 327 Alessandro fronteggia la rivolta degli abitanti della valle dell’Oxos
estate 327-estate 325 campagna di Alessandro in India
324 fuga di Arpalo ad Atene; Alessandro a Susa: nozze in massa macedonico-persiane; ammutinamento dei veterani a Opi; decreto di Nicamore (relativo al rientro in patria degli esuli politici greci)
323 (13 giugno) morte di Alessandro
323-322 guerra lamiaca
322 (estate) ateniesi sconfitti ad Amorgo e Crannone; morte di Iperide e Demostene; morte di Aristotele (384-322).
321 (?) morte di Perdicca e di Cratero; convegno di Triparadiso (Antipatro ‘epimeletés dei re’, Antigono ‘stratego dell’Asia’)
321-316 secondo periodo delle lotte dei Diadochi
319 (estate) morte di Antipatro: Poliperconte ‘reggente del regno’ e ‘stratego d’Europa’
318 decreto di Poliperconte sulla libertà dei greci; parentesi democratica ad Atene (morte di Focione).
317 governo di Demetrio Falereo (fino al 307) ad Atene; uccisione di Filippo 3. e di Euridice
316 morte di Olimpiade; morte di Eumene; Agatocle è strategos autokrator a Siracusa
315 a Tiro Antigono è proclamato ‘reggente del regno’; contro proclama di Tolomeo
315-311 terza guerra dei Diadochi
313 Agatocle sottomette Messina
312 (primavera) Demetrio, figlio di Antigono, è sconfitto a Gaza
311 accordo di pace tra Antigono, Cassandro e Lisimaco
310/309 Alessandro 4. e Rossane fatti assassinare da Cassandro
310 sbarco di Agatocle in Africa
309 alleanza tra Agatocle e Ofella
309/308 Seleuco assume il titolo di ‘re di Babilonia’
307 Demetrio Poliorcete ad Atene; fine del governo del Falereo
307-304 guerra dei ‘quattro anni’ tra Cassandro e Demetrio
306 (primavera) offensiva di Demetrio Poliorcete contro Cipro e sua vittoria a Salamina; Antigono e Demetrio assumono il titolo di basileis; pace tra Cartagine e Agatocle
305/304 anche Tolomeo, Cassandro, Lisimaco e Seleuco assumono il titolo di basileis; Demetrio Poliorcete assedia senza frutto Rodi
303/302 (?) ca. Trattato di Capo Lacinio tra Roma e Taranto
302 (primavera) alle feste Istmie Demetrio ricostituisce la Lega ellenica
301 (estate) battaglia di Ipso (morte di Antigono)
298 ca. Agatocle s’impadronisce di Corcira
298/297 morte di Cassandro
295 Lanassa, figlia di Agatocle, sposa Pirro, re d’Epiro
294 Demetrio arriva a controllare quasi l’intera Grecia (in particolare Atene e, a seguito di un accordo con Lisimaco, Macedonia e Tessaglia).
291 domata una seconda ribellione in Beozia (la prima nel 292): Demetrio a Tebe insedia Ieronimo di Cardia, ad Atene richiama gli esuli oligarchi ed esilia Democrate
289 (autunno) pace tra Demetrio e Pirro; morte di Agatocle a Siracusa; i mamertini si impadroniscono proditoriamente di Messina
288 Pirro e Lisimaco si dividono la Macedonia
(estate) (o 287) Atene si ribella a Demetrio sotto la guida di Olimpiodoro
287 (estate?) fallito tentativo del Poliorcete di rientrare ad Atene; ultima impresa di Demetrio in Asia minore
286/285 (inverno) resa di Demetrio a Seleuco 1.
285 Tolomeo 1. associa al trono il figlio Tolomeo (poi Filadelfo)
284 Lisimaco entra in possesso dell’intera Macedonia e rafforza la sua posizione in Grecia
283 morte di Demetrio Poliorcete e di Tolomeo 1.
282 Roma, su richiesta di Turii, interviene contro i lucani; reazione di Taranto
281 (estate) battaglia di Curupedio: morte di Lisimaco
280 morte di Seleuco 1. per mano di Tolomeo Cerauno; Tolomeo sconfigge Antigono Gonata (rivolte in Grecia contro Antigono; Atene recupera il Pireo); diabasis dell’Adriatico da parte di Pirro; vittoria sui romani a Eraclea
279 invasione dei celti; Tolomeo Cerauno muore combattendoli; vittoria di Pirro ad Ascoli Satriano
278 i celti in Grecia centrale; istituzione dei Soteria e inizio della supremazia degli etoli a Delfi
autunno 278-primavera 275 Pirro in Sicilia
277 Antigono Gonata sconfigger le retroguardie dei celti a Lisimachia
277 (o 276) Antigono Gonata sul trono di Macedonia
275 i romani sconfiggono a Maleuentum Pirro, il quale rientra in Grecia; Ierone 2. stratego con pieni poteri a Siracusa
275/274 ca. battaglia degli elefanti; Antioco 1. sconfigge nella Frigia interna (Galazia)
274-270 prima guerra siriaca (Tolomeo 1. contro Antioco 1.)
272 morte di Pirro
269 (? O 265/4) successo di Ierone 2. sui mamertini al fiume Longano; Ierone assume il titolo di basileus (muore nel 215)
267-262 (?) guerra cremonidea (Tolomeo 2., Atene e Areo, re di Sparta, contro Antigono Gonata)
264-241 prima guerra romano-punica
260-253 seconda guerra siriaca (Tolomeo 2. contro Antioco 2. e Antigono Gonata)
255 (?) ca. vittoria navale macedone sui Tolomei presso Cos
255 pace separata tra Egitto e Macedonia
253 pace tra Egitto e Siria (Antioco 2. sposa Berenice, figlia di Tolomeo 2.)
253 (o 252) ribellione di Alessandro, figlio di Cratero, ad Antigono Gonata, in nome del quale governava la Grecia
251 Arato libera Sicione
Prima del 246 (?) si avvia il distacco della Partia e della Battriana del regno seleucidico
246-241 terza guerra siriaca o ‘guerra di Laodice’ (Tolomeo 3. contro Seleuco 2.)
245 (?) vittoria navale macedone sui Tolomei presso Andro
243 Arato libera l’Acrocorinto
243-241 Agide 4., re di Sparta, avvia un processo di riforma
240-237 ‘guerra dei fratelli’ tra Seleuco 2. e Antioco Ierace
239 morte di Antigono Gonata
239-229 Demetrio 2. re di Macedonia
229 restaurazione democratica ad Atene promossa da Arato e sostenuta dai Tolomei
229-228 prima guerra romano illirica
227 la Sicilia è provincia romana; riforme di Cleomene 3. a Sparta
223 sale al trono Antioco 3. il Grande (fino al 187)
222 (o 223) battaglia di Sellasia
222-221 Antigono Dosone muore combattendo contro gli illiri; gli succede Filippo 5. (fino al 179)
222/220 Antioco 3. reprime la rivolta di Molone e di Alessandro nelle “satrapie superiori”
220-217 guerra ‘sociale’ (tra Lega etolica e Lega achea)
220-213 Antioco 3. Reprime la rivolta di Acheo in Asia minore
219 seconda guerra romano-illirica; morte di Cleomene 3. ad Alessandria
219-217 quarta guerra siriaca (Antioco 3. Contro Tolomeo 4.)
218-201 seconda guerra romano-punica
217 vittoria dei Tolomei sui Seleucidici presso Rafia
215 Filippo 5. si allea ad Annibale in guerra con Roma
215-205 prima guerra romano-macedonica
212-205/204 anabasi di Antioco 3.
207-192 Nabide governa Sparta
206 pace separata tra Filippo e gli Etoli
205 pace di Fenice tra Filippo 5. e i romani e i rispettivi alleati
203/202 patto segreto tra Antioco 3. e Filippo 5.
202 Filippo 5. Nell’Egeo settentrionale; conquista di Lisimachia
202-200 quinta guerra siriaca (Antioco 3. contro Tolomeo 5.)
201 vittoria navale di una coalizione guidata da Attalo 1. di Pergamo contro Filippo 5. presso Chio
200 vittoria dei seleucidi sui Tolomei a Paneion
200-196 seconda guerra romano-macedonica
197 (giugno) battaglia di Cinoscefale
196 (aprile) alle feste Istmie T. Quinzio Flaminino proclama l’autonomia dei greci fino ad allora soggetti alla Macedonia; Antioco 2. Ricostruisce Lisimachia
192-188 guerra romano-siriaca
192/191 spedizione in Grecia di Antioco 3. (sconfitto alle Termopile nei primi mesi del 191)
190/189 (inverno) vittoria romana su Antioco 3. A Magnesia del Sipilo
189 M. Fulvio Nobiliore conquista Ambracia (pace tra Roma e gli etoli nell’inverno 189/188
188 pace di Apamea
179 Perseo re di Macedonia (fino al 168): suo matrimonio con Laodice, figlia di Seleuco 4.
171-168 terza guerra romano-macedonica
170-168 sesta guerra siriaca (Antioco 4. contro Tolomeo 6.)
168 battaglia di Pidna; la Macedonia è divisa in quattro repubbliche; ultimatum di Q. Popil(l)io Lenate ad Antioco 4.
167-151 ca. un migliaio di uomini politici achei (tra i quali Polibio) ostaggi a Roma
167 (fine) Antioco 4. Proibisce il culto di Jahvè e introduce nel tempio di Gerusalemme quello di Zeus Olimpio
166-164 rivolta giudaica guidata da Giuda Maccabeo
166 creazione di un porto franco a Delo
165 (o 162?) morte di Perseo, prigioniero ad Alba Fucens
164-163 Antioco 4. muore a Gabe; Tolomeo 6. cacciato dall’Egitto
163 spartizione del regno tolemaico: tra Tolomeo 6., Cleopatra 2. e Tolomeo 8.
155 Tolomeo 8. rende pubblico un testamento a favore di Roma (redatto nel 162)
149-148 rivolta di Andrisco: quarta guerra guerra romano-macedonica
149-146 terza guerra romano-punica
147 ca. la Macedonia ridotta a provincia romana (nel 146, anche il resto della Grecia, eccetto le città liberae e immunes)
147/146 guerra acaica: distruzione di Corinto (di poco successiva a quella di Cartagine) nel 146
145 Tolomeo 6. muore combattendo contro Alessandro Balas
146-116 Tolomeo 8. Evergete 2. re d’Egitto (deve abbandonare Alessandria dal 131 al 127)
141 Mitridate 1., re dei Parti, annette la Media, conquista Seleucia del Tigri e avanza fino in Mesopotamia
134 Antioco 7. Sidete riconquista Gerusalemme
133 Attalo 3., re di Pergamo (dal 138), lascia in eredità ai romani; rivolta di Aristonico (sedata nel 129)
130 ca. Eutidemo di Battriana soggiace all’attacco degli sciti
129 Antioco 7. muore in Media combattendo contro i parti; creazione della provincia d’Asia
121-63 Mitridate 6. Eupatore re del Ponto
96 Tolomeo Apione lascia la Cirenaica in eredità ai romani (che però la annettono solo nel 74)
89-85 prima guerra mitridatica
88 eccidio di italici a Efeso e in altre città dell’Asia minore
86 Silla sconfigge a Cheronea e Orcomeno Archelao, generale di Mitridate: saccheggio di Atene, Olimpia e Delfi, esazioni forzose a Epidauro
85 pace di Dardano tra Silla e Mitridate
83 Tigrane 1. Di Armenia governa sulla Siria (fino al 69)
80 Tolomeo 12. Aulete re d’Egitto (fino al 51)
67 Pompeo riorganizza la provincia di Cilicia (costituita già nel 100 ca.)
63 creazione della provincia di Siria ad opera di Pompeo
58 annessione di Cipro alla provincia di Cilicia
48 battaglia di Farsalo: Pompeo si rifugia in Egitto, dove è ucciso da Tolomeo 13.
48/47 guerra ‘alessandrina’ di Cesare
44 Corinto risorge come colonia romana (Laus Iulia Corinthiensis)
34 Antonio ad Alessandria: spartizione dei territori tra i membri della famiglia reale
31 (1. settembre?) battaglia di Azio
30 morte di Antonio e Cleopatra
27 creazione della provincia di Acaia
67 d. C. Nerone abolisce la provincia di Acaia (da qui le date sono d. C.)
74 Vespasiano bandisce i filosofi da Roma e dall’Italia
117-138 Adriano (suoi soggiorni ad Atene negli anni 124/125, 128/129 e 131/132)
138-161 Antonino Pio
143 elogio A Roma di Elio Aristide
161-180 Marco Aurelio
166 ca. grande epidemia di peste
170 ca. invasione dei Costoboci in Grecia
212 editto di Caracalla (constitutio Antoniniana)
235-238 Massimino Trace
253 incursioni barbariche (goti, burgundi e altri) sulle coste dell’Asia minore
256-262 invasioni barbariche per via di terra in Asia minore
260-268 filellenismo di Gallieno
267 invasione degli eruli in Grecia
313 editto di Costantino
323 attestazione di efebi a Ossirinco
391 distruzione del Serapeo di Alessandria
393 ultime olimpiadi
519 chiusura delle scuole filosofiche di Atene, per volontà di Giustiniano
I greci: storia, cultura, società a cura di Salvatore Settis
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Introduzione
La storia greca come storia universale
“La battaglia di Maratona, anche come evento della storia inglese, è più importante della battaglia di Hastings. Se in quel remoto giorno il risultato dello scontro fosse stato diverso (se i greci non avessero vinto), britanni e sassoni forse vagherebbero ancora per le selve”.
Così John Stuart Mill nel 1859; e sarebbe fin troppo facile moltiplicare citazioni come queste.
Esse non solo implicano che le radici comuni della civiltà occidentale risiedono nella grecità, ma anche danno per dimostrato il suo valore preternazionale e fondativo, che scavalchi a suo tempo, con bella spavalderia, i confini dei popoli e le barriere dei tempi: insomma, la storia greca come storia universale, o meglio come un suo snodo essenziale, necessario a intendere il mondo moderno, a partire dalle sue conseguenze per noi (o da quelle che decidiamo di prendere per tali).
Come un monumento provato dagli anni, una tale immagine, per attraente che possa essere, è però attraversata da crepe numerose e profonde.
Guardiamone una.
Nella citazione che abbiamo scelto, il carattere fondante della civiltà greca è simboleggiato dalla giornata di Maratona, e dunque identificato con una vittoria dei greci (leggi: degli europei) sui persiani, che stanno qui per un Oriente indeterminato e statico, l’’altro’ – perché perennemente uguale a se stesso – rispetto a un’Europa caratterizzata, a partire dalla grecità, da un accentuato dinamismo e da un continuo progresso; e per questo radice e madre della modernità.
Pochi sottoscriverebbero oggi un’idea come questa; eppure sarebbe facile rintracciarne più o meno sotterranee sopravvivenze.
La stessa, e più celebre, sentenza hegeliana secondo cui “Al nome Grecia, l’uomo colto europeo subito si sente in patria” non riflette forse, in ultimo, un’identica visione?
Queste formulazioni ci appaiono, oggi non solo strettamente eurocentriche, ma anche limitative e ‘datate’; ‘datate’, intendo, in quanto coestensive a una concezione della civiltà europea come culminazione d’ogni altra, e pertanto legittimata al colonialismo, all’annessione, alla ‘missione civilizzatrice’.
L’opposizione greci/barbari, tradotta con franco arbitrio in quella Europa/’altri’, veniva così continuamenti riattualizzata e proiettata ora verso le Americhe, ora in Asia o in Africa; i sistemi educativi, che includevano in posizione d’onore lo studio del greco per le élites designate a governare, e i musei che si fregiavano di marmi tolti ad Atene o a Pergamo, moltiplicandoli in calchi offerti a modello degli artisti, ribadivano incessantemente (forse proprio perché così improbabile) l’identità fra un ‘noi’ orgogliosamente europeo e i greci, padri e maestri di una stessa civiltà.
Questa identificazione, che sembrò assicurare alla cultura greca un posto perpetuo e garantirne la continua vitalità nel mondo moderno – quasi dovesse diffondervisi con le armi, le merci e le tecniche dell’Occidente – suona oggi al contrario come un canto funebre.
Quale può essere il posto dei greci in un mondo caratterizzato sempre di più dalla mescolanza dei popoli e delle culture, dalla condanna dell’imperialismo e dalla fine delle ideologie, dalla fiera rivendicazione delle identità etniche e nazionali e delle tradizioni locali contro ogni tentazione ‘annessionistica’?
Che senso ha cercare radici ‘comuni’, quando tutti sembrano piuttosto impegnati a distinguere le proprie da quelle del vicino?
Come possiamo vantarci di aver vinto sugli ‘altri’ a Maratona senza pensare all’Algeria o al Vietnam?
Con quale ostinata presunzione potremmo mai chiedere ai cinesi o agli indiani di riconoscersi nei greci, implicandone l’identità con un ‘noi’ tutto europeo, senza offrire in cambio il desiderio di indentificarci, noi, nella loro antichità?
Se quella è la nostra immagine dei greci, se quello è il loro ruolo nella ‘storia universale’ che vogliamo costruire, riducendo la storia universale a storia dell’Europa e dell’espansione europea, allora davvero i greci sono (o rischiano di diventare) il primo bersaglio di una cultura destinata a soccombere.
Non è questo che abbiamo inteso fare con questa nuova opera sulla storia, la cultura e l’arte greca.
Essa non intende né essere un ennesimo omaggio trionfalistico, al ‘miracolo greco’ che celebri in loro ‘noi’ stessi (quel ‘noi’); né però un bilancio consuntivo (più o meno triste, più o meno nostalgico), in chiusura di conti, sulla soglia di un momento fatale in cui ai greci nessuno guarderà più.
Di quell’uso che si è fatto della grecità, ‘noi’, e non i greci, siamo responsabili.
Esso comporta la nostra pretesa identità coi greci, e in nessun modo la loro identità con noi.
Tornare ai greci con un nuovo sguardo, costruire un nuovo ‘noi’ per guardare ai greci, è il compito a cui ci siamo ripromessi di dare una prima risposta, un contributo di pensiero e uno stimolo.
Non pretendiamo naturalmente di sapere (dimenticando il corso degli studi, e più ancora della storia) inaugurare in queste pagine un nuovissimo, candido sguardo sui greci, per nulla determinato da quello costruito dalle generazioni che ci hanno preceduto, ma s^ di provare a guardarne i testi e i resti con occhio più fresco e più attento alla diversità: più mirato all’oggi o al domani.
LA domanda è dunque: se i greci, che a quegli usi che non più accettiamo sembrarono piegarsi, abbiano ancora qualcosa da offrire a ‘noi’.
O meglio: quali ‘greci’ per quali ‘noi’.
Pag. XXVII-XXVIII
Cap. 1. Il confronto con gli antichi / François Hartog
Il problema, molto semplicemente, è quello della storia dell’Occidente e della sua cultura: dagli antichi sino a noi.
Quello anche del suo rapporto col tempo.
Possiamo quindi, tutt’al più, rilevare qualche pista, segnalare luoghi di passaggio, circoscrivere qualche momento di questa lunga storia dai registri molteplici, sfasati, connessi gli uni agli altri come in un gioco di incastri.
Ma se, abbandonando per un istante la prospettiva storiografica, ci si interroga direttamente sugli antichi e noi oggi, la e ha ancora un senso?
Perché ci sia confronto, ci vuole rapporto, compresenza, per non dire faccia a faccia.
Ora la distanza, fatta di rispetto, d’indifferenza, di oblio, o dei tre messi insieme, non si è forse irrimediabilmente imposta, al punto da rendere illusorio ogni rapporto effettivo, vivente, attivo?
Molière non metteva già forse sulla bocca di uno dei suoi personaggi questa chiara sentenza: “Gli antichi, signore, sono gli antichi, e noi siamo la gente di adesso”?
Nei primi anni del 18. secolo Jacob Perizonius, grande erudito dell’Università di Leida, celebrata poco meno di un secolo prima col nome di “Atene Batava” (da Johannes Meursius), dipinge un triste quadro della decadenza degli studi classici in Europa.
Da tempo, ormai, il verso un giorno famoso, “Chi ci libererà dei greci e dai romani?”
Un rapporto diretto con loro è ancora possibile?
Le loro domande sono ancora le nostre?
Possiamo ancora, o di nuovo, far nostre alcune loro domande?
La politica greca, la democrazia hanno ancora qualcosa da dirci, o piuttosto, siamo in grado di porre loro delle domande pertinenti sul nostro presente?
Le rovine antiche, è vero, sono attraenti: ondate di turisti si accalcano nei siti celebri, nel nome del viaggio culturale e sotto gli auspici dell’onnipresente e triste industria turistica.
Come tutti sappiamo, le conseguenze di questo tipo di confronto non sono sempre felici.
Lo sfruttamento moderno di questo “patrimonio” (dell’umanità) fa sì che queste rovine, oggi più protette che mai, siano anche più che mai minacciate.
Le rovine minacciano rovina: vittime del loro successo e di questo nuovo fattore chiamato “inquinamento”.
Dopo il sisma del 1980, Pompei è ridiventata uan città sinistrata, battuta milioni di volte dalle scarpe di milioni di turisti e invasa dalla vegetazione.
l’Acropoli è da tre anni irta di impalcature e i visitatori non hanno più accesso ai monumenti.
Di fronte a questa situazione, che fare?
Ritroviamo allora il dibattito, aperto almeno sin dal Quattrocento e ripreso senza sosta, sulla conservazione e sul restauro dei monumenti.
Con un testo pioneristico, pubblicato nel 1993, Der moderne Denkmalkultus, Alois Riegl scruta il concetto stesso del monumento storico, punto di incontro conflittuale re ciò che chiama il valore di antichità, il valore storico e il valore commemorativo.
Quale monumento mostrare?
Cioè, quale antichità si vuole visitare?
Come la si va a vedere?
Quale “rapporto” si vuole intrattenere con essa?
Cosa significa restaurare “nel contesto”: si tratta dell’ultimo contesto antico, del primissimo o dello stato in cui si trovava il monumento nel momento in cui gli archeologi lo hanno scoperto o ricoperto?
Oppure occorre restaurare sino a ricostruire, per rendere il monumento “accessibile” al più grande pubblico e, al limite, farlo sparire in quanto rovina?
Le discussioni sollevate dal restauro dell’Eretteo (terminato nel 1987) ne forniscono un buon esempio.
Oppure bisognerebbe non ricostruire, ma costruire accanto, per riprodurre, produrre una copia, la più perfetta possibile, di quell’originale ormai “vietato al pubblico”.
Così si è proceduto, a causa d’imperative ragioni di conservazione, per le grotte preistoriche di Lascaux.
E tale modo di procedere ha una sua logica, ma, dal punto di vista del rapporto con l’antichità, la produzione di questi simulacri che stanno in luogo del monumento reale e che occupano il suo stesso luogo ha comunque qualcosa di strano.
Quale rapporto con la temporalità si proietta su questo nuovo tipo di artefatti che sono come sottratti al tempo?
Giacché nulla impedisce di cambiarli non appena mostrino segni di usura.
Un’altra modalità contemporanea di confronto sarebbe piuttosto dell’ordine della citazione, per non dire del semplice ammiccamento.
E’ di quest’ordine il ricorso a nomi tratti dall’antichità per battezzare oggetti che sono gli emblemi stessi della scienza e della tecnica moderne.
Il missile europeo Ariane (ma perché proprio Ariane? Gli americani, da parte loro, si sono attribuiti Titano), il progetto di navetta spaziale Hermes, o la sonda Ulisse.
Come se, attraverso la riattivazione di questi vecchi nomi, che oggi non sono proprietà verbale di nessuno, si volesse suscitare, senza crederci troppo, qualche moderna mitologia.
Come se il più antico, l’arcaico, e il più moderno, il futuro, arrivassero quasi a toccarsi.
Come se l’età adulta vedesse realizzati i suoi sogni d’infanzia.
Come se l’antico mithos trovasse il suo compimento, se non la sua verità, in questa manifestazione del logos, nel suo massimo rigore.
Perché il costruttore automobilistico Renault ha giudicato commercialmente sensato di chiamare Clio uno dei suoi nuovi modelli (è vero che un altro si chiama Twingo)?
Entriamo qui nel vasto mondo della comunicazione, con le sue procedure di definizione di un “concetto”, nel senso che i pubblicitari attribuiscono a questa parola.
Non vi si incontra forse, in particolare, un uso puramente strumentale dell’antichità mirato a “civilizzare” delle sigle “barbare”?
Questo bricolage non ha altro scopo che renderle identificabili e memorizzabili, indipendentemente dal significato esatto, astruso o semplicemente piatto del loro contenuto.
L’ammiccamento per l’ammiccamento.
Altrimenti, come interpretare il fatto che la SNCF abbia battezzato il suo nuovo sistema di prenotazioni, messo in servizio con gran scalpore, Socrate?
Cosa è venuto a fare Socrate in questo inferno o meglio in questo programma informatico?
Questi pochi esempi non esauriscono il problema degli antichi e noi oggi, ma indicano, quanto meno, una tendenza.
Pag. 4-5
Cap. 2. La politica / Paul Cartledge
Data questa polarizzazione di opinioni, oltre a un’illimitata gamma di posizioni intermedie, non c’è indagine in grado di offrire risposte definitive o quanto meno affidabili a interrogativi tipo quelli sollevati sopra.
C’è però almeno una cosa che, con le sue ricerche di politica comparata, lo storico può fare: compilare e analizzare un “inventario delle differenze”, che forse può esserci d’aiuto in un’investigazione più approfondita sia della politica della Grecia antica, sia delle nostre (occidentali moderne) istituzioni politiche, delle nostre costituzioni e della nostra cultura; e può essere un utile incentivo a impegnarci con intelligenza nel tentativo di istituire tra queste realtà lontane nel tempo un rapporto proficuamente significativo.
Pag. 40
Mentre Machiavelli e Hobbes furono teorici dello Stato, la polis può essere tranquillamente definita una comunità politica senza Stato, anche se ciò naturalmente non significa equipararla sotto ogni aspetto a quei “sistemi politici africani” studiati dagli antropologi nell’omonima raccolta curata da Fortes ed Evans-Pritchard.
Pag. 45-46
Concludiamo, così come abbiamo cominciato, con un contrasto: nella realtà politica di scala limitata e a dominio maschile dell’antica Grecia, Simonide poteva tranquillamente e con grande precisione osservare che “la polis forma l’uomo”, vale a dire gli insegna ad essere cittadino.
Nel quadro della visione politica più ampia che abbiamo tratteggiato fin qui, al cittadino del futuro, donna al pari dell’uomo, occorrerà insegnare a diventare uan specie diversa di animale politico, ecologicamente adattato al nuovo ambiente della politica democratica.
Pag. 72
Cap. 3. Colonizzazione e decolonizzazione / David Asheri
Concepita in questi termini, la colonizzazione greca non si presenta certo come un’avventura gloriosa di espansione e di irradiazione culturale in senso unico: si presenta piuttosto come un dramma umano millenario di genti costrette e emigrare, spesso sradicate brutalmente dalla loro patria da forze maggiori – la siccità, la fame, le epidemie, le lotte di fazione, l’ordine di un tiranno, le guerre, le invasioni nemiche.
Dramma esistenziale di emigranti falliti che vengono ricacciati in mare dai loro concittadini rimasti in patria; di genti divelte dalle loro terre in cerca di nuove radici e di una nuova identità, di esuli politici in attesa di rimpatrio, di popolazioni indigene massacrate, estirpate e soggiogate, di donne vedove o orfane costrette a coabitare con conquistatori stranieri, di famiglie e di società miste di lingua, di mentalità, di cultura.
Come tutte le storie coloniali, anche quella greca è prevalentemente una storia di sopraffazioni, di violenze, di assimilazione e di resistenza.
Non è lecito, neanche con le migliori intenzioni, raddolcire questa vicenda per trasformarla in una storia idilliaca di convivenza volontaria e civile fra le genti.
Pag. 74
Pluralità delle cause: la scelta tradizionale fra sovrappopolazione e commercio è troppo riduttiva.
Il fenomeno della emigrazione in massa in età arcaica è un prodotto di quella crisi economico-sociale nella Grecia dell’ottavo e del settimo secolo a. C., che sta anche all’origine di altri fenomeni contemporanei di massima importanza nella storia greca, quali la formazione della polis, la legiferazione scritta, le riforme sociali, giuridiche e militari, le tirannidi.
Ma anche a parte questa elementare generalità, ben poco di sicuro può dirsi sul retroscena concreto dei singoli movimenti migratori, ciascuno dei quali dovette pure avere una sua propria “causa” o pretesto a livello locale e talvolta anche a livello individuale.
Pag. 78
Non pare che le tradizioni metropolitane predisponessero i coloni a programmi precisi: il caso della marinara Taranto colonia della agraria Sparta è emblematico.
La sovrappopolazione come causa di emigrazione e il traffico con gli indigeni come prospettiva in terra coloniale non stanno comunque in contraddizione, ma piuttosto esemplificano nel mondo arcaico il duplice aspetto causale di ogni movimento migratorio umano: la spinta e l’attrazione.
Pag. 79
In tal modo si inaugurava la politica siracusana di “decalciclizzazione” – un esempio antico tra molti di “ripulitura etnica” – ripresa alla fine del quinto secolo da Dionisio il Grande, il quale rieliminò Nasso e Leontini, restaurate dai calcidesi dopo la caduta della tirannide dinomenide, annettendone il territorio a Siracusa, e insediò a Catana e poi ad Aetna-Inessa, un contingente di mercenari campani.
Pag. 94
L’ellenizzazione dei barbari e l’imbarbarimento dei coloni greci non sono altro che le due facce di un unico processo di trasformazione etnico-culturale.
Pag. 99
Se il tema dell’assimilazione e resistenza degli indigeni all’ellenizzazione fa parte della tipica storiografia moderna, il tema dell’assimilazione e resistenza delle colonie greche alla barbarizzazione appartiene alla topica retorica e storiografica antica.
Pag. 100
Nelle aree colonizzate più densamente, l’imbarbarimento della lingua e dei costumi era efficacemente controbilanciato dall’ellenizzazione generale dell’intera zona, e il risultato in queste aree fu lo sviluppo di una koinè culturale livellatrice e integratrice di tutti gli elementi etnici della zona.
L’impatto culturale indigeno è ampiamente documentato nelle aree periferiche, nella lingua, nei costumi, e specialmente nei culti delle colonie: non va trascurato, ma neanche sopravvalutato sproporzionalmente, come facevano talvolta gli antichi per i loro motivi retorici suddetti.
Pag. 101
I greci dell’Ucraina e della Crimea non sono i discendenti degli antichi coloni, e l’origine delle isole linguistiche nelle Puglie e in Calabria è tuttora alquanto discussa.
………………..
Nessuno nega alla colonizzazione greca un posto d’onore nella storia del mondo antico.
Ma furono l’apertura degli orizzonti geografici e gli incontri con alterità culturale a generale nelle aree periferiche situazioni di fermento intellettuale inimmaginabili, in età arcaica, nei cantoni allora chiusi e provinciali dell’Ellade metropolitana.
Si sa che le colonie furono all’avanguardia delle legiferazioni scritte e delle riforme politiche, dell’arte urbanistica, delle scienze e della filosofia, della poesia epica e lirica, della medicina e della retorica.
Il contributo dell’esperienza coloniale greca alla nozione di civiltà, al pensiero utopico, alle riflessioni metastoriche sull’esilio e sull’idea di patria e al pensiero cosmopolitico, è innegabile; ed è pacifico che attraverso l’ellenizzazione di Roma, alla quale parteciparono attivamente le colonie greche d’Occidente nelle sue fasi iniziali, la civiltà coloniale greca giocò un ruolo anche nel lungo processo di trasmissione della cultura ellenica all’Europa medievale e moderna.
Ma tutto ciò non deve obliterare il fatto elementare che, come un organismo sociale, le colonie greche vissero – talvolta secoli, talvolta appena pochi anni – fiorirono, decaddero e sparirono.
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Se l’attuale rinascita in alcuni paesi europei di moti autonomistici regionali possa in futuro produrre un qualche impatto anche sullo spirito degli studi sui rapporti fra indigeni e immigranti nelle aree geografiche del passato storico, è un problema rispetto al quale ci sembra ancora prematuro prendere posizione.
Ma è senz’altro lecito pronosticare, più generalmente, che il modello della colonizzazione greca non cesserà anche in futuro di rinnovarsi continuamente, alla luce di nuove esperienze di contatti umani e di trasformazioni di società e cultura.
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Cap. 4. Città e campagna: l’immagine della “polis” da Omero all’età classica / Alain Schnapp
In Occidente, il rapporto di complementarietà tra spazi urbani e rurali fa parte delle nostre esperienze quotidiane.
Tale rapporto, saldamente radicato nella nostra civiltà dall’alto Medioevo in poi, ha invariabilmente determinato lo sconcerto dei viaggiatori occidentali di fronte alle città arabe o cinesi: esso scoprivano allora che lo spazio urbano poteva essere regolato da altri principi e che il passaggio poteva essere organizzato secondo altri criteri, diversi da quelli che erano loro familiari.
Le città moderne ci hanno fatto smarrire questo senso di contiguità e di complementarietà ancora così vivo negli uomini dei secoli 17. e 18.
Nel 1540, come ricorda Fernand Braudel, un’incursione di corsari algerini poteva cogliere di sorpresa una città che la vendemmia aveva letteralmente svuotato: la stessa tattica venne impiegata da Epaminonda quando ordinò ai suoi cavalieri di sorprendere Mantinea deserta per i lavori di mietitura.
Nei tempi moderni, l’instabilità dei piccoli centri in cui si intrecciano attività rurali e urbane rappresenta un problema amministrativo di particolare rilievo per politici e burocrati.
Esiste, tuttavia, tra le piccole concentrazioni urbane e le metropoli un filo continuo, una relazione stabile che fa sì che una città non sia un villaggio: “di là dai diversi caratteri originali, [le città] parlano tutte un medesimo linguaggio fondamentale: il dialogo ininterrotto con le campagne, prima necessità della vita quotidiana; il rifornimento in uomini, non meno indispensabile dell’acqua alla ruota del mulino; il contegno, la volontà delle città di distinguersi dalle altre; la loro situazione obbligata al centro di reti di collegamenti più o meno lontani…”.
La polis greca è spesso apparsa come l’esempio iniziale di quel modello di sviluppo urbano in cui si confondono città e campagna: Atene, con la sua popolazione rurale che si riversa sul mercato e sull’agorà, ne è l’archetipo.
Essa, infatti, offre allo storico (soprattutto dopo la riforma di Clistene) un quado di integrazione socio-politica tra città e territorio circostante particolarmente complesso per la raffinatezza dei suoi monumenti, dei suoi templi, delle sue piazze, del suo porto.
Basta però volgere lo sguardo verso Sparta – tale paradosso è peraltro tipico della storia greca! – per ritrovare un contraltare modello ateniese: distinzione politica netta tra città e campagna, assenza quasi totale di monumenti, rifiuto di qualsiasi pratica economica.
La città greca, così come è stata pensata e concepita dall’antichità ai giorni nostri, è stata soggetta alle vicissitudini della storia.
Polibio e gli storici romani ne hanno trasmesso un’immagine più simile a quella di una città romana: gremita di cittadini, abbellita dei più diversi monumenti pubblici, fortificata per mezzo di grandi mura e separata dalla campagna.
Così, la città greca ha finito per incarnare un modello architettonico, uan città-simbolo contrapposta alla barbarie dei tempi primitivi.
Quando Sigmund Meisterlin, uno dei primi umanisti tedeschi, colle far rappresentare la nascita della città di Augsburg (Augusta), le diede le sembianze di una città medievale, una via di mezzo tra il fortino del basso impero e i campi trincerati dei signori dell’anno mille: uno spazio edificato, racchiuso da una stecconata in legno che si contrappone alle caverne e alle capanne dei germani primitivi.
Maarten van Heemskerk, invece, proprio in quegli stessi anni (metà del sedicesimo secolo) raffigura una città greca piena di reminiscenze dell’antichità classica: il porto di Rodi è un paesaggio fittizio in cui si alternano edifici vagamente romani, facciate di monumenti a forma d’anfiteatro e torri medievali.
Per avere un’immagine “realista” di Atene con tutte le specificità topografiche del suo paesaggio, bisogna attendere la cosiddetta “pianta dei cappuccini” del diciassettesimo secolo.
E’ solo a partire da questa data che, con il procedere delle esplorazioni in Grecia, si formerà un’immagine di Atene in cui poco alla volta si distinguerà l’architettura romana da quella greca.
A tale riguardo, sono degni di nota i considerevoli sforzi di un viaggiatore del diciassettesimo secolo come Spon, di un antiquario del calibro di Fourmont e le fatiche di Stuart e Revett che culmineranno nelle Antichità di Atene.
Dal Rinascimento in poi, gli antiquari si sono caparbiamente sforzati di liberare la città antica dal suo involucro medievale, per poter infine distinguere la città greca da quella romana, fino a ricostruire, grazie agli studi dei filologi e archeologi tedeschi della metà del diciannovesimo secolo, l’immagine di una città regolare, secondo il modello d’Ippodamo, articolata a scacchiera, e prototipo di una nuova idea di pianificazione urbanistica.
Così, il Leitmotiv della città antica accompagna ininterrottamente i nostri legami con la civiltà greca.
D’altronde, lo si potrebbe seguire, questo “motivo di fondo”, sia sul piano architettonico – come si è appena fatto – che su quello storico.
Gli uomini del Rinascimento, per esempio, hanno concepito una città antica molto più simile a Roma che ad Atene o Sparta, e la città illuministica resta più una città romana che greca.
Ma la riscoperta progressiva della Grecia rappresenta anche l’occasione di un confronto storiografico, vivace già nel diciottesimo secolo per opera di Montesquieu, Rousseau e Helvétius, tra modello spartano e modello ateniese.
Ed è proprio Sparta ad essere preferita dagli illuministi in quanto immagine di una società integrata, di un sistema educativo collettivo, di una costituzione mista, nel contempo monarchica, aristocratica e democratica, là dove Atene sembra più che altro una città in crisi, facile preda di demagoghi e di fazioni.
Il modello spartano, però, non è esente da difetti.
L’ostacolo principale non consisteva tanto nel fatto che Sparta, dal punto di vista architettonico, non presentasse nessuna “visibilità” o identificabilità, quanto nell’essenza, al suo interno, di quei cittadini che gli uomini dei Lumi consideravano alla stregua di colleghi: i filosofi e gli artisti.
Il diciannovesimo secolo, invece, coem ha giustamente dimostrato Pierre VIdal-Naquet, si mostrerà più “ateniese” che “spartano”, e la repubblica dei professori, sempre più numerosi, troverà uan fonte d’ispirazione più stimolante nella storia di Atene che in quella di Sparta: “il ruolo centrale della democrazia ateniese nella storia greca è l’opera del liberalismo borghese della prima metà del diciannovesimo secolo e, nella fattispecie, del radicalismo inglese”.
Con la rivoluzione dell’Altertumswissenschaft [scienza dell’antichità] nel diciannovesimo secolo si è forgiata quell’immagine della città greca da cui siamo ancora fortemente influenzati.
Resta però il fatto che la polis è un’istituzione molto diversa dalla città moderna e che, al pari di quest’ultima, si presta molto male a fornire una tipologia coerente.
Se, insieme agli archeologi e agli urbanisti, si riduce la città all’insieme delle sue funzioni politiche, dei suoi spazi pubblici, delle sue delimitazioni architettoniche come piazze o mura, allora non vi è alcun dubbio (malgrado l’esempio contrario di Sparta) che quello che noi definiamo città affonda in parte le sue radici nella città greca.
Ma le differenze potrebbero superare le affinità.
Mentre, infatti, gli archeologi considerano la città come un modello immodificabile, gli storici (benché divisi in primitivisti e modernisti) si impegnano a mettere in evidenza la specificità della città antica rispetto a quelle medievali e moderne.
Nella città antica, per esempio, il contadino risiedeva nello spazio urbano: proprio il contrario di quel che capita nel Medioevo.
L’industrializzazione, infine, ha eretto tra la città medievale e il mondo moderno una barriera insormontabile.
Anche se la città degli archeologi sembra a volte molto distante da quella degli storici, non bisogna cedere all’illusione della continuità.
I greci si servivano della distinzione città/campagna al nostro stesso modo? O, per l’ennesima volta, quella Grecia antica che ci sembrava così vicina, non è forse molto lontana dalla Grecia che poeti, antiquari e urbanisti hanno spesso proposto alla nostra immaginazione?
Pag. 117-120
E’ improbabile che una cultura, in cui le immagini assolvano una funzione di rilievo sia sui monumenti pubblici che privati e assumano un ruolo centrale nell’elaborazione delle metafore poetiche e filosofiche, possa produrre un sistema iconografico non “orientato”, innocente.
Purtroppo, la pittura greca non ci è pervenuta.
Per ricostruire l’universo iconico della città, è necessario ricorrere alle raffigurazioni vascolari.
Non ci sarà mai possibile stabilire quale posto occupassero concretamente, nella gerarchia delle arti figurative, i creatori di immagini e i vasai dell’antica Grecia.
Ma, per quanto esile sia stata la loro influenza sulla grande arte, per quanto povero sia stato il loro contributo inventivo, essi partecipano dello stesso gusto estetico, dello stesso patrimonio figurativo comune a pittori e scultori.
I motivi iconografici dei vasi non sono dunque un riflesso inconsapevole della città, la conseguenza meccanica di un bisogno di immagini diffuso in vasti domini della vita pubblica e privata.
In uno dei pochi studi dedicati all’interpretazione generale delle figure vascolari, J. Thimme ne fa la seguente descrizione: “le immagini dei vasi greci, nella fattispecie quelle attiche, sono concentrate e condensate. Esse sono ricavate da temi che, a un primo sguardo, riescono di difficile interpretazione e, in generale, il loro contenuto figurativo, intendo dire il loro soggetto iconologico, si esprime in maniera abbreviata”.
Pag. 129
Cap. 5. La costruzione dell’”altro” / Wilfried Nippel
Nei gruppi etnici, la percezione della propria identità si accompagna per lo più alla delimitazione rispetto a un mondo esterno sentito come totalmente diverso da sé.
Come notava già Platone, l’idea che questo mondo esterno sia unitario deriva semplicemente dal fatto che esso differisce, in misura di volta in volta diversa, dagli standard abituali; a ciò, proprio nei grandi regni con solide strutture statali, è collegata la tendenza a ritenere il proprio ordinamento l’unico adeguato: basti citare la visione cinese degli stranieri o il modo in cui gli egizi comprendevano se stessi, riconoscendo il loro come regno dell’ordine nella contrapposizione a un mondo circostante estraneo e caratterizzato dal caos.
Gruppi etnici meno potenti possono a loro volta sviluppare un sentimento di affinità sotto la spinta di una minaccia esterna.
Né l’una né l’altra possibilità di contatti tanto con società altamente evolute quanto con società “primitive” di vario genere, essi erano predisposti a percepire in maniera differenziata il mondo esterno circostante.
Fu solo in seguito a sviluppi politici contingenti che anche presso di loro si svilupparono delle prospettive etnocentriche e degli stereotipi di percezione dell’estraneità; i greci elaborarono, ad uso dell’intera storia europea successiva, sia i modelli di un’analisi delle culture straniere che tendesse all’oggettività, sia i topoi per caratterizzare tali culture (impiegabili a piacimento per numerosissimi tipi di società).
Pag. 165
Il criterio di distinzione migliore rimaneva la lingua: in origine il concetto di barbaro si riferiva a coloro che non parlavano greco, senza che ciò fosse necessariamente connesso a un senso di superiorità
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Cap. 6. Mito / Carlo Ginzburg
Continuità di parole non significa necessariamente continuità di significati.
Ciò che chiamiamo “filosofia” è ancora, nonostante tutto, la “filosofia” dei greci; la nostra “economia” – sia la disciplina sia il suo oggetto – e l’”economia” dei greci hanno invece poco o niente in comune.
Di “mito” parliamo spesso, sia in senso generico sia in senso specifico: “i miti delle nuove generazioni”, “i miti della popolazioni dell’Amazzonia”.
Senza esitare applichiamo il termine “mito” a fenomeni lontanissimi nel tempo e nello spazio.
Si tratta di una manifestazione di superbia etnocentrica?
Questa domanda è stata formulata in maniera ora più ora meno implicita nell’ambito di un’intensa discussione sui miti greci e sulla nozione greca di mito (due temi connessi ma non identici) cominciata all’inizio del decennio scorso.
La possibilità d’identificare una classe specifica di racconti denominati “miti” è stata messa in dubbio.
I miti, si è sostenuto, non esistevano: è esistita la mitologia, un discorso aggressivo condotto in nome della ragione contro un indeterminato sapere tradizionale.
Questa conclusione, in sé più che discutibile, ha però un merito: quello di riportare l’attenzione sulla condanna del mito formulata da Platone.
Vale la pena di riesaminarla ancora una volta.
Pag. 197
L’anno prima un grande industriale scozzese J. A. Richmond, aveva osservato in una relazione alla Glasgow University Engineering Society, di cui era presidente, che “l’incursione nei poteri gestionali nelle fabbriche era diventata tale che, se non ci fosse stata la guerra, l’autunno 1914 avrebbe visto un disordine industriale di prima grandezza.
La guerra segnò una svolta irreversibile nell’organizzazione della società, su tutti i piani – compreso quello dell’organizzazione del consenso.
Le tecniche di propaganda adottate nei confronti del fronte interno e delle truppe, dei nemici e degli alleati, non smobilitarono in tempo di pace.
Il sangue si aggiunse al suolo, le invocazioni alla mitica comunità originaria assunsero toni razzisti.
“Intravedo la possibilità di neutralizzare la stampa per mezzo della stampa stessa. Poiché il giornalismo è una forza così potente, il mio governo diventerebbe giornalista. Sarebbe il giornalismo incarnato…”, aveva detto il machiavelli di Joly, rivolgendosi a Montesquieu.
Il ventesimo secolo doveva realizzare questa profezia.
Tra i materiali del grandioso progetto di Walter Benjamin su Parigi, destinato a rimanere incompiuto, troviamo questo passo:
“Un giorno un osservatore perspicace ha detto che l’Italia fascista era diretta come un grande giornale, nonché da un grande giornalista: un’idea al giorno, dei concorsi, delle sensazioni, un abile e insistente orientamento del lettore verso alcuni aspetti della vita sociale smisuratamente ingranditi, uan deformazione sistematica della comprensione del lettore per determinati scopi pratici.
Insomma, i regimi fascisti sono regimi pubblicitari”.
Cap. 7. Modi di comunicazione con il divino: la preghiera, la divinazione e il sacrificio nella civiltà greca
Se nel campo filosofico e politico la civiltà della Grecia antica continua a esercitare una forte influenza sulla nostra, diverso è il caso della religione.
Che si sia credenti o meno, la civiltà occidentale è improntata al cristianesimo, religione che si sviluppò a partire dal giudaismo.
E sebbene il cristianesimo si sia presto adattato al mondo greco-romano, l’attrazione di “quella gloria che fu la Grecia” non esercitò una grande influenza.
La verità di questa considerazione diventa ancor più evidente se si osservano da vicino i principali modi di comunicazione con il divino impiegati dai greci: mi riferisco alla preghiera, alla divinazione e al sacrificio.
Per quanto riguarda la preghiera, che, per comune ammissione, è una parte integrante del cristianesimo, essa affonda le sue radici nelle pratiche ebraiche, e non al di fuori dell’ambito strettamente religioso; e il sacrificio non ha mai fatto parte delle norme rituali cristiane: in Europa sopravvisse solo nelle aree periferiche, come nel Galles, nel territorio dei Careli ai confini tra la Finlandia e la Russia e nella Tracia greca.
Per quanto riguarda il modo in cui i greci pregavano la divinazione, l’argomento non è mai riuscito ad interessare l’uomo contemporaneo, a parte, forse, i turisti di Delfi.
Il sacrificio greco antico, invece, ha attratto un numero sempre crescente di studiosi.
Non è dunque un caso che le pubblicazioni più importanti in questo campo abbiano cominciato ad apparire agli inizi degli anni ’70, dopo la guerra del Vietnam: la violenza del presente incitava a occuparsi della violenza del passato.
Per questa ragione, ho deciso di concentrare la mia attenzione sul tema del sacrificio, anche se esso ci dice molte più cose sui greci che su di noi.
Un’analisi delle pratiche e delle ideologie del sacrificio contribuirà a offrirci un’immagine della civiltà greca che differisce notevolmente dall’oleogramma idealizzato che gli storici dell’Ottocento e degli inizi del nostro secolo ci hanno tramandato.
Così, nel dominio della religione, le differenze tra “loro” e “noi” sono più significative di quanto non si pensi.
Inizieremo, però, con qualche considerazione sulla preghiera e sulla divinazione.
Pag. 239-40
Se, per i greci, lo scopo principale dei sacrifici era comunicare con le divinità, il carattere “primitivo” di tale comunicazione è ancora difficile da accettare per gli interpreti moderni.
Per Meuli il sacrificio altro non era che un’uccisione rituale; per Burkert la partecipazione comune all’uccisione rituale aveva portato alla nascita della comunità; per Vernant, invece, il sacrificio era fondamentalmente concepito in funzione del nutrimento.
Quel che colpisce in queste esegesi moderne è l’approccio prevalentemente “secolare”, riduzionistico, che non tiene praticamente conto dei fini esplicitamente dichiarati dai greci stessi e cerca id ridurre il sacrificio a una formula univoca e chiara.
Certo, il sacrificio era un’uccisione rituale, rinforzava il senso di comunità e si effettuava per mangiare.
Ma, ed è questo l’oggetto della nostra dimostrazione, è anche vero che il sacrificio è molto più di questo.
E’ anche, per esempio, un’occasione per ostentare la propria forza fisica, i propri privilegi sociali, per partecipare a un pasto festivo, per mostrare i confini del gruppo e, innanzitutto, per mettersi in contatto con gli dèi.
Un atto rituale che occupi un ruolo centrale nella comunità non può non avere significati economici, politici, sociali, culturali, oltre quelli prettamente religiosi.
Una delle principali sfide per chi cerchi in futuro di esaminare da vicino il rito sacrificale nella Grecia antica sarà quella di dimostrare la ricchezza e la complessità di tutti questi significati, senza cadere nella tentazione di ridurre il fenomeno a una formula semplice, per quanto seducente possa essere.
Pag. 281
Nella concezione greca, la comunicazione con il divino non obbediva agli stessi nostri principi.
Per quanto riguarda la preghiera, la divinazione e il sacrificio, tale differenza dipende da diverse circostanze.
Innanzitutto, il cristianesimo aveva spinto la distinzione tra Dio e i credenti al punto che questi ultimi erano addirittura chiamati “schiavi di Dio”, sia nel Nuovo Testamento che nella prima letteratura cristiana.
Questa posizione di assoggettamento era in contrasto con l’attitudine greca, affabile ma cosciente di sé, nei confronti degli dèi.
Inoltre, anche se molti abitanti del Vecchio e del Nuovo Mondo consultano veggenti e leggono gli oroscopi, la divinazione non occupa più il posto ufficiale nella vita pubblica e non viene ritenuta affidabile dagli individui per così dire più illuminati.
La società moderna è infatti riuscita a eliminare molte delle incertezza del mondo antico.
D’altronde, gli stati moderni non hanno bisogno degli dèi nei casi di disaccordi troppo aspri e hanno trovato altri modi di risolvere le tensioni, per esempio attraverso l’istituzione di comitati o il ricorso ad arbitrati.
Infine, sebbene l’agricoltura fosse già praticata da millenni nell’area del Mediterraneo, l’eredità della cultura dei cacciatori era ancora abbastanza forte da influenzare le pratiche sacrificali greche che, a loro volta, erano state la conseguenza di un processo di domesticazione degli animali pienamente riuscito.
E’ impossibile in un solo saggio scandagliare in profondità i modi in cui i greci comunicavano con le divinità.
Ci siamo concentrati sul sacrificio in quanto aspetto estraneo alla religione moderna.
Ci siamo concentrati sul sacrificio in quanto aspetto estraneo alla religione moderna.
Ma anche la preghiera e la divinazione sembra fossero impiegate diversamente da noi: la religione greca, infatti, differiva dalla nostra molto più di quanto noi, moderni miratori dell’antichità, forse crediamo.
Pag. 282-83
Cap. 8. La dimostrazione / Luis Vega Renòn
Cap. 9. L’invenzione della natura / Patrice Loraux
Cap. 10. Il bello e il naturale: un racconto letale / Martin Warnke
Cap. 11. Eros / Froma I. Zeitlin
Il mito narrato da Socrate contribuisce a rendere ancora più ambigua la sessualità nell’immaginario greco, che, come abbiamo potuto constatare, esita costantemente, ancorché in forme diverse, tra potere e limitazione, aspirazione e ripiegamento, pienezza e perdita, realtà e mito; in definitiva, tra mortalità e immortalità.
Poiché Eros è sostanzialmente un attributo specifico del nostro essere creature, la nostra sottomissione ai bisogni fisici umani e agli impulsi che ci rendono simili agli animali, può venir utilizzato, come per esempio nel Simposio platonico, come strumento per superare questo stato di bisogno, attingere le vette del bene e negare il nostro stato di mortalità, che in definitiva è ciò che maggiormente temiamo.
Con l’eccezione degli studiosi delle pratiche sociali dei greci e dei teorici del desiderio omoerotico, c’è oggi la tendenza a estrapolare il messaggio idealizzante di Platone ignorando le implicazioni del quadro pederastico in cui si inserisce e la sua univoca concentrazione sulla soggettività maschile, sia in ambito erotico sia filosofico.
Come ho già accennato, il Simposio si è recentemente rivelato di una certa utilità per chi, facendo leva sul prestigio di tale modello, se n’è servito a giustificazione e fondamento di un’ideologia romantica, , di un ideale androgino, o di una ben definita identità sessuale.
Ogni epoca è condizionata da prospettive che finiscono per determinarne le strategie interpretative orientandole a fini autogiustificativi.
I misteri dell’infatuazione sessuale continuano a sfuggire al rigore dell’indagine scientifica.
Con tutte le nostre tecniche sofisticate in campo psicologico e biologico non abbiamo fatto molti progressi verso la comprensione del perché gli esseri umani s’innamorano, né di ciò che li spinge a perseguire l’oggetto del desiderio con tanta ostinazione e insistenza.
Al pari ei greci (o forse proprio a causa dei greci), non sappiamo immaginare una forza superiore a quella della passione amorosa.
Pur essendo un po’ più consapevoli della complessità delle nostre motivazioni, continuiamo a sperimentare l’eros come mescolanza di piacere, timore e stupore.
Sebbene si conferisca maggiore importanza alla soddisfazione erotica quale elemento essenziale della realizzazione personale, continuiamo a percepire il primo impatto dell’eros come qualcosa che sfugge al nostro controllo.
Le divinità pagane sono tramontate; ma nel nostro mondo attuale, desacralizzato e privatizzato, Eros, in quando forza del desiderio imperitura e irresistibile, continua ad essere più o meno lo stesso dio di sempre.
Pag. 429-30
Cap. 12. L’io, l’anima, il soggetto / Mario Vegetti
Cap. 13. La tragedia e il tragico / Diego Lanza
Aristotele offre una definizione della tragedia e un modello della migliore tragedia.
I due livelli sono stati spesso confusi nella tradizione che ha volta a volta interpretato come prescrittivo tutto ciò che è detto nella Poetica o, al contrario, ha scambiato i segmenti precettistici per una descrizione fenomenologica della tragedia del quinto secolo.
Tragedia è, com’è noto, per Aristotele, l’imitazione di un’azione seria che, operando attraverso pietà e paura, perviene a un effetto di purificazione.
Questa la definizione.
Ma come dev’essere questa azione per sortire al meglio tale effetto?
E’ a questa domanda che tenta di rispondere uan parte consistente della Poetica: la miglior tragedia è senza dubbio quella che realizza con maggiore efficacia il piacere proprio del genere, che è appunto l’effetto di cui si è appena detto.
Pag. 494-95
Cap. 14. L’agonismo sportivo / Henri Willy Pleket
Quale significato possono assumere per noi la pratica e la mentalità agonistica greca?
La domanda rientra naturalmente in una problematica assai più ampia, ossi a quella attinente la rilevanza del passato preindustriale, nel suo complesso rispetto al mondo contemporaneo, tardocapitalistico, che si avvia, se già non si trova, a vivere la seconda rivoluzione industriale, o elettronica.
In linea generale ritengo che questa rilevanza sia piuttosto scarsa, tuttavia credo che il passato preindustriale possa avere un certo interesse per l’uomo contemporaneo.
Le strutture sociali ed economiche di tale passato, ivi compresa la sua variante greco-romano, differiscono radicalmente da quelle del mondo contemporaneo.
Per quanto riguarda in particolare il mondo antico, ciò appare ancor più vero in quanto la storiografia contemporanea segue in gran parte la via aperta da M. I. Finley e dalla sua “scuola primitivistica”, che ribadisce in primo luogo la totale alterità della società antica rispetto alla società medievale e di ancien regime, per non parlare del mondo attuale.
Ne deriva che l’antichità greca non rientra nel dibattito relativo all’origine della società capitalistica moderna.
Il dato basilare del punti di vista dei “primitivisti” è che (tardo) Medioevo e ancien regime differiscono profondamente dall’antichità; inoltre, sulla scia di Max Weber, essi fanno un passo ulteriore e affermano che nascita e sviluppo della società capitalistica occidentale vanno collocate in questi due periodi.
Molti storici del Medioevo e degli inizi dell’età moderna sono sostanzialmente d’accordo con questa concezione weberiana, sebbene permanga un ampio dibattito in merito all’individuazione del motore che di fatto spinse l’Europa sui binari dell’era industriale.
Pag. 533
Cap. 15. Schiavitù e lavoro / Ellen Meiksins Wood
I greci non inventarono la schiavitù; furono invece, in un certo senso, gli inventori del lavoro libero.
Sebbene la schiavitù-merce si sia sviluppata nella Grecia classica, e in particolare ad Atene, fino ad assumere proporzioni prive di precedenti, il principio del lavoro dipendente ovvero la relazione padrone/schiavo non rappresentavano in alcun modo una novità nel mondo antico.
Quel che per contro rappresentava senza dubbio una formazione particolare e segnalava uan relazione priva di paralleli tra classi produttrici e classi “appropriatrici” era il lavoratore libero provvisto dello statuto che la cittadinanza gli conferiva e, specificamente, il “cittadino-agricoltore”, insieme con la libertà giuridico-politica implicita in questa condizione e la liberazione delle varie forme di sfruttamento esercitato tramite uan coercizione diretta dai proprietari terrieri o dagli Stati.
Questa formazione peculiare occupa un posto centrale nel quadro di molti altri aspetti della specificità della polis greca e in modo particolare della democrazia ateniese.
Si stenterebbe a individuare uno sviluppo politico o culturale ateniese che non ne sia in un modo o nell’altro influenzato, dai conflitti tra democratici e oligarchici nel quadro dello svolgimento della vita politica democratica fino ai classici della filosofia greca.
La tradizioni politiche e culturali dell’antichità classica pervenute sino a noi, pertanto, sono permeate dell’atteggiamento mentale del cittadino lavoratore e insieme dell’animosità antidemocratica che questi ispirava e che informava gli scritti dei grandi filosofi.
Lo statuto del lavoro nel mondo occidentale moderno, tanto nella teoria quanto nella pratica, non può essere interpretato in modo esauriente senza farne risalire la storia all’antichità greco-romana e alla peculiare struttura dei rapporti tra classi produttrici e classi appropriatrici nella città-stato greco-romana.
Al tempo stesso, se lo statuto sociale e culturale del lavoro nell’Occidente moderno può discendere dall’antichità classica, noi dobbiamo altrettanto da apprendere dalla radicale cesura che sotto questo profilo separa il capitalismo moderno dalla democrazia ateniese.
Questo è vero non solo nel senso ovvio che la schiavitù-merce, dopo che assunse nuovamente un ruolo preminente nella nascita del capitalismo moderno, è stata soppiantata, ma anche nel senso che il lavoro libero, nel momento in cui è divenuto al forma dominante, ha anche perduto gran parte dello statuto politico e culturale di cui godeva nella democrazia greca.
Questa tesi non contraddice solo le opinioni correnti, ma anche i convincimenti degli studiosi.
Il punto essenziale non sta tanto nel fatto che qualcosa di profondamente contrario a quanto comunemente si sarebbe portati a credere è insito nell’asserire che l’evoluzione dalle antiche società schiavistiche al moderno capitalismo liberale è stata contraddistinta anche da un declino dello statuto del lavoro.
Vi è anche la circostanza che al lavoro libero non si è mai iscritta l’importanza storica che si è caratteristicamente attribuita alla schiavitù nel mondo antico.
Se mai gli storici dell’antichità classica si rivolgono al problema del lavoro e dei suoi effetti culturali, essi in genere privilegiano la schiavitù.
La schiavitù, si sostiene spesso, fu responsabile dalla stagnazione tecnologica nella Grecia antica e a Roma.
L’associazione del lavoro alla schiavitù, così si argomenta, provocò un generalizzato disprezzo per il lavoro nella cultura della Grecia antica.
La schiavitù nel breve periodo rafforzò la stabilità della polis democratica, favorendo l’unione dei cittadini poveri e dei ricchi, mentre nel lungo periodo provocò il declino dell’Impero romano – vuoi con la sua presenza (nel senso che fu di ostacolo allo sviluppo delle forze produttrici), vuoi per la sua assenza (in quanto un declino della disponibilità degli schiavi impose sforzi intollerabili allo stato imperiale romano).
E così via.
Nessun effetto determinante di questo genere è invece comunemente ascritto al lavoro libero.
Nelle pagine che seguono si tenterà di ristabilire in qualche modo l’equilibrio e di prendere in considerazione le indicazioni che una differente percezione del lavoro nell’antichità può fornirci a proposito del corrispettivo moderno del medesimo.
Pag. 611-12
La liberazione dei contadini dell’Attica dalle forme tradizionali di dipendenza incoraggiò lo sviluppo della schiavitù, in quanto precluse altre forme di lavoro non libero.
In questo senso, democrazia e schiavitù ad Atene erano inestricabilmente connesse.
Ma questa dialettica di libertà e schiavitù, la quale conferisce al lavoro libero una posizione centrale nell’ambito della produzione materiale, suggerisce qualcosa di diverso dalla semplice affermazione che la democrazia ateniese era fondata sulla base materiale rappresentata dalla schiavitù.
E se riconosciamo che la libertà del lavoro libero rappresentava, in misura non minore dell’asservimento degli schiavi, una caratteristica essenziale, e forse la più distintiva, della società ateniese, allora dobbiamo necessariamente prendere in considerazione il modo in cui tale caratteristica aiuta a rendere conto di molte altre peculiarità della vita economico-sociale, politica e culturale della democrazia.
Pag. 616
Molti secoli dopo, quando la schiavitù-merce assunse un ruolo di spicco nelle economie occidentali, essa si trovò inserita in un contesto molto diverso.
La schiavitù delle piantagioni nel Sud americano, ad esempio, non faceva parte di un’economia agraria dominata da contadini produttori, bensì apparteneva a un’agricoltura commerciale su vasta scala inserita in un sistema di scambio che andava assumendo dimensioni sempre più internazionali.
La principale forza propulsiva al centro dell’economia capitalistica mondiale non era il nesso padrone/schiavo, né quello proprietario terriero / schiavo, bensì il nesso capitale/lavoro.
Il lavoro salariato libero stava diventando la forma dominante in un sistema di relazioni proprietarie.
Pag. 617
Gli storici sono in genere d’accordo sul fatto che la maggior parte dei cittadini ateniesi lavorava per vivere.
Certo, dopo aver posto il cittadino lavoratore fianco a fianco dello schiavo nell’ambito della vita produttiva della democrazia, non hanno compiuto molti sforzi per esplorare le implicazioni di questa formazione sociale unica, di questo lavoratore che era libero in singolare misura e del suo statuto politico privo di precedenti.
Nei casi in cui viene compiuto almeno qualche tentativo allo scopo di porre in relazione le basi materiali della società ateniese, con la sua politica e la sua cultura (e la tendenza dominante è ancora quella di separare la storia politica e intellettuale da qualsivoglia radice sociale), è la schiavitù che occupa la scena centrale come singolo fattore assolutamente determinante.
Pag. 619
Non è solo la filosofia politica occidentale che deve le sue origini a questo conflitto circa il ruolo politico di calzolai e fabbri.
Per Platone la separazione tra detentori del potere e lavoratori, tra quanti lavorano con la mente e quanti usano il proprio corpo, tra coloro che sono al potere e vengono mantenuti e coloro che producono il cibo e sono governati non è semplicemente il principio basilare della democrazia.
La divisione del lavoro tra detentori del potere e produttori, che è l’essenza della giustizia nella Repubblica, è anche l’essenza della teoria platonica della conoscenza.
La radicale opposizione gerarchica tra mondo sensibile e mondo intellegibile e tra le corrispondenti forme di conoscenza – un’opposizione nella quale si è riconosciuto il tratto più caratteristico del pensiero greco e che da allora ha fissato l’ordine del giorno della riflessione filosofica occidentale – è radicata da Platone in una analogia con la divisione sociale del lavoro che esclude i produttori dalla politica.
L’eclissi del lavoro libero.
Lo squilibrio tra l’importanza storica del lavoro libero nell’antica Grecia e la scarsa considerazione di cui ha goduto nella storiografia moderna è così grande che è indispensabile dire qualcosa circa il modo in cui tale squilibrio si è ingenerato e il cittadino lavoratore, nonostante tutta la sua peculiarità storica, è per così dire svanito nell’ombra proiettata dalla schiavitù.
Non che, ancora una volta, gli storici abbiano mancato di riconoscere che il corpo civico nell’Atene democratica era composto in larga parte di persone che lavoravano per vivere.
Piuttosto, si tratta del fatto che a questa consapevolezza non si è unito uno sforzo proporzionale colto a esplorare il significato storico di questa circostanza degna di nota.
Il lavoro libero è stato pressoché oscurato dalla schiavitù quale fattore determinante dello sviluppo storico, e non solo per l’ammirevole ragione che gli orrori di quella perversa istituzione hanno destato preoccupazione nei nostri istinti migliori.
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I rapporti sociali di proprietà che mettono in opera questo meccanismo propulsore hanno collocato il lavoro in una posizione unica dal punto di vista storico.
Nel capitalismo il lavoratore salariato nullatenente, che soggiace a imperativi economici non direttamente dipendenti da una condizione di subordinazione giuridica o politica, può godere di libertà giuridica e di uguaglianza e addirittura di pieni diritti politici in un sistema a suffragio universale, senza privare con ciò il capitale del suo potere di appropriazione.
E’ in questo che possiamo ravvisare la più grande differenza tra lo statuto del lavoro nell’antica democrazia ateniese e nel moderno capitalismo.
Il lavoro, la democrazia antica, la democrazia moderna
Nella democrazia capitalistica moderna disuguaglianza socio-economica e sfruttamento coesistono con la libertà civica e l’uguaglianza.
I produttori primari non sono dipendenti sul piano giuridico, né privi dei diritti politici.
Anche nella democrazia antica l’identità civica era distinta dallo status socio-economico, e anche in questo caso l’uguaglianza politica coesisteva con la disuguaglianza di classe.
Una differenza fondamentale però rimane.
Nella società capitalistica i produttori primari sono assoggettati a forme di costrizione di natura economica che non dipendono dal loro status politico.
Il potere del capitalista di appropriarsi del surplus di lavoro dei salariati non dipende da uno status sociale o giuridico privilegiato, bensì dal fatto che il lavoratori sono nullatenenti, il che li costringe a cedere la propria forza-lavoro in cambio di un salario, al fine di accedere ai mezzi di lavoro e di sussistenza.
I lavoratori sono assoggettati tanto al potere del capitale quanto agli imperativi della competizione e della massimizzazione del profitto.
Così, la separazione di status civile e collocazione di classe nelle società capitalistiche ha due facce: da un lato, il diritto di cittadinanza non è determinato dalla posizione socio-economica – e in questo senso il capitalismo può convivere con la democrazia formale; dall’altro l’uguaglianza civile non ha un’influenza diretta sulla disuguaglianza di classe e la democrazia formale lascia fondamentalmente intanto lo sfruttamento di classe.
Viceversa, nella democrazia antica esisteva una classe di produttori primari che erano liberi sul piano giuridico e politicamente privilegiati, nonché in ampia misura esenti, al tempo stesso, dalla necessità di mettersi sul mercato per assicurarsi l’accesso alle condizioni di lavoro e di sussistenza.
La loro libertà civile, a differenza di quella del moderno lavoratore salariato, non era controbilanciata dalle costrizioni economiche del capitalismo.
Come nel capitalismo, il diritto di cittadinanza non era determinato dallo status socio-economico, ma, a differenza che nel capitalismo, i rapporti tra le classi erano influenzati direttamente e profondamente dallo statuto civico.
L’esempio più ovvio è la divisione in schiavi e cittadini.
Ma la cittadinanza determinava direttamente le relazioni economiche anche in altre maniere.
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Il raggiungimento della democrazia formale e del suffragio universale senza dubbio significò un processo storico enorme, ma accadde che il capitalismo offrì una nuova soluzione al vecchio problema dei detentori del potere e dei produttori.
Ora che la democrazia poteva essere riservata a una sfera politica formalmente separata, laddove l’economia seguiva regole proprie, non era più necessario concretizzare la divisione di privilegio e lavoro in una separazione politica tra detentori del potere protagonisti dell’appropriazione economica e subordinati costretti a lavorare.
Se l’estensione del corpo civico non poteva più ormai essere sottoposta a restrizioni, il campo d’azione del ruolo di cittadino poteva ora essere rigidamente contenuto, anche a prescindere da limitazioni costituzionali.
Il contrasto tra lo statuto del lavoro nella democrazia antica e il capitalismo moderno suscita alcuni interrogativi di ampia portata: in un sistema nel quale il potere puramente economico ha sostituito il privilegio politico, quel è il senso della condizione di cittadino?
Di cosa avrebbe bisogno perché in un contesto molto differente venga ricuperato il rilievo preminente che nella democrazia antica avevano la condizione di cittadino e quella del lavoratore provvisto di diritti civici?
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Cap. 15. La trasmissione del sapere / Luciano Canfora
Cap. 16. L’ordine dorico come diapason dell’architettura moderna / Kurt W. Forster
Cap. 17. Il classico nella cultura postmoderna / Lambert Schneider
Cap. 18. La storia del pensiero / Maria Michela Sassi
Cap. 19. Il medico e la malattia / Jackie Pigeaud
Siamo giunti ad un punto molto interessante.
E’ una situazione nuova, quella della possibilità e della banalizzazione del trapianto di organi.
Non stupisce però molto lo storico, che tiene in giusto conto l’immaginario; si può scrivere la storia di ciò che potremmo chiamare “l’estetica del trapianto”, con le sue inibizioni, i suoi tabù, i suoi fantasmi, quelli stessi che si ritrovano già negli antichi.
All’epoca dei dibattiti sulla trasfusione sanguigna, nel 17. e 18. secolo, si fecero paragoni col trapianto, per poi concludere che non si tratta della stessa cosa.
Ma non è questa, a mio modo di vedere, la cosa più interessante.
Il medico contemporaneo, posto di fronte alle proprie responsabilità d’ordine pratico ed etico, come i sui predecessori, afferma la separazione della medicina da ciò che potremmo definire filosofia, costituendo così la specificità della medicina e i suoi limiti epistemologici; è indispensabile ridefinire il campo della medicina.
Non so se ciò possa essere d’aiuto per il medico moderno.
Ma lo storico non deve trascurare di sottolineare al tempo stesso la novità e la tradizione; a ciò corrisponde precisamente la sua funzione.
La storia deve essere capace di render conto dei luoghi comuni della medicina.
Un luogo comune non è un’idea generale.
I luoghi comuni, in retorica, sono le condizioni di possibilità accettate, legittimate, del discorso.
Si può, di volta in volta, renderne conto.
E’ impensabile, perlomeno per quanto riguarda la storia della medicina, separare ciò che costituirebbe una “storia della medicina” dalla filosofia, nella misura in cui, come ho cercato di dimostrare, la questione della rottura tra medicina e filosofia è una questione costitutiva del pensiero medico.
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Cap. 20. Il filosofo / Giuseppe Cambiano
In parallelo a queste tematiche, ma in un modo non sempre agevole da ricostruire, si è sviluppata la tesi secondo cui tutti gli uomini sono filosofi.
SI può ricordare che nella filosofia italiana del Novecento essa ricompare in Benedetto Croce, per il quale i tentativi moderni di rinnovare la figura “già sublime, del filosofo beato nell’Assoluto”, il quale si pone superiore agli altri o a se stesso quando non è ancora filosofo, si tingono inevitabilmente di comico e si manifestano come illusioni impossibili.
All’immagine del purus philosophus Croce oppone l’idea di una filosofia presente e operante in tutte le discipline che studiano l’uomo nella sua specificità storica.
Il filosofo storico, secondo Croce, “si sente ineluttabilmente preso nel corso della storia” e perciò è condotto ad accettare la vita qual è, un misto di gioie e dolori, di pensiero e azione.
La conclusione è che filosofo è ogni uomo e ogni filosofo è uomo.
Quest’idea crociana è ripresa da Gramsci, che assume però il termine “filosofia” nel significato che Croce attribuisce a “religione”, ossia come “una concezione del mondo che sia diventata norma di vita”, non libresca, ma attuata nella vita pratica.
Ritorna, dunque, in Gramsci la saldatura tra vita e dottrina, ma attraverso una generalizzazione della nozione di filosofo.
La differenza tra filosofia in questo significato ampio e filosofia in senso “professionale” diventa allora puramente quantitativa, non qualitativa: la filosofia professionale è data dai tentativi “per mutare, correggere, perfezionare le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata epoca e per mutare quindi le relative misure di condotta, ossia per mutare la attività pratica nel suo complesso”.
E’ inutile sottolineare come ciò si differenzi dalle pretese dei filosofi antichi di stabilire uan differenza qualitativa radicale tra il loro modo di vita e quello dei più: la filosofia non è un tipo di vita che tutti siano per natura in grado di condurre, essa riguarda soltanto gli esemplari pienamente riusciti del genere umano, i quali sono inevitabilmente pochi.
In questo senso la vita filosofica non è universalizzabile di fatto e ne restano esclusi non soltanto gli schiavi, ma buona parte degli stessi cittadini liberi.
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Cap. 21. Poeta, saggio, sofista, filosofo: l’intellettuale nella Grecia antica / Carles Miralles
Attraverso testi verosimilmente fissati per iscritto più tardi, e spesso frammentari, senza sicurezza riguardo al pubblico né all’occasione cui erano destinati, noi possiamo dedurre che questa situazione del poeta, l’operatore culturale per antonomasia dell’epoca arcaica, preesisteva alla fissazione per iscritto, a meno che non ci fosse stata un’interruzione nelle diverse tradizioni poetiche.
Ma non abbiamo modo di calcolare con certezza né la possibilità né la portata di rotture innovatrici, di invenzioni e di cambiamenti importanti nelle origini.
Tutto sembra esserci arrivato molto consolidato.
Allora, o questo significa che le generazioni posteriori che ci hanno trasmesso i testi che ci rimangono vi erano intervenute in profondità, oppure deve essere indizio di continuità culturale.
Il poeta – i poeti – che troviamo all’inizio di ciò che noi chiamiamo “letteratura” greca è un professionista specializzato, che dispone, grazie al proprio sapere, di un luogo istituzionalizzato per intervenire nello scambio di doni e di onore che fanno il prestigio degli uomini dell’epoca.
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Toccato da un dono divino, il poeta è un uomo eccezionale, che non è mai esattamente come gli altri: come xeinos non è né forestiero, ad esempio, e nemmeno da morto sarà come gli altri.
L’immagine che i greci hanno costruito dei loro poeti più antichi ci permette di visualizzarli fra terra e cielo – foss’anche solo perché Platone ebbe più tardi la trovata di vederli come “un essere leggero, alato e sacro”.
Il senso, però, è del tutto diverso da quello dello scherzo di Voltaire sui lettrés: il poeta greco, anche se a volte sommamente indifeso fra gli uomini e persino ingiustamente maltrattato da loro, ha in compenso un dono divino.
E ha scoperto l’antidoto contro la mancanza di difesa nella necessità che di lui hanno queste comunità di greci che non lo considerano né uno di loro né un estraneo.
Da quando per noi ha inizio la cultura greca, il poeta ha convertito il dono degli dèi in mestiere umano; la poesia, se ancora conserverà per Platone la pericolosa caratteristica di cosa ispirata, incontrollabile e inquietante, arriverà ad essere, fra i greci, un’arte, una tecnica.
Il poeta greco non è, in epoca arcaica, un derelitto fra cielo e terra: ha colonizzato lo spazio fra gli dèi e gli uomini e ci vive sicuro, con il consenso degli dèi e mantenuto e onorato dagli uomini.
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Certo che ci fu poesia nell’epoca ellenistica, e molta.
Ma il poeta non era più l’operatore culturale per antonomasia.
Non si guadagnava da vivere facendo il poeta, ma doveva guadagnarselo facendo il maestro di scuola o il bibliotecario o l’animatore culturale al servizio di qualche potente – pochi, con più fortuna, persino nel palazzo di qualcuno dei monarchi dell’epoca.
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Cap. 22. L’utopia e i greci / Alfonso M. Iacono
Mumford evidenzia qui assai bene un aspetto importante dell’utopia: il suo riflettere e, nello stesso tempo, il suo annunciare uan dimensione della storia dove c’è posto per l’inattuabile e l’irrealizzabile.
E dove, soprattutto, l’inattuabile e l’irrealizzabile offrono, per contrasto, una luce critica per vedere l’attuale e il realizzato.
l’Utopia, parola inventata da Tommaso Moro, che significa letteralmente “non luogo”, è appunto il “non luogo” dell’osservatore che si simula dall’esterno per comparare il suo contesto storico-sociale, il mondo in cui egli vive, con possibilità altre, offerte dall’immaginario.
L’utopia paga assai spesso il prezzo di una sua eccessiva semplificazione, o, per meglio dire, come Mumford fa vedere assai bene nel comparare Venezia a Amaurote, paga il prezzo di una specularità che la rende, al contrario di quel che generalmente si pensa, troppo vicina al mondo storico reale e da questo troppo dipendente.
Come una sorta di mondo rovesciato.
Così, il sogno utopico di buone relazioni umane finisce col mostrarci una felicità in grigio.
L’abolizione del male, delle cattiverie, delle violenze, delle prevaricazioni, dello sfruttamento, della corruzione, si traduce allora nel conformismo, nella standardizzazione, nell’irreggimentazione delle istituzioni totali, nell’alveare di Bernard di Mandeville o nella fattoria degli animali di George Orwell.
Ma andando un po’ oltre la letteralità della parola utopia si può far corrispondere alla u il prefisso greco eu, “buono”, “bene” e leggere allora non più soltanto “non luogo”, ma “luogo buono”, “luogo ideale”.
Ma, se è così, c’è allora da chiedersi se non sia esattamente questo passaggio dal “non luogo” al “luogo ideale” a creare problema e a generare tutte le difficoltà inerenti alla definizione stessa di ciò che può dirsi o non dirsi utopia.
Il passaggio dal “non luogo” al “luogo ideale” sposta, forse impercettibilmente, il significato dell’utopia: alla critica dell’esistente per differenza e per contrasto viene a sovrapporsi il progetto immaginario.
Naturalmente, critica e progetto costituiscono entrambi elementi indispensabili all’utopia, ma è probabilmente nell’ambiguo rapporto tra questi due elementi che consiste la grande difficoltà nel definirne il concetto e nel decidere chi e cosa includere o escludere dal suo campo di significato.
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Cap. 23. Disegnare la terra / Christian Jacob
In Cina, la carta si presenta come uno strumento essenziale per la gestione e il controllo dell’impero, delle sue frontiere, delle sue risorse economiche, delle sue suddivisioni amministrative.
…………..
La cartografia è onnipresente nella gestione dello Stato come nell’esercizio e nel simbolismo del potere.
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Una componente della storia politica consiste “nella visita alle città, alle regioni, nella osservazione diretta delle caratteristiche dei fiumi, dei porti, della natura delle terre e dei mari, delle distanze fra le singole località”.
Lo storico deve dare un’idea delle caratteristiche salienti dei luoghi in cui si svolge l’azione e andare ben al di là della semplice enumerazione dei toponimi, al fine di offrire al lettore una carta mentale nella quale i tre continenti trovano collocazione in base ai quattro punti cardinali.
Lo storico deve inoltre mettere in condizione il proprio lettore di immaginare il quadro in cui si svolge uan spedizione o ha luogo uno scontro.
Nel libro trentaquattresimo della sua opera, Polibio mostra grande familiarità con la geografia alessandrina riprendendone anche i principali temi di discussione, dalla questione omerica, alle misure del mondo abitato, alle zone climatiche, ecc.
L’oggetto specifico delle Storie di Polibio contribuisce alla storicizzazione della geografia data la correlazione tra espansione romana e ampliamento dell’orizzonte del geografo e del viaggiatore; sollecita inoltre l’aggiornamento delle conoscenze.
Per quanto riguarda la conoscenza geografica dell’Occidente, le conquiste romane sono il corrispettivo della spedizione di Alessandro Magno in rapporto all’Oriente.
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Questo nesso tra geografia dalle aspirazioni universali e potere imperiale che rimodella le suddivisioni territoriali si ritroverà nel secolo di Napoleone.
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Il tema dell’interazione tra uomo e territorio pone il problema della definizione delle regioni e, di conseguenza, del determinismo.
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La carta e il testo: queste due forme di geo-grafia nascono in Grecia.
La prima risponde a un progetto di visualizzazione sinottica, di modellizzazione simbolica, che trasforma l’ecumene in spazio grafico, geometrizzato e quantificato; spazio di calcoli, di tracciati, di determinazione delle posizioni.
Il testo, al di là della differenza dei progetti discorsivi, fonda un modello di scrittura che costruisce lo spazio mediante la categorizzazione, la denominazione, l’analogia, la digressione, la descrizione.
Puramente e semplicemente descrittiva, oppure speculativa, maniaca del particolare o interessata alla ricerca del punto di vista panoramico della sintesi, in blanda forma narrativa o rigidamente strutturata in racconto, questa scrittura è “poetica” del mondo; nel caso di Strabone come in quello di Thévet, Elisée Reclus, Vidal de la Blache.
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La sopravvivenza di alcuni toponimi antichi va ben al di là del problema della loro localizzazione, per quanto controversa possa essere come nel caso di Tule.
Questi luoghi sono caratterizzati da una grande plasticità che consente a ideologie e nazionalismi di appropriarsene.
La geografia antica ha delimitato un orizzonte mentale e concettuale che s’impone all’erudito come al geografo, al viaggiatore come all’esploratore.
A Medioevo e Rinascimento, l’eredità della geografia antica regala la certezza rassicurante di un mondo già denominato, misurato, compiuto, la cui conoscenza si acquisisce tramite la biblioteca più che attraverso i tormenti della riscoperta.
Questa ecumene già descritta impone al geografo moderno la mediazione dei testi greci e latini: un vasto materiale di base, costituito da toponimi, da distanze e indicazioni topografiche, suscettibile di essere decontestualizzato, spersonalizzato e ricombinato all’infinito.
Ciò spiega la fortuna paradossale dei testi antichi, cui si attribuisce la capacità di fornire un “sapere quadro” del mondo, che lo rende intelligibile, memorizzabile, esprimibile.
Medioevo e Rinascimento imparano la geografia leggendo Plinio il Vecchio, Isidoro di Siviglia, Paolo Orosio, Pomponio Mela e persino Dionigi Periegeta.
Fanno così la conoscenza delle zone climatiche del globo terrestre, dell’insularità dell’ecumene delle zone climatiche del globo terrestre, dell’insularità dell’ecumene circondata dall’oceano, della sua suddivisione in tre continenti, del catalogo delle isole, delle ripartizioni etniche del mondo antico, della geografia delle regioni che hanno fatto la storia, come Grecia, Italia, Asia Minore.
In epoca moderna, il teso di Dionigi conserva la specificità che lo caratterizza dall’epoca di Adriano, ovvero l’efficacia immaginaria della carta mentale unitamente al potere mnemotecnico di un elenco di nomi di luoghi e di popoli che si dispiegano sulla scorta di un viaggio ideale attorno al mondo.
Sono queste le autorità cui, sino al 18. secolo, si rifà più o meno apertamente l’insegnamento di una geografia descrittiva, “politica urbana, morale…per dirla tutta, umana”.
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Non è possibile scrivere la storia della geografia sotto forma di narrazione lineare ed evoluzione semplice e teleologica.
Al pari della nostra, la geografia dei greci si compone d’un fascio di tradizioni che comportano metodi scientifici e generi di discorso spesso assai diversi.
Contraddizioni, controversie e difficoltà epistemologiche fanno parte di questa storia allo stesso titolo del lento progredire della conoscenza del globo e dell’affinamento successivo della sua immagine.
Sotto questo rispetto, la tradizione della geografia antica sembra indissolubilmente legata ai dibattiti, agli errori e diciamo pure alle divagazioni di una geografia europea alla ricerca di identità e degli strumenti più adatti alla realizzazione dei propri obiettivi, dovendo nel contempo fare i conti con un’eredità ambigua.
La trasmissione della geografia dei greci non può essere separata dalle operazioni di decostruzione, aggiustamento e traduzione che finiscono per instaurare uan nuova distanza concettuale e fare della scienza antica un oggetto storico privo di connessione con la scienza contemporanea.
Il legame tra geografi europei e loro predecessori greci e romani ci illumina sui mutamenti della disciplina, sul cambiamento delle sue frontiere, delle sue curiosità, delle sue domande di fondo.
L’evolversi del punto di vista del geografo sui testi antichi spiega gli spostamenti e le continuità che, più di vere e proprie fratture, caratterizzano la storia che abbiamo tentato di abbozzare: la geografia moderna nasce da uno scarto e da una presa di distanza, da uno sguardo critico che relativizza l’autorità degli antichi e colloca l’architettura della loro immagine del mondo in un corpus infinito di materiali topografici.
In quanto erede della tradizione neotolemaica, Mercatore non vede più alcuna utilità nel modernizzare le carte di Tolomeo.
Queste carte sono ormai dotate di un valore puramente storico e prive di incidenza su una geografia che deve sostenere ben altre sfide e soddisfare ben altre urgenze.
Nel 17. secolo, i Parallela Geographiae veteris et novae di padre Briet si servono del confronto tra antichi e moderni quale strumento d’una nuova pedagogia della geografia: due biblioteche vengono così metodicamente confrontate, paese per paese, per quanto riguarda il continente europeo, sulla scorta di una descrizione di tipo straboniano e di una tavola di nomenclatura ispirata alla tradizione tolemaica.
Ne deriva una geografia storica che tenta di ripensare la storia dei territori e dei paesi, la trasformazione delle loro condizioni naturali in seguito all’azione dell’uomo.
I generi di vita dei diversi popoli sono studiati tramite una griglia di elementi pertinenti che non si discosta da quella dell’etno-geografia antica (regime politico, organizzazione sociale, costumi, ecc.).
Osserviamo che questa geografia comparata non presta attenzione alla storicità del sapere geografico, alla possibile differenza di statuto, intenti e metodi tra antichi e moderni.
I greci hanno insegnato ai moderni che la geografia è intrinsecamente storicizzata, che è storica in quanto si applica a uno spazio vissuto, abitato, conquistato, perduto, attrezzato, coltivato da popolazioni del passato e del presente.
Elemento di intellegibilità per assistere al “teatro” della storia, per seguire l’andamento delle guerre contro i medi o l’avanzata delle truppe romane, la geografia diventerà naturalmente storica dacché si prefiggerà, in epoca rinascimentale e classica, di chiarire i testi degli autori greci e latini, sia storici sia poeti, ricollocando i loro toponimi in carte perlopiù moderne.
Nel 18. secolo, d’Anville sembra confermare questa netta separazione tra geografia antica e geografia moderna: “La geografia antica è racchiusa in ciò che gli scrittori dell’antichità, greci e romani, ci hanno lasciato in termini di conoscenza in materia”.
Ma in questo modo definisce la geografia antica in base a un corpus e non esclude l’esistenza di possibili legami con la geografia moderna.
Nei Rapports à l’Empereur sur le progrès des sciences, des lettres et des arts depuis 1789 l’articolo sulla geografia antica è affidato a Gosselin.
La geografia moderna rientra invece nel “rapporto” di Delambre sulle scienze matematiche.
Dopo aver ricordato le brillanti realizzazioni della geodesia francese nel 18. secolo (misura del grado di meridiano, calcoli della longitudine, nuova carta della Francia ecc.), Delambre afferma che la geografia “cammina a grandi passi verso la perfezione”.
Gosselin, nel suo articolo, s’adopra invece a dimostrare che la geografia antica costituisce ancora “uan parte essenziale e integrante della scienza geografica propriamente detta”, che non si riduce a “un’appendice della storia” e può collocarsi “al livello delle scienze esatte”.
Il confronto/scontro tra storico e astronomo-matematico può considerarsi un paradigma durevole.
Allo storico, la descrizione dello spazio fornisce il filo conduttore di un sapere enciclopedico del quale etnografia e storia costituiscono due dimensioni essenziali.
All’astronomo-matematico fornisce invece il forte interesse geodetico, il quadro cosmologico, il tracciato della cartografia generale e la paziente disciplina dei rilevamenti sul terreno, della triangolazione, delle carte con finalità pratica.
Strabone e Tolomeo hanno qui valore fondante, sono due punti di riferimento.
Esiste poi una posizione intermedia, quella degli eredi dei meteorologi greci che guardano alla geografia con l’occhio del naturalista: Descartes, Buffon, Buache, Humboldt.
Nella complessa dialettica tra greci e noi, l’eredità bifronte di una scienza a due teste – Tolomeo e Strabone – ispira e favorisce lo sviluppo della geografia moderna.
Almeno sino alla soglia del 19. secolo, greci e romani cooperano alla realizzazione del compito primario: l’inventario del mondo, la sua cartografia su piccola e media scala, la sua misurazione.
Palliativo alle lacune delle conoscenze moderne e all’impossibilità di fondare la carta su misurazioni esclusivamente astronomiche (la sindrome di Eratostene?), le fonti antiche non si limitano a venire incontro all’urgenza geodetica.
Quando la geografia moderna avrà assunto il definitivo controllo della sua cartografia, la disseminazione dei toponimi, delle distanze degli itinerari e dei frammenti si ricomporrà in testi organici, letti come altrettante lezioni da meditare sull’uomo, il tempo, lo spazio.
Pag. 950-53
Cap. 24. Scrivere gli eventi storici
Ci si domanda dunque di nuovo se, e in che senso, quel modello (nella misura in cui è lecito parlarne come di un modello unitario) possa ancora essere considerato, secondo la celebre espressione tucididea, un “possesso per sempre”.
Per tentare una risposta rievocheremo qui una serie di momenti e temi che appartengono alla storia di quella storiografia, o meglio delle riflessioni – prodotte non solo dagli storici, ma anche dai filosofi e retori antichi – che si sono nel tempo accompagnate alla vera e propria “scrittura degli eventi”: motivazioni dell’interesse storico, finalità proprie del tipo di discorso in cui si traduce e metodi da impiegare per conseguirle, sforzi di interpretazione del senso complessivo delle vicende umane.
Non un improbabile profilo, neppure sommario, di quella multiforme vicenda; semplicemente uan ricognizione, svolta peraltro in modo da evidenziare connessioni che implicano uan sequenza cronologica (una trattazione in forma prevalentemente sistematica è a mio parere poco convincente), di quei suoi aspetti che sembrano toccare più da vicino tematiche vive nel dibattito contemporaneo sulla storia, riconducibili al problema generale del suo valore conoscitivo, e delle condizioni della sua validità: un problema, del resto, centrale tanto nella riflessione storiografica greca quanto in quella moderna.
Pag. 957
Se si parte dalla premessa che tanto il mito quanto la storia rappresentano prima di tutto il modo per “ancorare il presente nel passato”, diventa più economico parlare di “frontiere aperte2 fra l’uno e l’altra e concepire senz’altro il passato come qualcosa che si può, o si deve, “inventare” per adeguarsi continuamente alle esigenze sempre mutevoli del presente.
Pag. 960
In conclusione sembra ragionevole pensare che la diffusione delle pratiche scrittorie abbia costituito un elemento importante per la nascita e i primi sviluppi della storiografia greca, ovvero che se ne debba considerare momento essenziale l’acquisizione di quel senso dell’alterità fra presente e passato che rappresentava il vero elemento di novità rispetto all’indistinzione temporale dell’epica.
Da questo stesso momento è anche segnata, con le parole di Ecateo, la responsabilità del “facitore di discorsi” rispetto al suo racconto, quale risulta dalla scelta razionale fra le diverse versioni di precedenti racconti, e dalla utilizzazione dei documenti che è riuscito a trovare; scelta e utilizzazione che, per tornare al discorso di partenza, non sono incompatibili con la funzione originaria di creazione d’identità che era propria del mito e della poesia epica che lo veicolava, ma la reinterpretano in termini di maggiore complessità.
Il nuovo tipo di discorso mantiene in effetti il principio che si debba vivere col ricordo delle grandi imprese, ma rivela una consapevolezza nuova della resistenza che i sedimenti del passato frappongono alla libera elaborazione del discorso memoriale.
L’acquisizione di questa consapevolezza appare a noi l’elemento essenziale, caratterizzante anche in seguito la scrittura storiografica greca, nella varietà delle forme nelle quali si articolerà.
Né è da vedervi contraddizione col fatto che già da Erodoto si manifesti la chiara tendenza a spostare verso il contemporaneo (o meglio verso il passato recente) l’asse dell’interesse storico.
L’umanizzazione del tempo, cioè la sua valutazione in termini di esperienza umana, può anzi esserne considerata un pacifico corollario; quello che conta è che anche per la costruzione della memoria del passato recente, o del presente, venga ormai sentita indispensabile la disponibilità di testimonianze, scritte od orali, che possano garantirne la validità.
Pag. 967
Se abbiamo sottolineato la dimensione scrittoria dell’opera di Ecateo è naturalmente perché la sua celebre dichiarazione d’apertura costituisce la fondamentale testimonianza di una nuova consapevolezza della necessità di rapportarsi in modo critico alle tradizioni del passato: un modo che resterà poi sempre un’importante componente del discorso storico, quale verrà organizzandosi a partire da Erodoto.
Con questo però non s’intende sottovalutare un’altra dimensione, non meno importante, della sua opera, che sarà poi anch’essa propria di Erodoto: l’interesse, che è facile ricondurre alle peculiari condizioni di vita delle comunità greche della costa anatolica, per l’indagine geografica, specialmente attraverso i viaggi di mare, e per la descrizione etnografica.
Esso rappresenta anzi, in quanto si richiama al principio dell’autopsia, un aspetto essenziale di quella dimensione empirica che, come vedremo, è propria della storiografia greca fin dalle sue origini.
E’ solo con Erodoto, in ogni caso, che il termine “storia” (istorie) entra a far parte del lessico intellettuale greco, dal quale poi, attraverso la mediazione latina (historia), passerà a quello dell’Occidente: almeno da questo punto di vista, dunque, la già ricordata definizione ciceroniana dello scrittore di Alicarnasso appare corretta.
Bisogna subito aggiungere, però, che il significato che tale termine ha nel celebre passo del proemio alle Storie erodotee non è esattamente quello che è per noi ovvio: un significato, quest’ultimo, che è stato acquisito alla lingua greca solo qualche decennio più tardi; esso vale piuttosto “indagine”, “ricerca”, se non, come vuole ora F. Hartog, “una procedura di linguaggio che… arriva a far vedere”.
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Il discorso pubblico fu, tanto nell’Atene del quinto secolo che nella Roma tardo-repubblicana, un momento essenziale della vita politica, ma anche la condizione principale della conoscibilità degli eventi.
Tucidide lo considerò certamente, in quanto strumento per la creazione del necessario consenso popolare, non meno diseducativo, e più pericoloso, della lettura pubblica che i logografi davano delle loro opere storiche: elementi diversi e convergenti di quell’azione di demagogica corruzione, alla quale la parola scritta aveva ben poche probabilità di opporsi efficacemente; il vero destinatario del messaggio storico di Tucidide restava il politico futuro, ed era per lui che Tucidide protestava il proprio integrale rispetto della verità.
In ogni caso non va sottovalutata l’importanza dell’insistenza dello scrittore su questo punto; anche se in seguito diventa quasi un luogo comune che tutti gli storici ripetono nei loro proemi, senza che ciò costituisca ovviamente una garanzia di affidabilità per i contenuti delle loro opere, essi resta pur sempre la regola fondamentale per questo tipo di scrittura.
Cicerone, parlando nel De oratore del lavoro dello storico, dichiara quasi con fastidio: “Queste norme le conosciamo tutti. Chi non sa che la prima legge della storia consiste nel non osare di dire il falso? E poi di non temere di dire tutta la verità? E che non vi sia nessun sospetto di favoritismo in ciò che si scrive? Nessun sospetto di malevolenza? Questi principi fondamentali sono noti a tutti” (2.62-63).
E’ sintomatico del carattere stereotipico di queste raccomandazioni il fatto che lo stesso Cicerone inviti in una lettera privata l’amico Lucceio a trascurare quella regola, nello stendere l’opera storica che gli chiede di comporre su se stesso: per Cicerone il valore esemplare delle sue gesta doveva avere la precedenza sul rispetto della verità.
E’ stato dunque per sua e nostra buona sorte che il grande oratore e intellettuale della fine della repubblica, pur convinto di potere meglio di chiunque altro innalzare la letteratura latina al livello di quella greca nel campo della storiografia, ha rinunciato a dare corso a questa minaccia.
Pag. 978
Il fatto che, dopo Tucidide, l’obbligo dello storico, indipendentemente dai suoi orientamenti e dai suoi interessi, di dire la verità, nei limiti in cui è onestamente in grado di accertarla, non sia stato seriamente contestato in linea di principio, non significa certo che sia venuta meno la discussione che diventa assai accesa a partire dal 4. secolo, e testimonia prima di tutto che la storiografia è ormai riconosciuta come uno specifico tipo di scrittura in prosa, del quale si tratta di definire le regole.
Le opere dei primi protagonisti di questa discussione non sono giunte fino a noi, e devono essere ricostruite sulla base di citazioni, spesso polemiche, di autori più tardi: specialmente Polibio, che scrive alla metà del secondo secolo, e ha un indirizzo storiografico che vuole rappresentare una riproposizione fedele, pur con qualche significativo ampliamento di prospettiva, del modello tucidideo.
In generale sembra comunque di poter dire che gli orientamenti principali che emergono, che si definiscono convenzionalmente “storiografia retorica” e “storiografia tragica”, rappresentino, da diversi o anche opposti angoli visuali, una ripresa, naturalmente in termini largamente rinnovati, di una prospettiva di tipo erodoteo: nel senso che tradiscono l’esigenza di recuperare quella immediatezza e quella estensione comunicativa, che Tucidide aveva ostentatamente ripudiato.
Ciò su cui si rileva un profondo contrasto è naturalmente il modo di realizzare questo obiettivo, che è la costruzione di un nuovo discorso storiografico: mentre da una parte si punta all’elaborazione di un testo che si presenti con i caratteri della semplicità e della chiarezza espressiva, dall’altra si ritiene di dover cercare effetti più propriamente poetici, anzi drammatici, suscettibili di sollecitare non tanto la riflessione quanto la partecipazione emotiva dei lettori.
Pag. 979
Le tecniche aventi per oggetto l’accertamento della verità, e in particolare delle reali cause dei fatti, sono analizzate e meticolosamente esposte da Polibio in più luoghi; lo storico vi si rivela sensibile e interprete e utilizzatore ai suoi fini storico-politici degli sviluppi più recenti della scienza ellenistica, sul piano sia della teoria che dell’applicazione pratica.
Non ci soffermeremmo su di esse, se non per rilevare l’importanza che ha in tale contesto la ricerca, la lettura e l’interpretazione dei documenti scritti, unitamente alla verifica della loro autenticità; elementi questi che costituiscono fra l’altro uno dei punti forti della polemica che Polibio sviluppa con lo storico siciliano Timeo nel corso del libro dodicesimo delle Storie (12.5-11, specialmente 9-11), e ci rassicurano sul fatto che il valore attribuito da Dionigi di Alicarnasso a questo tipo di documentazione nelle fasi iniziali della storiografia greca non possa essere considerato una pura fantasia.
Allo stesso modo ci limiteremo a menzionare l’importanza della discussione, sempre nel dodicesimo libro, relativa al modo di ricostruire e utilizzare i discorsi dei protagonisti dell’azione storica (12.25-26b).
Polemizzando ancora con Timeo, accusato di essersi praticamente inventato i discorsi – e presumibilmente di aver teorizzato la legittimità metodologica di un simile modo di fare – Polibio sostiene: “Il compito specifico della storia consiste anzitutto nel cercare di conoscere i discorsi realmente pronunciati e il loro vero senso; in secondo luogo, nel cercare di sapere per quale motivo ciò che è stato fatto o detto ha avuto o non ha avuto successo…
Chi passa sotto silenzio i discorsi veramente pronunziati e i loro motivi e vi sostituisce delle argomentazioni false o delle argomentazioni retoriche, toglie alla storia ciò che le è proprio” (12.25b).
Vale viceversa la pena di evidenziare un fatto che ha di per sé minore rilevanza metodologica, ma appartiene a quel mondo dell’ideologia che, come si è già sottolineato a proposito sia di Erodoto che di Tucidide, incide in modo sostanziale sulla confezione finale del prodotto storiografico, e ne determina il significato storico e la fortuna.
Nel caso specifico, è chiaro che l’idea interpretativa fondamentale che anima il racconto polibiano, quella secondo cui l’acquisizione da parte di Roma dell’egemonia sul mondo mediterraneo rappresenta il primo vero momento unificante della storia universale, rinnova in maniera radicale la prospettiva di Tucidide, che si poneva sì il problema di giustificare la scelta del tema, ma lo risolveva semplicemente assicurandosi che la “sua” guerra fosse la più importante fra quante se ne erano date fino al suo tempo; Polibio pretende invece di stabilire l’importanza del suo tema nell’economia generale del mondo storico, anche rispetto al futuro, nonostante che la conquista romana sia frutto di una tyke, la cui ratio non è invero sempre evidente.
I singoli eventi svoltisi su tutto l’arco dell’ecumene nel famoso cinquantennio dall’inizio della seconda guerra punica alla fine della guerra con Perseo si rivelano comunque a posteriori alla mente dello storico coordinati e finalizzati alla realizzazione di un piano complessivo; a questo punto la storia si fa veramente tragedia, ma non nel modo puerile in cui alcuni storici hanno ritenuto di poter aggirare l’obiezione aristotelica: bensì nel caso che l’artefice umano del racconto riesce a identificarsi con il senso più riposto degli avvenimenti.
Per noi è chiaro che questa concezione non è che la traduzione in termini storiografici dell’accettazione da parte di Polibio del dominio romano – propiziata anche dalle ben note vicende personali dell’ex dirigente della lega achea, trascinato a Roma come ostaggio all’indomani della guerra con Perseo, e lì per decenni blandito dalla potente famiglia degli Scipioni; un’accettazione che non poteva andare disgiunta dalla ricerca di una spiegazione del collasso politico del mondo ellenistico, e insieme dall’invenzione di una legittimazione del dominio romano.
Ma in ogni caso l’elaborazione ideologica e storiografica di Polibio, largamente condivisa – si deve presumere – anche se non condizionata, dagli ambienti più influenti della politica e della cultura romana, contribuì in maniera forse decisiva a determinare il formarsi della stessa concezione dei romani di una propria grandiosa missione imperiale, quale la troviamo formulata poi in Cicerone o in Virgilio; a parte, naturalmente, l’influenza che ebbe sull’elaborazione da parte delle dirigenze greche di quel modo di vedere il mondo romano che portò nel giro di qualche decennio a sceglierne la causa anche quando – come nel caso della guerra mitridatica – un’alternativa sarebbe stata possibile: un punto sul quale non è questa la sede per soffermarsi.
Quello che è qui da notare è invece che questo impianto storico-ideologico gettò le premesse di fondamentali sviluppi, anche storiografici, successivi; prima di tutto, l’idea di una koinè greco-romana nella gestione politica e culturale di un’ecumene unificata, e più tardi la creazione dell’idea della provvidenzialità dell’impero da parte della storiografia cristiana.
Pag. 984-86
Il progetto culturale di Plutarco, reso realistico anche da una secolare tendenza romana ad accogliere gradualmente le popolazioni vinte nel proprio sistema di governo, è allora quello di elaborare una piattaforma storica comune, nella quale entrambi i popoli possano riconoscersi, riconoscendo insieme anche quelle che sono le differenze, sia naturali che storiche, che esistono fra di loro: differenze che sono però tanto meno rilevanti, in quanto i romani siano disposti ad accettare, come di fatto sembrano aver accettato ormai da tempo, che il metro per la misurazione dei valori intellettuali è greco, e non romano.
Pag. 991
Sappiamo che proprio dalla scrittura di storie relative alla seconda di queste operazioni militari trae origine il testo che rappresenta l’unica riflessione sistematica sulla storiografia a noi conservata dal mondo antico: il Pos dei istorìan syngrafein (Come si deve scrivere la storia) di Luciano, sul quale ci soffermiamo conclusivamente anche perché è proprio qui che sembra formulato negli esatti termini del Ranke il principio (naturalmente già tucidideo e polibiano) che lo storico deve dire solo ”come effettivamente sono andate le cose” (39).
Questo testo, che si ricollega esplicitamente agli orientamenti critici formulati da Tucidide (42) e specialmente all’imperativo del rispetto della verità, ma li aggiorna sulla base delle discussioni successive, punta a distinguere con rigore la scrittura di storia da altri tipi di scrittura che con quella non devono avere nulla in comune: l’encomio prima di tutto, e più in generale la poesia, nella quale “la libertà è sfrenata, e unica norma è ciò che piace al poeta” (8).
Il punto è sempre quello che la mancanza di verità rende inutile la storia; il richiamo, che taluni fanno, alla necessità di abbellire il racconto per renderlo più gradevole alla lettura, sorvola sul fatto essenziale che i destinatari di quel racconto non sono la gente comune dell’oggi, am i pochi che sanno (10-11), e che potranno giovarsene specialmente in futuro (39; 61-63).
Il comandamento della verità, in particolare, deve far sì che lo storico somigli allo Zeus omerico, che è simbolo d’imparzialità fra i contendenti (49).
Lo storico dovrà inoltre essere provvisto di intelligenza politica (34), e possibilmente avere anche esperienza diretta tanto di politica quando di attività militare 837): ciò evidentemente perché non è possibile raccontare i fatti senza capirli; ma neppure la capacità espressiva è da sottovalutare (34), perché da essa dipende la chiarezza dell’esposizione, e in questo ambito ci si potrà anche sollevare, in particolari contesti, alle altezze del discorso poetico (43-46).
Infine, una considerazione di notevole originalità, in cui viene messa in evidenza la dimensione creativa dell’attività storiografica.
Pag. 992-93
La storiografia greca, nata dall’esigenza, comune a molti altri gruppi umani, di conservare il ricordo di eventi rilevanti per la vita della comunità, che assicura così la propria identità, si è caratterizzata specificamente per una volontà di accertamento critico della verità dei fatti e di spiegazione dei fatti stessi.
Essa ha mantenuto sempre acceso, come si è visto, il dibattito sui presupposti, i metodi, le finalità del discorso storico, ridiscutendone continuamente le modalità espressive, le funzioni memoriali, i valori conoscitivi, le responsabilità educative; in questo dibattito a partire dalla metà del secondo secolo sono sempre più autorevolmente intervenuti anche intellettuali romani, per i quali la cultura greca era diventata l’unica cultura possibile.
L’elaborazione polibiana dell’idea di uno sviluppo della storia dell’ecumene verso l’unificazione politica sotto il dominio di Roma vi ha poi introdotto un elemento del tutto nuovo, di grande importanza per il futuro: vi si sarebbe infatti innestata la concezione escatologica e finalistica della vicenda umana che fu caratteristica dell’universalismo cristiano.
La stessa idea avrebbe d’altro canto prodotto una radicalizzazione di preesistenti polemiche interne al dibattito storiografico: dalla saldatura con le rivendicazioni antiromane di varie tradizioni culturali vicino-orientali scaturì in effetti una sorta di ripudio del mondo greco di scrivere la storia, al quale furono contrapposte altre pratiche storiografiche, considerate più antiche e attendibili.
Pag. 1000
A guardare alle origini del contrasto fra Momigliano e Finley, si capisce dunque che il punto in discussione non è tanto se la storiografia greca rappresenti un riferimento indispensabile per il mondo moderno di pensare e fare storia, quanto di che tipo di riferimento si tratti; quel contrasto è quindi piuttosto una spia dell’incertezza odierna sulla natura della ricerca e della scrittura storica, nell’ambito di un dibattito culturale nel quale, come ha osservato lo stesso Momigliano, dopo il Creuzer e l’Ulrici la riflessione sulla storiografia greca è rimasta in realtà per molto tempo deplorevolmente marginale.
Il Momigliano si pone come erede di una tradizione di pensiero che vede quell’esperienza il prototipo di un approccio razionalistico alla ricostruzione delle vicende umane, che ne assume prima di tutto una realtà indipendente dall’attività dello storico, ne subordina la possibilità di analisi alla messa in opera di una specifica tecnica e alla disponibilità dei relativi materiali, i documenti; e infine sottopone la validità e l’attendibilità dei risultati ottenuti al giudizio pubblico.
Il Finley insiste viceversa sulla componente letteraria e artistica della storiografia greca, che egli vede radicata nella dimensione funzionale della memoria poetica originaria; e vi innesta suggestioni emergenti dalla riflessione storico-antropologica contemporanea, che, nella misura in cui esasperano il relativismo connesso a un approccio di tipo “primitivistico” al mondo greco, rischiano alla fine di distruggere qualunque piattaforma comune fra antico e moderno.
In questo modo le sue posizioni rafforzano obiettivamente quella concezione “retorica” della storia – oggi impersonata emblematicamente dallo studioso americano Hayden White, ma le cui fondamenta erano gettate da Roland Barthes - che non solo revoca alla storiografia qualunque statuto di scienza (sia pure “sui generis”), ma, cosa ben più seria, minaccia di togliere ogni fondamento reale alla storia stessa, in quanto serie di eventi prodotti e vissuti dall’uomo; ovvero, che del resto è lo stesso, di negarle conoscibilità, nella misura in cui delegittima la memoria, alla quale, anche se sostenuta da documenti scritti, rifiuta qualsiasi valore autenticamente testimoniale.
Appare chiaro che entrambe queste posizioni possono appoggiarsi a riflessioni e pratiche storiografiche del mondo greco (e romano); ciascuna di esse può dunque pretendere di interpretare correttamente l’”invenzione” greca della storiografia.
Tuttavia, come dovrebbe del resto risultare evidente da quanto si è detto fin qui, sembra a noi difficile negare che, almeno per quanto riguarda le premesse teoriche, la pretesa di cui si fa interprete il Momigliano sia meglio fondata dell’altra.
E’ vero che da Aristotele in poi i filosofi, abili a costruirsi in Grecia, al di là delle polemiche reciproche, uno statuto disciplinare di una solidità invidiabile, hanno fatto del loro meglio – ostentando (con la possibile ricordata eccezione del filosofo-storico Posidonio) sufficienza o disprezzo per una conoscenza accusata di restare prigioniera del particolare – per gettarla nelle braccia compiacenti della retorica; ma non per questo la storiografia antica, o almeno i suoi esponenti più significativi, hanno mai rinunciato a rivendicare la specificità di quel tipo di scrittura e la sua irriducibilità a moduli espressivi esclusivamente formali.
E d’altra parte la teoria retorica, pur fissando regole per il discorso storico, non ha mai preteso di entrare nel merito dei suoi contenuti: anzi, ne ha ad esempio distinto con cura le caratteristiche rispetto alla ben diversa narratio che costituisce parte integrante dell’oratoria giudiziaria.
Pag. 1009
Citazione da Johan Huizinga
La storia è sempre un dar forma al passato, e non può pretendere di essere qualcosa di più.
E’ sempre un cogliere un senso del passato, dandone un’interpretazione.
Anche il semplice raccontare è già comunicare un senso e l’assimilazione di questo senso può avere un carattere semiestetico.
Sarebbe errato pensare che queste considerazioni aprano la porta a uno scetticismo storico.
Ogni scetticismo storico, che svaluti una conoscenza acquisita in questo modo, non può che portare a uno scetticismo filosofico generale che non risparmia né la vita stessa né alcuna scienza, nemmeno la più esatta.
Se la storia, come attività intellettuale, è un “dar forma”, allora possiamo dire che, come prodotto, essa è uan forma – una forma intellettuale per comprendere il mondo, così come lo sono la filosofia, la letteratura, il diritto, la fisica.
Da queste altre forme intellettuali la storia si distingue in quanto si interessa del passato ed esclusivamente del passato.
Il suo obiettivo è di comprendere il mondo nel passato e attraverso il passato.
Pag. 1010
Conclusione: responsabilità della storiografia greca
La riproposizione del modello scientifico d’impianto tucidideo si accompagnava in Polibio, come si è detto, all’elaborazione di un’idea chiusa della storia del mondo, vista come un processo apparentemente diretto a una conclusione necessaria: che per lui era l’unificazione dell’ecumene sotto il dominio di Roma.
SI potrebbe insomma parlare già a proposito di Polibio di un embrione di quell’idea di “singolarizzazione” che ha finito per diventare, dal Settecento in poi, l’emblema di “una storia eurocentrica, al massimo atlantica – una storia (dice Christian Meier) concepita sulla base di una situazione in cui l’Europa poteva considerarsi centro del mondo, e in cui in ogni caso l’Europa moderna o, più precisamente, la civilizzazione che si è diffusa a partire da essa, poteva sembrare la meta della storia mondiale, [mentre] le altre storie sul globo terrestre parevano finire in ‘vicoli ciechi dell’evoluzione’”.
In effetti, come ricorda Giacomo Marramao, già il Löwith osservò che tra gli storici dell’antichità soltanto Polibio “sembra avvicinarsi alla nostra concezione della storia, in quanto rappresenta gli avvenimenti come se convergessero tutti verso un medesimo fine, la potenza mondiale di Roma.
In ogni caso è chiaro che la moderna “singolarizzazione” assumeva l’esperienza antica come parte integrante della propria identità, creando uan “sua” storia del mondo, o storia universale, che escludeva tutto ciò che non faceva parte dell’area antico-occidentale.
Sempre il Meier ha denunciato i limiti e i rischi di questa impostazione che a suo parere deve ormai lasciare il campo a una disponibilità a comprendere tutte le parti del mondo, che non possono essere ulteriormente private di un loro spazio in un contesto storico che aspiri a una dimensione realmente universale.
Del resto, siamo ora di fronte a un ribollire di fermenti antioccidentali – tanto all’interno quando all’esterno dell’”Occidente”, si potrebbe dire, se non fosse oramai evidente che “Occidente” non ha più senso né geografico né politico, ma solo ideologico – che mettono in discussione sia il ruolo egemone di quella cultura che negli ultimi cinque secoli ha avuto nei paesi europei il suo centro propulsivo, sia il suo supporto storico, cioè il radicamento che si è costruito nel passato.
In questa sede, ci incombe il riconoscimento del ruolo che la storiografia greca ha avuto nell’elaborazione dei presupposti di questo sistema di riferimenti: essa ha contribuito alla costruzione da una parte, con Erodoto, di uno schema oppositivo noi / gli altri, che ha implicita in sé l’affermazione della superiorità di “noi” su “gli altri”; dall’altra, e soprattutto, con Polibio, dei fondamenti di quel blocco storico-culturale, usualmente definito “mondo classico” (o simili), che la cultura europea a partire almeno dal Rinascimento ha considerato come proprio titolo di nobilitazione, a fondamento dei suoi valori.
Ci sono delle attenuanti a queste “responsabilità”.
Si può in effetti osservare, da una parte, che la contrapposizione polare greci / barbari ha avuto sì un momento forte nel quinto e quarto secolo, a causa dello scontro quasi costante in questo periodo con i persiani, ma è andata attenuandosi nell’età ellenistica e romana (né in ogni caso alla storiografia può essere attribuita una specifica funzione trainante nel diffonderla); dall’altra, che è pure esistita, come si è visto, una linea di “resistenza” storiografica all’accettazione polibiana del dominio romano: sia nella forma di una produzione storica greca propriamente antiromana, sia in quella, dai risvolti più radicali, di una affermazione (sempre in lingua greca!) della priorità-superiorità di altre esperienze storiografiche (egiziana, ebraica) rispetto a quella greca.
Ed è notevole che nel suo provocatorio Black Athena, una vivace denuncia dell’ispirazione “romantica e razzistica” della creazione, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, del mito di una Grecia indoeuropea, senza commistioni col mondo afro-asiatico (“Aryan Model”), Martin Bernal ritenga di poterlo mettere in discussione proprio servendosi del ben diverso impianto ideologico che animerebbe i testimoni greci, storici e no, dei rapporti fra i diversi mondi culturali del Mediterraneo antico (“Ancient Model”).
Il problema sarebbe dunque anche qui quello dell’uso che i moderni hanno fatto della grecità, piuttosto che quello di un limite originario del modello storiografico greco; al quale non dovrebbero perciò essere imputate colpe di tipo “nazionalistico”.
Ma in ogni caso non sembra che il riconoscimento di questa responsabilità, qualunque essa sia, possa legittimare una messa in discussione del modello in quanto tale: la storiografia greca o moderna, non diventa per questo una “white methodology”; non da ultimo, per le capacità di autocorrezione che dimostra di possedere.
Meno che mai, come si è visto, può essere invocata a sostegno di una visione mitologizzante dell’approccio storico una pretesa inclinazione della riflessione antica a considerare la storiografia in termini esclusivamente retorici.
In realtà la cultura contemporanea, bianca e nera, non ha nulla da perdere, e molto da guadagnare, se, riconoscendo in questo come in tanti altri campi il suo debito nei confronti dell’esperienza greca, si sforza di riappropriarsi in modo costruttivo del valore che gliene appare più autentico.
Pag. 1011-13
Cap. 25. Per una storia delle storie greche
I greci avevano già narrato la loro “storia antica” a la loro “storia contemporanea” a partire del quinto secolo a. C.
Non si trattava però di un genere unitario: le varie opere erano diversissime per contenuto e per forma, la connotazione letteraria molto forte.
Contemporaneamente essi svilupparono tecniche d’indagine erudita e di ricostruzione del passato che furono applicate alle più svariate questioni storiche e antiquarie (sia nel campo della grande storiografia che nella storiografia locale).
Malgrado l’esistenza di modelli storiografici molto diversi, , gli autori migliori vennero a formare di fatto una serie quasi continua, una successione cronologica, perché molto spesso uno storico antico continuava l’opera di un suo predecessore o di ricollegava ad esso.
Giustamente si è parlato di “ciclo storico”, cioè della creazione di una specie di racconto ininterrotto della storia passata.
Sia le vicende di singole città e regioni, sia i grandi eventi che avevano coinvolto gran parte del mondo ellenico e popolazioni non greche (come le guerre persiane, la guerra del Peloponneso, le lotte per l’egemonia del quarto secolo a. C.) furono oggetto di indagine e di racconto.
I greci si avvicinarono inoltre a una sorta di “storia nazionale” (Ellenikà), determinata dalla connessione degli eventi più che dal senso di identità collettiva, dato che la consapevolezza di appartenere a un’unità etnica (tò ellenikòn) era disgiunta dall’idea di cittadinanza e subordinata ad essa nella prassi (l’unione di nazione e cittadinanza, com’è noto, è legata all’esperienza dei moderni stati nazionali).
Pag. 1015
“La vera questione – come ha indicato Momigliano – non è se i greci avessero coscienza storica, ma quali tipi di storia scrivevano e hanno trasmesso fino a noi”.
Quando poi essi dovettero far i conti con i romani e il loro rapido affermarsi come potenza egemone nel Mediterraneo, le vicende di questi ultimi furono inserite nella “storia universale”; storici greci come Polibio cercarono di comprendere le ragioni del loro successo e altri in seguito confronteranno personaggi e fatti greci e romani.
Ma ormai gli storici migliori formavano un “canone”, la storia greca anteriore era stata già scritta e formava un “ciclo”; la si poteva utilizzare come miniera di exempla, compendiare, inserire in un quadro più vasto e aggiornato, integrare con dettagli che illuminassero le personalità del passato, ma non si sentiva la necessità di riscriverla.
Solo la figura eccezionale di Alessandro, archetipo di regalità, continuerà per secoli ad avere una straordinaria fortuna letteraria e ad essere “riscritta”.
Pag. 1016
Nella seconda metà del 17. secolo e durante il 18. si svilupparono due visioni contrapposte del passato, che coinvolsero la storia in genere, e quindi anche la storia greca.
Difatti, a partire della filosofia cartesiana, innestandosi su critiche precedenti rivolte alla credibilità della storia, si diffuse un atteggiamento scettico verso la storiografia in genere e quella più antica in particolare (soprattutto riguardo alle origini).
Il tema è stato ampiamente studiato ed è inutile riprenderlo in dettaglio in questa sede.
Uan componente fondamentale, e anche un obiettivo di queste critiche distruttive, era la messa in discussione della Bibbia, e quindi della base stessa della “storia sacra” tradizionale.
L’applicazione dell’Antico Testamento di metodi di analisi storico-filologici e letterari (J. Astruc, J. G. Eichhorn, per citare due esempi famosi) tolse alla Bibbia la sua intoccabilità; la strada era già stata aperta da chi aveva ridotto il ruolo di Mosè nella composizione della Genesi, trasferendolo a scribi ispirati, che avrebbero però utilizzato documenti e racconti anteriori (vedi R. Simon e le critiche rivoltegli da J. Le Clerc).
La critica biblica divenne il campo fondamentale della discussione, com’è ovvio date le implicazioni religiose.
Intaccato il dogma dell’ispirazione, soprattutto nel mondo protestante ma anche in quello cattolico, l’analisi storico-razionale dovette divenire sempre più approfondita e raffinata, come anche la difesa della visione ortodossa.
Aver messo in discussione la storia sacra della Bibbia significò a maggior ragione dubitare – in modo ancora più radicale – della storia profana.
Anzi, poiché una libera critica biblica, specie in ambienti cattolici, sollevava problemi ed era a volte rischiosa, la discussione sul valore storico delle tradizioni “profane” poteva essere un modo inoffensivo e indiretto di discutere di tradizioni antiche.
La possibilità stessa di conoscere il passato veniva ormai messa in questione dal pirronismo storico.
Pierre Bayle fu la personalità di maggior fama, ma non certo l’unico (si pensi a La Mothe Le Vayer e al suo Discours du peu de certitude qu’il y a dans l’histoire del 1668); le posizioni dei “savants” erano molto variegate.
La cronologia, che univa insieme le diverse storie sacre e profane a partire dalla creazione confrontandone la ricostruzione temporale, era terreno di scontro tradizionale già dall’antichità, ma lo fu a maggior ragione dopo la Riforma e l’opera dello Scaligero.
A questo aveva risposto il dotto gesuita Petavius (Denys Petau) con il suo De doctrina temporum (1637) seguito dal Rationarium temporum, che ebbe un enorme successo.
La questione sarà poi rinnovata da Newton, che sconvolse anche la cronologia greco-romana; la sua opera suscitò uan famosa discussione europea (Frèret, Algarotti, ecc.).
Ma la critica non si limitò solo a questo settore.
Esisteva da tempo una sorta di gerarchia delle storie: la più importante era quella “sacra”, cui seguiva subito quella romana, mentre solo dopo veniva quella greca, cui tenevano dietro le altre.
Naturalmente la storia romana – più ricca d’implicazioni contemporanee perché finiva col coinvolgere origini e legittimità dell’impero e del papato – fu investita in pieno dal pirronismo; la tradizione sulle origini e i primi secoli di Roma fu messa seriamente in discussione in modo sistematico (nei “Mémoires de l’Académie” dal 1772 in poi; da L. de Beaufort nel 1738).
La storia greca venne coinvolta nelle discussioni sul valore delle fonti e della tradizione, ma in modo più episodico, come conseguenza della critica generale alla fides historica.
Qui si deve tener conto di un dato fondamentale.
Fino alla diffusione del pirronismo la storiografia romana era stata spesso giudicata più veritiera di quella ellenica, forse perché su quest’ultima gravava il giudizio negativo che ne aveva dato Giuseppe Flavio per i periodi più antichi.
Com’è noto fu Erodoto in particolare ad essere giudicato negativamente per la presenza delle “fables”, tanto vituperate nel 18. secolo, sviluppando quell’immagine piena di ombre oltre che di luci che troviamo ad esempio in Voltaire e che gli antichi avevano trasmesso.
Per un giudizio tipico si prenda il Nouveau dictionnaire historique portatif (Amsterdam 1766) che così ne parla: “Egli riferisce favole ridicole che invero dà per sentito dire, ma avrebbe fatto meglio a non riferire affatto. Agli occhi dei filosofi è tanto il padre della storia quanto il padre della menzogna”.
Comunque l’accusa di essere creduloni fu rivolta a molti storici greci, da Erodoto a Diodoro Siculo e ciò in linea con un diffuso scetticismo”.
Pag. 1027-28
I riferimenti di Voltaire sono più numerosi e frequenti a proposito della storia romana arcaica, allora così dibattuta; gli esempi relativi al mondo greco invece sono più limitati e poco felici.
Vico offrì invece un altro tipo di risposta al pirronismo: una storia filosofica unitaria che accettava insieme il ruolo della provvidenza divina nella storia universale e ammetteva che la storia antica era intessuta di favole e imposture che – riferendosi a Tucidide – “i greci fino al tempo di suo padre, ch’era quello di Erodoto, non seppero nulla dell’antichità loro propie”, ma individuava fasi comuni nello sviluppo delle nazioni, e vedeva l’età eroica della Grecia rappresentata dalla sapienza poetica di Omero.
In questo modo Vico attraverso la sua “nuova arte critica” recuperava uan dimensione storica e la conoscibilità del passato.
Ma la sua posizione, se prescindiamo dagli sviluppi del problema omerico, avrà seguito più per la storia di Roma che per la Grecia.
Prima di considerare i tentativi di riscrivere la storia dei greci come un insieme, occorre segnalare brevemente alcuni punti importanti relativi al 18. secolo, indispensabili per comprendere gli sviluppi successivi.
1. L’affinamento critico dei metodi filologici, che può essere esemplificato al meglio da Bentley e da Wolf, distanziati tra loro da un secolo.
2. L’inizio degli scavi di Ercolano (1738) e di Pompei (1748) e la riscoperta di Paestum, che danno una nuova e più diretta immagine dell’antichità in genere e che furono recepiti con entusiasmo dalle classi colte europee, soprattutto nella seconda metà del secolo.
3. La scoperta d’importanti documenti epigrafici, che ora vengono indagati e valorizzati con uno spirito nuovo: si pensi alle Tavole di Eraclea e alla pubblicazione esemplare che ne fu fatta dal Mazzocchi, sentite come una riscoperta della Magna Grecia.
4. I viaggiatori che già nel Seicento e poi ancor di più nel corso del Settecento e dell’Ottocento visitano la Grecia e il Levante, l’Italia meridionale e la Sicilia, descrivono le antichità e i paesaggi, creano col tempo una sensibilità nuova verso l’antico, informano sulle nuove scoperte, istituzionalizzano il Grand Tour come momenti della formazione delle élite europee.
5. L’opera di Winckelmann che interpreta l’arte greca come manifestazione della libertà civile e politica dei greci, affermando che “la libertà ha avuto la sua sede in Grecia, anche accanto al trono dei re”.
In questo modo Winckelmann “osava opporre allo stato settecentesco l’ideale delle virtuose repubbliche classiche”.
L’esaltazione che ne fece Goethe contribuì all’enorme successo che l’immagine ideale della grecità ebbe nella cultura tedesca, tanto che si è parlato di una “tirannia della Grecia sulla Germania”.
6. L’immagine di una “Atene borghese” e di un “modello spartano” hanno una grande diffusione soprattutto in rancia nel clima dell’illuminismo prerivoluzionario.
Esse trovano espressione in opere antichistiche d’alto livello, come quelle dell’abate Barthélemy, e negli scritti di un altro abate, il filospartano Mably; ancor più rilevante culturalmente il peso delle antiche repubbliche nella riflessione di Rousseau, che però nella nona delle sue Lettere scritte dalla montagna metteva in guardia i suoi ginevrini (“voi non siete né romani né spartiati; non siete neanche ateniesi… Voi siete mercanti, borghesi sempre occupati negli interessi privati…”).
Il Viaggio del giovane Anacarsi recava come introduzione una dotta storia ateniese dalla origini a Pericle, di tono moralistico.
7. Mentre la rivoluzione inglese del 1688 non si era generalmente rifatta a esempi classici da imitare (semmai biblici), la rivoluzione francese utilizzò i modelli repubblicani antichi quali li aveva rielaborati il 18. secolo.
“L’immagine incerta della nuova città terrena da fondare si delineava, per analogia o per contrasto, anche rivisitando la città antica” (Guerci).
Questo riferimento paradigmatico all’antico fu intenso soprattutto nei primi anni, per ridursi successivamente.
In seguito l’esperienza napoleonica diffuse in Europa alcuni paradigmi antichi, pur rilanciando il tema dell’impero e suscitando reazioni.
Ciò diede nuovo vigore allo studio dell’antichità ma nello stesso tempo la caricò di significati politici e sociali nuovi.
I difensori delle libertà “moderne”, coloro che temono per la proprietà privata o hanno paura di ogni rivoluzione, si sforzeranno da allora in poi di mettere a distanza l’antichità; sarà questa una condizione necessaria per uan visione più corretta della storia antica.
8. L’indipendenza delle colonie americane (1776) e le lotte per l’indipendenza greca (a partire dal 770, cioè dalla guerra russo-turca, fino al 1830 e oltre) avevano anch0esse avuto conseguenze sull’immagine dell’antica Grecia.
Veniva riproposta l’idea delle antiche repubbliche indipendenti da imperi e monarchie, si ridava attualità alla lotta contro il dispotismo, ci s’interrogava sull’instabilità delle repubbliche antiche e di Atene in particolare e sulle forme di governo miste.
Anche in questo caso il rapporto ideale con l’antichità era sostenuto con forza da alcuni, ma operando delle scelte (in favore di Sparta o di Roma ad esempio).
L’Iperione di Hölderlin canterà il risorgimento dell’antica Grecia, altri esalteranno la rigenerazione dell’Ellade, ma non mancarono gli oppositori.
Pag. 1031-34
Per trovare qualcosa di più avanzato nella storiografia scozzese occorre infatti rivolgersi piuttosto a Hume.
Il saggio sulla popolosità delle antiche nazioni (1752) va infatti molto al di là del semplice contributo erudito.
Esso infatti non si limita alla sola demografia e alla discussione delle cifre fornite dagli autori antichi, ma riguarda tutta l’economia antica, ivi compresa la schiavitù, e confronta lo sviluppo raggiunto dai moderni a quello degli antichi, negando a questi qualsiasi supremazia.
Vi troviamo in nuce una forma di “primitivismo” intelligente, ben prima che sorgessero le discussioni sul carattere dell’economia antica: “… vi sono molti altri elementi, per i quali le antiche nazioni sembrano inferiori a quelle moderne, sia per quanto riguarda la felicità che l’aumento della popolazione. Il commercio, le manifatture, la laboriosità, non furono mai in alcun luogo così prospere nelle epoche antiche come attualmente in Europa”.
E’ indicativo il fatto che il saggio di Hume avesse un’eco in Gibbon per il versante romano ma che, per quel che ho potuto vedere, non lo abbia avuto nelle prime storie greche in lingua inglese.
Ancora una volta, a proposito di un problema filologico-antiquario come quello della discussione sul numero degli abitanti (solo in apparenza minore), possiamo verificare l’esattezza della tesi di Momigliano su Gibbon, colui che unifica storia e antiquaria aprendo una nuova via.
Le storie greche in lingua inglese che si susseguirono per tutto il Settecento e i primi decenni dell’Ottocento mostrano bene quanto fosse cresciuto l’interesse per l’argomento e quanto si fosse consapevoli della necessità di riscrivere le vicende degli elleni; ma contemporaneamente rivelano quanto ancora ci si affidasse a intendimenti prevalentemente letterari e afilologici; da questo punto di vista occorre arrivare fino a Thirlwall e Grote, ben oltre Mitford e Gillies, per trovare uan nuova scrittura basata su un modo nuovo d’intendere le fonti.
Pag. 1036-37
La mancanza di una distinzione chiara tra storiografia e retorica, dall’antichità almeno fino alla fine del Settecento e agl’inizi dell’Ottocento, non significava necessariamente assenza di canoni critici; semplicemente questi potevano essere inglobati nel discorso storico, sottomessi alle necessità della narrazione, o talvolta limitati ai periodi più antichi.
Coloro che scrivevano di storia antica spesso da secoli occupavano presso le università cattedre di eloquenza o di retorica, talora di diritto, soprattutto dove non esistevano insegnamenti specifici di storia o di storie e lettere greche e latine (come nei Paesi Bassi nel secolo 16. e 17.)
Ma l’attività universitaria era solo uno dei mestieri possibili per gli autori di opere storiche; anzi personaggi di primo piano nel rinnovamento della storiografia del 19. secolo non provenivano affatto dalle universitates studiorum (anche se poi vi insegnarono: si pensi a Niebuhr, ambasciatore di Prussia, o a Grote, banchiere e parlamentare).
Fino all’Ottocento la trasmissione del sapere storico non è avvenuta solo in ambito universitario.
La professionalizzazione è più antica di quanto si creda, però non è mai stata totale.
Essa non è all’origine della storiografia moderna sull’antica Grecia; semmai ne costituisce un importante sviluppo successivo.
In paesi come la Germania e l’Olanda il processo era più avanzato che altrove, ma lo studio “moderno” della storia antica nasce fuori dall’università, anche se confluisce presto nei circuiti accademici che recepirono l’interesse crescente per l’antichità.
Perché nascesse una moderna storiografia sui greci erano necessarie alcune condizioni, ma tra esse non mi sembra rientri prioritariamente la professionalizzazione del mestiere di storico.
La prima condizione era che l’antichità non fosse più ritenuta superiore al mondo moderno neanche in campo letterario, che la querelle des anciens et des modernes fosse definitivamente conclusa con la sconfitta degli antichi; o meglio che si accettasse un fatto solo in apparenza banale: non era più possibile limitarsi a leggere o tradurre o riassumere gli autori antichi che avevano già scritto la storia greca, magari integrandoli o correggendoli.
Il primo tentativo di Emmius nel Seicento e altri come quello di Rollin nella prima metà del Settecento sono indicativi del fatto che fino ad allora persino chi voleva riscrivere la storia greca si rivolgeva totalmente agli storici antichi: o riassumeva i più autorevoli tra di essi, come nel caso del primo, o li rielaborava acriticamente in chiave edificante, come fece Rollin.
In sostanza ci fu uan fase (soprattutto in Gran Bretagna) in cui si “superò” la storiografia antica semplicemente riscrivendo la storia greca in modo letterariamente più aggiornato, ma solo successivamente si passerà a un ripensamento fondato sulla critica delle fonti, su nuove conoscenze e con nuovi e più “moderni” problemi.
La seconda condizione era che si guardasse agli elleni come a una nazione, una totalità, al di là del fatto che essi avevano formato un insieme di stati diversi, di “repubbliche” come si diceva allora.
La percezione dell’aspetto politico-statuale dell’antica Grecia era avvenuta presto e con ottimi risultati, da Sigonio a Emmius e al Meursius.
Ma non si era ancora unita a una chiara percezione dei greci come nazione, perché questo concetto si affermò nel corso del 18. e del 19. secolo.
La filosofia della storia e il pensiero dell’epoca romantica hanno avuto un peso notevole sulla storiografia, specialmente in Germania; poco – in qualche caso forse nulla – in altri paesi europei, dove semmai era stata la realtà di stati unitari ma composti di entità distinte (come nel Regno Unito) a facilitare la comprensione di quella molteplice esperienza antica.
Terza condizione, importante più per lo sviluppo successivo che per la nascita della storia greca, la sollecitazione a rivisitare in modo originale il passato che venne dalla scoperta o riscoperta di documenti, di siti archeologici eccezionali, di testimonianze artistiche o materiali in genere (basti pensare agli “Elgin’s Marbles” portati in Inghilterra negli anni 1803-12 e posti nel British Museum dal 1816).
Il recupero dell’antiquaria da un alto e della “filosofia” dall’altro da parte della storiografia avvenne con un certo ritardo nell’ambito della storiografia greca e in modo diseguale; sarà semmai l’epigrafia ad essere recuperata per prima nell’ambito di una filosofia senza confini che comprendeva studio dei documenti e storia.
Per quanto possa sorprendere, una figura come quella di A. Boeckh non è stata sempre definita come uno “storico”; gli storici autentici saranno semmai Niebuhr e K. O. Müller.
Per quel che riguarda gli antichi greci sarà il secolo della storia, l’Ottocento, a fare progressivamente tesoro dello studio dei documenti, e non il Settecento.
Forse la reazione al pirronismo in questo settore era stata la messa in discussione delle antiche certezze.
Ultima condizione, comune questa anche agli studi su Roma, la modernizzazione della percezione dell’antichità, prima nel campo della politica e poi dell’economia, e il suo rifiuto o la messa a distanza degli antichi.
Si è già detto dell’uso dell’antichità greco-romana come modello, un fenomeno nato certo con l’umanesimo, ma fortemente condizionato dalle realtà del Settecento prima, dalla Rivoluzione francese e dalle tensioni dell’Ottocento poi.
Nacque un vagheggiamento che costituiva una forma sia pure errata di conoscenza, ma soprattutto sorse per reazione un bisogno prepotente di mettere a distanza e di comprendere a fondo le differenze tra antico e moderno e tra esperienze antiche (opposizioni Atene / Sparta o Roma / Grecia) che fu importantissimo.
Si doveva mettere a distanza il modo d’intendere la libertà delle antiche repubbliche (B. Constant), il peso del popolo nella democrazia ateniese (ad esempio A. Boeckh per la critica alla retribuzione delle cariche pubbliche ateniesi e più in generale Mitford e Peyron), la natura onnicomprensiva delle società e degli Stati antichi (Fustel de Coulanges).
Così persino Wilhelm von Humboldt aveva scritto a Goethe nell’agosto del 1804: “sarebbe soltanto un inganno se noi desiderassimo di essere cittadini di Atene o di Roma antiche… l’Antichità deve apparirci come cosa distante, scevra di volgarità, quale mero passato”.
Nello stesso tempo le ricostruzioni delle antiche vicende scritte con occhi e sensibilità contemporanee resero viva e attuale la storia greca, anche se ad esempio trattare in questo modo la democrazia ateniese e i suoi esponenti politici portava a peccare di anacronismo (si pensi alle concezioni opposte di Mitford e Grote).
Necessità di mettere a distanza il mondo greco e sentimento di un legame forte con esso, visioni anticlassicistiche e classicismi si sono alternati e intrecciati e perdurano ancor’oggi: “La situazione degli studi è così disperatamente complessa perché nel considerare i greci con crediamo quasi sempre di aver a che fare con la nostra carne e con il nostro sangue, ma nella maggior parte dei casi, se ben si osserva, questo conto non torna… le nostre categorie si rivelano insoddisfacenti”.
La visione “laicizzata” della storia antica con il rifiuto di schemi teologici e l’applicazione di metodi critici e filologicamente agguerriti avranno però una conseguenza negativa; essi non potevano non saldarsi col tempo al dominio che gli Stati europei (“l’uomo bianco”) stavano estendendo sulle popolazioni d’Asia e d’Africa con la conseguente visione razziale (e talora apertamente razzista): la concezione provvidenziale aveva almeno creato uan catena di popoli e civiltà che metteva insieme, anche se non necessariamente sullo stesso piano, Oriente (in particolare gli ebrei), Grecia, Roma.
La laicizzazione e lo sviluppo dell’idea di nazione escludono gli altri, o almeno li pongono su un gradino più basso rispetto al mondo classico.
Ne risentono anche le maggiori storie universali (ad esempio quella che affiora dalle lezioni di Niebuhr e poi quella di E. Meyer), che pure valorizzano e non emarginano le altre culture e le ritengono giustamente parte integrante di un’antichità che non dev’essere solo greco-romana.
La critica alle tradizioni sull’età eroica comportava anche la negazione della presenza di colonie orientali in Grecia, così come del resto di tutto il patrimonio mitistorico, almeno fino a che le scoperte archeologiche non posero su basi nuove la conoscenza della Grecia del secondo millennio a. C.
Quello che è stato chiamato “il modello antico” venne incrinato e poi rifiutato da metodi e atteggiamenti critici che avevano origine più nella critica biblica che in presupposti razzisti; questi ultimi si sommarono ai metodi critici e all’ipercritica, ma non ne determinarono lo sviluppo; la visione eurocentrica della storia antica è anche il frutto della sua secolarizzazione.
Pag. 1037-40
In sintesi si può concludere che tra l’età della Rivoluzione francese e la metà circa dell’Ottocento si costituiscono alcuni tratti fondamentali delle tradizioni nazionali nel campo della storia greca.
Ciò avviene in Gran Bretagna, dove interesse per la storia dei greci e sensibilità politica comparvero prima che altrove, già alla fine del Settecento, per poi fondersi con la critica storico-filologica tedesca con Grote.
In Germania il movimento romantico e lo storicismo si innestarono sull’idealizzazione dei greci tipica dell’età di Winckelmann e di Goethe e sulla reazione al trauma dell’occupazione napoleonica, mentre la formidabile capacità di lavoro delle università tedesche (Gottinga in primo luogo, ma anche il nuovo grande ateneo berlinese promosso da Wilhelm von Humboldt), con la concorrenza interna tra professore e Privatdozent ed esterna tra università e università, moltiplicherà le ricerche filologiche ed erudite.
I frutti migliori si videro inizialmente nel campo della storia romana e solo successivamente in quello della storia greca.
Il movimento unitario e la rivoluzione del 1848 risvegliano anche negli Stati tedeschi quella sensibilità politica che fino ad allora era stata un fenomeno inglese e la storiografia di Grote suscita consensi od opposizioni.
Il criterio razziale si diffonde, e convergerà con i risultati raggiunti indipendentemente dalla linguistica indoeuropea (la Grammatica comparata di Bopp è degli anni 1833-49), mentre la critica storica delle tradizioni sulle origini si afferma e mina alla base la validità delle tradizioni mitiche, anche quelle su presenze orientali nell’Ellade.
La critica biblica tedesca, sia vetero che neotestamentaria, andava nella stessa direzione (si pensi a F. C. Baur e D. F. Strauss) e influisce direttamente sullo studio delle fasi più antiche della storia romana (A. Schwegler) e di quella antica in generale.
Mentre in Italia il tentativo di Denina resta isolato e l’interesse dei sotti va in direzione di altre fasi storiche, in consonanza con le discussioni e le lotte per l’unità nazionale, in Francia la storia greca per un cinquantennio vive di lavori particolari, perché la rivoluzione dopo il Termidoro (1794), l’Impero napoleonico e la restaurazione hanno allontanato i modelli ellenici dal mondo contemporaneo.
Solo poco prima della metà del secolo prende forma una storia dei greci che è in linea con le nuove sensibilità (Duruy).
Pag. 1064-65
Il decennio tra il 1860 e il 1970-71 vide cambiamenti radicali nella storiografia.
Si è parlato giustamente di un “mutamento ideologico” degli storici francesi tra 1865 e 1885, ma il fenomeno – con alcune differenze di cronologia – è più generale.
Esso è strettamente collegato da un lato al costituirsi della storia in disciplina “scientifica” affermatasi tra molte contraddizioni nei decenni precedenti (in Germania prima e poi in Gran Bretagna) e dall’altro ai mutamenti politici e sociali.
Il raggiungimento dell’unità nazionale in Italia (1861, Roma capitale dal 1870) e in Germania (1871), portano a un rafforzamento generale dell’idea di Stato nazionale rispetto a quella di piccolo Stato (Kleinstaaterei) e di (con)federazione.
Inevitabilmente ciò avrà, e continuerà ad avere a lungo fino al 20. secolo, conseguenze determinanti sull’interpretazione della storia greca in un senso sempre più unitario, “nazionale”, mettendo in valore gli Stati egemonici, siano essi Atene, Sparta, Tebe o soprattutto la Macedonia.
La diffusione della scienza dell’antichità tedesca e dei suoi metodi in altri paesi du accelerata non solo dal prestigio e dai successi germanici, ma anche da una precisa scelta compita da altri Stati europei.
Così in Italia ci fu l’importazione di docenti universitari tedeschi nelle università riorganizzate dopo l’unificazione (come Beloch a Roma e Holm a Palermo e Napoli); professori tedeschi già in passato avevano insegnato in Russia.
Il fenomeno parallelo di giovani studiosi di altri paesi europei che si recano a studiare o a perfezionarsi in Germania è più rilevante in altri settori, come la storia romana (E. Pais, C. Jullian) o la filologia classica in genere.
pag. 1065-66
La lettura della civiltà greca di Burckhardt va vista alla luce delle tre forze che egli vedeva all’opera nella storia: lo Stato, la religione e la cultura, come indicano le lezioni Sullo studio della storia (note anche col titolo Considerazioni sulla storia universale).
La forza della cultura greca era emersa anche grazie a quelle due altre potenze, ma esse avevano fatto sì che la città greca fosse stata “città dolente” (secondo l’espressione dantesca ripresa da Boeckh).
La visione pessimistica sia del presente che dell’esperienza greca, che pure vagheggiava con toni a volte classicistici, lo distinguono da altri storici contemporanei, anche dal Curtius, per il quale ebbe un moderato apprezzamento.
“Noi vediamo con gli occhi dei greci e parliamo con le loro espressioni”, affermava nell’Introduzione, ma il riconoscimento di un rapporto speciale tra gli antichi greci e moderni mi sembra resti su di un piano intellettuale senza avere risvolti razziali; anzi Burckhardt accostò più volte la polis e le città-stato fenicie.
Pag. 1072
Quindi la storia si rivela una successione di storie nazionali secondo una linea di sviluppo universale (che va da Egitto a Israele agli assiri, ai medi e persiani fino a greci, macedoni e romani).
Le civiltà però entrano in contatto e – come dice a proposito di Erodoto – “la storia non potrebbe fiorire entro l’ambito esclusivo del suolo nazionale; le nazioni diventano conscie di se stesse soltanto mediante i reciproci incontri”.
Questa di Ranke era una storia priva di ogni apparato erudito e fondata su documentazione superata.
Eduard Meyer per questo la giudicò un fallimento, ma essa resta indicativa della forza che la concezione universalistica manteneva in Germania in un’epoca di storie nazionali.
Pag. 1074
Numerose furono nei decenni finali dell’Ottocento e nei primi del Novecento le storie greche scritte da storici tedeschi, testimonianza non solo dell’interesse del pubblico colto e degli editori per il mondo greco ma anche dell’insoddisfazione per le storie di Curtius e di Grote.
La prima di questa sequela impressionante di opere fu dovuta ad Adolf Holm (1830-1900), che insegnava da tempo in Italia ed era noto per un’importante opera sulla Sicilia nell’antichità.
La sua storia, oggi dimenticata, fu rapidamente superata dalle altre, certo superiori o per erudizione o per senso critico o per originalità di vedute.
Non era però affatto priva di elementi positivi.
Molto chiara (talvolta persino banale), nella prima parte era caratterizzata da una critica temperata alle tradizioni mitistoriche; come scriverà lui stesso in un’aggiunta polemica verso Beloch, “la critica storica deve stare in guardia dal confondere due cose distinte: la dimostrazione che un fatto considerato storico non può essere ritenuto provato in quanto tale, e la dimostrazione che questo fatto è impossibile”.
Elementi di novità sono anche l’ampio spazio che egli assegnò alle vicende dell’Occidente greco e soprattutto alla storia ellenistica fino al 30 a. C. (un volume su quattro): per lui il vero soggetto della storia greca erano i greci e la loro civiltà da Massalia fino all’Oriente e per questo era necessario comprenderne le vicende a pieno titolo in una storia greca, senza fermarsi né al 4. secolo né alla conquista romana della Grecia propria.
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Per una conclusione
Alcuni dei fili che abbiamo cercato di seguire arrivano fino ai nostri giorni e indicano delle continuità dall’antico a noi: recuperi consapevoli, lunghe durate per così dire sotterranee, profonde cesure compaiono nella storia della cultura con movimento alterno.
Scoperte di mondi ignoti o marginali grazie all’indagine archeologica fanno aggiungere pagine nuove e importanti al libro della storia greca, ma è indubbio che il posto eminente che conservano la democrazia ateniese e vicende come quelle della guerra del Peloponneso, per quanto integrate da nuovi documenti o esaminate con metodi e strumenti concettuali moderni, nascono in ultima analisi dalle pagine immortali di Tucidide.
Cosa fare di tutto ciò che è tra noi e i testi, i documenti e i monumenti antichi?
Ha senso fare, come spesso avviene o come si crede di fare, tabula rasa?
In un’epoca come la nostra in cui si è consapevoli della storicità dei modi di credere, dell’esistenza legittima di più modi d’intendere il passato (fino a dissolvere a volte il confine tra vero e falso) si ripropone il problema delle diverse verità della storiografia passata.
Non sarà inutile terminare riconsiderando le parole che uno storico eminente, Adolfo Omodeo, scrisse molti anni fa a proposito di Michelet: “E’ giusto considerar prescritti e decaduti gli storici che vanno lontanando nel tempo? Probabilmente tale prescrizione è ispirata da criteri di mal intesa filologia: dall’opinione che i nuovi studi, i nuovi documenti, abbian la forza di invalidare le ricerche anteriori.
Ma questa è uan concezione grossolana del superamento. L’acquisto di verità compiuto dai nostri predecessori, nel campo delle nostre ricerche, permane anche quando questa verità sia stata integrata da nuove scoperte.
Come già ai suoi tempi stabiliva Droysen, la verità è cosa ben diversa dalla precisione o esattezza”.
Pag. 1084
Manuale di storia greca / Cinzia Bearzot
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Cap. 1. La formazione della civiltà greca
Il Neolitico, periodo che in Grecia copre l’arco cronologico dal 6. al 4. millennio (6000-3000).
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Le caratteristiche degli insediamenti neolitici e, in particolare, della ceramica, inducono, in alcuni casi, a ipotizzare relazioni con regioni del Vicino Oriente, come l’Anatolia o la regione siro-palestinese (per la Tessaglia e la Grecia centrale), e con l’area balcanica (per la Macedonia); altrove, come in Argolide, sembra più probabile che i mutamenti siano dovuti a sviluppi di carattere locale.
Pag. 12
Creta e le Cicladi sono caratterizzate dall’espansione delle città, dall’adozione del sistema palaziale e dal mantenimento di un intenso livello di scambi; nel Peloponneso e nella Grecia centrale e settentrionale si registra invece una significativa regressione culturale.
…..
Il sistema palaziale, già presente nel Vicino Oriente, è un sistema di organizzazione politico-sociale fortemente centralizzato.
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Il carattere graduale della transizione induce a pensare più probabilmente a infiltrazioni, più che a vere e proprie invasioni, di genti parlanti lingua greca, che si sovrapposero a un sostrato etnico e linguistico precedente in un momento e con modalità difficili da stabilire per noi: ciò sembra trovare conferma nella tradizione, che mostra coscienza che la civiltà greca era nata da una mescolanza di elementi autoctoni (come i Pelasgi di cui parlano Erodoto 1., 56-58 e Tucidide 1., 3) e di elementi sopraggiunti in seguito attraverso migrazioni.
Pag. 15
Sulla scorta di Pierre Carlier, è ragionevole ritenere che il “mondo di Odisseo” corrisponda, nelle sue grandi linee, ad alcune società greche dell’alto arcaismo.
Pag. 26
La triade altare/tempio/temenos, di origine orientale e caratteristica del santuario greco “classico”, si afferma nel corso dell’8. secolo.
Pag. 27
Ma l’importanza del fattore militare nei cambiamenti politici che hanno a che fare con la nascita della polis, intesa come appartenenza a una comunità in cui le prerogative politiche sono attribuite sono attribuite in base alla funzione militare, difficilmente può essere negata.
Pag. 32
La sovranità del popolo, o meglio della maggioranza, si esprime nella partecipazione, garantita da strumenti quali il sorteggio delle magistrature (che assicura un accesso non discriminato e un’opportuna turnazione), il rendiconto delle medesime e, soprattutto, la “messa in comune”, “in mezzo” (eis to koinon, es meson) del processo decisionale.
Pag. 33
Il mondo greco è interessato costantemente da fenomeni di spostamento e di migrazione, con una significativa pluralità di forme che si riflette nella ricca articolazione terminologica.
Pag. 42
Nonostante i timori espressi dagli intellettuali greci, la progressiva “barbarizzazione” delle colonie greche nel campo della lingua e dei costumi venne in genere efficacemente controbilanciata dalla ellenizzazione degli indigeni, producendo una koiné culturale capace di realizzare, tra i diversi elementi etnici delle zone interessate, livelli di interscambio impensabili nella assai meno aperta Grecia metropolitana.
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Il sentimento di unità panellenica fu certamente percepito a livello di lingua, di cultura, di religione, di stile di vita fin dal 5. secolo: lo rivela Erodoto (8, 144) che ricorda come requisiti dell’Hellenikòn, cioè dell’essere greci, quelli di avere “lo stesso sangue e la stessa lingua, i templi comuni degli dèi, i riti sacri, gli analoghi costumi”.
Tuttavia, tale sentimento non seppe mai declinarsi efficacemente a livello politico, neppure quando, con la fine del 5. secolo, si sviluppò un’acuta sensibilità al problema del panellenismo e alle forme della sua possibile realizzazione storica.
La stessa crisi della polis, che caratterizza il 4. secolo avanzato e le epoche successive, ha le sue radici nell’incapacità del sistema polis di superare i suoi limiti e le sue contraddizioni e, quindi, di garantire al mondo greco, oltre alla necessaria stabilità, un’unità di intenti capace di contrastare efficacemente spinte imperialistiche esterne: la debolezza della Grecia di fronte alla Macedonia di Filippo, di Alessandro, dei diadochi e, poi, di fronte a Roma sta tutta in questa incapacità di superare le contrapposizioni reciproche per presentarsi all’esterno in modo unitario e, quindi, come interlocutore efficace.
Pag. 53
Bibliografia
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Storia d’Europa e del Mediterraneo. Il mondo antico: vol. 2. La Grecia, 3. Grecia e Mediterraneo dall’8. secolo a. C. all’età delle guerre persiane
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Storia del pensiero politico antico / S. Gastaldi. – Laterza, 1998
Il pensiero politico in pratica: Grecia antica, secoli 7. a. C. – 2. d. C.) / P. Cartledge. – Roma, 2011
Stati federali greci: focesi, calcidesi di Tracia, acarnani / S. N. Consolo Langher. – Messina, 1996
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Partiti e ideologie negli stati federali greci / C. Bearzot. – In: “Partiti” e fazioni nell’esperienza politica greca. – Milano, 2008
Il federalismo greco / C. Bearzot. – Il Mulino, 2014
Le eterie nella vita politica ateniese del 6. e del 5. secolo / F. Sartori. – Roma, 1967
Il simposio nel suo sviluppo storico / D. Musti. – Laterza, 2001
I migliori di Atene: la vita dei potenti nella Grecia antica / P. Schmitt Pantel. – Laterza, 2012
L’alba della Magna Grecia / D. Ridgway. – Milano, 1984
I greci sui mari: traffici e colonie / J. Boardman. – Firenze, 1986
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Colonie greche dell’Occidente antico / E. lepore. – Roma, 1989
Grecità di frontiera / L. Braccesi. – Padova, 1994
Il Mediterraneo nell’età arcaica / M. Gras. – Paestum, 1997
Grecità adriatica / L. Braccesi. – Il Mulino, 1977
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Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico / G. Camassa. – Roma, 2011
Studi sull’omicidio in diritto greco e romano / E. Cantarella. – Milano, 1976
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La città e il tiranno: il concetto di tirannide nella Grecia del 7.-6. secolo a. C. / G. Giorgini. – Milano, 1993
Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia / N. Luraghi. – Firenze, 1994
I tiranni in Sicilia / L. Braccesi. – Laterza, 1998
La guerra nel mondo antico / H. Sidebottom. – Il Mulino, 2014
L’invenzione della diplomazia nella Grecia antica / L. Piccirilli. – Roma, 2002
Cap. 2. La Grecia tardo-arcaica
Nel capitolo precedente, la trattazione relativa alla Grecia dell’alto e medio arcaismo ci ha portato spesso, a proposito dei fenomeni come la tirannide e la colonizzazione, a considerare avvenimenti di pieno 6. secolo.
In questo capitolo si intende proporre un quadro complessivo della Grecia coem essa si assestò nel tardo arcaismo, cioè nel corso del 6. secolo e agli inizi del 5., prima della svolta epocale delle guerre persiane che introduce alla cosiddetta “età classica”.
Bibliografia
- I Greci d’Asia e delle isole
Mileto: aspetti della città arcaica e del contesto ionico / C. Talamo. – Roma. 2004
Tra mare e continente: l’isola d’Eubea / a cura di C. Bearzot e F. Landucci. – Milano, 2013
- La Grecia centro-settentrionale
La Lega tessala fino ad Alessandro Magno / M. Sordi. – Roma, 1958
Nascita e struttura dello stato macedone / L. Moretti. – In: storia e civiltà dei greci, vol. 5.3. – Milano, 1979
- Atene
Atene nell’epoca classica / P. Funke. – Il Mulino, 2001
Breve storia di Atene / L. Asmonti. – Roma, 2009
Aristotele, Atene e le metamorfosi dell’idea democratica: da Solone a Pericle / E. Poddighe. – Roma, 2014
La nascita della categoria del politico in Grecia / Chr. Meier. – Il Mulino, 1998
Arte e cultura nell’Atene di Pisistrato e dei Pisistratidi / S. Angiolillo. – Laterza, 1997
La città e l’oracolo: i rapporti tra Atene e Delfi in età arcaica e classica / A. Giuliani. – Milano, 2001
Il cittadino e la polis: le origini della cittadinanza nell’Atene antica / P. B. Manville. – Genova, 1999
Atene: la costruzione della democrazia / G. Camassa. – Roma, 2007
- Sparta e il Peloponneso
Sparta / E. Baltrusch. – Il Mulino, 2002
La nascita del kosmos: studi sulla storia e la società di Sparta / M. Nafissi. – Napoli, 1991
L’ordine delle generazioni: classi di età e costumi matrimoniali nell’antica Sparta / M. Lupi. – Laterza, 2000
Un progetto di riforma per Sparta: la Politeia di Senofonte / E. Luppino. – 1988
Pausania e le tradizioni democratiche: Argo ed Elide / U. Bultrighini. – 1990
Argo: una democrazia diversa / a cura di C. Bearzot e F. Landucci. – 2006
- I greci d’Occidente
Storici greci d’Occidente / a cura di R. Vattuone. – 2002
La Sicilia antica / a cura di E. Gabba e G. Vallet. – 1980
Megale Hellas: storia e civiltà della Sicilia greca / a cura di G. Pugliese Carratelli. – 1983
Sikanie: storia e civiltà della Sicilia greca / a cura di G. Pugliese Carratelli. – 1985
La Sicilia greca / L. Braccesi e G. Millino. – 2000
Magna Grecia: il quadro storico / D. Musti. – Laterza, 2005
La Sicilia antica / M. Dreher. – Il Mulino, 2010
Cartagine / W. Huss. – 1999
Italia omnium terrarum parens: la civiltà degli enotri, choni, ausoni, sanniti, lucani, brettii, sicani, siculi, elimi / G. Pugliese Carratelli (a cura di). – 1991
Cap. 3. Il quinto secolo
Verso il 500 a. C., dunque, la Persia di Dario 1. controllava l’intero bacino orientale del Mediterraneo; città e popoli che si trovavano nel suo territorio godevano di una certa autonomia ed erano liberi di esprimere la propria identità culturale; tuttavia, l’esazione fiscale sottraeva loro risorse, il controllo territoriale inibiva le diverse forme di mobilità e di scambio che avevano caratterizzato il mondo egeo, la tendenza all’espansionismo costituiva un grave motivo di preoccupazione.
La possibilità di una convivenza dei greci d’Asia minore e delle isole prospicienti con la presenza persiana veniva così a dipendere da equilibri assai delicati.
Pag. 97
Dalle guerre persiane l’identità greca uscì fortemente consolidata, sulla base di un modello “oppositivo”, di carattere non tanto etnico quanto culturale: i greci si erano accorti di essere profondamente diversi dai persiani per riferimenti di valore e stile di vita, e rivendicavano ora, con la vittoria, la loro superiorità.
I greci che avevano resistito con successo all’invasione persiana erano quelli “che pensavano il meglio per la Grecia” (Erodoto, 7., 145 e 172) perché “volevano essere liberi” (Erodoto, 7., 178); erano quanti avrebbero potuto far proprie le parole degli Spartiati Spertia e Buli che, al persiano Idarne che dichiarava di non comprendere la loro ostinazione a non volersi fare amici del Re, risposero (Erodoto 7., 235):
“Idarne, il consiglio che ci dai non è equo. Tu ci consigli avendo sperimentato una cosa, ma essendo inesperto dell’altra.
Tu conosci bene l’essere schiavo, ma non hai mai fatto esperienza della libertà, se sia dolce o no.
Se l’avessi provata, ma non le lance, ma persino con le scuri ci consiglieresti di combattere per essa”.
Con tutto ciò, non sarebbe corretto, coem è stato ampiamente sottolineato, interpretare le guerre persiane in chiave nazionalistica: durante tutto il conflitto i greci mostrarono profonde divisioni tra loro, non solo tra antipersiani e medizzanti, ma anche all’interno della stessa Lega degli Hellenes, e queste divisioni riemersero drammaticamente all’indomani della vittoria.
Tuttavia i greci, trovandosi a fronteggiare un attacco che, nonostante la diversa opinione dei medizzanti, era diretto non contro la sola Atene, ma contro tutta la Grecia (Erodoto 7., 138), svilupparono un’embrionale coscienza panellenica che consentì loro di superare i più accesi localismi: proprio questa visione più unitaria della grecità è il presupposto dei conflitti per l’egemonia panellenica, che si aprono con il 478.
Pag. 107-8
Altre forme di lesione dell’autonomia degli alleati si svilupparono in seguito: lo spostamento in Atene della cassa della lega, con il conseguente uso delle risorse comuni per gli interessi ateniesi; l’unificazione di moneta, pesi e misure; l’accentramento dei processi; l’imposizione di guarnigioni e di governatori; l’invio di cleruchie; l’instaurazione di regimi democratici.
Pag. 116
Non c’è dubbio, comunque, che a partire dalla rivolta di Nasso la Lega delio-attica, rispetto al momento della fondazione, andò incontro a profondi mutamenti.
Cambiò l’obiettivo della lega: dalla continuazione della guerra contro la Persia si passò alla tutela di interessi diversi, alcuni comuni, coem il controllo della libertà dei mari dalla pirateria, altri prevalentemente ateniesi, come la contesa con Sparta per l’egemonia della Grecia.
Cambiarono i caratteri dell’alleanza, che da lega militare egemonica di carattere paritario divenne un impero, un’arché in cui gli alleati erano divenuti sudditi (hypekooi).
Cambiarono i metodi di gestione delle relazioni tra egemone e membri, improntate a rapporti di potenza e non di collaborazione e ridefinite di volta in volta in trattati in cui il ruolo dell’egemone diventava sempre più oppressivo.
Tucidide si interroga insistentemente sulla natura imperialistica della lega delio-attica, in diversi discorsi che fa pronunciare a protagonisti della politica ateniese come Pericle e Cleone: e nella degenerazione della lega da alleanza paritaria a impero tirannico coglie una delle cause principali della sconfitta che Atene subì nella guerra del Peloponneso.
Pag. 118
Nel 4. secolo Aristotele (Costituzione degli Ateniesi, 63 ss.) ci informa del fatto che il sorteggio per la selezione dei giudici e la loro assegnazione alle singole corti veniva fatto di volta in volta e con una serie di complesse procedure precauzionali, che comprendevano il sorteggio immediato non solo dei giudici e del presidente del tribunale, ma anche dei funzionari incaricati di sovrintendere alle operazioni di sorteggio e di voto, in modo da assicurare la formazione di giurie assolutamente imparziali.
Lo stesso meccanismo di voto era fortemente controllato, per evitare, per esempio, che un giudice votasse due volte o votasse in un tribunale diverso da quello assegnatogli.
Pag. 126
Il sistema di sorteggio (klerosis), che costituisce una delle più significative garanzie democratiche, è stato oggetto, da parte degli antichi e dei moderni, di forti contestazioni, in quanto considerato espressione di una sostanziale indifferenza di fronte ai meriti e alle competenze dei singoli e dunque ispirato a criteri demagogici.
Pag. 128
Nella democrazia greca, alla radicalizzazione dell’esperienza democratica all’interno della comunità poleica corrispondono non l’apertura, la tolleranza e la disponibilità all’integrazione, ma la valorizzazione dell’identità e la chiusura verso l’esterno: la legge di Pericle fu una vera e propria “serrata della cittadinanza”, che, sospesa in momenti di crisi demografica (come la guerra del Peloponneso), venne poi regolarmente riproposta a emergenza superata.
Nonostante ciò, va detto che Atene era ritenuta tradizionalmente più disponibile di altre città nei confronti degli stranieri; Sparta, per esempio, faceva sorvegliare attentamente gli stranieri di passaggio dagli efori e praticava, coem si è detto, regolari xenelasiai, “espulsioni di stranieri”, per evitare che i contatti con gli stranieri alterassero il delicato sistema spartano.
Pag. 132
Tali differenze sembrano legate alla presenza di una democrazia nell’isola (si fa infatti riferimento, secondo l’integrazione comunemente accolta, al “demos dei Sami”), evidentemente imposta dagli ateniesi vincitori.
….
Una novità significativa di questi anni sembra però l’imposizione di democrazie, che non caratterizzava, in origine, l’arché ateniese, ma che in alcuni casi (Mileto, Samo, Colofone) sembra da considerare assai probabile o addirittura sicura e che è comunque attestata dalla Costituzione degli ateniesi pseudosenofontea.
Pag. 136
Bibliografia
Introduzione alle guerre persiane / G. Nenci. – 1958
L’epoca delle guerre persiane / P. Vannicelli. – In: Storia d’Europa e del Mediterraneo: il mondo antico. – 2007
Resistenza e intesa: studi sulle guerre persiane in Erodoto / P. Vannicelli. – Laterza, 2013
La Persia antica / J. Wiesehofer. – Il Mulino, 2003
I greci e gli altri: convivenza e integrazione / C. Bearzot. – Roma, 2012
L’Europa nel mondo antico / a cura di M. Sordi. – 1986
La rivolta ionica / P. Tozzi. – 1978
La battaglia di Maratona / P. Krentz. – Il Mulino, 2010
Maratona: il giorno in cui Atene sconfisse l’impero / R. A. Billows. – 2010
Le Termopili: geografia e storia / P. Janni. – In: Geografia storica della Grecia antica. – Laterza, 1991
La battaglia delle Termopili: una sconfitta che vale una vittoria / M. Moggi. – In: Il dopoguerra nel mondo antico: politica, propaganda, storiografia. – 2007
I tiranni in Sicilia / L. Braccesi. – Laterza, 1998
La monarchia di Gelone tra pragmatismo, ideologia e propaganda / G. Maffodda. – 1996
Atene e Sparta: il modello della doppia egemonia- Democrazia e imperialismo
Il sistema non riformabile: la pseudosenofontea Costituzione degli ateniesi e l’Atene periclea / E. Flores. – 1982
Pericle di Atene e la nascita della democrazia / D. Kagan. – 1991
Il governo della città: Pericle nel pensiero antico / A. Banfi. – Il Mulino, 2003
Pericle: l’inventore della democrazia / C. Mossé. – Laterza, 2006
Demokratia: origini di un’idea / D. Musti. – Laterza, 1995
La democrazia ateniese nel 4. secolo a. C. / M. H. Hansen. – 2003
La vita quotidiana della donna nella Grecia antica / C. Mossé. – Milano, 1988
Schiavitù antica e ideologia moderne / M. I. Finley. – Laterza, 1981
Gli schiavi nella Grecia antica / Y. Garlan. – Milano, 1984
La democrazia ateniese e gli alleati / S. Cataldi. – 1984
- La guerra del Peloponneso: due blocchi a confronto
La guerra del Peloponneso / B. Cleckmann. – Il Mulino, 2010
Biaios didaskalos: guerra e stasis a Corcira tra storia e storiografia / M. Intieri. – Rubettino, 2002
Platea: momenti e problemi della storia di una polis / L. Prandi. – 1988
Ricerche sulla concessione della cittadinanza ateniese nel 5. secolo a. C. / L. Prandi. – 1982
Tendenze politiche ad Atene: l’espansione in Sicilia dal 458 al 415 a. C. / S. Cagnazzi. – Laterza, 1990
Prospettive occidentali allo scoppio della guerra del Peloponneso / S. Cataldi. – 1990
Logoi e storia in Tucidide: contributo allo studio della spedizione ateniese in Sicilia del 415 a. C. / R. Vattuone. – 1992
La spedizione ateniese contro Melo del 416 a. C.: realtà e propaganda / S. Cagnazzi. – Laterza, 1983
Tucidide e l’impero: la presa di Melo / L. Canfora. – Laterza, 2002
Cap. 4. Il quarto secolo
Sparta era stata, fino al 479, la città prostates del mondo greco: il re Cleomene 1. (circa 520-488) aveva sostenuto questo riconosciuto ruolo egemonico con una politica assai attiva nella difesa del Peloponneso e nel settore dell’egemonia continentale, evitando tuttavia avventure in aree geopolitiche remote.
Con la fine della seconda guerra persiana, Sparta aveva manifestato chiaramente la sua riluttanza ad assumersi le responsabilità connesse con l’egemonia panellenica, in particolare la difesa dei Greci che vivevano nei territori del Re; di fatto essa aveva ceduto agli Ateniesi l’egemonia sul mare, inaugurando la stagione del bipolarismo, in cui l’equilibrio del mondo greco veniva fatto dipendere dalla divisione delle sfere di influenza.
Con la spedizione in Tracia del 424 e la guerra deceleica gli orizzonti spartani si ampliarono notevolmente, anche per impulso di personalità coma Brasida e Lisandro: se pur non senza resistenze interne, Sparta seppe impegnarsi in queste occasioni lontano dal suo territorio, per terra e per mare.
Con la vittorio de 424, la liberazione della Grecia dall’influenza ateniese e l’assunzione dell’egemonia, Sparta si trovò al centro di un sistema egemonico il cui mantenimento imponeva, in contrasto con le sue tradizioni, un deciso interventismo, la disponibilità di ingenti risorse e l’abbandono di quegli ideali di autonomia di cui essa si era fatta portavoce nel 432/1, al momento di entrare in guerra con Atene.
Le conseguenze furono gravi sia per Sparta, sia per la Grecia, che subì, tra 404 e 371, un imperialismo assai più pesante di quello ateniese.
Dal canto suo, Atene seppe promuovere una riflessione sulle vicende che l’avevano vista protagonista nel 5. secolo e trarne i necessari insegnamenti: essa non ripropose, quindi, l’imperialismo di cui la Lega delio-attica era stata strumento, ma anzi seppe sottrarre a Sparta la bandiera dell’autonomia, valore che essa difendeva a parole ma contraddiceva nei fatti.
Tuttavia, Atene non seppe cogliere, dopo la fine dell’egemonia spartana nel 371, l’occasione che le si offriva di tornare ad essere il punto di riferimento del mondo greco.
Un mondo in cui peraltro, fin dal 404, andavano emergendo sempre più prepontemente quelle “terze forze” che già avevano rivendicato un loro spazio nel 5. secolo, all’epoca dello scoppio della guerra del Peloponneso e poi, in particolare, nel periodo 421.418 (Corinto, Argo, Tebe): sarà proprio una di queste “terze forze”, Tebe, a essere protagonista dell’ultimo tentativo, da parte di una polis, di ottenere l’egemonia panellenica.
A questi elementi vanno aggiunti il risveglio e la progressiva affermazione degli stati federali, che nel corso del 4. Secolo vedranno accrescere la loro importanza rispetto alle città, anche grazie alla maggiore estensione territoriale e alle maggiori risorse economiche e demografiche di cui potevano godere.
Come è stato sottolineato, il mondo greco del 4. secolo, dunque, non è più un mondo bipolare, ma un mondo policentrico (D. Musti), caratterizzato dalla “ricerca fallita di un equilibrio” (M. Sordi).
La consapevolezza della debolezza derivante da un’eccessiva conflittualità condusse alla ricerca di strumenti che assicurassero maggiore stabilità, di carattere giuridico (la koinè eirene o “pace comune”) o anche, semplicemente, propagandistico (l’ideale panellenico, l’ideologia antibarbarica), capaci di mobilitare le forze greche per un obiettivo comune.
Il fallimento di questi diversi tentativi appare già chiaro nel disordine e nella confusione (akrisia kai taraché) in cui la Grecia si trovava nel 362, all’indomani della battaglia di Mantinea, secondo il celebre giudizio di Senofonte (7., 5, 27), la nostra fonte più importante per il periodo tra il 404 e il 362, ed emerge con particolare evidenza nell’inadeguatezza del mondo greco a contrastare efficacemente l’azione intelligente e costruttiva di Filippo 2. di Macedonia: si può ben dire che questo fallimento costituisce la fondamentale caratteristica di quello che può essere caratterizzato, almeno dal punto di vista della Grecia delle città, come un “secolo breve”.
Pag. 169-70
La pace del Re era stata per Sparta, nell’immediato, un grande successo diplomatico; sulla lunga distanza, però, lo sfruttamento di questo strumento giuridico in chiave di politica di potenza ne vanificò i risultati.
Sparta dimostrò infatti di non poter rinunciare al sostegno persiano e, quindi, di non potersi assumere coerentemente la tutela dei Greci d’Asia, nonché di imporre a città e federazioni il principio dell’autonomia con estremo rigore, ma senza poi rispettarlo essa stessa.
Con le armi della politica e della propaganda Atene si impegnò, dopo il 387/86, a denunciare questo equivoco, riappropriandosi della pace comune e del principio dell’autonomia, che essa pose, con un significativo sforzo di superamento dell’esperienza imperialistica del 5. Secolo, alla base della Seconda lega navale.
Pag. 187
Ma la Grecia era anche completamente diversa che all’epoca di Leuttra: Sparta, rimasta esclusa dalla pace comune conclusa dopo la battaglia per la questione di Messene, era del tutto isolata; Atene, indebolita nel suo impero, stava per essere travolta dalla guerra degli alleati; nel Peloponneso, nonostante la scarsa stabilità, il federalismo e il movimento democratico erano in pieno sviluppo; la Grecia settentrionale, con la Macedonia e la Tessaglia, era stata pienamente coinvolta nelle vicende greche e si preparava a svolgere quel ruolo da protagonista che Senofonte mostra di intuire nei discorsi che presta a Cligene di Acanto (Elleniche, 5., 2, 12-19) e a Polidamante di Farsalo (Elleniche, 6., 4-16).
Il rapido fallimento dell’egemonia tebana rese evidente la fine del ciclo storico delle egemonie cittadine, ma Pelopida ed Epaminonda recuperarono i punti principali del programma di Giasone di Fere e trasmisero questo modello a Filippo di Macedonia, che proprio a Tebe si era formato e che dei due grandi tebani riprese la politica peloponnesiaca e tessalica e fu il vero erede.
Pag. 202
Egli fece della polis Siracusa il centro di un grande impero, comprendente la Sicilia greca e indigena, liberata dal pericolo cartaginese, la Magna Grecia, l’Adriatico e il Tirreno, e addirittura i popoli barbarici dell’Occidente: una realtà sovranazionale e multietnica veramente “europea”, e in senso ben diverso da quel concetto di Europa sostanzialmente ellenocentrico che trova riscontro nella tradizione greca.
Uno stato complesso, con un territorio non omogeneo ma articolato, in cui Siracusa, polis capitale ed egemone, si collegava attraverso un sistema di rapporti con realtà diverse, città e popolazioni, greci, indigeni e barbari, seguendo moduli diversi adatti alle diverse situazioni (alla dura repressione verso le città calcidesi dell’area etnea e verso Reggio fanno riscontro i rapporti di amicizia e di alleanza con Messina e con Locri e le aperture nei confronti degli indigeni); uno stato di cui si è riconosciuto il carattere paradigmatico rispetto a esperienze come quelle degli stati ellenistici (per il quali sarebbe errato limitarsi a riconoscere le influenze orientali) e della stessa Roma.
Pag. 220
Bibliografia
Sparta, Atene, la Persia / L. Breglia. – In: Storia d’Europa e del Mediterraneo: il mondo antico. – 2008
Federalismo e autonomia nelle Elleniche di Senofonte / C. Bearzot. – 2004
Vivere da democratici: studi su Lisia e la democrazia ateniese / C. Bearzot. – 2007
Memoria e oblio della guerra civile: strategie giudiziarie e racconto del passato in Lisia / D. Piovan. – 2011
Callistene: uno storico tra Aristotele e i re macedoni / L. Prandi. – 1985
La città dissipatrice: studi sull’excursus del libro decimo dei Philippika di Teopompo / C. Ferretto. – 1984
Studi su Eforo / L. Breglia. – 1996
Eforo di Cuma: studi di storiografia greca / G. Parmeggiani. – 2011
La biblioteca storica di Diodoro Siculo: problemi e metodo / D. Ambaglio. – 1995
Atene e la crisi della democrazia / A. Natalicchio. – Laterza, 1996
La democrazia ateniese nel 4. secolo / M. H. Hansen. – 2003
Stati federali greci / S. N. Consolo Langher. – 1996
Atene “come il sole”: l’imperialismo ateniese del 5. secolo a. C. nella storia oratoria politica attica / E. Bianco. – 1994
Demokratia: origine di un’idea / D. Musti. – Laterza, 1995
Isocrate / A. Masaracchia. – 1995
Filippo il Macedone / A. Momigliano. – 1987
Basileis o tyrannoi: Filippo 2. e Alessandro Magno tra opposizione e consenso / G. Squillace. – 2004
Demostene / W. Jaeger. – Einaudi, 1942
Per la cronologia di Demostene / L. Canfore. – Laterza, 1968
Demostene / P. Carlier. – 1994
Un imperialismo tra democrazia e tirannide: Siracusa nei secoli 5. e 4. / S. N. Consolo Langher. – 1997
I figli di Marte: mobilità, mercenari e mercenariato italici in Magna Grecia e Sicilia / G. Tagliamonte. – 1994
Cap. 5. Alessandro e l’ellenismo
La prima fase della spedizione iniziò nella primavera del 324.
Pag. 234
In queste vicende si manifesta con grande chiarezza lo scontro fra la visione vetero-macedone della regalità, che vedeva il sovrano come il migliore dei suoi pari, e quella orientalizzante, che isolava il sovrano in una dimensione di eccezionalità quasi sovrumana.
Alcuni dei greci, come appunto Anassarco, erano possibilisti di fronte all’affermazione di una monarchia assoluta: il filosofo, chiamato a consolare Alessandro dopo la morte di Clito, gli disse che “ogni cosa decisa da Zeus è fatta con giustizia; dunque anche le azioni compiute da un grande re devono essere ritenute giuste” (Arriano, 4., 9, 7).
Tuttavia la condanna di Callistene alienò ad Alessandro le simpatie di cui egli godeva nell’ambiente degli intellettuali greci.
Nel 326 Alessandro penetrò in India
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L’anno successivo, immettendo 20.000 persiani nella falange, Alessandro mostrò di voler proseguire sulla strada della fusione etnica forzata.
A proposito della guerra di Alessandro alla rivolta di Opis, Arriano (7., 8, 3) nota che egli “era più irritabile per il servilismo dei barbari, e non più ben disposto come prima nei confronti dei Macedoni”; la necessità, certamente chiara ad Alessandro, di adattare la tradizionale regalità macedone a una situazione ormai completamente diversa da quella del momento della sua ascesa al trono nel 336, fu percepita dalle fonti greche come la conseguenza della corruzione cui il contatto con il lusso dell’Oriente e l’adulazione dei barbari avevano esposto Alessandro.
Pag. 241
La spedizione condotta dallo zio di Alessandro, Alessandro il Molosso, in Italia tra 334/3 e 331/0 rende non del tutto improbabile un interesse di Alessandro per il mondo occidentale.
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Le luci e le ombre del ritratto arrianeo sono le medesime che traspaiono dal dibattito dei moderni, che hanno privilegiato, sulla scia della vivacissima discussione degli antichi, ora l’Alessandro conquistatore, mosso dal desiderio di conquista e di conoscenza, edificatore di un impero universale e multietnico, capace di superare la tradizionale chiusura della polis, greca, ora l’Alessandro intollerante di ogni limite imposto alla sua volontà, sensibile alle forme autocratiche del potere del culto della personalità, spregiatore delle migliori tradizioni greco-macedoni.
Indubbiamente Alessandro fu assai meno sensibile del padre Filippo ai valori del mondo greco, ci sui apprezzò la cultura, ma senza condividerne profondamente i contenuti politici e ideologici.
Così, se Filippo aveva cercato di inserire l’egemonia macedone in schemi greci, Alessandro impose a tutti, greci e macedoni, una monarchia universale, esercitata su un territorio vastissimo ed eterogeneo sul piano etnico e culturale, che, nel suo carattere divino, tradiva e insieme superava sia i valori della tradizione macedone, sia quelli della polis greca, destinata a sopravvivere solo come realtà culturale e come luogo di uno specifico stile di vita.
Non sorprende, quindi, che la sua figura abbia suscitato da sempre un accanito dibattito e gli aspetti indubbiamente innovativi della sua opera gli abbiano assicurato una straordinaria fortuna, tanto nell’antichità quanto in ogni epoca successiva.
L’immagine “romantica” di Alessandro, desideroso di giungere, nella sua ansia di conoscenza e di conquista, ai confini del mondo conosciuto, ha attraversato i secoli.
E’ la suggestione di questa immagine che induce il sobrio Arriano a chiudere la sua Anabasi di Alessandro affermando che “non ci fu popolo, né città, né un solo uomo di quel tempo cui non sia giunto il nome di Alessandro; non mi sembra che un uomo simile, non somigliante a nessun altro, sarebbe potuto nascere senza un intervento divino” (7., 30, 2).
Nel 285 la Macedonia restò nelle mani del solo Lisimaco.
Lisandra, figlia di Tolomeo e vedova del figlio di Lisimaco, Agatocle, che il padre aveva fatto uccidere, si rivolse a Seleuco, che nel 281 invase l’Asia Minore, giunse rapidamente a Sardi e sconfisse Lisimaco nella piana di Curupedio, presso Magnesia al Sipilo.
Tolomeo era morto nel 283 e Seleuco si trovava a questo punto nella posizione ideale per diventare re di Macedonia e ricostituire l’impero di Alessandro: ma nell’autunno del 281 egli venne ucciso da Tolomeo Cerauno, figlio di Tolomeo, che era stato privato del regno dal fratellastro Tolomeo 2. e cercava una compensazione in Macedonia.
A Seleuco successe il figlio Antioco 1., già associato al regno fin dal 293 (queste forme di condivisione del potere intendevano favorire la successione dinastica ed evitare il rischio di rivendicazioni inattese e di vuoti di potere).
Dopo quarant’anni di guerre e di spartizioni, i quattro stati territoriali nati dalla divisione dell’impero di Alessandro si erano ridotti a tre per la definitiva scomparsa del regno di Lisimaco, a cavallo tra Europa e Asia.
Di questi tre, due si erano ormai assestati: l’Egitto era stabilmente guidato da Tolomeo 2., della dinastia dei Lagidi; la Siria, comprendente tutti i domini asiatici, da Antioco 1., della dinastia dei Seleucidi; solo la Macedonia appariva ancora instabile, sia per la costante irrequietezza della Grecia, sia perché la corona non era ancora saldamente nelle mani di alcuna dinastia.
Tolomeo Cerauno, divenuto re, morì nel 279 combattendo contro i celti (chiamati galati dai greci), che scendendo dalle regioni balcaniche avevano attaccato la Macedonia.
Nello stesso anno essi investirono Delfi, che fu difesa con successo dai focesi e soprattutto dagli etoli; un altro gruppo si diresse verso la Tracia e fu fermato da Antigono Gonata a Lisimachia, nel 277.
La vittoria sui galati assicurò al Gonata il trono macedone; il tentativo di Pirro, rientrato dalla sfortunata avventura in Italia e in Sicilia (280-275), di usurpare nel 274 il trono macedone si concluse con la sua morte ad Argo, nel 272.
Il superstiti passarono in Asia minore, dove imperversarono a lungo, finché, intorno al 230, furono vinti da Attalo 1., re di Pergamo (città che si costituì in regno indipendente dal dominio di Seleuco nel 263) e si stanziarono nella regione che fu poi chiamata Galazia.
Pag. 249
Persino i democratici come Demostene non potevano fare a meno di rilevare l’efficienza e la rapidità di decisione e di azione della monarchia macedone, a fronte dei conflitti interno e della lentezza dei processi decisionali cittadini.
Pag. 252
Il nuovo ruolo svolto dalle città è una delle caratteristiche dell’ellenismo.
La polis assunse nell’epoca ellenistica una caratterizzazione più omogenea rispetto alla grande varietà di modelli dell’arcaismo e dell’età classica.
Le istituzioni erano molto simili tra loro e comprendevano un consiglio, un’assemblea, tribunali e magistrature elettive: si trattava, in sostanza, di democrazie moderate, nell’ambito delle quali si formarono, col tempo, aristocrazie di notabili.
L’autonomia promessa alle città dalla propaganda di Antigono e di Tolomeo, che garantiva, secondo una formula assai fortunata, “libertà, autonomia, immunità dai tributi, immunità dalle guarnigioni”, si traduceva nei fatti in una autonomia puramente amministrativa: le città libere e autonome non erano soggette al diretto controllo dei delegati del re, potevano eleggere liberamente i loro magistrati, legiferare, battere moneta, amministrare la giustizia, nonché sottoscrivere alcuni accordi di carattere internazionale, ma non avevano una vera indipendenza politica.
……………..
Nelle città sorsero gruppi di “ellenisti”, individui di origine non greca, ma che parlavano greco e apprezzavano lo stile di vita greco, espresso soprattutto nella frequentazione del ginnasio; tuttavia, la massa degli indigeni restò ai margini di questo processo “a senso unico” e non si determinò mai in una vera assimilazione, se non, forse, in campo religioso, dove la diffusione di divinità non greche e lo sviluppo di culti misterici avvicinò greci e indigeni più che in altri settori.
Il tramonto dell’esperienza politica della polis, però, favorì certamente una percezione diversa, e caratterizzata da maggiore apertura, verso lo straniero.
La grande crescita della popolazione e la commistione che essa portò con sé creò, soprattutto nelle grandi metropoli ellenistiche, un tessuto sociale assai composito, in cui la diversità, anche etnica, fu percepita in forma meno drammatica.
All’interno delle città, la differenza tra meteci e xenoi, così forte nella polis classica, si affievolì; lo sviluppo della vita associativa, in ambito militare, commerciale e religioso-cultuale, favorì l’integrazione degli elementi stranieri, anche di etnia non greca.
Certo, se nell’ambito del regno seleucido, che ereditò il carattere sovranazionale dell’Impero persiano, le differenze etniche e culturali furono meno sentite, in Egitto, dove i Tolomei non perseguirono alcun tentativo di integrare gli indigeni, le difficoltà furono molto maggiori e solo con la decadenza dell’esercito greco-macedone e la conseguente necessità di procedere all’arruolamento su base locale essi ottennero una progressiva promozione.
Ma Alessandria, la grande metropoli in cui convissero, accanto ai conquistatori greco-macedoni, le etnie più diverse, può ben costituire un esempio della diversa capacità del mondo ellenistico, rispetto a quello della Grecia classica, di realizzare una più efficace integrazione fra uomini di provenienza eterogenea, rimuovendo discriminazioni e pregiudizi culturali e realizzando un’unità linguistica, giuridica, di costumi, insomma di civiltà capace di maggiore accoglienza: la città ellenistica, concepita come centro di cultura piuttosto che come forma di stato, può essere considerata, diversamente da quella classica, più adatta a favorire forme di integrazione.
Pag. 254-56
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Cap. 6. La Grecia e Roma
Polibio scrisse le sue Storie per “conoscere in che modo e con quale costituzione i Romani riuscirono, in meno di cinquantatré anni, a vincere e a ridurre sotto il loro dominio quasi l’intero mondo conosciuto, cosa mai accaduta in passato” (1., 1, 5).
I cinquantatré anni di cui parla lo storico acheo sono quelli che vanno dal 220 al 167, dalla guerra annibalica alla sottomissione della Macedonia.
Polibio riteneva che i romani, in questo arco di tempo, avessero elaborato e sistematicamente realizzato un piano di espansione avente come obiettivo la progressiva unificazione dell’ecumene.
Egli fu dunque, in un certo senso, il primo a porsi il problema, tanto dibattuto, del cosiddetto “imperialismo” romano.
Negli ultimi decenni la questione è stata ampiamente ridiscussa, ora revocando in dubbio la possibilità stessa di utilizzare con riferimento alla storia romana il concetto di “imperialismo”, ora invece riaffermando il carattere imperialistico della politica romana e contestando i fondamenti della teoria dell’”imperialismo difensivo”, secondo cui Roma si sarebbe impegnata in Oriente per sventare le minacce che da quell’area provenivano effettivamente o che come tali venivano percepite, sulla base della nozione di guerra preventiva.
La discussione ha condotto a un equilibrato ridimensionamento della teoria imperialistica.
La reale incidenza della preoccupazione difensiva nella condotta romana, la presenza di una forte componente etica nella decisione politica relativa all’entrata in guerra, il peso di motivi ideali come quello, celeberrimo e troppo spesso ridotto al livello di pure pretesto, della libertà dei greci, e di disposizioni “culturali” come il filellenismo sembrano, infatti, di ammettere.
Allo stesso modo, Roma svolse una coerente politica di non annessione e di “clientela” nei confronti della Grecia e dell’Oriente ellenistico, allo scopo di garantire il mantenimento di un equilibrio politico generale: la realizzazione di questo equilibrio va quindi ritenuta il vero obiettivo del dominio romano fino alla fondazione della provincia di Macedonia e conservò anche in seguito, per una parte della classe dirigente romana, una sua validità, pur scontrandosi con l’emergere di una mentalità espansionistica nei gruppi finanziari e commerciali, nelle masse meno abbienti e in coloro che si facevano sostenitori delle loro rivendicazioni.
L’incidenza dei fattori economici, del resto, non va sopravvalutata, giacché, se la conquista apportò indubbi vantaggi economici, non fu però, a quanto sembra, una politica economica a guidare la condotta romana.
Un irrigidimento della politica romana e una progressiva affermazione dell’utilitarismo, con la spregiudicata accettazione dell’impero e dei suoi vantaggi e con il passaggio da una fase propriamente “imperialistica”, sembrano da individuare a partire dal 167 o addirittura dal 172.
Tale svolta fu del resto già colta dalla tradizione antica, che indicava nella guerra contro Perseo il momento dell’affermazione, peraltro non incontestata, di una nuova condotta politica, la nova sapientia di cui parla Livio (42., 47, 2-9).
Pag. 275-76
E’ chiaro che questa prospettiva conduce all’ammissione di una volontà interventista da parte romana, individuando già nella seconda guerra macedonica quella svolta nella politica romana che viene in genere collocata dopo Pidna.
E’ stato posto l’accento su fattori diversi, coem lo sviluppo di una mentalità espansionistica in alcuni strati della società (masse e ceti finanziari e commerciali) e l’emergere di ambizioni personali; l’incidenza di fattori ideologici e culturali (primo fra tutti il filellenismo della classe dirigente) che avrebbero indotto Roma, di fronte alle richieste di intervento da parte greca e rodio-pergamena, a guardare alla Grecia come doveroso e privilegiato ambito di intervento; la prosecuzione da parte di Roma di quella linea tradizionale che la portava, nei settori in cui non avesse ancora maturato un progetto autonomo, a offrire la propria disponibilità militare e politica agli alleati, in questo caso Pergamo e Rodi.
La spinta offensiva sarebbe stata incoraggiata, sul piano internazionale, soprattutto dalla crisi dell’Egitto tolemaico sotto il regno di Tolomeo 5. e dal conseguente squilibrio in ambito mediterraneo a favore della Siria e della Macedonia: una situazione cui Roma, vuoi per il senso di insicurezza che gliene derivava, vuoi per compiacere i suoi alleati, avrebbe risposto con la guerra.
Una convergenza di elementi diversi e complessi, dunque, avrebbe determinato una volontà, se non propriamente imperialistica, almeno interventistica e comunque non certo difensiva ma piuttosto offensiva.
Pag. 289
Inoltre la guerra siriaca ebbe gravi ripercussioni interne, giacché comportò l’apertura di un intenso dibattito all’interno della classe dirigente romana.
Alla politica filellenica di Flaminimo e degli Scipioni, incentrata sul tema della libertà e dell’autonomia delle città, veniva contrapposta la politica ben più aggressiva nei confronti dell’Oriente greco del gruppo di cui, sullo scorcio della guerra siriaca, si fece portavoce Vulsone (il cui discorso per la richiesta del trionfo, conservato in Livio 38., 47-49, costituisce un vero e proprio “manifesto” imperialista).
I due gruppi ebbero significativi appoggi internazionali: il primo fu sostenuto dai Rodii, il secondo (che garantiva una presenza più spregiudicata e incisiva dei romani in Oriente, a tutto vantaggio dei loro alleati) aveva invece il sostegno di Eumene, a beneficio del quale era stata compiuta la spedizione galatica guidata da Vulsone.
All’idealismo filellenico o al realismo pragmatico (comunque si voglia caratterizzare la politica svolta fino a questo momento da Roma verso l’Oriente ellenistico e sostenuta da Flaminino e dagli Scipioni) si andava sostituendo progressivamente un orientamento assai diverso: è infatti proprio nel corso della guerra siriaca che, sotto diverse sollecitazioni, i romani intuirono e svilupparono la possibilità di costruire un impero universale.
Da questo momento in poi, vi furono all’interno della classe dirigente e, più genericamente, della società romana spinte non prove di risvolti “imperialistici”, che già all’indomani di Apamea cominciarono a manifestarsi per condurre, nel corso di un ventennio, alla svolta di Pidna.
Pag. 100-1
Ma è chiaro che Roma cercava ormai, e avrebbe comunque trovato, un pretesto per provocare una rottura e chiudere definitivamente il problema macedone.
Numerosi fattori spingevano in questo senso.
Prima di tutto, motivi strettamente politici, come l’effettiva preoccupazione per la riscossa macedone e il timore di una sua riaffermazione nell’Egeo, collegato anche con la possibilità (in caso di Vittoria di Antioco 4. nella contemporanea sesta guerra siriaca) di un accostamento siro-macedone, che avrebbe coalizzato contro Roma due forze desiderose di riscatto e di vendetta.
Il timore per la riaffermazione della potenza macedone è in effetti fortemente sottolineato dalle fonti: Roma, che pur annientando i nemici sconfitti aveva sempre cercato di ridurli in condizione di non nuocere, non poteva che guardare con preoccupazione alla ricostituzione della potenza macedone, a un suo reinserimento autorevole in area egea e soprattutto al prestigio che Perseo sembrava aver recuperato presso i greci (auctoritas: Livio, 42., 11, 9) e che costituiva il pericolo più serio, giacché minava il suo patrocinio su una Grecia che aveva rinunciato a occupare.
In secondo luogo, motivi difensivi, collegati soprattutto con il timore di un’invasione dell’Italia.
Essa appare, nel contesto del 172, una vera e propria chimera, giacché Perseo non aveva flotta; va tuttavia sottolineato che tale timore fu abilmente alimentato da Eumene 2. (Livio, 42., 13, 10-11: “ho ritenuto una vergogna per me che Perseo venisse in Italia a portare guerra prima che io, vostro alleato, venissi ad avvertirvi di stare in guardia”), accanito denunciatore dei pericoli, veri o falsi, che provenivano dalla Macedonia.
Tutto ciò non basta certo a giustificare giuridicamente la guerra: ma è certo che l’intervento, questa volta voluto dai romani, fu presentato come preventivo, contro un nemico che appariva tale per la sua dinamicità e la sua intraprendenza potenzialmente pericolose, più che effettivi atti ostili.
Infine, non ultimi, motivi di carattere economico.
E’ stato sottolineato l’apporto che all’iniziativa che all’iniziativa bellica fu dato dalle spinte provenienti da uomini politici plebei e dai populares, portavoce di una politica aggressiva e bellicista, dalla quale si attendevano risultati prestigiosi e vantaggi economici: queste nuove forze avrebbero avuto, in questa occasione, la meglio sull’aristocrazia senatoria, meno incline alla soluzione conflittuale.
Roma si mosse così in modo coscientemente provocatorio nei confronti di Perseo: del resto il comportamento romano suscitò perplessità già nei contemporanei, ed è a proposito dell’ambasceria con cui nell’ottobre 172, al Peneo, Quinto Marcio Filippo ingannò Perseo, protraendo i negoziati solo per permettere a Roma di prepararsi meglio a un intervento ormai deciso, che Livio (42., 47, 4-9) parla dell’affermazione di una nova sapientia, in contraddizione con i principi (a cominciare da quello della fides) che fino a quel momento avevano mosso la politica estera romana.
Pag. 305
Anche per quanto riguarda i rapporti con le altre monarchie ellenistiche il 168 costituì un anno di significativi mutamenti.
Antioco 4., subentrato nel 175 al fratello Seleuco 4., era impegnato nella sesta guerra di Siria: dopo una serie di alterne vicende militari e diplomatiche (egli, vincitore sul piano militare, nel 169 aveva realizzato un accordo con Tolomeo 6., ma questi aveva poi accettato di dividere il regno con il fratello Tolomeo 8. e con la sorella-sposa Cleopatra, provocando la ripresa delle ostilità) aveva invaso l’Egitto e chiedeva la consegna di Pelusio e di Cipro.
Ma appunto nel 168 egli si vide imporre da Marco Pompilio Lenate ad Eleusi, un sobborgo di Alessandria, l’abbandono immediato del paese: il romano tracciò un cerchio nella sabbia intorno al sovrano seleucide, chiedendogli di dare una risposta immediata senza uscirne, se voleva mantenere l’amicizia con Roma (Polibio 29., 27).
Il trattato imposto ad Antioco 3. nel 188 in realtà non intimava restrizioni alla Siria per quanto riguardava i suoi rapporti con l’Egitto e sul piano del diritto Antioco 4. non aveva commesso violazioni: ma egli, che era salito al trono con il sostegno indiretto di Roma e non desiderava scontrarsi con essa, volle evitare di trovarsi nella situazione di Perseo e preferì soggiacere all’intimazione romana.
Roma si mostrava decisa a imporre la propria visione dell’equilibrio mediterraneo indipendentemente dal contenuto dei trattati intercorsi con gli stati ellenistici: l’intimazione di Popilio riflette infatti il rifiuto di negoziare l’obbedienza ai dettami di Roma, che intendeva essere riconosciuta coem maggior potenza mediterranea e come arbitra indiscutibile del destino degli stati che sul Mediterraneo gravitavano.
Come la Siria, costretta a prendere atto del nuovo ruolo che Roma si era scelta, con la “giornata di Eleusi” anche l’Egitto veniva a cadere nell’orbita romana: a Roma del resto i re egiziani cercavano da tempo di appoggiarsi per sopperire alle debolezze del paese e della dinastia.
Nessuno degli Stati ellenistici si trovava più in grado di esercitare liberamente la propria sovranità nel Mediterraneo, giacché, come avevano mostrato i recenti avvenimenti, ciò rischiava di venir considerato un inaccettabile fattore di instabilità e quindi di turbamento dell’ordine romano.
Antioco 4. si volse a Oriente, dove lo chiamavano la crisi giudaica, apertasi nel 175 e gravida di pericolosi sviluppi, e l’instabilità dei confini, minacciati dai sovrani di Armenia e di Battriana e dalla crescita del regno dei Parti.
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Il fratello e successore di Giuda, Gionata, seppe inserirsi abilmente nelle lotte dinastiche seleucidiche e tra il 152 e il 143/2 si giunse, attraverso varie fasi, alla costruzione di uno stato giudaico indipendente.
Pag. 313
Roma, che in un primo momento non era parsa interessata all’annessione, decise allora di incamerare il territorio pergameno e nello stesso 129 Aquilio fu incaricato di organizzare la provincia romana d’Asia.
Essa comprendeva la Misia, la Lidia, la Frigia e parte della Caria ed Efeso ne fu la capitale; le città greche restarono libere e fu anzi abolito il tributo percepito dal re.
La cessione di territori ai re microasiatici, prevista da Aquilio, non fu ratificata dal senato.
Uomini dell’aristocrazia senatoria (Quinto Mucio Scevola, Publio Rutilio Rudo, Lucio Licinio Lucullo) cercarono in ogni modo di impedire l’irruzione nella nuova provincia dei publicani: con la lex Sempronia del 123, con cui C. Gracco rinnovò il sistema fiscale creando appunto un monopolio per i publicani, lo sfruttamento economico della provincia veniva affidato all’iniziativa di forze politiche diverse (i populares, che già con Tiberio Gracco avevano individuato nei tesori di Attalo un mezzo per il finanziamento della legge agraria) da quelle che avevano, di malavoglia, realizzato l’annessione.
Ormai il controllo della situazione sfuggiva di mano al Senato: concluso il ciclo che aveva portato Roma a estendere il suo controllo sulla Grecia e su parte dell’Oriente ellenistico, nuove forze politiche si preparavano a dare una diversa impronta alla linea di comportamento da seguire in quelle aree che nel secolo successivo sarebbero state progressivamente provincializzate, aprendo un insanabile dissidio e insieme la crisi senza ritorno del governo che quelle conquiste aveva realizzato.
Roma aveva tentato a lungo di evitare l’esercizio di una dominazione diretta sulla Grecia, per motivi di carattere ideale, per valutazioni di opportunità e per questioni pratiche e organizzative.
A suo modo anche Roma, come Filippo 2. di Macedonia, aveva provato a comprendere i principi che regolavano l’equilibrio internazionale greco e ad inserirsi negli schemi politici e giuridici esistenti, presentandosi come garante della pace comune, come difensore della libertà e dell’autonomia, come egemone riconosciuto sollecitato a interventi di carattere giudiziario e militare.
Ma l’irriducibile conflittualità del mondo greco, la stessa che aveva reso debole la Grecia delle poleis, estenuatesi nelle guerre per l’egemonia, e la stessa Grecia ellenistica delle grandi monarchie, in perenne guerra reciproca, costrinsero alla fine Roma a procedere a quegli interventi di annessione territoriale e di riduzione all’ordinamento provinciale che soli potevano garantire pace e stabilità nel tormentato settore geopolitico greco-orientale.
La difesa esasperata, e quindi spesso priva di lungimiranza, da parte dei singoli Stati greci, città, fondazioni e monarchie, della libertà, dell’autonomia e del diritto a svolgere una politica conforme ai propri esclusivi interessi aveva, infine, posto termine all’indipendenza della Grecia intera.
Pag. 317-28
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La civiltà greca / Pierre Léveque
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Introduzione
L’espansione presenta quasi sempre un duplice aspetto, militare e mercantile: l’uno o l’altro predominano a seconda delle epoche.
Nel 2. millennio, cli achei impongono la loro influenza la loro influenza a una parte del Mediterraneo orientale, ma il prodotti della loro industria penetrano molto più lontano, in terre che conservano una totale indipendenza.
Al volgere del 2. millennio una serie di grandi migrazioni permette ai greci di conquistare al ricca frangia costiera dell’Anatolia.
L’età arcaica assiste allo sviluppo di un potente movimento colonizzatore, che porta tanto alla conquista di nuove terre, quanto all’apertura di sbocchi nel mondo barbaro.
L’epoca classica coincide con una pausa di questo slancio dal punto di vista politico, ma l’incremento del commercio offrirà alla grecità un campo di penetrazione sempre più profondo in alcune zone.
Nel momento in cui questi scambi vitali decrescono e la Grecia sembra minacciata dall’asfissia, il genio smisurato di Alessandro conquista l’Oriente achemenide.
Fin dal primo esame superficiale, la storia greca appare segnata non da uno sviluppo continuo, come nel caso così evidente del progressivo incremento della potenza romana, ma da una successione di pulsazioni in cui si manifesta un imperialismo ora politico, ora mercantile.
Sotto l’apparente improvvisazione si scorge una costante: la stretta necessità per il genio degli uomini di supplire alla povertà delle risorse naturali, d’inventare nuovi mezzi per evitare l’autarchia, generatrice di morte.
L’avventura greca è figlia della fame.
C’è dunque modo, fin quasi dai primi stanziamenti dei greci sul suolo dell’Ellade, di distinguere tra Grecia e mondo greco, che non coincidono mai, nemmeno nelle ore più buie.
In questo mondo greco bisogna includere sia i regni in cui i greci si stabiliscono come conquistatori, e le colonie, a volte unite a volte totalmente isolate in terra barbara; sia, in senso più lato, le regioni in cui, secondo un processo costante, e cioè attraverso il mezzo indiretto del commercio, penetra la grecità.
Il mondo greco anticipa molto evidentemente l’impero romano, che è stato il suo successore diretto ed ha largamente approfittato di questa unità mediterranea creata dall’ellenismo; ma si differenzia radicalmente da quest’ultimo, in particolare a causa della debolezza dei legami politici che lo stringono a una Grecia essa stessa divisa.
Scrivere la storia del popolo greco implica perciò molto sovente un ampliamento d’orizzonte, che porta lontano dal covo di Micene, dalle rive dell’Eurota e dalla collina sacra di Pallade, dove sotto forme diverse la civiltà antica conosce i suoi apogei, verso un mondo periferico che, spesso consciamente e deliberatamente, s’imbeve dello spirito greco.
Non ci si può quindi meravigliare della fortissima impressione di varietà che ne emana.
Già per natura i greci detestano l’uniformità: non hanno mai fatto due templi o due coppe che si rassomigliassero.
La storia di Atene è molto diversa da quella di Sparta o di Corinto, benché distino solo qualche decina di chilometri.
A maggior ragione è evidente che la civiltà greca sviluppatasi in Anatolia non può essere uguale a quella sviluppatasi in Egitto, in Gallia o nelle Indie.
A rischio di annoiare il lettore, dovremo sottolineare per ogni epoca delle distinzioni regionali che sono ben più che semplici sfumature.
Una tale espansione, per quanto vitale, suppone una perseveranza poco comune nella ricerca dei mezzi più adatti per ovviare all’angustia del suolo ed alla scarsità delle risorse della Grecia vera e propria.
Simile allo scaltro Ulisse, che fu il suo eroe preferito, il popolo greco ha potuto sopravvivere solamente sviluppando una perpetua genialità inventiva.
Perché dunque meravigliarsi se all’avventura dei conquistatori o dei trafficanti si aggiunse ben presto un’avventura spirituale?
Per un lungo periodo, più o meno durante tutto il 2. millennio, solo il mito può rispondere in maniera adeguata agli interrogativi che angosciano l’uomo.
I miti dei greci formano un insieme estremamente delicato e sottile, e non è un puro caso se essi alimentano ancora oggi la riflessione dei drammaturghi e degli psicanalisti.
Poi, con un brusco risveglio del quale nessun popolo dell’Oriente ha conosciuto l’eguale, appare il pensiero razionale, padre della politica, della filosofia e della scienza.
Ed ecco allora iniziare la meravigliosa sfilata di quegli sconosciuti che forgiano nuovi sistemi, più giusti e meno oppressivi, di vita sociale; ma anche di quegli “amici della saggezza” (poiché tale è il vero significato del termine filosofo) che fissano per l’uomo il suo posto nel cosmo e pongono le regole dell’etica, e di quei saggi innamorati della bellezza dei numeri o esegeti dell’armonia delle sfere celesti.
La letteratura e le asti, legate all’azione e opposte alla frivolezza più strettamente di ogni altra attività, si danno alle stesse ricerche e propongono l’immagine dell’uomo più profonda e più ricca di sfumature.
Se cercano la bellezza, è la ragione a comandarlo, poiché, secondo l’insegnamento di Platone, al bellezza è il risultato ultimo della dialettica.
Nell’anima greca tutto è congiunto in un’unità indissolubile, segno dell’autentica grandezza.
La tradizione non afferma forse che Talete e Platone non disdegnavano i profitti del commercio?
Sofocle non fu forse eletto stratega, per aver fatto rappresentare l’Antigone?
Profondamente innamorato della vita, che ha ancora valore poiché è di breve durata, il greco non tralascia alcun mezzo per renderla sopportabile e abbellirla.
Come Eracle seduto, secondo Prodico, all’incrocio di due strade, egli sceglie il ponos, lo sforzo doloroso e creatore.
Egli assume il suo destino d’uomo, preferisce aiutarsi che attendere l’aiuto degli dèi dell’Olimpo, detesta la rinuncia e la sottomissione.
Questo è il segreto di una vittoria unica, di una giovinezza che noi scopriamo estasiati in tutte le sue creazioni, quella che Plutarco riconosceva nei monumenti dell’Acropoli quando scriveva (Pericle, 13): “Ogni opera di Pericle, non appena conclusa, già sapeva d’antico in quanto a bellezza; e nondimeno, in quanto a grazia e vigore, sembra ancor oggi che sia appena finita e compiuta, tanta non so qual fiorente novità si può trovare in essa, che impedisce all’ingiuria del tempo di guastarne l’aspetto.
E’ come se ognuna delle suddette opere avesse all’interno uno spirito che sempre ringiovanisse ed un’anima che giammai invecchia, da cui è conservata in questo vigore”.
Pag. 7-9
Libro primo. Preelleni e elleni: incontri e sintesi fino alla fine del 2. millennio.
Cap. 1. Il sorgere della Grecia, fino al 1580
E’ soprattutto partendo dallo studio dei toponimi che si è potuto determinare l’estensione della civiltà anatolica in Grecia.
In effetti, un certo numero di nomi di luogo, utilizzati in modo continuato nel 1. millennio a. C., e in molti casi fino ai nostri giorni, comportano dei suffissi inspiegabili in greco, che devono dunque rappresentare un substrato linguistico anteriore.
Largamente diffusi nel continente, come a Creta e nelle isole del mar Egeo, questi toponimi sono altrettanto numerosi in Anatolia.
Tali, per esempio, i suffissi in –nthos (Corinto, Tirinto, Erimanto, Zacinto…) o in –sso o –tt, semplificati in –s o –t (Cnosso, Amniso, Tilisso, Ialiso, Parnaso, Imetto…), che si ritrovano nei nomi anatolici (come Labraundo, Alicarnasso, Asso).
Il terzo millennio rappresenta dunque il momento in cui montagne, fiumi e città ricevettero nomi che l’imposero malgrado le ulteriori invasioni.
Questi nomi, a lungo designati col comodo termine di preellenici o di egei, sono riconosciuti oggi come specificamente anatolici.
Essi permettono di seguire sul terreno quelle vaste migrazioni che, varcando il mare Egeo, hanno assicurato un nuovo popolamento non solo alla Grecia continentale, ma anche alle isole (in particolare le Cicladi) ed a Creta.
Grazie ad esse, il Mediterraneo egeo prende, nel terzo millennio, una nuova fisionomia: la Grecia continentale non è più isolata, come nel periodo neolitico, ma diviene partecipe di un’unica civiltà, originaria dell’Asia Minore, che regna dalla Macedonia fini a Creta.
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Per quanto riguarda le forme superiori della civiltà, conviene ancora essere prudenti; tuttavia un punto è sicuro: l’esistenza di palazzi, a volte già fortificati (Lerna, Egina), presuppone una forte organizzazione monarchica.
Ciascuno di questi regni doveva essere indipendente dai vicini ed anche questo fatto prelude al frazionamento politico della futura Grecia.
La lingua degli anatolici non è del tutto sconosciuta, non foss’altro che a causa dei toponimi.
Essa doveva d’altronde essere molto simile al cretese, del quale avremo occasione di riparlare.
Sulle credenze spirituali non possediamo molti dati.
Gli idoli femminili steatopigi restano numerosi e quelli delle Cicladi, che mostrano a volte la forma stilizzata di un violino, sono giustamente famosi.
La dea viene rappresentata nuda, a volte con un bimbo sul capo o fra le braccia.
Queste sculture testimoniano il permanere del culto di una grande dea madre, dispensatrice di fertilità e fecondità.
Altri tipi, come quello del suonatore di flauto o di arpa, sono molto più rari.
Gli usi funerai di quest’epoca sono abbastanza noti, mentre quelli del Neolitico ci sfuggono quasi completamente.
Le necropoli sono situate fuori dagli insediamenti umani: le offerte sono numerose, cosa che attesta una salda credenza nella sopravvivenza del morto.
Al termine del terzo millennio, in una data che gli specialisti fissano tra il 2000 e il 1950, la civiltà anatolica dell’Ellade doveva crollare sotto i colpi dei nuovi invasori: i greci, che fanno così la loro prima apparizione nella storia della Grecia.
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Non si crede più, come una volta, che gli indoeuropei abbiano costituito, all’origine, una razza unica, e nemmeno che essi abbiano avuto una civiltà materiale comune.
Infatti, l’archeologia non permette di ritrovare la loro culla, che si è tentato di scoprire da un secolo a questa parte in tante direzioni differenti.
Gli indoeuropei sarebbero piuttosto degli aggregati, delle cristallizzazioni di popolazioni, senza dubbio già fortemente mescolate, tra le quali, in una data molto lontana (5.-6. millennio), si sarebbe prodotta un’innovazione linguistica capitale, forse analoga a ciò che sono, nel mondo vegetale, le mutazioni: la lingua di base, ancora molto fluida, dell’Europa mesolitica – lingua di tipo agglutinante che doveva servire di substrato non solamente al gruppo indoeuropeo, ma ad altri gruppi che lo continuano più direttamente: gruppo ugro-finnico, basco… - si sarebbe trasformata in una lingua a flessione: l’indoeuropeo.
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E’ certo che l’occupazione della Grecia da parte delle orde ioniche avvenne in modo violento.
Le popolazioni anatoliche, che vi si erano d’altronde stabilite nello stesso modo, furono sommerse e senza dubbio ridotte in schiavitù.
La frattura in campo archeologico è quasi dappertutto molto netta, ed i luoghi come Lerna, dove esiste continuità fra gli anni precedenti e seguenti il 1950, sono molto rari.
Inizia allora un nuovo periodo, che corrisponde ai primi secoli dello stanziamento dei greci su di una terra in cui resteranno fino ai nostri giorni.
E’ l’età del bronzo medio, o elladico medio, che durerà all’incirca quattro secoli, fin verso il 1580.
La conoscenza che ne abbiamo è ancora molto limitata, dato che non possiamo contare che sulla documentazione archeologica proveniente dagli scavi.
Ci troviamo ancora nella protostoria e non entreremo nella storia nel senso stretto del termine, che col periodo seguente, quello dell’Elladico recente, che vedrà l’introduzione in Grecia della scrittura.
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Il commercio mediterraneo, che caratterizzava l’Elladico antico, sparisce con le invasioni greche.
L’unità etnica del mare Egeo non esiste più: nella Grecia continentale i greci si sono sovrapposti alle popolazioni anatoliche, mentre Creta non è stata ancora toccata dalle loro invasioni e le isole continuano a vivere nella sua orbita.
Certamente essi non ignorano del tutto le rotte mediterranee, che forse hanno già usato per raggiungere la Grecia, se è vero che passarono dapprima per l’Anatolia.
In particolare li si trova abbastanza presto nelle Cicladi a Milo, dove vanno a cercare l’ossidiana entrando così in contatto con i cretesi.
Questa prima iniziazione dei greci, fino ad allora strettamente legati alla terra, al mondo del mare, è uno dei grandi avvenimenti dell’Elladico medio.
E’ altrettanto vero che tra i due periodi )Elladico antico ed Elladico recente) di grande apertura sul Mediterraneo, i primi secoli del secondo millennio rappresentano un’epoca in cui la Grecia vive ripiegata su se stessa, chiusa, nell’insieme, alle influenze fecondatrici venute d’oltre mare.
Possiamo parlare solo in modo ipotetico dello stato sociale della Grecia in quest’epoca, e per analogia con le altre società indoeuropee primitive meglio conosciute.
Il nuovi venuti sono guerrieri, organizzati in una società di tipo militare, nella quale si è sovente voluto vedere, non senza esagerazioni, un’anticipazione del feudalesimo.
Essi riconoscono l’autorità di capi che, forse imitando i re dell’Elladico antico, stabiliscono ben presto la propria dimora in un palazzo.
Il popolo conduce una vita egualitaria e vi sono validi motivi per ritenere che il sistema agrario, che vedremo testimoniato nell’Elladico recente, in cui la terra è in comune, ripartita in lotti uguali tra i capi famiglia, risalga alle prime invasioni greche.
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Per lungo tempo mancò ai greci quel non so che, che permetterà loro, verso il 1580, di elevarsi al di sopra di questa civiltà rudimentale e di accedere all’apogeo dell’epoca micenea.
Prima di seguirli nella loro ascesa, è opportuno volgere la nostra attenzione verso Creta, dove i greci non si sono ancora installati e dove sopravvive, con uno splendore incomparabile, la civiltà anatolica che le invasioni ioniche del 1950 avevano fatto sparire dalla Grecia continentale.
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Verso il 2000 appaiono i “primi palazzi”, sicuro segno dell’avvento di un forte potere centrale almeno in tre luoghi: a Cnosso, a Festo e a Mallia.
Intorno al 1700 questi palazzi vengono distrutti da un cataclisma generale in cui si è voluto vedere un terremoto, ma che sembra piuttosto essere stato un’invasione di popolazioni venute dal continente per saccheggiare e razziare.
Dopo aver distrutto ogni cosa, i greci si ritirarono, poiché è sicuro che non si stabilirono a Creta: non intervengono infatti dei cambiamenti notevoli nella civiltà dell’isola.
Questa calamità fornì l’occasione per ricostruire palazzi più vasti e più belli: è l’epoca dei “secondi palazzi” (1700-1400), che vede la ricostruzione di Mallia, di Festo e soprattutto di Cnosso.
Ben presto il re di Cnosso prende il sopravvento sui suoi vicini: distrugge Mallia e costringe il principe di Festo ad accettare la sua signoria.
E’ il trionfo di Cnosso, che, approfittando della sua posizione attuale, unifica tutta Creta e costruisce uan rete di strade per consolidare e imporre la sua egemonia.
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La ricchezza di Creta permise lo sviluppo di una splendida arte, che trovò la sua più bella espressione nei palazzi.
Si tratta di vasti complessi non fortificati costruiti attorno ad una corte centrale.
I tetti a terrazze sono sostenuti da colonnati di preferenza mediani, e comportano una porta laterale.
L’illuminazione è assicurata da numerose finestre e da piccoli cortili interni, che sono altrettanti pozzi di luce.
L’idraulica è perfettamente conosciuta: le fogne raccolgono delle piogge torrenziali e quella di scarico: l’acqua delle fonti viene convogliata fino al palazzo per le numerose sale da bagno o per le cisterne.
Non esiste un focolare fisso e in caso di bisogno si utilizzano i bracieri.
Ciò che colpisce è il perfetto adattamento al clima mediterraneo, la cura per le comodità e un profondo senso del bello, che trova soddisfazione tanto nella ricerca dei dettagli raffinati quanto negli ingressi monumentali, nelle terrazze sovrapposte, negli scorci su vasti paesaggi, tutte cose che Gustave Glotz definisce come “un gusto sicuro del teatrale e del pittoresco”.
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In attesa della decifrazione dei documenti, non conosciamo bene la religione dei cretesi, che manifestavano un così acuto senso del bello.
Tuttavia sembra verosimile che si trattasse di una religione ottimista, che invitava a comunicare con le forze intime della vita e che offriva felici speranze ai suoi fedeli.
Si è parlato a lungo di un feticismo primitivo e, in realtà, la pietra sacra, il palo, la doppia scure (labrys), lo scudo bilobato, gli alberi o animali sacri appaiono numerosi nelle rappresentazioni culturali, testimonianze di un tempo in cui si adoravano le forme elementari della natura e il valore magico delle armi.
Ma ormai tutti questi oggetti sono concepiti solo più come simboli delle divinità.
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V’è dunque tutto un insieme di prove che permettono di attribuire ai cretesi delle precise credenze in un aldilà benefico, ove alcuni morti, resi simili agli dèi dal titolo di eroi, godevano della felicità eterna sotto la protezione, che si protraeva anche dopo il trapasso, della indulgente Terra-Madre.
Non si insiste mai abbastanza sull’importanza storica della religione cretese, che attraverso la mediazione di quella achea, ha dato un contributo così notevole alla religione greca del primo millennio.
E non si tratta solo della sopravvivenza di alcuni nomi di divinità: Britomartis (la Buona Vergine), Dittinna, Ilitia, Velchanos (il dio con il gallo, del quale i greci faranno uno Zeus Velchanos) o di alcuni nomi di eroine: Arianna, Europa; è tutta l’atmosfera dei culti egei che sarà presente nei culti ctonii e mistici del mondo ellenico.
E’ la loro spiritualità, infatti, il loro ottimismo, la loro preoccupazione dell’oltretomba, che ritroveremo costantemente nel nostro studio della religione greca.
Un’evocazione così sommaria non può far rivivere lo splendido mondo dei minoici,
Pace, prosperità, armonia nell’organizzazione sociale, amore per la vita, passione per la bellezza e in particolare per la grazia, queste sono le sue caratteristiche più evidenti.
Una grande vittoria umana quindi per un popolo così piccolo, le cui creazioni riescono a stare alla pari, nel nostro giudizio, con quelle delle civiltà per tanti versi disumane dell’Egitto e dell’Oriente.
Il mistero delle sue origini è perciò ancor più irritante per lo storico; Insoddisfatto di ripetere che essi venivano dall’Anatolia, egli vorrebbe risalire più lontano nel loro passato.
Tentativi intesi ad analizzare gli scarsi resti della lingua cretese, detta anche convenzionalmente “pelasgica”, sono stati compiuti.
Usando il metodo dei residui ed estraendo dal vocabolario greco le parole che non possono essere spiegate per mezzo del greco stesso, s’è potuta costituire una base di vocabolario cretese, al quale si aggiungono numerosi toponimi e ora i primi risultati della decifrazione del lineare A.
In contraddizione con l’opinione corrente, secondo la quale i cretesi rappresentavano il substrato mediterraneo anteriore all’arrivo degli indoeuropei, studi recenti hanno dimostrato come il “pelasgico” fosse imparentato con le lingue indoeuropee dell’Asia Minore (luvio ed ittita).
I cretesi sarebbero dunque dei proto-indoeuropei, dei cugini, per così dire, dei greci, staccatisi prima di loro dal tronco indoeuropeo comune.
verso il 1400 il palazzo di Cnosso viene interamente distrutto.
SI tratta dell’invasione degli achei giunti al continente? Si pensa piuttosto che sia stato un cataclisma dovuto all’eruzione del vulcano di Santorino.
La conquista di Creta da parte degli achei, che trasforma la grande isola in un principato greco, deve essere anteriore.
Ritorniamo ora alla Grecia continentale, che abbiamo abbandonato agli inizi dell’Elladico recente.
Creta non disparve con la rovina di Cnosso: essa “vinse il suo selvaggio vincitore” e fu il lievito che fece fermentare la pasta, fino ad allora amorfa, della civiltà ellenica, e la sua influenza emergerà di continuo durante lo studio del mondo acheo.
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Cap. 2. L’elaborazione del mondo acheo, 1580-1200
Questa trasformazione non è segnata, sul suolo, da un profondo iato archeologico, come quello che all’inizio del secondo millennio corrisponde all’arrivo dei greci, o come quello delle invasioni doriche alla fine dello stesso millennio.
Non si tratta chiaramente dell’irruzione massiccia di nuove popolazioni, quanto piuttosto di un’evoluzione rapida e persino brutale, che si potrebbe paragonare a quella che intorno al 500 fa passare la Grecia dall’arcaismo al classicismo.
Al mondo scialbo dell’Elladico medio, senza grandi aperture sul Mediterraneo, succede lo splendido mondo dell’Elladico recente, aperto verso Creta, verso l’Oriente e verso Occidente.
Con ogni probabilità è l’influenza di Creta minoica a dar uscire la Grecia dal suo letargo. Secondo A. Evans ci sarebbe stata una conquista del continente da parte di Creta, ma oggi questa teoria è totalmente abbandonata.
Grazie alle relazioni diplomatiche e al commercio, ed anche in occasione di alcuni scontri militari, la Grecia viene iniziata alla civiltà mediterranea dei cretesi; importa oggetti minoici e si limita, fa venire artisti da Creta, adotta le credenze di una religione molto differente dalla sua.
Essa è sedotta e questa seduzione la trasforma in tutti i campi.
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Molti di questi luoghi avranno fornito delle tavolette con curiose iscrizioni in una scrittura della lineare B.
Esse rimasero a lungo lettera morta per lo storico, fino alla decifrazione proposta nel 1953 da M. Ventris e J. Chadwick.
Da quel momento i lavori relativi alle tavolette si moltiplicarono e, benché le iscrizioni achee pongano ancora molti problemi di lettura e d’interpretazione, si può asserire che è stato compiuto un passo decisivo in questa direzione.
Analizzeremo più avanti tutto ciò che la nostra conoscenza del mondo acheo deve a questi archivi di palazzo.
Per finire, le due epopee omeriche, che si riferiscono ad avvenimenti situati alla fine del periodo acheo, possono spesso essere prese a testimonianza, ma bisogna diffidare della loro natura equivoca.
Si tratta infatti di testi che in alcune loro parti risalgono ancora all’epoca achea, ma che hanno subito in seguito la lunga deformazione di una tradizione puramente orale, d’innumerevoli alterazioni ed aggiunte, e infine la “composizione” definitiva eseguita da poeti del secolo 9. o dell’8.
Certo la veridicità d’innumerevoli dettagli è stata provata in maniera sorprendente dagli scavi; ciò nonostante non si può mai datare esattamente un episodio o un’indicazione particolare.
L’Iliade e l’Odissea sono troppo composite per permettere allo storico d’intraprendere il loro studio senza un’estrema cautela.
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E’ caratteristico che, esclusa Creta, siano tutti Stati peloponnesiaci.
Micene è al primo posto con cento vascelli e bisogna inoltre aggiungere che il suo re Agamennone ha ceduto sessanta navi agli arcadi “ché quelli non sanno di cose marine” (2., 614).
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D’altra parte certe imprese militari non potevano essere portate a termine senza la collaborazione di tutte le forze achee.
Fu il caso della conquista di Creta, per la quale non disponiamo di alcun documento scritto; e fu anche il caso della guerra di Troia, per la cui testimonianza di Omero è chiara: tutti i capi achei ammettevano l’egemonia di Agamennone, re di Micene, la cui autorità di impose in ogni modo, benché fosse schernita dalla violenza di altri eroi come Achille.
Allo stesso modo il muro, che fu costruito alla fine dell’epoca micenea per sbarrare l’istmo di Corinto a eventuali provenienti da nord, dovette essere opera di tutti i peloponnesiaci uniti.
Una conciliazione fra queste due tesi è impossibile, ma è evidente che non si può parlare di un impero nel senso stretto del termine.
I differenti reami achei sono, in larga misura, indipendenti gli uni dagli altri; tuttavia, uniti da comuni interessi, spinti dalla stessa sete id potenza che la loro coalizione fa supporre, essi ammettono bene o male in caso di bisogno l’autorità di un solo re, il re di Micene, che ha il ruolo di primus inter pares.
Il frazionamento politico della Grecia del primo millennio è dunque già in germe nella Grecia achea, allo stesso modo delle confederazioni di più Stati di fronte a un nemico comune.
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A quanto sembra, fin dal 1700 essi erano giunti dal continente e avevano operato un metodico saccheggio, a cui corrisponderebbe la rovina dei primi palazzi (cfr. p. 31).
Più tardi ci fu una vera conquista con l’installazione a Cnosso di un principe acheo.
E’ ormai possibile datarla al 1400, da una parte perché la distruzione dei secondi palazzi alla fine del secolo 15. è, a quanto sembra, dovuta a un cataclisma (cfr. pp. 58-59).
La conquista deve dunque risalire almeno al secolo 15.
Le conseguenze di questa sconfitta furono considerevoli.
Anzitutto la fine dell’autonomia del mondo minoico, che aveva creato una civiltà originale e sviluppato un vasto impero marittimo, riuscendo, con mezzi assai deboli in confronto a quelli delle grandi monarchie d’Oriente, ad imporsi come una delle nazioni più potenti del Mediterraneo orientale.
Poi la creazione di uno Stato acheo a Creta, conosciuto grazie agli archivi di palazzo del wanax greco di Cnosso; esso era, a quanto sembra, totalmente indipendente dai reami del continente.
Questo avvenimento causò inoltre l’arricchimento dei re peloponnesiaci, che avevano preparato e condotto a buon fine la spedizione probabilmente sotto la guida del re di Micene, e l’opulenza di Micene si può in parte spiegare con il considerevole bottino da Creta.
Tuttavia la rovina del mondo minoico non doveva spegnerne anche l’influenza sugli achei: nell’invenzione della scrittura lineare B possiamo vedere un chiaro esempio del ruolo civilizzatore di Creta.
Pag. 52-53
Nell’antichità non si era d’accordo sulla data della presa di Troia, ma la più generalmente accettata è quella proposta da Eratostene: 1183.
Essa però urta contro alcune difficoltà, soprattutto perché in quel momento il mondo acheo era già troppo vacillante sotto l’urto delle prime invasioni doriche e non avrebbe assolutamente potuto unirsi per un’impresa così lontana e pericolosa.
J. Bérard, con una ricostruzione audace, ma forse un po’ sistematica, ha suggerito di far retrocedere di due secoli la caduta di Troia, fino al 1380.
Sembra più ragionevole porre questo conflitto nel secolo 13., forse verso il 1230-1225 (data che i ricercatori americani propongono per la distruzione di Troia 7a); altri propendono per il 1280, la data proposta da Erodoto.
La presa di Troia sarebbe il canto del cigno della potenza achea, l’ultima spedizione in cui questi audaci e valorosi predatori avrebbero unito le proprie forze e arricchirsi nel Mediterraneo orientale.
SI tratta senza dubbio di un’impresa tra le molte altre, ma l’epopea l’ha magnificata fino a farla divenire il simbolo del mondo di violenza e di coraggio dei principi achei.
Di coloro invece che partirono verso Creta, verso Rodi, verso Cipro non si sa nulla se non attraverso le scoperte archeologiche; ma la collera d’Achille, il coraggio di Patroclo, la bellezza di Elena, la saggezza di Nestore, non hanno cessato lungo tutta l’antichità e fino ai tempi moderni di colpire l’immaginazione grazie alla magia delle epopee omeriche.
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In parecchie località achee, e soprattutto a Pilo e a Cnosso, dove erano state scoperte rilevanti negli archivi di palazzo (in minor misura a Micene), si sapeva della presenza di tavolette d’argilla.
Esse erano coperte di segni chiaramente derivati dalla lineare A cretese, che si designano con il nome convenzionale di lineare B (essendo comune alle due scritture più della metà dei segni).
Furono fatti molti tentativi per decifrarle, ma si urtò contro la duplice difficoltà di una lingua e di una grafia sconosciute.
La gloria dell’interpretazione della maggior parte dei segni micenei toccò nel 1953 a due eruditi inglesi, M. Ventris e J. Chadwick.
Essi si servirono dei sistemi crittografici in uso presso gli stati maggiori e partirono da un’ipotesi di lavoro che si rivelò feconda, e cioè che le tavolette micenee servissero a scrivere una lingua greca.
La loro scoperta è una delle più belle che siano state fatte nel campo degli studi sul mondo miceneo da quando si riportarono alla luce i palazzi dell’Argolide.
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Il primo insegnamento delle tavolette, e non il minore, è quello di far risalire fino alla fine del secolo 15. la nostra conoscenza del greco, o piuttosto di un dialetto greco, l’acheo.
Fino alla decifrazione i primi testi greci erano costituiti dalle epopee omeriche, che potevano datare solo ai secoli 9.-8.
Ma gli storici hanno tratto lo stesso vantaggio dei filologi dalla lettura dei documenti achei.
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Non sappiamo quando avvenne la scomparsa della scrittura micenea.
Tuttavia non esiste traccia di tavolette eseguite in un’epoca più tarda (submicenea e protogeometrica).
La scrittura, strumento di amministrazione e non di civiltà, dovette sparire, con i palazzi abitati dagli scribi, sotto i colpi dei dori.
Passeranno ancora molti secoli prima che i greci imparino di nuovo a scrivere e inventino una nuova scrittura, su imitazione delle grafie fenicie e molto più perfezionata, che annoterà non solo le sillabe, ma anche le consonanti e le vocali, realizzando così un considerevole progresso nell’analisi dei suoni.
Si può dunque comprendere quanto la decifrazione delle tavolette ci abbia portato di nuovo sulla civiltà achea, permettendo di stabilire un confronto col materiale fornitoci dalle rovine dei palazzi e con ciò che lasciava supporre Omero.
Il quadro che ora tracceremo è molto più preciso di quanto sarebbe potuto essere dieci anni fa.
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Cap. 62. La vita nei reami achei
Alla base della potenza micenea vi è un’economia fiorente, che soddisfa i bisogni locali di rifornimento di cibi e di oggetti di prima necessità, e nello stesso tempo permette un fruttuoso con le contrade più distanti.
Pag. 62.
L’alto livello d’evoluzione della società micenea è rilevabile per esempio nella specializzazione degli artigiani citati sulle tavolette.
Tutte le industrie visi trovano rappresentate: tessitura, ceramica, metallurgia, fabbricazione delle armi, lavorazione dei metalli preziosi, dell’avorio, del corno…
La più importante sembra essere la ceramica, che fornisce enormi contingenti all’esportazione e produce non solo oggetti utili, come le vasche da bagno, ma anche i bei vasi micenei ritrovati su quasi tutte le coste del Mediterraneo, che, a causa delle trasformazioni della moda, hanno permesso di stabilire una rigorosa cronologia del periodo.
D’altronde questa produzione di ceramica è, in tutte le località, straordinariamente unitaria: le stesse forme per esempio il vaso a staffa), gli stessi motivi decorativi (il polipo ereditato dall’arte cretese), s’incontrano dappertutto.
Il metallo ha un ruolo di primo piano: l’epoca micenea corrisponde all’età del bronzo recente e il solo metallo conosciuto e largamente utilizzato è il bronzo, di cui sono fatte tutte le armi, strumenti indispensabili nella civiltà guerriera degli achei.
Da questo punto di vista la Grecia è nettamente in ritardo sull’Anatolia, dove gli ittiti praticano da secoli la metallurgia del ferro, custodendone gelosamente il monopolio.
Il grande numero di oggetti micenei che gli scavi hanno messo in luce sulle rive del Mediterraneo rileva un aspetto importantissimo: l’espansione commerciale in un mondo in pieno rigoglio.
Certo le basi micenee nel Mediterraneo orientale dovettero facilitare lo sviluppo del commercio, ma i businessmen achei penetrarono in regioni che, politicamente, restavano del tutto al di fuori dell’orbita greca.
Spesso le strade che seguirono sono quelle che avevano usate i marinai cretesi.
I rapporti tra l’Egitto e gli “abitanti delle isole” (questo è il nome usato dagli egiziani per designare gli achei) sono confermati da molte scoperte: nei secoli 14. e 13. vi sono oggetti egiziani in tutta la Grecia, per esempio un cartiglio di Amenofi 3. a Micene; i vasi micenei sono numerosi in Egitto, in particolare a Tell el-Amarna, l’effimera capitale del sovrano eretico Amenofi 4.
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Gli achei non si sono dunque accontentati di occupare le grandi isole (Creta, Rodi, Cipro), ma hanno installato delle rappresentanze commerciali, simili ai futuri emporia arcaici, su tutte le coste del Mediterraneo orientale, dalla Troade fino all’Egitto e perfino in Cirenaica dove si sono appena scoperte le tracce dei loro traffici.
Vi è uan sola lacuna, in questa espansione d’altronde parziale, in Anatolia.
Le loro mire erano per altro ancora più vaste.
Passano il Bosforo.
In Occidente le loro navi approdarono spesso: tombe nei dintorni di Siracusa e di Taranto hanno fornito vasi micenei; Panarea, una delle isole Lipari, - uno scalo sulla via dello stagno delle Cassiteridi e dell’isola d’Elba, ricordata in una tavoletta di Pilo, - ha rivelato numerosi cossi micenei, alcuni dei quali presentano dei segni derivati dalla lineare B; vi è della ceramica micenea a Ischia e in Etruria.
Si è persino pensato che gli achei avessero raggiunto la lontana Iberia: Strabone ha conservato il ricordo degli eroi achei, contemporanei di Agamennone, che vi si sarebbero stabiliti; tuttavia l’assenza totale d’oggetti micenei in Spagna rende incerta questa ipotesi.
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Le tavolette in lineare B hanno fornito dati molto importanti, permettendo di chiarire le incerte testimonianze di Omero.
La società achea è fortemente gerarchizzata.
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Tuttavia ci si farebbe un’idea troppo parziale dei principi achei immaginandoli occupati solo in cacce, razzie e spedizioni in terre lontane.
La loro inimitabile vita si svolge fra i tesori di un’arte nettamente ispirata a quella di Creta e tra feste sontuose, durante le quali gli aedi cantano i loro versi epici.
Essa è inoltre sostenuta da un insieme di credenze religiose e protetta dagli dèi e dagli eroi.
L’estrema raffinatezza della vita spirituale nei castelli fortificati d’Argolide è in significativo contrasto con la brutalità militare degli usi che vi regnavano.
Parlare di letteratura achea può essere gratuito, poiché nessun testo ci è pervenuto, e sicuramente la scrittura fu solo un mezzo per l’amministrazione, senza mai servire allo sviluppo di una letteratura scritta.
Nondimeno, l’analisi delle opere di Omero porta a concludere che fin dal periodo acheo esistesse un’epopea che, tramandata per via orale ben addentro alle età più oscure della storia greca, fu il primo nocciolo attorno al quale i poeti ionici svilupparono le monumentali composizioni dell’Iliade e dell’Odissea.
Così si spiegherebbero le numerose forme arcadiche ed eoliche in esse contenute e non sostituibili con forme ioniche, residui, dunque, delle forme primitive dell’epopea del secondo millennio.
In questo modo si potrebbero anche spiegare gli accenni ad oggetti specificamente micenei, come l’elmo con denti di cinghiale descritto nel 10. libro dell’Iliade.
Questo tipo di elmo era infatti molto diffuso nei secoli 16. e 15., ma sparì totalmente in seguito.
La poesia, dunque, era unicamente orale e faceva un grande uso di formule precostituite (in particolare dei famosi “epiteti omerici”), che facilitavano il compito del poeta sia nella composizione che nella recitazione.
I soggetti preferiti erano il primo luogo le imprese guerresche, ma anche le pericolose avvenute sul “mare vinoso”.
L’arte contemporanea manifesta lo stesso gusto: tre rhytà d’argento di Micene rappresentano l’uno l’assedio di una città, l’altro una scena di battaglia, il terzo dei naufraghi che si salvano a nuoto: sono già in anticipo i temi dell’Iliade e dell’Odissea.
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Se si aggiungono le grandi realizzazioni dell’architettura palaziale e di quella funeraria studiate nel precedente capitolo, non si può non essere colpiti dalla varietà di quest’arte che ha creato tanto le robuste mura d’Argolide, quanto il sobrio rilievo della Porta dei Leoni e quegli splendidi capolavori d’arte decorativa che sono spesso i vasi, le spade e i sigilli micenei.
Il nido d’aquila di Micene, ancor tutto pieno dell’orrore dei crimini che vi furono perpetrati, ci riempie d’angoscia, mentre siamo affascinati da un uccello rappresentato sul fianco di una tazza.
Questa varietà si spiega in parte con il carattere ibrido di un’arte che per le tecniche e per la maggior parte dei temi iconografici si è ispirata a Creta, senza tuttavia ripudiare certe tradizioni nordiche e soprattutto quell’atteggiamento spirituale che portava ordine e chiarezza all’eredità minoica.
Questi insegnamenti non andranno mai perduti, malgrado il lungo disastro delle invasioni doriche, in cui si inabisseranno tutte le produzioni di una delle correnti artistiche più vitali che la Grecia abbia mai conosciuto.
Lo studio della religione, che deve essere condotto con estrema prudenza, porta a conclusioni analoghe.
In realtà le informazioni che possiamo ottenere dalle tavolette sono rare; la testimonianza di Omero è particolarmente pericolosa in questo campo, a causa di tutte le aggiunte ulteriori; i monumenti figurati infine, assai poco numero di, sono sempre suscettibili d’interpretazioni divergenti.
Per di più, troppo a lungo si sono confuse religione cretese e religione micenea, e solo recentemente gli ottimi lavori di M. P. Nilsson e di Ch. Picard hanno permesso di distinguerle.
Il carattere fondamentale di questa religione consiste nell’aver realizzato una sintesi di elementi nordici e di elementi mediterranei.
Gli indoeuropei introdussero in Grecia la loro religione, che si rivolgeva a dèi uranici e pastorali, ma entrarono in contatto con le popolazioni anatoliche di Creta, che veneravano divinità ctonie e agricole.
Da una parte, un pantheon essenzialmente maschile, dall’altra, un pantheon in cui le dee prevalgono nettamente sugli dèi e in cui la somma divinità matronale, una Terra-Madre analoga a quelle d’Oriente, dispensa la vita in ogni sua forma: fertilità, fecondità, eternità.
Da uno stretto sincretismo tra due tipi di religiosità, tra il “Padre nostro che sei nei cieli” e “La nostra signora mediterranea”, come è stato elegantemente detto per un campo affine, è nata la religione micenea.
Su queste due basi principali si innestarono altre influenze, in particolare quella egiziana, non trascurabile per ciò che riguarda le usanze funebri, e quella orientale semitica.
Non è da escludere che gli antenati degli achei abbiano, come i romani primitivi, adorato quelle forze diffuse e mai personalizzate che si è preso l’abitudine di designare con il nome polinesiano di mana, piuttosto che delle divinità divinizzate.
Di questo primo stadio resterebbero tracce nelle tavolette micenee e perfino nell’opera di Esiodo, in cui appaiono certi culti misteriosi che si rivolgevano a dèi o gruppi di dèi senza individualità definita, spesso senza nome e senza mito.
Ma sarebbe pericoloso insistere su questa caratteristica, d’altronde presto scomparsa.
Il mondo divino dell’epoca achea è organizzato attorno a esseri divini dotati di un nome, di una personalità e di miti complessi; assomiglia a quello umano, in cui il ruolo dei capi è predominante.
Pag. 73-74
E’ dunque impossibile studiare il pantheon acheo senza ricercare tanto le sue componenti nordiche che quelle mediterranee.
Fin da quest’epoca, la religione greca si è già molto differenziata dalle altre religioni indoeuropee: quali quelle dell’India, di Roma o dei germani, che, benché conosciute in un periodo più tardo, hanno conservato meglio il patrimonio primitivo datante dalla comunità indoeuropea, ed in particolare l’organizzazione tripartita e trifunzionale della gerarchia divina.
Di essa in Grecia sopravvivono solo dei resti, come per esempio nel mito del giudizio di Paride.
La ragione di questa originalità è evidente: si tratta di apporti fondamentali mediati da un ambiente religioso profondamente differente: l’ambiente greco.
Tuttavia, pantheon acheo e pantheon cretese restano distinti: in Grecia gli dèi hanno un’importanza reale, che controbilancia all’incirca quella delle dee, mentre a Creta le dee prevalgono nettamente sugli dèi; inoltre le divinità sembrano già organizzate in una società gerarchizzata e feudale, concepita a imitazione della società umana, in cui Zeus ha fra gli dèi un ruolo che ricorda quello di Agamennone tra gli uomini dell’Iliade.
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Il campo della religione è quello in cui meglio si rivela la ricchezza della Grecia achea, che si lascia penetrare da influenze mediterranee, senza peraltro rinunciare alle tradizioni indoeuropee.
Per gli dèi come per gli eroi, i lineamenti fondamentali della religione della Grecia futura sono già stabiliti.
Saranno certo profondamente modificati dall’arrivo dei dori e dalla nuova influenza dell’Oriente, ma Zeus, Ermes, Era o Atena hanno una loro personalità, fissata nei caratteri essenziali, ed Agamennone, Ulisse o Elena non cesseranno di fecondare l’immaginazione ellenica.
Questo è lo splendido mondo che crollerà nello spazio di un secolo sotto i colpi dei dori.
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Cap. 4. Le invasioni doriche
Verso la fine del secondo millennio, uan nuova ondata di invasori greci giunge a sommergere l’Ellade achea.
Abbiamo preso l’abitudine di designarli col bome, in parte convenzionale, di Dori.
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Si è giunti fino al punto di dubitare che esistesse uan realtà dietro a questo mito e che il ritorno degli eraclidi simboleggiasse la conquista del Peloponneso da parte dei nuovi invasori.
Così persino il grande Beloch negava la storicità delle invasioni doriche.
Attualmente però non vi è più motivo per tali dubbi critici.
Da una parte, la linguistica prova che un nuovo stato linguistico, quello dei dialetti dorici, venne a sovrapporsi ai dialetti achei.
D’altra parte l’archeologia dimostra che, nello spazio di un secolo (tra il 1200 e il 1100), tutte le basi achee nel Peloponneso furono distrutte violentemente, fatto che non può essere spiegato solo con l’arrivo di nuove bande, numerose e agguerrite.
D’altronde, a mano a mano che si delinea meglio la storia del Mediterraneo orientale, constatiamo che le invasioni doriche si collocano in un ampio contesto.
L’Asia minore è allora teatro di violenti sconvolgimenti, conseguenti all’arrivo di popoli venuti dalla regione del Danubio o dall’Illiria: frigi, teucri, dardani, filistei.
L’Impero ittita è prima minacciato, poi soccombe.
L’Egitto stesso viene attaccato dai “popoli del mare”, coalizione eteroclita d’invasori nordici e di popolazioni asiatiche che fuggivano davanti ad essi; e con gran fatica Mineptah e poi Ramses 3. li respingono, non senza che la potenza faraonica venga seriamente compromessa.
Questa “migrazione egea” (Schachermeyr) è dunque molto lontana dall’interessare solo la Grecia, poiché l’insicurezza regna su tutte le rive del Mediterraneo orientale; essa spazza via non solo i reami achei, ma anche l’Impero ittita.
Questo vasto movimento ricorda, con evidenti differenze, ciò che era accaduto circa un millennio prima.
Verso il 2000 alcune popolazioni indoeuropee erano scese dalle regioni carpato-danubiane e, dividendosi in due rami, avevano occupato la Grecia (primi greci) e l’Asia Minore (fondatori di Troia 6., ittiti); nei secoli 13. e 12. Altre bande, provenienti dalle stesse regioni, seminano terrore e rovina nell’Ellade e nell’Anatolia, prima di stabilirvisi e di elaborare una nuova civiltà.
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Non bisogna lasciarsi fuorviare da Tucidide che pone il ritorno degli eraclidi ottant’anni dopo la guerra di Troia, cioè nel 1150, supponendo che la presa sia avvenuta nel 1230.
Non è infatti possibile localizzare nel tempo e con tale precisione un movimento che si è svolto lentamente e durante molti secoli.
Come le precedenti invasioni, anche quella dei dori si presenta quale una successione di pulsazioni.
Possiamo immaginarceli mentre procedono, alla maniera dei valacchi del Medioevo spingendo le greggi davanti a sé e fermandosi tutt’al più una stagione per seminare e mietere.
Sembra essenziale sottolineare le diverse tappe delle loro migrazioni: la tradizione letteraria e l’archeologia forniscono un certo numero di punti di riferimento non trascurabili.
Nella Grecia settentrionale e centrale le invasioni doriche (nel senso più ampio del termine) cominciano prima della guerra di Troia.
Abbiamo ricordato il testo di Tucidide (1., 2.) che rende noto come alcuni beoti si fossero già stabiliti in Beozia e partecipassero alla spedizione.
Queste invasioni continueranno regolarmente nel decenni seguenti.
Quando i beoti furono cacciati da Arne e andarono ad accrescere la popolazione della Beozia, sessant’anni dopo la presa di Troia secondo lo stesso Tucidide (cioè forse verso il 1170), tagliarono in due gli abitanti della Locride: fatto che prova come questi ultimi vi si fossero già stabiliti.
Nel Peloponneso e in Attica gli assalti avvennero un poco più tardi.
Alla fine del secolo 13. troviamo i segni inequivocabili di una minaccia latente: non può essere che quella dei dori, i quali dal quel momento devastano ed occupano la Grecia continentale.
Nel Peloponneso le fortificazioni vengono riparate o migliorate: a Tirinto viene costruita la cinta di mura bassa, per permettere ai contadini di rifugiarvisi con le greggi in caso di pericolo; a Micene viene riattata la fortificazione d’ingresso, viene aggiunto un bastione a est, si allestisce un vasto granaio e si predispone un accesso diretto ad una derivazione della fonte Perseia.
Sembra persino che vi sia stata uan cooperazione tra i diversi reami achei del Peloponneso, poiché è attribuibile a quest’epoca il muro ciclopico che sbarrava l’istmo, le cui vestigia sono state recentemente scoperte.
Lo stesso avvenne ad Atene, dove si allargò la fortificazione e si dispose un accesso diretto all’acqua.
I primi attacchi contro le città achee del Peloponneso sarebbero da collocarsi alla fine del secolo.
E infatti verso il 1200 che Pilo viene distrutta e forse resta una traccia, nelle tavolette del palazzo, delle misure di difesa prese nei mesi precedenti l’attacco.
Ma nulla servì, tanto più che il palazzo non era più fortificato, e Pilo sparì dunque violentemente dalla storia.
Le cittadelle dell’Argolide non furono al riparo dagli attacchi delle prime bande doriche, ma le mura permisero loro di resistere più a lungo: a Micene però furono distrutte le case che si trovavano al di fuori della cinta, circa nello stesso momento in cui cadeva Pilo.
Gli assalti dei dori divennero poi sempre più brutali e le loro bande sempre più numerose.
Durante il secolo 12. tutte le cittadelle caddero ad una ad una.
Probabilmente Micene resistette più a lungo delle altre e fu distrutta solo verso il 1150 o persino verso il 1100.
L’invasione risparmiò poche zone del Peloponneso, dove solo l’Arcadia restò in mano agli antichi abitanti, ma lasciò indenne l’Attica, senza d’altra parte che si possa sapere se Atene non fu affatto attaccata o se resistette vittoriosamente.
Nuovi invasori dovettero aggiungersi, per un lungo periodo, ai primi dori e solo nel secolo 11., o forse perfino nel 10., si arrestò questa mareggiata che aveva sommerso tutto il Peloponneso.
La conseguenza più evidente delle invasioni fu la distruzione quasi totale della civiltà micenea.
Nello spazio di un secolo, le orgogliose creazioni degli architetti achei, palazzi e cittadelle, non sono più che rovine.
E spariscono contemporaneamente la sovranità burocratica, la scrittura, che era solo uan tecnica amministrativa, e tutte le espressioni artistiche create dal mecenatismo dei principi.
Gran parte della Grecia, messa a ferro e fuoco, ricade in piena barbarie.
Non esiste un disastro più completo e più sinistro in tutta la storia dell’Ellade.
Certamente alcuni elementi di civiltà sopravvissero: l’arte arcaica si ricorderà della colonna micenea, perfino del megaron, e soprattutto la religione del primo millennio sarà influenzata dall’atmosfera dei culti minoico-micenei.
Tuttavia è difficile dimenticare la terribile distruzione di questo splendido mondo.
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L’apporto dei dori non deve essere sopravvalutato.
Ciò che colpisce di più sono le rovine che disseminarono ovunque al loro passaggio e la totale distruzione del mondo acheo che è loro opera.
Nondimeno, in seguito alle invasioni doriche, la Grecia e l’Asia greca ricevono il loro assetto etnico definitivo.
Vediamo affermarsi a cavallo dei due millenni l’antitesi fondamentale che dominerà la storia della Grecia: quella dei dori e degli ioni.
Non bisogna certo considerare queste due componenti del popolo greco come due entità razziali totalmente separate, ma vi è indubbiamente una civiltà dorica austera e rigida e uan civiltà ionica amabile e gentile che si oppongono, dicevano gli antichi, come l’uomo e la donna.
La forza della civiltà greca consisterà in questa duplice ricchezza: l’austerità dorica ed il sorriso ionico.
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Libro secondo. Le creazioni della Grecia arcaica
Cap. 1. Transizioni e rinnovamenti: l’età geometrica, 1100-750
E’ con grande fatica, “dopo molto tempo, che la Grecia ritrovò, nella calma, la stabilità e la fine delle migrazioni”. (Tucidide, 1., 12).
Per secoli infatti la maggior parte della Grecia, messa a ferro e fuoco dagli invasori dorici, fu rovina e confusione.
E’ ciò che si definisce, usando diversi paragoni, le “età oscure” (dark ages) o Medioevo ellenico.
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Così si delineavano tre grandi fasce grosso modo parallele che dalla Grecia vera e propria fino all’Anatolia passando attraverso il mondo insulare, corrispondevano ai tre gruppi etnici degli eoli, degli ioni e del dori.
Gran parte della storia della futura Grecia si spiega con questo movimento di popolazioni, che fece del mar Egeo un mare greco.
In particolare constateremo che la rinascita molto evidente della Grecia, iniziata a partire dal secolo 9., è dovuta soprattutto all’influsso dell’Oriente, facilitato dalla colonie greche in Asia Minore.
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Fin dal secolo 18. la “questione omerica” divide il mondo degli studiosi.
Le sue epopee sono veramente opera di uno stesso poeta?
Ciascuna possedeva un’unità interna o era piuttosto composta da frammenti e brani di ispirazione e di età differenti?
Oggi ci si orienta verso una soluzione moderata di questi due problemi.
Non si può più sostenere che le due epopee sono state composte da un uomo solo.
Esse differiscono nel vocabolario, nello stile, nella realtà che illustrano: per prendere un esempio fra i tanti, il poeta dell’Iliade per lo più ignora il ferro, mentre quello dell’Odissea lo menziona più volte.
Tutte queste disparità non possono spiegarsi solamente con la differenza di soggetti e d’ispirazione: poesia storica da una parte, folklore e mondo fantastico dall’altra.
Esse implicano, secondo l’opinione generale, uan differenza di data: l’Iliade sarebbe anteriore all’Odissea.
Ma, se si vuole sostituire una cronologia assoluta a questa cronologia relativa, si urta contro la difficoltà tali che non permettono di stabilire alcun accordo tra gli specialisti.
Noi saremmo propensi ad ammettere uno scarto di una cinquantina d’anni tra i due testi, situando così la composizione dell’Iliade alla fine del secolo 9. e quella dell’Odissea verso la metà dell’8.
Cosa si deve allora pensare di ciascun poema preso isolatamente?
La loro unità interna è evidente.
L’Iliade appare coem un’ammirevole macchina, montata attorno alla collera di Achille: il dolore causatogli da Agamennone, che gli aveva sottratto la prigioniera Briseide, spinge Achille spinge Achille a ritirarsi nella sua tenda; da questo momenti gli achei passano da una disfatta all’altra, ma il suo ritorno in battaglia, dopo la morte dell’amico Patroclo, rovescia la sorte della guerra.
L’Odissea è certamente più complessa, ma vi si possono individuare facilmente tre grandi centri di interesse abilmente collegati l’uno all’altro: il viaggio di Telemaco, le peregrinazioni di Ulisse, il massacro dei pretendenti.
In questi due poemi balza agli occhi il talento di un poeta di genio: dominando alla perfezione la ricca materia epica ereditata dal passato, egli la compone in un insieme che, malgrado molte contraddizioni inevitabili in una poesia orale, soddisfa pienamente lo spirito.
Se la parola composizione ha senso per un testo così fluido, essa indica lo sforzo impiegato per raccontare uan storia che ebbe un inizio, delle peripezie, ed una fine.
Pag. 100
La lingua delle epopee “omeriche” è un accordo unico di forme dialettali prese essenzialmente dallo ionico, ma anche dall’eolico e dall’arcadico.
E’ sicuro che furono “composte” nel mondo ionico, dove molti immigrati, scacciati dalla loro patria dalle invasioni doriche, amavano sentir cantare le imprese del glorioso passato degli achei.
Sembra persino possibile fare ulteriori precisazioni: l’Iliade sarebbe opera di un poeta della costa anatolica, l’Odissea di un poeta insulare; perciò l’Odissea, benché posteriore all’Iliade, può non fare alcuna allusione a quest’ultima e sembra ignorarla totalmente.
Ma le forme straniere e non attribuibili allo ionico conservano il ricordo delle epopee primitive (l’eolico e l’arcadico provenivano direttamente dai dialetti parlati, nella Grecia settentrionale l’uno, in quella meridionale l’altro, durante il secondo millennio).
La lunga storia delle epopee omeriche continua al di là di “Omero”.
Esse furono trasmesse fino al secolo 6., epoca in cui, particolarmente ad Atene sotto i Pisistratidi, saranno infine fissate dalla scrittura.
Numerose interpolazioni hanno evidentemente allungato il testo omerico, che spesso non era altro se non un amalgama di brani interiori: il compito dello storico che voglia distinguere le successive stratificazioni non è per nulla facile.
Pag. 101
La vita religiosa si è profondamente rinnovata dal periodo miceneo.
In primo luogo perché i dori hanno rafforzato l’importanza degli dèi in confronto alle dee.
In secondo luogo perché il nascente razionalismo cerca di metter ordine in un pantheon confuso, non solo riunendo le divinità fra loro, ma diminuendo il numero degli dèi.
I più importanti inglobano nella loro invadente personalità quelli secondari o gli eroi, che divengono così dei semplici appellativi divini: come nel caso di Zeus Agamennone o Anfiarao, di Artemide Ifigenia o di Posidone Eretteo.
Infine e soprattutto perché delle nuove divinità, originarie dell’Oriente, si sono introdotte nel mondo greco; e ciò avviene tanto più facilmente in quanto l’occupazione greca della costa dell’Anatolia e delle isole del Mediterraneo orientale, in special modo di Cipro, gettava un ponte tra l’Asia e la Grecia europea.
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La scrittura sillabica achea era sparita nelle rovine dell’invasione dorica.
Qualche secolo dopo, una nuova scrittura comparativa nel mondo greco.
Si trattava di un alfabeto di ventiquattro segni, derivato dalla scrittura fenicia.
Tale derivazione non può essere messa in dubbio sia per la forma delle lettere che per l’ordine nel quale si presentano, identico nei due sistemi.
I greci stessi ne erano coscienti: Erodoto (5., 38) afferma che “i fenici vissuti con Cadmo introdussero presso i greci molte conoscenze, fra le altre quella delle lettere dell’alfabeto che i greci, per quanto mi consta, non possedevano prima; essi le fecero conoscere sotto il nome di phoinikeia (segni fenici)”.
L’assunzione rese però necessari ingegnosi adattamenti, dato che l’alfabeto fenicio tiene conto solo delle consonanti.
Ora, se è possibile scrivere senza vocali una lingua semitica perché le consonanti hanno un ruolo predominante nelle radici, ciò è impensabile per una lingua indoeuropea come il greco, in cui la grande libertà di costruzione fa sì che la rase sia comprensibile solo le desinenze vocaliche sono chiare.
I greci hanno perciò sfruttato la ricchezza di consonanti del fenicio (in particolare gutturali e sibilanti), inesistenti in greco e si sono serviti di segni inutili così recuperati per indicare le aspirate, che invece il fenicio non possedeva, e soprattutto le vocali.
Questo sistema rappresentava un considerevole progresso – per la prima volta i suoni erano totalmente distinti in vocali e consonanti – progresso che ebbe vaste conseguenze, poiché l’alfabeto latino e quasi tutti gli alfabeti moderni europei derivano dal quello greco.
Con questo esempio concreto possiamo cogliere nel vivo il meccanismo delle creazioni dei greci, che hanno saputo mediare dai fenici, loro grandi rivali nel commercio di allora, questo mezzo incomparabile che è la scrittura valorizzandola e sviluppandola compiutamente.
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Dal punto di vista dell’arte, della letteratura, della religione e della scrittura il mondo greco dell’epoca geometrica conosce dunque un’incontestabile unità, malgrado la sua grande varietà sotto il profilo geografico.
Politicamente parlando invece si deve constatare un vero sbriciolamento.
I reami relativamente estesi del periodo miceneo sono spariti con la distruzione dorica.
Compare un tipo di raggruppamento umano molto più piccolo, la città (polis) che resterà tipica della civiltà greca fino alle conquiste dei re macedoni.
Come è naturale per epoche così antiche e inquiete, le origini stesse di questa forma politica sono avvolte nel più grande mistero.
SI parlò di un determinismo geografico: la Grecia, che possiede poche pianure estese, si divide in tanti piccoli cantoni relativamente isolati gli uni dagli altri.
D’altra parte si è anche sostenuto che, superando la fase dei reami achei, “l’individualismo delle piccole città greche trova le sue radici fin nei tempi neolitici” (Wace-Blegen, Klio, 1939).
Solo i fattori dell’inizio del nuovo millennio però ci possono dare uan spiegazione esauriente di questo processo.
I gruppi di invasori dorici erano indipendenti gli uni dagli altri e, ovunque si stabilirono, formarono delle comunità; lo stesso fecero gli immigrati greci che popolarono la costa asiatica.
In un primo tempo l’elemento militare dovette avere un ruolo preponderante: il termine stesso di polis designava una cittadella prima di prendere il significato ulteriore di città-stato; inoltre, soprattutto presso i dori, le prime personalità importanti furono i capi delle bande armate.
A poco a poco però vennero imponendosi altri fattori: le prime basi furono evidentemente dei villaggi; successivamente, in molti casi particolarmente fortunati, come quelle di Sparta, più villaggi vicini formarono una città, secondo un fenomeno che i greci chiamavano sinecismo (abitazione comune), e la città generò la polis, cioè un’organizzazione politica comune.
Pag. 107-8
Tutte queste ragioni concomitanti dovettero favorire il formarsi di nuclei più ampi di quelli della famiglia e del villaggio, che, secondo la famosa teoria enunciata da Aristotele nella Politica, portarono alla nascita delle città.
Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza storica di questo fenomeno: i raggruppamenti così costituiti rimarranno immutati, nell’insieme, finché la Grecia non perderà la sua indipendenza.
Essi riuniscono un numero limitato di cittadini e tutti questi possono dunque prendere parte all’amministrazione della cosa pubblica.
Tuttavia il numero delle città era troppo grande e gli urti dovevano rivelarsi inevitabili: la storia della Grecia arcaica e classica, storia di fratelli-nemici, è tutta in germe fin da questo periodo.
Pag. 107-08
Quando perciò, intorno al 750, termina il periodo geometrico, si è usciti già da molto tempo dalla “età oscure”.
Sono nate un’arte e una letteratura non del tutto dimentiche del passato miceneo: la religione si è definitivamente formata e razionalizzata; si è infine creato uno strumento incomparabile sia per il commercio che per la vita dello spirito: la scrittura.
Al disordine che segue le invasioni e le migrazioni, succede l’organizzazione costituzionale delle poleis.
Buona parte di questi progressi è stata possibile solo con la ripresa del commercio attraverso il mar Egeo, e da questo punto di vista il ruolo dei fenici sembra essere stato preponderante.
Nell’Odissea, essi appaiono come gli intermediari particolarmente attivi.
A partire dall’850 si trovano a Creta, a Sparta, ad Atene degli oggetti d’arte fenici o siriani e a Corinto degli avori anatolici.
Un ricco tesoro composto di gioielli orientali e scoperto ad Egina dimostra chiaramente l’importanza del traffico fenicio con la Grecia verso l’800 in un centro privilegiato come questa città.
Ma si tratta solo dell’inizio di un movimento che si amplierà nel periodo seguente.
L’intensificazione degli scambi, lo sviluppo d’un commercio veramente ellenico avranno come conseguenza dei contratti più prolungati con l’Oriente, da cui nascerà intorno al 750 un nuovo periodo di sviluppo con l’epoca arcaica propriamente detta.
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Cap. 2. L’evoluzione delle città
Durante le “età oscure” regnò una tale confusione, che i greci avevano perso addirittura il nome con il quale erano designati.
Durante il secolo 7. appare un nuovo vocabolo che si applica a tutti i greci, senza tener conto dei gruppi etnici che si sarebbero potuti distinguere: quello di elleni.
Esso si trova usato per la prima volta in Archiloco, che parla di Panelleni (tutti i greci) e in uan interpolazione dell’Iliade, forse contemporanea; d’altronde fin dalla fine del secolo 7. sono menzionati ad Olimpia già gli ellanodici (giudici dei greci).
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La prima forma di governo che sembra essersi imposta ovunque è la monarchia.
Il re (basileus) governa la città, comanda l’esercito, ha funzioni di giudice nel campo civile (la giustizia criminale resta affidata alla vendetta dei “clan”), oltre i sacrifici pubblici.
L’autorità di cui gode è basata sia sulle sue nobili origini, sempre considerate come divine, sia sulla ricchezza che egli trae dallo sfruttamento dei possedimenti personali e del temenos, ricevuto in dotazione dalla comunità.
Il suo potere però non è affatto assoluto: egli è circondato da un consiglio, composto dai capi delle famiglie nobili, con il quale deve venire a patti.
Se Nell’Iliade il re assomiglia al wanax dell’epoca micenea, la sovranità dell’Odissea appare chiaramente coem un’istituzione nuova: la sovranità delle poleis, temperata dalla presenza di un potente aristocrazia.
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In seguito un’evoluzione progressiva mette fine alla monarchia a vantaggio dell’aristocrazia nella maggior parte delle città.
Sembra che questo movimento sia incominciato nella Ionia fin dall’inizio del secolo 8.
L’oligarchia s’impadronisce del potere.
Nella maggior parte dei casi non ci furono violenze: i re dovettero cedere alla pressione degli aristocratici, a volte dopo un periodo di transizione, durante il quale la monarchia divenne elettiva o fu limitata nella durata.
D’altronde il titolo di re sussiste spesso per designare una magistratura (Argo, Atene, Corinto) o una carica religiosa (Efeso, Mileto).
Oramai la sovranità esiste solo nelle zone periferiche del mondo greco, nelle regioni in cui il sistema della polis non si era sviluppato (Macedonia, Epiro) o nelle città molto conservatrici (Sparta e Tera e le loro colonie, in particolare Taranto e Cirene).
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La potenza di questa aristocrazia era basata prima di tutto sul prestigio di un’origine ritenuta divina, ma anche su una ricchezza considerevole, che resta essenzialmente fondiaria: i nobili sono dei grandi proprietari terrieri e dei grandi allevatori, soprattutto di cavalli.
I titoli con i quali li si designa in alcune città sono molto indicativi di questo stato di cose: gamores (coloro che si dividono la terra) a Siracusa, hippobotes (allevatori di cavalli) in Eubea.
I loro nomi propri derivano molto spesso da hippos (cavallo); sono i soli infatti ad avere delle proprietà abbastanza grandi e delle risorse sufficienti per darsi a questo genere di allevamento (che permette loro di servire come cavalieri e di far correre i loro cavalli ad Olimpia), del quale Aristotele dirà che è intimamente legato al regime aristocratico.
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Nel corso del secolo 7., una crisi, che non è locale ma che scuote la maggior parte delle città del mondo greco, sconvolge l’armonioso equilibrio del regime aristocratico.
Alla base di tutto vi era una rivoluzione economica che causò importanti trasformazioni sociali.
Fino al secolo 7., in Grecia come in tutto l’Oriente, gli scambi erano basati unicamente sul baratto.
Sembra che, presso i greci come presso gli altri popoli indoeuropei (cfr. il latino pecunia, il germanico feo = bestiame, quindi denaro) il bestiame sia stato il primo mezzo di scambio.
Non solo delle necessità economiche, ma anche delle considerazioni religiose avrebbero contribuito alla elaborazione della nozione di scambio, con il passaggio dall’idea di bue da sacrificio all’idee di bue-moneta.
Ma il metallo, in ragione della relativa inalterabilità e del peso minimo rispetto al notevole valore, veniva già utilizzato in Oriente, in particolare in Assiria e nell’Impero ittita, fin dal secondo millennio sotto forma di lingotti stampigliati.
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E’ a Egina, grande centro commerciale soggetto ad Argo e dove l’argento poteva essere facilmente importato da Sifno, che troviamo il primo conio di monete nella Grecia propriamente detta.
Sono le famose tartarughe d’argento, le cui prime emissioni non devono essere anteriori agli ultimi decenni del secolo 7. (altri studiosi ammettono una data più antica: Seltman, 665).
I nomi delle monete furono assunti dall’antico sistema degli spiedi; l’obolo (doppione dell’obelos) e la dracma.
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A poco a poco, durante il secolo 5., questo movimento si diffonderà in tutte le città greche, a tal punto che indipendenza e monetazione saranno intimamente legate nella coscienza ellenica; ma per il momento resta l imitato alle città che si dedicano al commercio, e alle loro colonie.
Alcune città lo respinsero volontariamente, come quelle dell’isola di Creta e Sparta, che restarono fedeli alla loro vecchia e scomoda moneta di ferro.
Ciò si deve al fatto che la monetazione interessa solo il commercio transmediterraneo: è nata in Asia, zona di scambi molto attivi, e si è diffusa fino ad Egina, Corinto, l’Eubea, l’Occidente, in tutte le regioni cioè che avevano un’intensa vita di scambi e relazioni; il cado di Atene, che emette moneta solo all’inizio del secolo 6., nel momento stesso cioè in cui il commercio inizia a svilupparsi, è molto significativo.
Il piccolo commercio al dettaglio era poco interessato alla moneta; ne è prova la rarità del denaro di piccolo taglio.
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La nascita della moneta non è che uno dei fattori dello straordinario sviluppo economico che il mondo greco conosce nell’epoca arcaica.
Conviene riflettere sulle condizioni imposte dalle risorse naturali della Grecia.
Il suolo è povero e sovente non adatto alla coltivazione dei cereali; le foreste, importanti all’inizio, si ridurranno con il dissodamento di nuove terre sfruttate per l’agricoltura e per l’allevamento; i minerali infine sono rari.
Le coltivazioni arbustive, invece, che vi crescono bene, non cessano di svilupparsi fornendo vino e olio in eccedenza; l’abilità artigianale infine, unita a un gusto raffinato, permise ai greci di creare dei capolavori, in particolare nel settore della ceramica e della fabbricazione delle armi e armature.
La colonizzazione da parte dei greci di una parte dell’Occidente e delle coste del Ponto Eleusino – fenomeno capitale che avremo occasione di studiare nella sua evoluzione - doveva modificare profondamente la vita economica.
Da una parte, era facile procurarsi del grano o del pesce salato in Magna Grecia, in Sicilia o nel Ponto; le foreste della Tracia fornivano in gran quantità il legname da costruzione e per i cantieri navali; e in Occidente i minerali erano abbondanti.
D’altra parte, le nuove città, è soprattutto i popoli barbari con i quali esse avevano stretti rapporti, rappresentavano una clientela interessata all’acquisto del vino e dell’olio (allora considerati come prodotti quasi voluttuari), e dei manufatti.
In questo campo, infatti, il mondo greco tradizionale (Grecia propriamente detta e Anatolia) aveva raggiunto una posizione di chiaro vantaggio.
Tutti gli elementi per un grande commercio all’interno del Mediterraneo erano ormai predisposti e la Grecia, del tutto incapace di vivere con un’economia autarchica che le avrebbe procurato un tenore di vita miserabile, si apriva largamente, in tutte le direzioni.
Il movimento portava in sé una forza d’espansione indefinita: più grano s’importava, meno bisognava produrne, più si coltivava la vite e l’olivo, più si poteva esportare vino ed olio (e così per i vasi ed il loro trasporto).
Il legno d’importazione permetteva di costruire un numero sempre maggiore di navi, strumento necessario per un commercio esclusivamente marittimo; i minerali che affluivano dall’Occidente fornivano materia prima indispensabile sia per le industrie primarie, sia per le industrie d’arte; di qui l’aumento delle esportazioni verso il nuovo mondo.
L’industria e l’agricoltura erano parimenti stimolate ed il commercio diventava la base di una vita economica in continuo sviluppo.
La Grecia e l’Anatolia si arricchivano con l’andirivieni di battelli che partivano per scambiare in paesi lontani i raffinati prodotti dell’agricoltura e dell’industria con viveri e metalli.
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Se ora volgiamo lo sguardo indietro al periodo geometrico, possiamo notare come la Grecia si sia trasformata al punto di divenire irriconoscibile.
Essa non è più un insieme di città essenzialmente dedite all’agricoltura e alla pastorizia.
Assistiamo alla rinascita del grande commercio mediterraneo, come ai tempi degli achei.
Si può così affermare senza esagerazione che con l’economia mercantile nasce il mondo moderno.
Ma uan simile trasformazione non poteva avvenire senza una evoluzione sociale, spesso molto violenta.
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Nessun fenomeno è più chiaro della crisi sociale del secolo 7., ma nessun altro è più difficile da spiegare.
Si è cercato di trovarne la causa nella rivoluzione agricola, che sostituisce un po’ dappertutto le colture arbustive ai cereali: solo i ricchi possono operare questo fruttuoso cambiamento ed aspettare la decina d’anni necessaria perché l’olivo o la vite comincino a rendere.
I poveri invece hanno bisogno di un raccolto annuale e sono dunque costretti a seminare grano e orzo, che generalmente crescono male.
Considerando solo il punto di vista della resa, e indipendentemente da tutti i problemi di superficie e di fertilità – che dovevano comunque giocare a favore dei ricchi – le grandi proprietà erano così molto fruttuose, le piccole pochissimo.
Si è poi chiamata in causa la pesante concorrenza che il grano delle colonie faceva a quello che il suolo poco fertile della Grecia produceva con difficoltà: il piccolo proprietario, condannato alla coltivazione dei cereali, aveva un profitto minimo, poiché il grano del Ponto e dell’Occidente veniva immesso sul mercato a basso prezzo.
Queste ragioni, per nulla trascurabili, non spiegano tuttavia le cause della rovina del piccolo proprietario, che è anteriore al periodo in cui esse possono avere avuto un peso: certo hanno definitivamente consolidato questa rovina, ma non l’hanno provocata.
Esiodo, nelle Opere (394 sg.) accenna già ai debiti del contadino: in un’epoca in cui l’economia monetaria non esisteva, si tratta ben inteso di prestiti in natura.
Ora, è perfettamente chiaro, e lo prova l’esempio stesso di Esiodo, che alla base di questa crisi sociale vi è il nuovo diritto di successione, con la divisione della terra tra i figli.
Ad ogni generazione la terra diminuisce di superficie.
Giunge un momento – possiamo datarlo con sufficiente esattezza all’inizio del secolo 7. – in cui il processo raggiunge un punto critico: le divisioni successive riducono i lotti a tal punto che non possono più bastare per nutrire una famiglia.
I piccoli proprietari ricorrono allora ai prestiti, pratica certo antichissima, ma che si generalizza solo ora come unica soluzione in caso di penuria.
Soluzione deplorevole, che comporta ineluttabilmente la perdita dei possedimenti da parte del debitore, e in seguito la sua riduzione allo stato di operaio agricolo, cioè di schiavo.
L’apparizione della moneta verso la fine del secolo aggrava ulteriormente la situazione rendendo più acuto il problema dei debiti, ma non rappresenta, checché si dica, la radice di un male che è ben anteriore ad essa.
La terra si concentra dunque nelle mani di una oligarchia che diventa sempre più ricca e quindi più potente.
A contrario il demos diventa miserabile proprio nel momenti in cui la nuova parte che assume nella difesa della città lo porta ad una presa di coscienza politica.
Da ciò nasce una crisi terribilmente violenta che si manifesta un poco dappertutto con odi sempre più implacabili e con l’apparizione di un programma estremista: i poveri reclamano l’abolizione dei debiti e la divisione delle terre.
Fino alla piena epoca ellenistica sarà questa, in Grecia, la duplice rivendicazione del povero esasperato dalla miseria.
La nascita di una classe intermedia tra il popolo e gli aristocratici, arricchitasi col commercio e l’industria è, come abbiamo visto, uno dei fenomeni più importanti dell’epoca.
Sicuramente in molte città si stabiliscono strette relazioni tra la nobiltà e la nuova borghesia.
Molti nobili non esitano a ridar lustro alla propria casata, e Teognide s’indigna: “… Una plebea figliola di plebeo la sposa un nobile, tranquillamente, se la dote è grossa; né a un marito plebeo, se ricco, dice no una donna: vuole il denaro non la nobiltà. Ricchezza è ciò che conta. Sposano plebee con nobili e viceversa: mescolano il sangue i soldi” (185 sgg.).
Soprattutto nei grandi centri commerciali della Ionia l’aristocrazia ebbe spesso la saggezza di associarsi la borghesia nel potere.
Ma ciò non avveniva sempre e, del resto, lo sviluppo dell’industria e del commercio avevano prodotto non solo una borghesia opulenta, ma anche una classe media di artigiani e negozianti le cui condizioni di vita e i cui interessi erano assai vicini a quelli dei contadini.
Di fronte a una oligarchia egoista e invadente, essi reclamavano la partecipazione al governo e la pubblicazione delle leggi.
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Amministrazione della giustizia, diritto criminale, diritto civile: dappertutto e simultaneamente si afferma l’autorità dello Stato a detrimento degli interessi dell’aristocrazia o dei pregiudizi tradizionali.
L’opera dei grandi legislatori segna una data nella storia del diritto e assicura il primo trionfo del demos sui nobili.
Resteranno da stabilire i diritti del singolo cittadino nei confronti dello Stato.
Ma, benché questa preoccupazione non fosse del tutto assente nell’opera di Dracone, bisognerà aspettare il secolo 5. per vederla realizzata.
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Le riforme tentate dai legislatori rappresentavano spesso un compromesso tra le preoccupazioni degli aristocratici conservatori e le rivendicazioni del popolo.
Ciò nonostante non riuscirono a metter fine alla crisi sociale, che in certi casi trova una soluzione provvisoria nell’avvento al potere, mediante la violenza, di una sola persona, regime che i greci chiamarono tirannide.
Colui che si impossessa del potere e lo conserva con la forza si distingue dal re, detentore di un’autorità legittima perché ereditaria, e dal legislatore, che si impone con il consenso della maggioranza dei cittadini.
In tutte le città in cui nei secoli 7. e 6. si instaura questo regime politico, il suo capo viene designato con il nuovo nome di “tiranno”.
Le origini di questo nome sono discusse.
Non è greco e ciò appare evidente.
Forse fu mediato dalla lingua lidia, come diceva Euforione; appare infatti per la prima volta in Archiloco, che lo usa a proposito del re di Lidia Gige, anch’egli usurpatore come i tiranni.
Si è d’altronde sottolineata la parentela con l’etrusco turan (signore o signora) e con certi nomi propri d’origine etrusca (il re Turno, la dea Giuturna); e infatti gli etruschi erano degli anatolici.
Benché taluni l’abbiamo recentemente negato (S. Mazzarino), la parola e la realtà che essa sottende provengono indubbiamente dall’Asia Minore.
Notiamo che, per un lungo periodo, essa non ebbe il senso negativo che le attribuiamo noi.
Questo le diventa proprio a partire dal secolo 4., nei testi dei pensatori politici influenzati dalla nuova forma di tirannia, molto più violenta e sfrenata, che appare all’inizio di quel secolo.
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Una cosa è dunque sicura: il regime tirannico appare solo in città molto evolute dal punto di vista politico, economico e sociale.
Già Tucidide (1., 13) insisteva sulla influenza di questo fattore: “Poiché la Grecia si occupava ancor più di prima di accumulare ricchezze, in generale si vide che le tirannidi si stabilivano nelle città con l’aumento dell’afflusso di denaro”.
Questo regime soppiantò dunque l’aristocrazia che regnava sovrana ovunque.
Per realizzarlo era necessario che un uomo ambizioso – spesso un aristocratico, raramente un avventurieri – potesse appoggiarsi su di una borghesia ricca e scontenta; ma, ancor più, che potesse contare sull’appoggio di un demos esasperato dall’insolenza degli aristocratici prosperanti sulla miseria dei poveri.
L’esistenza di una crisi sociale è dunque la causa prima dell’apparizione della tirannide.
Anche altre forze però entrarono in gioco, molto diverse a seconda dei luoghi: ad Argo sarebbe stato il peso appena acquistato dagli opliti a permettere al potere assoluto di Fidone, re che Erodoto e Aristotele considerano un tiranno; nel Peloponneso settentrionale la tirannide poté approfittare dei contrasti tra l’aristocrazia dorica e le popolazioni predoriche asservite; in Occidente la presenza minacciosa dei barbari alle porte delle città greche dovette imporre la necessità di un governo forte; in Oriente, dopo la conquista persiana, i tiranni furono molto spesso solo dei governatori agli ordini del re.
Resta il fatto che la tirannide è essenzialmente figlia delle rivendicazioni della nuova borghesia, della miseria del popolo e del coraggio di individui assetati di potere e pronti a tutto pur di riuscire.
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E’ solo con molta arbitrarietà che possiamo tracciare un quadro generale della tirannide arcaica.
Ciò nonostante, alcune caratteristiche sono evidenti, indipendentemente dai luoghi, dai tempi, dagli uomini.
Il tiranno non cambia la costituzione già stabilita.
Le vecchie magistrature sono mantenute in funzione, ma affidate a uomini a lui devoti.
Il consiglio e l’assemblea, dove ce n’è una, ratificano la nuova politica, ma si tratta solo di una facciata: tutto il potere è nelle mani del tiranno.
Egli risiede generalmente nella cittadella e si fa accompagnare da una guardia del corpo, nella quale i pensatori del secolo 4. hanno creduto di poter individuare l’aspetto più caratteristico della tirannide.
Numerosi aneddoti insistono sull’arbitrio e le violenze dei tiranni: Periandro, causa involontaria della morte della moglie, in cattivi rapporti con la madre e col figlio, forniva ai moralisti un bell’esempio delle disgrazie generate dalla sfrenatezza.
Tuttavia bisogna conservare lo spirito critico: la maggior parte dei tiranni era troppo pensosa dei propri interessi per lasciarsi andare a inutili eccessi che avrebbero reso la loro situazione ancor più pericolosa.
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I tiranni, esposti all’ostilità latente degli aristocratici decaduti, cercarono tutti di consolidare la propria autorità con una politica di prestigio.
Essa si manifesta, dapprima, nelle città, con numerose e brillanti imprese edilizie, che comportavano anche il vantaggio di fornire lavoro alle classi lavoratrici.
Anzitutto furono iniziati lavori di pubblica utilità: Periandro fa tracciare una strada (il diolkos) che attraversa l’istmo di Corinto per facilitare il trasporto dei battelli da un mare all’altro; Teagene e Pisistrato fanno costruire degli acquedotti, subito imitati da Policrate, i cui ingegneri scavano una canalizzazione a tunnel, meraviglia della tecnica per quell’epoca.
Pisistrato inoltre fa costruire una fontana monumentale a nove bocche, l’Enneakrunos, per poter rivaleggiare con le fontane di Corinto.
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Sarebbe interessante conoscere la precisione i regimi che seguirono alla caduta dei tiranni; tuttavia, la diversità delle soluzioni impedisce, come spesso avviene nel mondo greco, qualsiasi conclusione generale.
Certo nella maggior parte dei casi l’aristocrazia riprende il potere, tanto più facilmente in quanto i tiranni non avevano cercato di spezzare il sistema della proprietà terriera: così avviene in Sicilia dopo la caduta dei primi tiranni (fine del secolo 7.), e ad Epidauro, dove i magistrati (artynoi, direttori) sono scelti fra un consiglio ristretto di centosessanta membri.
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Dare un giudizio sulla tirannide è un’impresa delicata e rischiosa.
Gli autori antichi, spesso influenzati dalle deludenti esperienze delle tirannidi più tarde, hanno insistito soprattutto sugli eccessi e le colpe morali dei tiranni.
Certo, sul piano politico, il solo principio regolatore delle loro azioni fu l’egoismo e la volontà di potenza, ma, obbligati a lottare contro i privilegi ancestrali dell’aristocrazia, essi contribuirono ad abolire la presa soffocante che quest’ultima esercitava sullo Stato e sulle classi inferiori: secondo la forte espressione di J. Burckhardt, la tirannide fu molte volte “una democrazia anticipata”.
Non dobbiamo nemmeno dimenticare l’impulso fortissimo che i tiranni diedero alle arti ed alle lettere.
Se l’interesse personale era, così come lo era per i nobili, l’unico motore delle loro azioni, essi ebbero tuttavia un ruolo capitale e positivo nell’evoluzione delle città, e il giudizio della posterità, che volle ricordarsi solo dei tirannicidi, non è molto giusto.
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Secondo Aristotele, l’evoluzione normale della città è quella che la fa passare dalla monarchia all’aristocrazia, quindi alla tirannide, infine alla democrazia.
Questo schema, più o meno valido, non tiene conto dei numerosi casi particolari, la cui sovrabbondanza caratterizza l’arcaismo greco.
Molte città infatti, e non delle più piccole (Sparta ed Egina per esempio, per limitarci alla Grecia vera e propria), non conobbero la tirannide.
Poche città, alla fine del secolo 6., concedono al demos il posto che gli spetta nei pubblici affari: si possono citare solo Chio ed Atene.
A Chio troviamo fin dal secondo quarto del secolo 4. un'assemblea, che elegge un consiglio di cinquanta membri per tribù, ed alcuni magistrati (demarchoi); la giustizia viene amministrata secondo i principi democratici.
Ad Atene, la democrazia si è imposta più lentamente nel corso di questo secolo, da Solone a Clistene.
In tutti gli altri luoghi l’aristocrazia resta al potere, intransigente o moderata.
Ci vorrà un avvenimento esterno alla vita delle poleis, le guerre contro i medi, che metteranno in primo piano Atene, la cui situazione politica e sociale era la più avanzata, perché il mondo greco si liberi meglio delle strutture aristocratiche dell’arcaismo.
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Cap. 3. Il mondo antico: Anatolia e Grecia propriamente detta.
La varietà domina nel mondo greco arcaico.
Se si vuole evitare di cadere in generalizzazioni facili e gratuite, è assolutamente necessario uno studio per regioni.
Bisogna in primo luogo distinguere le terre occupate da molto tempo dai greci da quelle conquistate invece a partire dal secolo 8.
Fanno parte del primo gruppo due grandi estensioni geografiche: alla Grecia vera e propria, la cui “ellenizzazione” iniziò verso il 1950, fa riscontro la frangia costiera dell’Anatolia, occupata definitivamente con le migrazioni della fine del secondo millennio.
Nella Grecia asiatica, come in quella europea, la città costituisce molto spesso l’unità politica: solo gli Stati retrogradi della Grecia del nord passano lentamente dalla nozione di popolo (ethnos) a quella città (polis).
D’altra parte solo raramente queste città controllano un territorio molto esteso: è il caso di Sparta, che comprende la Laconia e la Messenia, o di Atene, a cui fa capo l’Attica intera.
Più spesso una stessa regione, come la Beozia o l’Acaia, comprende più città di limitate dimensioni e rivali per natura loro.
Questo frazionamento politico comportava gravi inconvenienti, poiché, causando uno stato di guerra endemico, in special modo in Asia, indeboliva i greci di fronte ai barbari che erano organizzati in regni forti e centralizzati.
Non bisogna dunque trascurare gli sforzi che nel corso dell’arcaismo furono fatti in vista di un’unificazione, sforzi orientati in due direzioni diverse.
Il primo fattore d’unione sarebbe potuto essere la religione.
Intorno ad alcuni santuari furono organizzate delle anfizionie.
Il nome stesso (alla lettera: coloro che abitano intorno) suggerisce l’idea di un raggruppamento geografico; ma forse entrarono in gioco anche talune considerazioni etniche, e soprattutto interessi commerciali.
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Un secondo fattore d’unità era rappresentato dai gruppi etnici.
La Grecia era divisa in un certo numero di regioni – ci simo limitati a questo termine vago, dovendo escludere quello di provincia – etnicamente unitarie e comprendenti generalmente un certo numero di città: così ad esempio tebani, tanagresi e orcomeni si sentivano beoti prima di sentirsi greci.
Durante l’epoca arcaica nella maggior parte di queste regioni ci è spesso sconosciuta, salvo quella della Tessaglia, che conosciamo nelle grandi linee.
Tuttavia anche questa restò debole e mancò nel modo più assoluto di coesione interna, poiché alle città ripugnava totalmente di rinunciare alla propria autonomia e di alienare i propri diritti, fosse anche a beneficio di più larghi raggruppamenti che avrebbero permesso loro di difendersi meglio sul piano internazionale.
Le diffidenze suscitate in Beozia dal koinon beota, all’interno del quale Tebe prende nettamente l’egemonia, illustrano a sufficienza questo punto.
Questi due tipi di organizzazioni sovrastatali erano, in linea di principio almeno, libere e bisogna distinguere bene dai tentativi di Stati potenti e unificati di assicurarsi con la loro forza un impero.
Il caso più chiaro è quello di Sparta, che nel secolo 6. radunò intorno a sé in una simmachia (alleanza) la maggior parte degli Stati del Peloponneso: alleanza certo volontaria, poiché fu sancita da un trattato di ciascun partecipante con Sparta stessa, ma che lasciava alla città egemone la direzione assoluta della politica estera e il comando delle operazioni militari.
Alla fine del secolo 6., Atene fornisce con le sue mire imperialiste un altro esempio di questo tipo di politica; l’installazione di colonie militari in certi punti favorevoli prelude al suo impero nel secolo seguente.
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Fin verso il 550 il mondo della Polinesia egea e dell’Anatolia conosce un rapido e brillante sviluppo, che ne fa l’emulo fiorente della Grecia.
Due fattori storici spiegano questa prosperità materiale e questo splendore spirituale: le invasioni doriche lo toccarono solo con le ultime ondate e la prossimità degli Stati orientali, detentori di un’antica civiltà, permise dei fruttuosi contatti.
Se le isole hanno un popolamento greco relativamente omogeneo, in Asia Minore si mischiarono preelleni, asiani, orientali e greci.
Erodoto (1., 146) insiste sul fatto che nelle popolazioni ioniche si sono introdotti in gran numero abanti, mini, cadmei, driopi, focidesi, molossi, pelasgi, dori e che molti di loro sposarono donne di Caria.
Tuttavia anche le condizioni geografiche ebbero un ruolo determinante.
In Asia i greci occupano la costa con porti spesso eccellenti e all’imbocco di valli fluviali, che permettevano di risalire per molto verso l’interno (Meandro, Caistro, Ermo, Caico).
Essi si posero dunque (come i fenici più a sud) da intermediari naturali tra il mondo dell’Asia anteriore, prospera e antica, e il mondo mediterraneo, che la colonizzazione aveva notevolmente esteso verso occidente.
La situazione delle isole è anch’essa molto favorita dalla natura: Cipro protende due estremità verso la Siria e al Fenicia, e in particolare verso la vicina Ugarit, e l’altra verso Creta e la Grecia; Cicladi e Sporadi, resti di un continente scomparso, sono come le pietre di un guado che unisce le due coste popolate dai greci.
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La poesia fiorisce fra le raffinatezze che nascono dalla prosperità: Terpandro e Arione, nativi di Lesbo, affascineranno con i loro versi gli spartani ed i corinzi; ma i veri poeti di Mitilene sono Alceo e Saffo, i cui poemi, appassionati e aggraziati, rappresentano la prima vera espressione del lirismo individuale nella letteratura greca.
Nulla li lascia indifferenti: “Ho desiderio, ho brama”, esclama Saffo (fr. 35).
La loro anima sensibile si estasia davanti alla natura, s’inebria nel vino o nei raffinati amori, si abbandona un istante alla melanconia che intacca appena la loro gioia di vivere.
Tutto ciò viene espresso in metri semplici e perfetti nello stesso tempo, metri che segneranno per sempre della loro impronta il lirismo antico.
Questi poeti fecero della loro patria il simbolo di un mondo in cui l’abbandono alla sensualità più voluttuosa non esclude la ricerca della saggezza.
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Tuttavia, in questa città splendenti [della Ionia] di prosperità, che furono spesso paragonate ai comuni italiani del Quattrocento, la vita dello spirito aveva un ruolo essenziale.
Dopo il rinnovamento dell’epopea compiuto da Omero, si assiste alla nascita dalla poesia lirica, favorita dall’adozione di strumenti musicali orientali: Mimnermo di Colofone canta il suo amore per la bella Nanno; Focilide di Mileto, poeta gnomico, sa trovare delle felici formule ben costruite; Anacreonte di Teo – che espatrierà successivamente ad Abdera, a Samo e ad Atene – celebra un Eros scherzoso, che annunzia già quello d’Alessandria.
La prosa non è meno brillante.
Esopo adatta al greco le favole degli orientali.
I logografi sono gli iniziatori tanto della storiografia che della geografia: i più celebri sono Cadmo ed Ecateo, due milesi.
Nasce una nuova architettura; l’architettura ionica, le cui opere più belle sono l’Artemision di Efeso e l’Heraion di Samo, templi giganteschi, vere foreste di colonne a imitazione dalle sale ipostile dell’Oriente.
La scultura compie progressi decisivi, grazie all’imitazione delle tecniche orientali: lavorazione dell’avorio (statuette crisoelefantine) e del bronzo (gli “inventori” della forma cava sono due architetti di Samo, Rhoikos e Theodoros).
E la ceramica stessa, col suo gusto per il colore e la sontuosità delle sue decorazioni, è testimone di un mondo gioioso.
Nel campo del pensiero, Talete, Anassimandro, Anassimene rendono famosa, l’uno dopo l’altro, la scuola di Mileto e Pitagora, il cui insegnamento troverà tanta eco in Occidente, dove egli sarà costretto a esulare, è nativo di Samo.
Tutto ferve.
La poesia sorride, appena sfumata di ineluttabile melanconia; la prosa e la filosofia si pongono con una curiosità inesauribile i problemi dell’uomo e dell’universo.
L’arte infine è in pieno sboccio con un’esuberanza, una prolissità, una colossale sontuosità, segni irrefutabili di vitalità.
La nuova culla della civiltà greca dopo la ripresa del geometrico è incontestabilmente la Ionia.
Nei suoi grandi porti – in particolare a Mileto, la più fiorente e la più prestigiosa in quel momento di tutte le città del mondo greco – i contatti con un Oriente millenario si stabiliscono facilmente, a tal punto che si distinguono male gli elleni orientalizzati dagli orientali ellenizzati.
Così si spiegano lo sboccio ed il rapido sviluppo, in due secoli, di una civiltà levantina: lux ex Oriente.
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Ma questa armoniosa intesa, dalla quale tanto i re barbari che le città greche traevano ampi profitti, scomparve con la disgrazia di Creso, vittima dell’irresistibile avanzata dei persiani.
La vittoria del re persiano Ciro (546) fu una vera sorpresa per i greci dell’Asia, che, ad eccezione dei soli abitanti di Mileto, avevano disprezzato le sue offerte e fornito dei contingenti al re di Lidia.
Dopo la cattura di Creso, essi tentarono di resistere, ma le loro città caddero ad una ad una.
Solo i focesi preferirono lasciare la loro patria: si imbarcarono in blocco e andarono a stabilirsi nelle loro colonie, dapprima a Alalia, poi a Elea.
Tutti gli altri, salvo gli abitanti di Samo, avevano già dovuto fin dal 540 accettare la sovranità del Gran Re.
Samo conobbe allora lo splendido periodo della tirannide di Policrate, ma venne in seguito conquistata da Dario.
Sotto Ciro e il suo successore Cambise, i greci furono trattati in un modo simile a quello usato dai re di Lidia.
Ma Dario aveva un’altra concezione dello Stato.
Egli rese più gravoso il suo dominio sulle città, impose loro la presenza di guarnigioni, appesantì i tributi, sostenne dei tiranni al suo soldo.
Certo la ricchezza della Ionia non viene intaccata: checché si sia detto, Dario non favorì i fenici a detrimento della Ionia.
La conquista stimolò l’attività di Efeso e di Mileto, rendendo più stretti i loro rapporti con l’interno e facendole volgere ancor più verso l’Occidente e la Tracia.
Anche la vita dello spirito è rigogliosa: è l’epoca in cui Anassimandro ed Ecateo divengono famosi a Mileto.
Ma la servitù pesa ogni giorno di più sulle città greche.
Presto scoppierà la tempesta e la rivolta della Ionia sarà la causa diretta delle guerre contro i medi.
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Nel suo insieme, la Grecia propriamente detta fa una misera figura in confronto alla Grecia dell’Asia minore.
Salvo alcuni centri posti in faccia alla Ionia o sulla strada dell’istmo, essa resta rurale e il suo contributo alla civiltà è debole.
I confini settentrionali sono imprecisi: due marche, la Macedonia a Est, l’Epiro a Ovest, sono abitate da popoli ai quali oggi è difficile contestare il nome di greci, ma che allora erano considerati barbari.
La Macedonia viene unificata fin dal secolo 7. dalla dinastia degli alevadi, che conquistarono tutta la regione e cercarono di unirla attorno alla loro capitale, Ege, arroccata su di una potente acropoli.
L’Epiro è diviso fra tre tribù rivali.
Nell’uno e nell’altro caso sopravvive una monarchia patriarcale, abbastanza simile a quella dei re omerici e sostenuta da una feudalità di grandi proprietari terrieri.
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In conclusione, la Tessaglia conserva un grande prestigio nella Grecia centrale fino alla fine dell’epoca arcaica.
Essa possiede la maggioranza dei voti all’anfizionia delfica e conduce in nome di dio la prima guerra sacra.
Ma questa regione, una delle più ricche della Grecia e una delle più potenti demograficamente, ha un ruolo sproporzionato alle sue vere possibilità.
La sua storia è quella di una sconfitta.
Lo Stato è minacciato dall’aspra ostilità dei penesti asserviti e dei perieci sottomessi e diviso dalle rivalità fra le dinastie.
Questa sconfitta è quella di una classe dirigente che ha fallito la sua missione.
Malgrado la ricchezza e la vita splendida e fastosa di alcuni dei suoi aristocratici, essa si rinchiude in strutture sorpassate.
Non si è affatto stupiti che abbia scelto deliberatamente di stare dalla parte dei barbari al momento del pericolo persiano.
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Nel Peloponneso, la cui popolazione è ancor più eterogenea di quella della Grecia continentale, possiamo distinguere fin dall’epoca arcaica sei grandi regioni, corrispondenti a sei gruppi etnici: l’Acaia, l’Elide, l’Arcadia, la Messenia, la Laconia, l’Argolide.
Ma la vera linea di divisione è data dal grado dell’evoluzione economica e sociale, non dal tipo di popolamento.
Alcune regioni rimangono rurali ed estranee alle correnti che sconvolgono il mondo greco; altre, al contrario, soprattutto in prossimità dell’istmo, si trasformano rapidamente ed edificano delle prospere e dinamiche città.
Una sola caratteristica comune: dappertutto (ad eccezione dell’Arcadia, risparmiata dall’invasione dorica) due classi sociali antagoniste sono in lotta: vincitori e vinti, o, spesso, padroni e servi.
In questo studio tralasceremo provvisoriamente la Laconia, che merita uno studio particolarmente accurato, e la Messenia, presto asservita, la cui storia si confonde dunque con quella di Sparta fino al momento in cui (secolo 4.) ricupera la propria indipendenza.
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La storia dei giochi nella prima metà del primo millennio è quella di una continua espansione.
La tradizione dà grande importanza all’anno 776, inizio delle Olimpiadi, di cui i greci si servivano per misurare il tempo.
Questa data, considerata quella della loro fondazione, era invece solo quella del loro ordinamento definitivo.
In origine l’unica gara era la corsa a piedi, ma presto appaiono il pugilato, il pancrazio, la corsa dei carri e la corsa dei cavalli.
A poco a poco anche i vincitori (gli olimpionici) provengono da regioni sempre più lontane, col progressivo divulgarsi della fama di Olimpia.
All’inizio concorrono solo gli elei, gli achei, e i messeni, ma nella seconda metà del secolo 7., il mondo greco è qui rappresentato al completo.
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All’improvviso, prima dell’inizio del secolo 6., si ha il brusco arresto di questa rinascenza cretese e non si sentirà più parlare dell’isola per secoli.
Concorrenti più agguerriti s’impadroniscono dei mercati.
L’arte scompare e i cretesi, che, sfruttando le proprie tradizioni minoiche r gli influssi orientali, avevano elaborato le prime opere elleniche, si rivelano incapaci di adattarsi alle nuove condizioni di un mondo in perpetua evoluzione.
Si ha l’impressione che “il sangue eteocretese, sangue nobile ma impoverito, impedisca loro certe imprese” (P. Demargne).
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Uno dei rami delle genti doriche si era stabilito nella ricca valle dell’Europa, “Lacedemone concava” di Omero.
Al termine di aspre lotte, sottomette gli achei, in particolare quelli di Terapne, ma deve venire a patti con Amicle che resiste disperatamente.
In un luogo vicino e ancora vergine vengono fondati, durante il secolo 9., dei villaggi dal cui sinecismo nascerà Sparta, al sola città della Laconia (e fu questa la prima azione originale dei dori della Laconia, in confronto ai loro fratelli della Messenia e dell’Argolide).
La nuova città deve il suo nome ad un fiore di ginestra che cresce in abbondanza nella pianura, o alle semine, data la fertilità del territorio?
E’ un problema discusso.
Quanto al termine di Lacedemone, esso si conserva per designare la città nelle sue relazioni esterne.
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Se Sparta non assomiglia a nessun’altra città, ciò è dovuto in primo luogo alla rigidità del suo sistema sociale che comporta tre classi, nettamente specializzate e fortemente gerarchizzate.
I cittadini o Uguali (Homoioi) sono i soli a godere dei diritti politici.
Per appartenere a questo gruppo, bisogna esser nati da genitori cittadini e aver ricevuto l’educazione dello Stato.
E’ proibito loro darsi a un’attività artigianale o commerciale, ed anche coltivare la terra: vivono delle rendite di un lotto (kleros), concesso a titolo ereditario nella valle dell’Eurota (terra pubblica).
L’unico scopo della loro esistenza consiste nel servizio delle armi, al quale dedicano tutta la vita, dopo il duro addestramento dell’infanzia e dell’adolescenza.
Anch’essi uomini liberi, i perieci (coloro che abitano intorno) fanno fruttare la perioikis (margine meno fertile della vallata), dandosi alla coltivazione, all’allevamento dei montoni e dei porci, praticando il commercio e l’artigianato.
Raggruppati in grossi borghi, circa un centinaio, essi godono di una larga autonomia, senza possedere tuttavia nessun diritto d’intervento nella vita politica della città.
Esiste infine una classe di oppressi, gli iloti, servi di Stato messi a disposizione dei kleroi.
Iloti significa o “uomini delle paludi” o “gli abitanti di Elo”, uan piccola borgata della Laconia, o “prigionieri”: in ogni modo è sicuro, secondo queste etimologie proposte dagli antichi, che si trattava di aborigeni vinti dagli invasori.
La loro situazione materiale è tollerabile: abitano in fattorie isolate e non hanno altri obblighi che il tributo (apophorà) dovuto al padrone (settanta medimni d’orzo per il padrone e dodici per sua moglie; frutta, vino e olio in proporzione), ed il servizio nell’esercito in caso di bisogno, generalmente come fanti leggeri o come uomini di fatica.
Non sono però protetti dalla legge e la loro condizione morale è fra le più sinistre di tutto il mondo antico: fatti ubriacare per ispirare la sobrietà dei bambini, uccisi nelle misteriose spedizioni degli adolescenti, vivono nell’abiezione deliberatamente voluta dagli uguali, nell’avvilimento metodico, nel settore organizzato.
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L’esempio di Sparta prova tuttavia che nessuna società può sfuggire alla legge dell’evoluzione.
LA sua organizzazione sociale, perfetta in apparenza, cela delle tare che la mineranno a poco a poco.
Anzitutto l’uguaglianza è contro natura, e dalla fine dell’arcaismo un’ineguaglianza di fatto appare sotto la facciata egualitaria.
Da un lato infatti non è assolutamente vietato al cittadino di possedere dei beni nella Perioikìs, fatto che rende vana la ripartizione rigorosamente uguale dei lotti.
D’altra parte una figlia epikleros (cioè sola erede di un uomo senza figli maschi) può sposare un cittadino già provvisto di dote, che da allora in poi può godere di due kleroi: strana concessione fatta al sistema della proprietà familiare in un paese dove la terra è pubblica.
E’ evidente che alla fine del periodo arcaico siamo ancora lontani dalla scandalose disparità di beni che rovineranno Sparta nel secolo 4.
Nell’insieme, gli uguali restano poveri e vivono in una dura austerità.
Ma basterà che Sparta si abbandoni alle seduzioni delle società mercantili perché tutto l’antico ordine crolli.
Inoltre – e indipendentemente perfino da ogni considerazione morale – la condizione di ilota è una mostruosità.
Gli iloti sono numerosi, forse dieci per ogni cittadino (a Platea l’esercito spartano, che non li mobilita evidentemente tutti, ne conta sette per ogni cittadino), e per di più vivono in un tale stato di miseria morale, che la rivolta resta l’unico mezzo a loro disposizione contro l’oppressione e il disprezzo.
Uan grave minaccia pesa dunque sulla città, e si arriva al paradosso di uno Stato dotato del più forte esercito del mondo greco, che non può utilizzarlo per spedizioni lontane a causa del timore dei suoi iloti.
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Ci si è a volte compiaciuti nell’immaginare forze segrete che avrebbero mosso tutta la macchina politica, a profitto di un nucleo di cittadini energici che dirigevano Sparta senza debolezza, su una via sempre dritta, sotto il governo degli efori che cambiano sempre (P. Roussel).
Ma possiamo forse piegare più semplicemente la stabilità, in effetti notevolissima, della politica spartana.
a Sparta l’educazione spezza i particolarismi e soffoca le tendenze innovatrici; in quanto alla gerontocrazia inerente al sistema, essa impone un governo conservatore.
Così coloro che aspirano al potere – e sappiamo che i candidati sono numerosi e le manovre molto movimentate – mirano solo al mantenimento di un passato che nelle altre città è già da tempo scomparso.
Sparta appare chiaramente coem un fenomeno sociologico quasi unico, come un anacronismo vivente, con il suo violento attaccamento agli schemi ancestrali e alla società egualitaria, ereditato dalle più lontane età; ma sarebbe scadere nel romanzo storico volervi cercare un enigma.
La coesione interna dello Stato è una delle cause dello sviluppo costante della potenza spartana.
Appena terminata la conquista della Laconia, essa cerca di estendersi a ovest contro gli argivi e a nord a spese degli arcadi.
Tra il 736 ed il 720, conduce una guerra molto dura contro i messeni e, malgrado la loro eroica resistenza sul monte Itome, li sottomette.
Questa prima guerra di Messenia segna una data nell’espansione di Sparta: i messeni vinti vengono ridotti allo stato di iloti; le ricche terre della valle del Pamiso vengono distribuite, a titolo di kleroi, a nuovi cittadini, mentre i margini montuosi vengono aggiunti alla Perioikis.
Aumenta così il numero degli uguali e quindi la potenza militare di Sparta.
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Questo prestigio è dovuto non solo agli alleati dei quali si è circondata, ma anche al valore del suo esercito, il solo del mondo greco che fosse composto di soldati di professione.
Non possiede una cavalleria e la marina, che le viene fornita dai perieci delle città della costa, è irrisoria, ma i suoi cittadini soldati formano una irresistibile falange, sostenuta inoltre dagli opliti perieci e dagli iloti armati alla leggera.
Tirteo li descrive con versi precisi: “Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo, mordendosi le labbra con i denti, nascondendo le cosce, gli stinchi, il petto e gli omeri entro la pancia d’uno scudo immenso; l’asta possente stringa nella destra e l’agiti, muova tremendo sul capo il cimiero.”
Con una tattica rudimentale – avanzare senza rompere i ranghi fino a costringere il nemico a cedere e ad abbandonare il campo di battaglia – i soldati di Sparta resteranno imbattuti fino a Leuttra.
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Sparta non conosce un’attività economica comparabile a quella delle altre grandi città.
Soprattutto essa rifiuta di adottare la moneta e resta fedele all’antico sistema dei pezzi di ferro.
Ciò nonostante l’agricoltura e l’allevamento prosperano e le creazioni del suo artigianato di lusso (ex voto, ceramiche)si esportano facilmente.
L’importanza della lavorazione dell’avorio testimonia, d’altronde, un regolare commercio con l’Oriente.
Non è sorprendente che fino alla metà del secolo 6. si sviluppi a Sparta una brillante civiltà che ne fa l’emula delle più fiorenti città della Grecia propriamente detta.
Sono apprezzate la poesia, al musica, la danza.
I poeti più famosi la visitano e alcuni vi stabiliscono la propria dimora: il nomo è rappresentato da Terprando di Lesbo e Polmnesto di Colofone, la lirica corale da Taleta di Gortina e Alcmane di Sardi, l’elegia di Tirteo di Atene.
Due di questi stranieri esprimono due aspetti opposti e complementari dell’anima spartana: Alcmane canta con galante e aggraziata delicatezza le forti fanciulle per le quali compone i suoi partenii; Tirteo esalta con virile semplicità l’eroismo del guerriero per il quale non v’è altro ideale che la sua patria.
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Sparta è quindi nettamente volta verso l’esterno, quando all’improvviso, verso la metà del secolo 6., si ripiega su se stessa e si chiude alle influenze di paesi lontani.
Gli spartiati non sono più autorizzati a viaggiare, né gli stranieri a soggiornarvi.
Lentamente la vita si sclerotizza: si continua a cantare per gli dèi, ma solo vecchi poemi; non si costruisce più; la ceramica si spegne a poco a poco a partire dal 550 e sparisce verso il 500.
Una città in cui l’influenza dell’Oriente era molto forte, che sapeva unire alla sua virilità un fascino spesso aggraziato, si chiude definitivamente nell’austerità.
Le cause di un così brutale cambiamento sono mal note: senza dubbio i dirigenti dovettero temere che il vigore della città si allentasse e che si scatenasse, a lungo andare, una evoluzione, che temevano più di ogni altra cosa.
Gli spartani non facevano mai nulla a metà: agirono quindi con fermezza e tagliarono corto con tutto ciò che poteva temperare la loro rudezza.
Ormai Sparta non sorriderà più.
E’ difficile parlare obbiettivamente di Sparta che, nell’antichità come ai nostri giorni, fu molto ammirata e molto denigrata.
Lo storico deve riconoscere le rare qualità che le permisero d’imporsi come la città più forte della Grecia: coraggio, disciplina, tenacia, tutto ciò che i detti lacedemoni d’epoca tarda hanno trasformato in luoghi comuni, ma che fu realtà vissuta durante il periodo arcaico.
Tucidide (1., 84) pose in bocca al re Archidamo una mirabile evocazione della “saggezza riflessa” degli spartani, che definisce una costante del loro carattere e della loro politica.
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L’Attica, popolata dagli ioni fin d all’inizio del secondo millennio, ha già goduto di una grande prosperità nell’epoca achea, come testimoniano l’importanza delle vestigia micenee dell’Acropoli e dei suoi dintorni.
Riparata dietro la sua cerchia di montagne, essa viene risparmiata dalle invasioni doriche ed offre perfino un rifugio a molti ioni scacciati dal Peloponneso.
Grazie a questo afflusso nel Protogeometrico e nel Geometrico conosce uno sviluppo molto marcato, che ne fa la regione più civilizzata della Grecia.
Dunque, contrariamente a quanto avvenne nel Peloponneso e in Tessaglia, Atene non dovette subire l’atteggiamento di una parte della sua popolazione ad opera dei vincitori; si può vedere in ciò, senza esagerazione, l’origine del sistema sociale relativamente elastico che fu una caratteristica costante.
Per un ricordo confuso di questi fatti, che le assicurano un posto a parte nell’Ellade, gli ateniesi del secolo 5. ameranno proclamarsi autoctoni, cioè nati dalla terra stessa.
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I quadri sociali dell’Atene arcaica si ritrovano, con alcune varianti nei particolari, in molte città ioniche.
Vi sono dunque buone ragioni per supporre che essi rappresentino l’organizzazione primitiva delle società ioniche e che risalgono a un’epoca molto antica.
Vi sono quattro tribù, che portano i nomi enigmatici di Geleonti, Egicorei, Argadei, Opleti.
Il principio della ripartizione di queste tribù non è territoriale, poiché esse sono anteriori all’installazione degli ioni in Attica; non sembra neppure che sia stata fatta in base alla condizione sociale, benché si possa esser tentati di interpretare i vocaboli che le designano come brillanti (= nobili), caprai, lavoratori, uomini d’armi.
Hanno forse un’origine etnica, coem pare sia il caso delle tre tribù doriche? O si tratta piuttosto di un raggruppamento di uomini che praticano gli stessi culti (esiste per esempio in Attica uno Zeus Geleone)?
E’ difficile decidere.
Più tardi, ogni tribù ha un suo re (phylobasileus), ma non si sa se questa istituzione sia esistita fin dagli inizi.
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La crisi che alla fine del secolo 7. sconvolge tutte le città evolute del mondo greco, tocca anche Atene.
Molti fattori però concorrono a mantenere i privilegi di un’aristocrazia che monopolizza la vita politica: non vi sono classi servili ereditate dalla conquista; i progressi economici sono stati meno rapidi che altrove e Atene non partecipa alla colonizzazione, fatto che evita la concorrenza dei prodotti agricoli coloniali; fino a Solone non si coniano monete e ci si accontenta di utilizzare quelle delle città vicine, fatto che esclude Atene dal numero delle grandi commercianti.
Ciò nonostante, a poco a poco, Atene esce dalla sua vita calma e sostanzialmente rurale: nel quartiere del Ceramico, gli artigiani del fuoco, vasai e fabbri, incrementano la loro produzione, sotto la doppia protezione di Efesto e di Atena; gli scambi si sviluppano, com’è provato dalla partecipazione all’anfizionia di Calauria e dall’esportazione dei vasi di vino e di olio in particolare nel Peloponneso.
In questo modo alcuni cittadini si arricchiscono; molti di essi non appartengono al mondo chiuso dei gennetes, e di qui nascono le aspirazioni politiche di questi possidenti esclusi da ogni partecipazione agli affari pubblici.
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Ma la causa fondamentale della tensione sociale è dovuta all’ineguaglianza nella ripartizione della proprietà fondiaria.
Solamente Solone, incaricato con una decisione unanime di riportare ordine nella città (594593?), osa affrontare di petto questo problema.
Con la seisachtheia, misura rivoluzionaria i cui particolari sono poco noti, egli sopprime la cattività per debiti di cui erano stati vittime tanti plebei, ridotti in schiavitù dai possidenti; libera gli asserviti e la “grassa terra della patria”, che viene vincolata dagli obblighi ipotecari.
E’ la prima volta che si adotta nel mondo greco una misura così audace; essa fa deliberatamente passare gli interessi dello Stato davanti a quelli privati, anche dei grandi proprietari se occorre; così costoro si trovano spogliati delle loro inique acquisizioni degli ultimi decenni.
Gli hektemoroi scompaiono, perché ritornano in possesso delle loro terre.
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Solone trasforma parimenti le istituzioni politiche.
Utilizza una divisione anteriore in quattro classi secondo le rendite terriere: pentacosiomedimmi (rendita annuale superiore a cinquecento medimni o metrete), cavalieri (tra cinquecento e trecento), zeugiti (tra trecento e duecento), teti (al di sotto di duecento), che gli serve per ripartire onori e cariche secondo ciò che allora era considerata l’equità, cioè secondo i mezzi, e più precisamente secondo la ricchezza valutata in base alla proprietà fondiaria.
I magistrati sono eletti tra le prime tre classi, arconti e tesorieri dalla prima; ma tutti i cittadini, teti compresi, partecipano all’assemblea.
Le due prime classi servono nella cavalleria, la terza nella fanteria leggera o nella marina.
I magistrati più importanti continuano ad essere gli arconti, che formano oramai un collegio di nove membri comprendente, oltre all’arconte, il re ed il polemarco, i sei tesmoteti.
Ma la vera originalità delle riforme di Solone consiste nell’aver creato da una parte un nuovo consiglio di quattrocento membri, la boulé, incaricata di preparare le sedute dell’ekklesia, e che a poco a poco si arrogherà le prerogative dell’Areopago; d’altra parte un tribunale veramente popolare – poiché i suoi membri sono tratti da tutte e quattro le classi -, l’eliea che diventerà la sola istanza a fianco degli antichi “tribunali del sangue”.
E’ impossibile dubitare che Solone abbia tentato di stabilire un equilibrio tra i nobili e il demos.
Egli stesso, nelle Elegie, insiste sul proprio ruolo di arbitro imparziale e disinteressato: “Privilegi non tolsi e non aggiunsi al popolo, assegnandogli tanto quanto basta. Nulla d’indegno volli che spettasse a quanto per potenza o danaro erano in vista” (citato in Aristotele, Costituzione di Atene, 12).
Non è affatto un democratico nel senso assunto successivamente dal termine, ma è un fatto indiscutibile che i lineamenti essenziali della futura democrazia siano in germe nelle riforme alle quali resta legato il suo nome.
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Per Pisistrato essere fedele alla democrazia consiste soprattutto nell’appoggiarsi al demos, cioè sul popolo minuto e sugli scontenti, contro gli eupatridi.
Astuto e scaltro, abile nell’inventare storie patetiche o meravigliose, appoggiandosi perfino per breve tempo su Megacle, di cui promette di sposare la figlia senza consentire a consumare veramente il matrimonio, riesce ad imporsi come tiranno (561-560) e, due volte esiliato, a ritornare due volte al potere.
Tiranno in generale bonario, vive sull’Acropoli attorniato da guardie del corpo, limita strettamente i privilegi dei nobili, alcuni dei quali (come i cimonidi) riescono ad avere un’intesa, almeno momentanea, con lui.
Nulla cambia nelle istituzioni, ma le magistrature sono accaparrate da uomini fedeli a Pisistrato.
Tutta la sua attenzione è dedicata ai contadini: essi approfittano sia delle distribuzioni delle terre confiscate all’aristocrazia, sia dei prestiti consentiti dal tiranno, che permettono la conversione di campi poveri che producono stentatamente un po’ di grano o di orzo, in ricchi oliveti o in vigne.
Vengono istituiti dei giudici dei demi (borghi rurali), che risparmiano ai contadini la pena di andare in città, tenendoli lontani, nello stesso tempo, dalle tentazioni dell’attività politica.
Strano paradosso: Pisistrato dà così alla futura democrazia una base più solida, rinforzando il benessere e l’indipendenza della classe media.
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Pisistrato approfitta sicuramente di una congiuntura favorevole.
Atene comincia a svolgere un suo ruolo nel concerto delle grandi potenze economiche.
I coni di monete si moltiplicano.
Il quartiere del Ceramico conosce un’attività febbrile.
I vasi, dapprima a figure nere, e poi in seguito ad un’invenzione rivoluzionaria che potrebbe essere collocata verso il 530 – a figure rosse, hanno eliminato fin dal 550 i vasi corinzi ed inondano i mercati esterni.
Atene non si lascia sfuggire l’occasione per trarre profitto dall’esodo degli ioni, che preferiscono l’esilio piuttosto che la sottomissione al Gran Re: il sorriso delle korai dell’Acropoli e i loro lussuosi abbigliamenti testimoniano la presenza in Attica di maestri ionici.
Tuttavia l’azione personale del tiranno non deve essere sottovalutata.
Abbastanza scaltro per approfittare di ogni occasione, egli assicura la grandezza di Atene, che è nello stesso tempo la sua grandezza.
Consolidamento dell’equilibrio sociale, aiuto e lavoro procurati ai meno abbienti fra i cittadini con una politica di grandi opere, incoraggiamento delle arti, espansione in terre lontane, fusione tra culti poliadi e ctonii: il nutrito programma di Pisistrato non è forse, eccettuata l’ideologia, quello di Pericle?
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Il regime aristocratico ristabilito dagli spartani non può resistere alla pressione dei democratici , che trovano un capo di gran classe nell’Alcmeonide Clistene, nipote dell’omonimo tiranno di Sicione.
L’opera di Clistene, svoltasi senza dubbio nel 508-507, è particolarmente ardita.
Alla base di tutto vi è una nuova ripartizione dei cittadini che elimina l’antico sistema delle naucrarie: l’Attica viene divisa in un centinaio di demi, raggruppati in trenta trittie, riunite a loro volta in dieci tribù in ragione di una trittia della città, una della costa e una dell’interno per ogni tribù.
Le quattro antiche tribù gentilizie, le fratrie e i gene non spariscono e continuano ad avere un loro ruolo nella vita familiare o religiosa, ma nella vita politica contano solamente le dieci tribù – per le quali d’altronde Clistene invoca abilmente il patronato dell’Apollo di Delfi – le trittie e i demi.
Il nuovo raggruppamento dei cittadini, se è territoriale a livello dei demi e delle trittie, è arbitrario a quello delle tribù: esso opera un mescolamento del corpo civico, che viene così strappato all’influenza locale degli eupatridi.
Ogni ateniese è ora designato con il suo nome non più seguito da quello del padre (patronimico), ma da quello del demo (demotico), fatto che contribuisce a sminuire l l’importanza della nobiltà.
In funzione di questi quadri, Clistene procede a una riorganizzazione degli organi di governo.
La boulé solonica dei Quattrocento diviene la boulé di Clistene dei Cinquecento; i cinquanta bouleuti di ogni tribù assicurano l’esecuzione degli affari urgenti per un decimo dell’anno (pritania); viene instaurato un calendario politico completamente laicizzato, fondato sulla divisione dell’anno in dieci pritanie.
Il collegio dei nove arconti si vede aggiungere un segretario e conta così dieci membri, uno per tribù.
E’ un tratto caratteristico dello spirito greco il voler fondare la democrazia sulla piramide dei gruppi civili e su una aritmetica decimale.
Malgrado l’evidente razionalismo che anima il sistema, non siamo lontani dalle “virtù” dei numeri care ai pitagorici.
Tuttavia non si può non essere sensibili all’ampiezza, al rigore, alla portata di una riforma in certa misura paragonabile a quella della Costituente francese.
Certo Clistene non è un rivoluzionario: mantiene i quadri ereditati dai tempi antichi dello Stato aristocratico e religioso che non sono ancora dotati di un immenso prestigio; tuttavia con innovazioni e con aggiunte egli stabilisce veramente uno Stato nuovo, laico e liberato dagli insopportabili privilegi di nascita.
Questo eupatride è il vero fondatore della democrazia ateniese.
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La vitalità di cui è testimone questo espansionismo, si manifesta anche sul piano economico, con il rapido aumento delle esportazioni (soprattutto ceramica; dunque, senza dubbio, anche di vino e olio).
D’altra parte la giovane democrazia ateniese non vuole essere da meno della tirannide.
Abbandonando la costruzione dell’Olympieion che le ricordava troppo un’epoca aborrita, essa inizia a duf dell’Hekatompedon un nuovo tempio, sul luogo del futuro Partenone: si tratta del pre-Partenone voluto da Clistene, ancora incompiuto quando sarà distrutto dai persiani nel 480.
Grazie alle prove che non l’hanno risparmiata dopo il 510, Atene è ormai abbastanza forte e matura per poter prendere meglio coscienza della propria personalità.
Le influenze ioniche diminuiscono notevolmente alla fine del secolo; le korai perdono l’ultimo sorriso: sono le madri o le sorelle di coloro che vanno a combattere a Maratona o a Salamina per difendere l’eredità di libertà e di democrazia pazientemente accumulata in un secolo.
In questa lotta, oramai prossima, Atene è lungi dal trovarsi nelle migliori condizioni: è divisa dalle fazioni, non possiede né una vera marina da guerra né un porto equipaggiato; pratica ancora una democrazia di principio, riservando per esempio le magistrature essenziali ai pentacosiomedimni.
Ma dispone della terribile falange dei suoi opliti, agguerriti dai recenti conflitti; essi sanno che non combattono solo per la vita e per le terre ingrate, ma anche per un ideale d’equilibrio sociale e di autonomia lentamente forgiato da Solone a Clistene.
D’altra parte la coscienza nazionale si è rinsaldata, coem si può notare dalla sostituzione sulla monete dei blasoni delle famiglie aristocratiche con la civetta, simbolo parlante della città (fine del secolo, forse sotto Clistene).
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Cap. 4. Il nuovo mondo della colonizzazione
Un fenomeno capitale domina tutta l’età arcaica: i gruppi dei greci provenienti dalla terre anticamente occupate (Grecia propriamente detta e Anatolia) fondano delle colonie sulle rive del Mediterraneo e del Mar Nero.
Tali movimenti di popoli non sono certi nuovi: il mito aveva conservato il ricordo della partenza di marinai verso le misteriose terre dell’Occidente e del Settentrione fin dall’epoca achea, e i recenti scavi hanno mostrato in più luoghi, e a Taranto in particolare, una notevolissima continuità dell’occupazione ellenica dal secolo 14. in poi.
Minosse aveva inseguito Dedalo fino alla Sicilia e là era stato assassinato; Ulisse dai mille stratagemmi aveva arditamente aperto nuove vie nei mari di Ponente; Giasone era andato fino in Colchide a cercare il meraviglioso Vello d’oro.
Ciò nonostante fin dal 775 ha inizio una nuova fioritura di queste imprese verso terre lontane, che durerà fino agli anni intorno al 550, e perfino al 500 in alcuni luoghi.
Poco più di due secoli bastarono per fare del Mediterraneo un lago greco.
Si dovrebbero poter individuare le cause di un fenomeno così ampio e ben definito nel tempo.
La ragione prima sta indubbiamente nella nuova vitalità del mondo greco.
Appena uscito dall’epoca geometrica in cui, tutto assorto in oscure genesi, aveva dovuto vivere ripiegato su se stesso, esso si apre verso l’esterno: riprende contatto con l’Asia e si appassiona per gli apporti orientali, ma si lancia nello stesso tempo alla conquista dell’Occidente e del Settentrione.
Che possono importare i pericoli insiti in queste imprese, divenute d’altronde meno rischiose grazie ai progressi dell’arte nautica che abbiamo già segnalato?
Le terre sconosciute affascinano gli spiriti e la tentazione dell’avventura in una razza giovane, trascina molti cuori audaci, desiderosi di dare infine la loro misura.
Allo stesso modo più tardi i vichinghi solcheranno sulle loro imbarcazioni ricurve il Baltico, un altro mar Mediterraneo, e il Mare del Nord, prima di lanciarsi in imprese ancora più lontane.
Del resto è l’epoca stessa che sembra propizia all’espansione: i fenici non si occuparono del Ponto Eusino ma precedettero i greci nel bacino occidentale del Mediterraneo (la tradizione, contestata recentemente forse senza molte ragioni, fissa all’814 la data della fondazione di Cartagine, che però era stata preceduta sin dalla fine del secondo millennio sia da Cadice sia da Utica) e restarono i loro emuli per tutta l’età arcaica – episodio, tra i molti, nella lunga lotta tra gli indoeuropei e i semiti.
Il dinamismo ellenico è lungi dall’essere la sola causa dell’espansione arcaica.
Le crudeli carenze del mondo greco hanno avuto una parte non meno importante.
La Grecia soffre tragicamente della scarsità del suo suolo (stenochoria), ma la carestia che ne risulta è un fenomeno molto più sociale che geografico: il male, già di per sé senza rimedio, è aggravato dall’ingiusta ripartizione delle terre che va peggiorando a mano a mano che l’eredità suddivide in modo eccessivo i lotti già esigui, mentre i ricchi espandono i loro possedimenti a danno del popolo minuto.
Il miraggio di vaste proprietà strappate agli indigeni, di grandi raccolti di cereali impinguati da terre feconde, affascina un gran numero di poveri.
Alzare la vela significa per loro, in primo luogo, sfuggire alla fame.
Ma vi è un’altra carenza altrettanto grave: il mondo greco è incapace di vivere in modo autarchico.
Non possiede né il grano, né i minerali grezzi, né il legno che gli sono necessari; ma produce in eccedenza vino, olio e oggetti di lusso.
Fondare una colonia significa stabilire un emporio dove gli scambi con i barbari si moltiplicano; significa permettere quel commercio senza il quale la vita in Grecia si anemizza.
Certo simili preoccupazioni non sono di vitale importanza, ma s’impongono abbastanza presto ad alcune città, abili nel trarre profitto da una congiuntura in apparenza sfavorevole.
A questi motivi permanenti se ne aggiungono a volte degli altri più passeggeri.
Nelle lotte delle fazioni che dividono la città, i vinti cercano fortuna altrove, come le api che sciamano: così dei messeni scacciati dai loro compatrioti partecipano alla fondazione di Reggio.
A volte sono uomini finiti, criminali che vanno in esilio: bastardi spartiati nati durante la prima guerra di Messenia e incapaci di sopportare il loro discredito sociale colonizzano Taranto; Archia lascia Corinto in seguito a un omicidio per diventare ecista di Siracusa.
Per molti la colonizzazione è solo il solo mezzo per strapparsi agli scontenti, ai rancori, al maltrattamenti o alle punizioni che li attenderebbero se restassero in patria.
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Il gruppo di coloni forma fin dall’inizio uan nuova città, le cui istituzioni sono spesso ricalcate su quelle della madrepatria (Taranto possiede un’apella come Sparta), ma gode di un’indipendenza politica assoluta.
Non vi è nulla, almeno all’inizio, che possa preannunciare la colonizzazione europea dell’epoca moderna o contemporanea: le colonie sono altrettanti Stati greci totalmente autonomi. D’altra parte non vengono rotti tutti i legami con la metropoli (questo termine non si è ancora indebolita e mantiene per intero il suo significato di “città madre”).
I coloni conservano il dialetto della loro città d’origine donde lo strano paradosso che il miscuglio dialettale della Grecia si estende fino ai confini del Mediterraneo, seguendo le vicende dell’espansione.
Essi portano seco anche i loro dèi, che installano sulle acropoli continuando nel medesimo tempo a onorarli coll’invio di ambascerie religiose in Grecia per le grandi festività.
Se uan colonia “sciama” a sua volta, generalmente richiede per deferenza l’ecista alla metropoli: così Reggio ha un fondatore originario di Calcide e non di Zancle.
Ritroviamo in questa creazione così originale che è l’espansione arcaica, sia la passione per la libertà sia la forza del legame religioso, caratteristiche dello spirito greco.
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Il passaggio dalla Grecia in Italia, favorito dalla lunga catena delle isole ioniche, non è affatto arduo.
Alcuni navigatori vi si erano avventurati fin dai tempi degli achei e il ricordo dei loro vagabondaggi e delle loro agenzie commerciali sopravvive sia nei racconti che riguardano Odisseo e in parecchie tradizioni mitiche relative soprattutto a Enea, Eracle e Oreste che nei numerosi insediamenti nei quali si trovarono dei vasi micenei.
L’interruzione delle “età oscure” non fece sparire le prime colonie in cui, forse fin dal secolo 14., si erano stabiliti dei greci, ma ogni contatto tra i due bacini del Mediterraneo si interruppe.
Era compito degli arditi pionieri dell’inizio del secolo 8. riaprire il mondo italico ai greci.
La caratteristica più evidente delle installazioni dei greci in Occidente è l’estrema disorganicità delle iniziative: all’inizio si tratta solo di imprese individuali e incoerenti di coloni che desideravano innanzi tutto sfuggire al soffocamento delle metropoli.
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Per molti aspetti, e in particolare per la sua prosperità, l’Occidente greco ricorda la Ionia.
Ad Ovest e a Est della Grecia povera si trovano delle terre ricche e rese ancora più prospere del commercio.
Le città s’ingrandiscono in fretta e di pari passo si coprono di monumenti.
Così Siracusa, all’inizio confinata nello spazio augusto dell’isola di Ortigia presso la graziosa fontana Aretusa, , raggiunge la terra ferma.
I coloni amano ostentare una ricchezza conquistata senza troppa fatica e non disdegnano le gioie di una esistenza condotta fra i piaceri, della quale i sibariti restano per noi il simbolo.
Questa pingue civiltà non manca di attrattive: già Archiloco cantava Siri come l’incarnazione della grazia e della bellezza.
Ma si è parlato anche di un gusto da “parvenus”, da nuovi ricchi, in questa America dei tempi arcaici, la cui città-fungo amano un po’ troppo il colossale e l’ostentazione.
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Si può facilmente capire quanta importanza dovettero avere i problemi spirituali di una tale civiltà.
Si scopre una costante preoccupazione per l’oltretomba, a proposito della quale si può parlare di un’influenza del mondo etrusco, ossessionato dal destino dell’anima dopo la morte.
Filosofie d’ispirazione mistica, come il pitagorismo, trovano qui il terreno più adatto.
La religione ellenica stessa assume forme abbastanza originali: gli dèi greci vengono identificati con certe divinità locali, di solito Grandi Madri dispensatrici di fertilità e fecondità.
Nei particolari regna una grande varietà.
Era è particolarmente onorata in Italia, soprattutto l capo Lacinio, presso Crotone, e a Posidonia (sia nel vasto recinto sacro della città, sia nel santuario alla foce del Sele, dove alcune metope rappresentano cosi di danza sicuramente legati a vecchi riti agresti); Demetra è la dea più importante della Sicilia, e le tradizioni locali situano perfino ad Enna, nel cuore dell’isola, il ratto di sua figlia Core; Atena Iliaca ha un santuario famoso a Siri e Persefone a Locri; a Erice Afrodite viene identificata con un’antica divinità indigena, senza dubbio già trasformata da influssi fenici.
In Occidente dunque, dove registra così splendidi successi, la civiltà greca resta fondamentalmente fedele a se stessa fin nelle peggiori aberrazioni: si pensi in particolare alla distruzione totale di Sibari per opera di Crotone nel 511, che dimostra l’orribile risultato delle lotte mortali tra città vicine.
Tuttavia la grecità assume a volte forme diverse a contatto con le civiltà indigene.
Si è parlato di un’”arte coloniale” (nello stesso senso, per esempio, in cui vi è un’arte coloniale iberica nell’America del Sud), e si potrebbe soprattutto parlare di una religione coloniale, poiché in questo campo si nota un’atmosfera nettamente diversa da quella della Grecia o dell’Anatolia contemporanee.
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Tra le terre che sono poste sulle rive del Mediterraneo solo il Magreb sugge ai greci a profitto dei semiti di Fenicia o di Cartagine (ancor che si parli di modesti tentativi ellenici di Tunisia).
Ma la Cirenaica e l’Egitto, già raggiunti dal commercio acheo, vedono svilupparsi delle basi greche.
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Il caso dell’Egitto è radicalmente diverso.
In questo regno di antica civiltà, con una popolazione densa e spesso xenofoba, è impossibile per i greci stabilire colonie di popolamento.
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Alla fine dell’epoca arcaica nessuna città del Ponto ha ancora uno sviluppo di primo piano.
Se Olbia testimonia fin dalla fine del secolo 6., delle preoccupazioni urbanistiche (pianta a scacchiera), che appariranno a Mileto solo dopo il 479, come se le colonie aprissero la strada alle metropoli, d’altra parte i rari edifici che ci restano di questo periodo sono tra i più modesti (tempio senza colonne a Istro).
Le tecniche economiche sono ancora rudimentali, poiché nessuna citta conia delle monete prima del 5. secolo.
In questa regione non vi è nulla di simile alle grandi creazioni della grecità in Occidente, soprattutto vi sono pochissime sculture.
Nondimeno i greci posero piede su di una vasta area costiera che emerse dalla barbarie, e vi gettarono le basi di un prospero commercio.
La loro influenza si allarga anche ad una zona abbastanza estesa verso l’interno, nelle steppe boscose in cui abitano già gli antenati degli slavi.
Un frammento di ceramica locale della fine del secolo 7. che porta scritto in greco “Tu mi estrarrai a sorte”, fu ritrovato a Nemirov, a trecento chilometri dalla foce del Bug; alcuni vasi a figure nere penetrano fino a Kursk, nel cuore delle Terre Nere.
Lo sviluppo e l’ulteriore prosperità delle colonie del Ponto non si spiegherebbero senza il coraggio dei Milesi, che cinsero il Mar Nero con le loro colonie.
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Le metropoli, soffocate dalle lotte intestini o, ed è il caso più frequente, dalla scarsezza del loro territorio, vedono allentarsi la stretta, benché la concorrenza dei prodotti delle colonie aggravasse a volte temporaneamente il malessere sociale.
In ogni modo l’economia riceve un prodigioso stimolo dalla sovrabbondanza di materie prime e dal moltiplicarsi dei mercati.
Le città coloniali sviluppano una civiltà molto viva, la cui originalità balza agli occhi.
Essa deriva in minima parte dai contatti che si stabiliscono con gli indigeni, che danno per esempio ai culti di Sicilia e della Magna Grecia un carattere spiccatamente locale.
Proviene invece soprattutto dalle diverse condizioni, che sono proprie del nuovo mondo.
Nelle città in cui non esiste per definizione alcun genere di tradizione, si può pensare e agire senza essere impacciati dai vecchi schemi: i primi legislatori appaiono in Occidente: ed è anche là che vengono concepiti dei vasti complessi architettonici per onorare gli dèi meglio di quanto si potesse fare nei santuari modesti della Grecia e che si edificano città dalla pianta a scacchiera.
I coloni però sono troppo orgogliosi di essere greci e disprezzano troppo i barbari per abbandonare del tutto le tradizioni della propria razza.
ne resta a conferma il nome stesso di Magna Grecia dato alla regione in cui, unitamente alla Sicilia, i loro successi sono splendidi: l’Italia meridionale.
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Le imprese coloniali ebbero come prima conseguenza quella di diffondere la civiltà greca molto lontano dalle sue basi native.
In Sicilia i contatti sono particolarmente stretti; vediamo le piccole comunità siciliane dei dintorni di Gela rinunciare progressivamente al loro modo di vivere primitivo e adottare quello delle poleis.
L’Etruria, in cui tutte le tombe rigurgitano di vasi greci (a tal punto che nel secolo scorso venivano chiamati “etruschi”) si trasforma profondamente; la sua confederazione di dodici città imita la dodecapoli ionica.
Anche nelle regioni in cui la densità dei coloni è scarsa, come nel Ponto, in Gallia o in Iberia, almeno l’aristocrazia locale si abbandona alle seduzioni di una cultura superiore.
In questo vasto movimento nulla è più significativo della diffusione della scrittura in Italia.
Il frazionamento politico spiega la molteplicità dei tentativi, che hanno però tutti come base gli alfabeti greci occidentali.
L’alfabeto messapico è quello siculo hanno dei modelli ellenici.
L’alfabeto etrusco, che appare sopra una tavoletta d’avorio di Marsiliana verso il 700, deriva senza dubbio da quello dei calcidesi di Cuma.
A loro volta gli alfabeti “nord-etruschi” (nord della penisola) e gli alfabeti veneto, osco, umbro, falisco e latino derivano anch’essi dal greco.
L’alfabeto latino, il cui più antico documento è la pietra nera del Foro (fine del secolo7.?), elimina progressivamente gli altri.
Se ricordiamo il suo ruolo nell’elaborazione della civiltà europea, siamo obbligati a riconoscere come un fenomeno capitale l’espansione rapida dell’alfabeto greco occidentale, che, direttamente o tramite gli etruschi, conquista a poco a poco tutta l’Italia avida di scrittura.
Paradossalmente la civiltà greca si espande, in particolare in Occidente, molto lontano dalle sua basi.
Le regioni celtiche più interne hanno rivelato numerosi oggetti greci, e soprattutto la Francia orientale e la Renania.
Con ogni probabilità essi vi furono importati da Marsiglia, dato che il tramite etrusco è poco probabile nel secolo 6. e la via danubiana troppo lunga.
Le tombe della Borgogna, della Franca Contea, dell’Alsazia e della regione renana contengono delle oinocoe di bronzo, per esempio a Kappel-am-Rhein (Baden) e Vilsingen (Württemberg), e numerosi vasi a figure nere, nell’oppidum del monte Lassois (vicino a Chatillon-sur-Seine), a Camp de Chateau (Giura), alla Heuneburg (Württemberg).
Il più bel cratere arcaico in bronzo fu ritrovato nella tomba di una principessa gallica a Vix (Cote-d’Or) insieme ad una mirabile fascia per capelli, d’oro.
Se il percorso compiuto dall’arte greca resta misterioso, esso ne dimostra tuttavia l’incomparabile prestigio di un mondo celtico che così si riallaccia alle fonti più pure della civiltà mediterranea.
Gli artisti indigeni adattano al gusto celtico le forme e i motivi importati.
Le tecniche edilizie si modificano: alla Heuneburg muri e bastioni in mattone crudo su di uno zoccolo di pietra testimoniano incontestabilmente influssi ellenici.
In Spagna la diffusione della civiltà ellenica è particolarmente rapida nel paese di Tartesso e su tutta la costa orientale.
Appaiono tre sistemi di scrittura a metà strada tra la scrittura sillabica e l’alfabetica, che uniscono gli influssi semitici e greci.
Lo stesso sincretismo si ritrova nei primi tentativi dell’arte iberica nei dintorni di Cadice (secolo 7.): avori, bicchieri d’argento, gioielli d’oro, candelabri di bronzo.
Qui però l’apporto orientale introdotto dai fenici sembra essere più forte.
Ma gli inizi della grande arte plastica, che ben presto raffigura un ricco bestiario, attirano l’attenzione sul mondo ellenico e soprattutto sulla Magna Grecia, dove si trova in particolare il modello dei tori androcefali tanto cari agli iberi.
Tra l’Impero acheo e la conquista di Alessandro, l’espansione arcaica testimonia con grande evidenza la vocazione propria della grecità di spingere sempre più lontano le sue conquiste economiche e spirituali.
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Cap. 5. Le innovazioni spirituali
Questo modo così vario, in cui tutte le regioni ebbero un’evoluzione altrettanto rapida, conserva però una profonda unità, almeno in un campo, quello della civiltà spirituale, costantemente rinnovata dai viaggi incessanti dei poeti, dei pensatori e degli artisti da una città all’altra.
Ciò nonostante l’Asia greca, grazie al vantaggio che deve alla sua organizzazione economica e alla sua prosperità, mantiene ancora il primato.
L’impressione più viva è quella di un’intensa potenza creatrice, un poco esuberante e disordinata: un popolo giovane elabora leggi del suo pensiero e del suo modo di sentire, inventa il suo vocabolario letterario e artistico, precisa le sue relazioni con il mondo degli dèi.
L’emozione diretta e potente che non cessiamo di provare davanti a un poema o una statua del periodo arcaico è originata dalla giovinezza e dal dinamismo di una civiltà che, senza raggiungere ancora la raffinata serenità del classicismo, cerca se stessa e, a poco a poco, si scopre.
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Vi è anche un fenomeno, quasi contemporaneo, che segna un progresso decisivo nella formazione dello spirito ellenico: la nascita della speculazione in Ionia, sotto le due forme che noi chiameremmo filosofia e scienza.
A facilitarla sono i contatti stabiliti, in particolare a Mileto, con il pensiero orientale babilonese o egiziano.
Ma essa è anche “figlia della città” (J.-P. Vernant), perché nasce in un universo spirituale del tutto differente dall’ambiente di palazzo dell’Oriente, dove resta un fatto di sottomissione al re.
La polis invece è un mondo secolare che ammette rapporti di parità tra i cittadini e prende come base una legge (nomos) uguale per tutti.
Da ciò derivano delle concezioni del mondo fondate sull’equilibrio e lo scontro delle forze naturali, poiché il nomos è, etimologicamente, una “ripartizione” tra gruppi o individui che si affrontano e trovano un equilibrio.
La spiegazione cosmologica tradizionale, che presupponeva un intervento degli dèi ed era in definita fondata su genealogie, non è più considerata sufficiente.
Ormai lo spirito umano vuole contare soltanto sulle proprie forze per interpretare l’universo scoprendo il principio primo (physis) e unico che lo individua.
E’ all’audacia dei “fisiologi” (coloro che ricercano la natura delle cose) della scuola di Mileto che si deve l’elaborazione dei primi sistemi filosofici.
Talete, forse un cario ellenizzato (fine del secolo 7. – inizio del 6.), ebbe il ruolo di iniziatore.
Suo insegnamento era che il principio generatore originale di tutto è l’acqua.
Questa spiegazione ricorda alcuni miti egiziani o babilonesi, ma la differenza essenziale sta nel fatto che il mito, nel caso della Grecia, è completamente laicizzato.
Il suo successore, Anassimandro (,età del secolo 6.), rinuncia a vedere nell’acqua la physis primordiale; al ricerca nell’Infinito (Apeiron) e spiega in che modo tutte le cose siano nate dall’Infinito, a causa della separazione di due principi opposti, il Caldo e il Freddo, avvenuta nel suo interno.
Infine Anassimene (seconda metà del secolo 6.) trova di nuovo il principio delle cose in una realtà percepibile: l’aria.
Secondo lui tutto nasce dalla condensazione o dalla rarefazione di questo elemento.
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Altri pensatori, si solito in questo Occidente, che a quel tempo costituisce quasi il secondo polo della filosofia greca, si discostano dal positivismo ionico.
Senofane, originario di Colofone, viaggiò molto e pare che infine si sia fissato stabilmente a Elea in Italia.
Non ebbe interesse per i sistemi audaci con i quali gli ioni tentavano di imprigionare la realtà.
Spirito caustico, critico accanito della mitologia tradizionale si appassionò per l’osservazione precisa: riconoscendo delle impronte di foglie nelle latomie di Siracusa, ne dedusse che una volta il mare doveva ricoprire tutta la superficie terrestre.
Ma è in veste di fondatore dell’ontologia, dunque come precursore della scuola eleatica, che esercitò la più grande influenza.
Secondo Aristotele (Metafisica, 986b) fu il primo ad “affermare, dopo aver volto lo sguardo verso l’universo nel suo insieme, che l’Uno è Dio”.
D’ora in poi il problema dell’essere ed il problema dell’Uno non cesseranno più di assillare il pensiero greco.
Con Pitagora invece non ci troviamo più di fronte all’opera geniale di un isolato: questo esule di Samo, rifugiatosi in un primo tempo a Crotone, vede accorrere intorno a sé degli uomini che ricercano la purezza e la verità.
Costoro formano una comunità, che viene ben presto espulsa dalla città ad opera di una fazione rivale, ma che si diffonderà in tutto il Mediterraneo, e in particolar modo in Occidente.
E’ difficile discernere nella magnifica fioritura del pitagorismo ciò che spetta al maestro da ciò che si deve ai discepoli, e ciò che è antico da ciò che è recente, o persino tardo.
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L’influenza del pitagorismo è considerevole e va molto al di là del periodo arcaico. In un Occidente appassionato dal problema del destino, il pitagorismo tenta di darne uan soluzione razionale, diversa dunque da quella delle regioni, alle quali si riavvicina tuttavia sia per il suo misticismo fondamentale sia per l’atmosfera delle sue confraternite.
Le nozioni di proporzione e simmetria, capitali del pitagorismo, non sono meno importanti nell’arte, che conquista in quel periodo i suoi mezzi espressivi dopo i balbettamenti del periodo geometrico.
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La manifestazione più evidente della nuova arte è la nascita di una architettura religiosa.
I templi avevano fatto una timida comparsa fin dal periodo geometrico, sostituendo generalmente dei santuari più semplici, la cui sola costruzione era rappresentata dall’altare.
D’ora in poi gli edifici religiosi si moltiplicano, fornendo agli dèi dimore solide e degne di loro.
Il tempio è infatti la casa del dio e non quella dei fedeli, che si accontentano di scorgere da lontano, attraverso la porta aperta, la divinità incarnata nella statua che la rappresentano, e di offrirle sacrifici sull’altare, posto di solito davanti all’entrata.
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Questi edifici sono composti unicamente da piattabande e piedritti, cioè da strutture rettilinee.
Ma tali elementi, e in particolare latrabeazione e il colonnato, non sono lasciati alla fantasia dell’architetto; obbediscono a rigidi canoni che ne regolano la forma, le proporzioni e la decorazione, e che vengono designati col nome tradizionale di ordini.
Vi sono due ordini, il dorico e lo ionico, che ebbero una elaborazione parallela fin dall’alto arcaismo e che, rimanendo immutati nelle linee essenziali, serviranno oramai da schema prima all’architettura greca, poi a quella romana e infine a quella rinascimentale.
Una simile sopravvivenza degli ordini, il cui carattere convenzionale è evidente, rende ancora più interessante il problema delle loro origini.
E’ necessaria un’osservazione preliminare: i primi templi erano costruiti in legno, fatto che spiega le caratteristiche più notevoli e in apparenza più illogiche, dell’architettura in pietra che ben presto si imporrà.
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Parlare della letteratura, dell’arte e perfino della filosofia arcaica significa già parlare di religione, il cui carattere più evidente sta proprio nel fatto che essa in questi anni informa tutta la vita.
Le principali innovazioni risalgono però all’epoca geometrica: nuovi dèi sono entrati a far parte del pantheon greco, si è stabilito un equilibrio tra divinità maschili e divinità femminili e la città in evoluzione ha fondato dei culti poliadi e costruito dei templi per proteggere gli idoli.
Il periodo arcaico non conosce dunque una vera rivoluzione religiosa, ma la rinascita della cultura greca e la sempre crescente prosperità permettono uno sviluppo armonioso della vita spirituale.
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Nello stesso tempo un potente movimento spirituale anima la religione, la sottrae al formalismo di riti e risponde alle nuove aspirazioni di una società meno primitiva.
Già in Esiodo si notava una certa tendenza a moralizzare gli dèi, che si consoliderà durante l’epoca arcaica.
Zeus in particolare diviene il garante della vita morale e il protettore per eccellenza della giustizia (considerata del resto come sua figlia), virtù fondamentale che s’impone progressivamente in questo periodo di violenti rivolgimenti.
La giustizia ignora ancora le raffinatezze della filantropia e sarà definita con ammirevoli formule sia da Eschilo che da Pindaro, eredi in questo campo della tradizione arcaica.
Quanto ad Apollo, egli favorisce a Delfi dei progressi ancora più importanti: presso il suo santuario la responsabilità personale si scinde da quella collettiva del genos e incomincia a prendere forma la nozione di purezza rituale e morale.
E’ questo un momento capitale, ci cui il filonomismo cede davanti all’ontonomismo, in cui le vecchie maledizioni legate alla razza non sono più considerate come definitivamente immutabili e in cui il rimorso può procurare il perdono dell’anima contaminata da un crimine.
Apollo e il fratellastro Eracle non diedero forse essi stessi l’esempio, purificandosi dall’omicidio di Pitone e dei suoi figli?
Tali acquisizioni furono certo lente, poiché Eschilo stesso dovrà ancora lottare per farle ammettere, ma vi fu una notevole evoluzione in confronto alle “epoche oscure” del Geometrico.
Ciò nonostante altre speranze seducono gli animi preoccupati di assicurarsi un’eternità felice.
I misteri di Eleusi rappresentano un fenomeno che va al di là delle vecchie liturgie agresti, e il culto di Dioniso non si esaurisce nelle danze dei Satiri: li anima la speranza della salvezza, che sta pure alla base di una dottrina notevolmente diffusa, a quanto pare, alla fine dell’epoca arcaica: l’orfismo.
Legata al nome prestigioso del cantore Orfeo, essa insegna che in ciascun uomo vi sono due elementi: l’anima, celeste, e il corpo, titanico.
L’anima viene liberata del corpo, sua tomba, dalla morte, ma, dopo un giudizio degli dèi sugli atti commessi durante la vita, essa conosce una nuova incarnazione, e così via finché, completamente purificata, accede alla felicità dei Beati.
E’ una dottrina esaltante, che si basa su una cosmologia notevolmente influenzata dall’Oriente e che suscita in tutto il mondo greco un’intensa ricerca di purezza spirituale.
Malgrado il lavoro di classificazione dei testi orfici che Onomacrito, pensatore troppo originale per piegarsi a questa collazione, compì per i Pisistratidi, è difficile conoscere bene questa dottrina, così come accade anche per il pitagorismo, dal quale si distingue malamente.
E’ invece possibile scorgere la profondità di questa corrente mistica nell’influenza che esercitò su spiriti come Pindaro e perfino come Platone.
Alla fine dell’epoca arcaica il mondo greco è frazionato in un mosaico di piccoli Stati indipendenti, morbosamente gelosi l’uno dell’altro e molto diversi a causa della posizione geografica e del grado di sviluppo.
Ma l’unità della Grecia non è meno evidente della sua varietà.
Si tratta già di un’unità culturale, che sarà definita da Isocrate in un famoso passaggio del Panegirico, 50: “Si usa il nome di greci non per indicare la razza, ma per indicare la civiltà”.
Nutriti dalle stesse poesie di Omero, infiammati dalle stesse ricerche letterarie o artistiche, uniti in quei focolari comuni che erano i grandi santuari, i greci presero coscienza della loro specificità e di tutto ciò che li differenziava dai barbari, la cui sorda minaccia incominciava ad avvicinarsi.
In questo mondo, animato da due secoli d’un dinamismo fervido e creatore, l’evoluzione diventa più rapida nel corso degli ultimi decenni del secolo 6. e le forme si diversificano.
La tragedia raggiunge una forma organica, i vasi a figure nere scompaiono cedendo il posto a quelli a figure rosse, il sorriso aggrazia i volti di pietra, la democrazia conquista Atene…
Le guerre persiane, giunte troppo tardi, non possono essere la causa di una così profonda trasformazione: esse appaiono piuttosto come una consacrazione.
Oramai conscia della sua potenza e della sua grandezza, mossa da un irresistibile slancio, la civiltà greca trova in se stessa la forza per compiere uno splendido rinnovamento.
Il confronto che si prepara e che sarà nello stesso tempo la più rude delle prove e la più dura delle vittorie, le fornirà solo altri modi per imporsi ed altre ragioni per affermarsi.
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Libro terzo. La fioritura del classicismo greco
Cap. 1. Atene padrona dell’Egeo
L’alba e il crepuscolo del secolo 5. sono cruenti.
Questo periodo si apre con il prodigioso ma breve confronto armato tra greci e barbari, e si chiude con l’interminabile guerra in cui, in una lotta fratricida, i greci consumano le loro forze più vive.
Tra questi due momenti vi sono i “cinquant’anni” (la Pentecontaetia), come dicevano gli ateniesi, che sono quelli dell’incomparabile trionfo di Atene.
Le guerre persiane sono originate direttamente dall’antagonismo tra due mondi in piena espansione.
Dopo la conquista del Medio Oriente per opera di Ciro, l’Impero persiano non aveva cessato sotto Cambise di crescere e sotto Dario di organizzarsi.
Il primo scontro tra persiani e greci avviene proprio in Asia, dove tutta la costa, greca da secoli, fu annessa da Ciro dopo la sua vittoria su Creso.
Pag. 247
Negli stessi anni i greci di Sicilia debbono affrontare un barbaro non meno terribile: i cartaginesi.
Questo sincronismo non è certo dovuto al solo caso, ma ad un trattato concluso tra Susa e Cartagine.
Anche in questa occasione gli elleni sono disuniti e Selinunte e Reggio combattono a fianco dei semiti.
Ma una volta ancora il trionfo dei greci è stupefacente: sulle rive del fiume Imera, Gelone di Siracusa riporta una vittoria dura ma decisiva su Amilcare (480).
I greci s’impadroniscono di un immenso bottino e fanno molti prigionieri, che permetteranno l’esecuzione di imponenti opere edilizie.
Poco dopo, (474) i siracusani battono anche gli etruschi davanti a Cuma.
Questi due successi, che possono essere considerati una rivincita di Alalia, permetteranno ai greci d’Occidente, che si sono momentaneamente sbarazzati dei loro rivali, di raggiungere uno splendido sviluppo.
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Per la prima volta alcune città greche, che non rappresentano affatto tutte le forze della piccola Grecia e ancor meno quelle del mondo greco, hanno messo a tacere le vecchie e recenti discordie per difendere ciò che per esse è il bene supremo: la libertà.
La sorprendente vittoria che riportano non può essere spiegata in altro modo.
Contro di loro stava un solo uomo libero, il Gran Re, alla testa di un popolo di schiavi: soldati che andavano in battaglia sotto la minaccia della frusta, marinai ionici resi passivi dalla spaventosa repressione della rivolta della loro patria, uomini che presto si accorgeranno di lottare contro fratelli.
Pur non avendo molto rilievo per la Persia, Maratona, Salamina e Platea sono date capitali nella storia greca: un popolo che non vuole morire né decadere trova salvezza nel coraggio, nell’abnegazione e nell’unità.
Unico momento di armonia nella perpetua discordia di un mondo internamente diviso.
Pag. 252
La Grecia esce trasformata dalla spaventosa prova.
Il suo equilibrio stesso ne è sconvolto, poiché una città che fino ad allora ha avuto un ruolo secondario passa in primo piano.
E’ come una sferzata che aiuta gli ateniesi a ripudiare le numerose strutture arcaiche ancora sopravviventi nel loro Stato.
Non sono essi costretti anche a pensare e a realizzare del nuovo, dal fatto che tutta la loro città, violata due volte dai persiani, è solo più un ammasso di rovine?
Senza scusarli, possiamo capire il complesso di superiorità da cui saranno d’ora innanzi animati.
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All’indomani della vittoria, le città dell’Egeo vivono nel terrore di un ritorno dei persiani.
Cercano volentieri l’appoggio di Sparta, che esercita l’egemonia nella lega ellenica creata nel 481 contro i barbari; ma la grande città dorica è stanca degli intrighi tirannici del suo re Pausania e degli attriti con gli alleati.
Teme inoltre le conseguenze, a lungo andare funeste, delle spedizioni in terre lontane, che avrebbero potuto rovinare la stabilità politica e sociale a cui aveva tutto sacrificato.
Si ritira dunque spontaneamente dalla lotta, lasciando campo libero ad Atene.
Questa mossa presuppone implicitamente una ripartizione, tra la terra, che Sparta si riserva, e il mare, che lascia invece alla giovane e dinamica Atene.
Pag. 253
Da molto tempo ormai la confederazione è solo più una finzione.
Atene è ora abbastanza forte per smettere il doppio gioco.
Nel 454, con una decisione simbolica, essa trasferisce sull’acropoli il tesoro federale di Delo.
La simmachia diventa un impero (arché).
Nel 449 la pace di Callia mette fine alle guerre persiane con un compromesso tra Atene e il Gran Re: la clausola più importante è il riconoscimento dell’autonomia delle città greche d’Asia da parte della Persia.
La confederazione sembra perdere la sua ragion d’essere, che era la lotta contro i barbari, e infatti pare che il tributo non sia stato riscosso nel 449, almeno per quanto riguarda alcune città.
Fin dall’anno 450 però esso viene imposto di nuovo e Atene rafforza l’organizzazione dell’Impero con alcune misure unilaterali prese dall’ekklesia.
In una data molto discussa (senza dubbio 449-448) il decreto di Clearco proibisce di battere moneta in tutto il territorio dell’archè e vi impone le monete, i pesi e le misure ateniesi.
Nel 448-447 il decreto di Clinia stabilisce un sistema rigoroso con tavolette e sigilli per la riscossione dei tributi.
Infine l’Impero viene diviso in cinque distretti per facilitare la riscossione delle imposte.
A partire dall’anno 444 il tesoro federale serve non solo a mantenere l’esercito e la marina, che assicurano la pace nell’interesse generale, ma anche a sovvenzionare la costruzione dell’Acropoli.
Pericle può proclamare orgogliosamente, rispondendo alle rivendicazioni degli alleati sostenuti dall’aristocratico Tucidide, figlio di Melesia, che le città che non contribuiscono in nulla alla difesa comune, non hanno diritto di protestare contro l’utilizzazione dei fondi del phoros decisa dall’ekklesia.
Si registrano nuove rivolte, ma tutte in ordine sparso: l’Eubea nel 446, Samo nel 441.
La flotta è abbastanza potente da sottomettere gli insorti.
Vengono create nuove cleruchie nelle isole che si trovano lungo la rotta capitale degli Stretti: a Calcide e ad Eretria dopo la loro rivolta; in Asia minore, dove succedono alle guarnigioni ateniesi che vi erano mantenute prima della pace di Callia; infine e soprattutto, con la creazione di Brea e poi di ANfipoli, in Tracia, regione vitale per Atene dal punto di vista economico, che viene penetrata sempre più dall’influenza attica fino alle tribù odrisie delle pianure bulgare.
Pag. 256
Se si pensa inoltre che il privilegio – fondamentalmente legato, agli occhi dei greci, all’autonomia – del conio delle monete, fu soppresso in tutte le città dell’archè, appare chiaro che nell’insieme gli ateniesi si comportarono nei confronti dei loro “alleati”, divenuti in realtà loro sudditi, con estrema disinvoltura, talvolta con spietata tirannia.
Viene allora spontaneo da domandarsi come la democrazia e l’imperialismo possano essere compatibili nello spirito degli ateniesi, dato che essi mostrano di lasciarsi guidare solo dalla ragione, come risulta dai discorsi che Tucidide mette in bocca a Pericle.
Notiamo in primo luogo che la concezione greca della libertà è molto differente da quella che ci ha imposto l’ideologia della Rivoluzione francese.
Per i greci non esisteva l’idea kantiana della reciprocità dei doveri e dei limiti imposti all’autonomia degli uni dal rispetto dell’autonomia degli altri: la libertà si manifestava solo nell’azione e, precisiamolo, nell’asservire gli altri.
J. Larsen ha giustamente sottolineato che anche le piccole città agirono in questo campo come Sparta e Atene, consumando per secoli le loro forze più vive in sterili lotte per derisori spostamenti di frontiera.
Inoltre i più idealisti tra gli ateniesi si consolarono, forse, pensando che l’estensione dell’Impero avrebbe comportato anche ‘estensione della democrazia e dimenticando che la democrazia delle città dell’archè era una democrazia “di facciata” irrimediabilmente mutila?
Ma c’è di più.
La democrazia ateniese è imperialista per sua stessa natura e non per caso.
Essa mira ad assicurare innanzi tutto una vita decente ai cittadini, anche ai più poveri.
Questa diffusione del benessere è possibile solo grazie a una politica di grandi lavori sovvenzionati dal tributo, con la moltiplicazione delle colonie militari, che non possono stabilirsi senza la confisca delle terre più ricche degli “alleati”, e che permettono ai teti di accedere al censo degli zeugiti.
La mistoforia, base fra le più sicure della democrazia politica, presuppone che Atene disponga di notevoli introiti, quali solo l’Impero può assicurarle.
Leggendo i discorsi di Pericle nei testi di Tucidide, si resta spesso coliti dal vero e proprio cinismo che vi domina senza alcun pudore.
Gli ateniesi erano certo in buona fede, mentre sfruttavano a proprio vantaggio i fratelli delle isole o dell’Asia.
Tucidide, con la lucidità che gli è abituale, ha messo in luce i fondamenti di questo imperialismo, che si scatena con la virulenza ancora maggiore durante la guerra del Peloponneso: gli ateniesi hanno dalla loro la forza, devono perciò impiegarla; ispirano ai propri sudditi una violenta paura e devono dunque mantenerli in questo stato di dipendenza psicologica.
Molto tempo prima che la riflessione di alcuni sofisti sviluppasse una specie di amoralismo nietzschiano, i democratici del tempo di Pericle, eredi degli aristocratici contemporanei di Cimone, lo praticavano già largamente.
Pag. 257-58
L’Atene del secolo quinto deve tutta la sua potenza e il suo prestigio all’Impero, che seppe conquistare e che sfruttò a proprio esclusivo vantaggio; ma i rancori, i risentimenti, gli odi suscitati dalla durezza di cui diede prova, la condurranno infine alla rovina.
Essa perirà per aver spinto all’eccesso le sue pretese di ottenere l’egemonia marittima, quell’egemonia che per lungo tempo le aveva procurato grandezza e prosperità, per essersi dimostrata incapace di sviluppare fra gli alleati il sentimento di appartenenza a una comunità dalla quale anch’essi potessero trarre giovamento, e per aver concepito un sistema politico in cui la democrazia generava, come sua condizione necessaria, l’imperialismo.
La disfatta finale fu causata dall’impossibilità di conservare indefinitamente uan tale potenza, per cui potesse sempre imporsi con la forza; persino il lucido Pericle fu tanto cieco da non prevedere l’ineluttabile svolgimento dei fatti.
Gli alleati mormoravano, senza volersi rendere conto degli incontestabili vantaggi che Atene procurava loro.
La pace regnava nell’Egeo, i barbari rimanevano sulle difensive, i prodotti affluivano e il commercio non avvantaggiava esclusivamente gli ateniesi, poiché non avevano instaurato alcun monopolio; l’unità del sistema monetario metteva fine a un disordine secolare e facilitava gli scambi.
Atene poi dava il grande esempio di una città in cui tutto il demos partecipava agli affari pubblici, il diritto diventava più umano e le più sontuose processioni e i più bei santuari celebravano la gloria degli dèi, mentre visi davano convegno tutti i pensatori e gli artisti.
Essa divenne, secondo la splendida definizione con la quale Pericle esagerava un poco la gloria della sua patria, “la scuola della Grecia” (Tucidide, 41).
Sorse allora uno strano antagonismo tra Atene, che rifiutava di ammettere la sua fondamentale ingiustizia, e gli alleati, che non volevano riconoscere la fine della guerra del Peloponneso perché essi possano scuotersi di dosso il detestato giogo e accorgersi ben presto che le altre egemonie non erano più sopportabili di quella ateniese.
Pag. 258-59
Invano il comico Cratino dileggia “il cranio a forma di cipolla marina” di Pericle, o attacca Aspasia, “l’impudica concubina dall’occhio di cagna”.
Invano i nemici cercano di colpirlo indirettamente intentando processi ai suoi amici, ad Anassagora, a Fidia, ad Aspasia, prima di avere il coraggio di trascinare anche lui in tribunale.
Con la sua alta statura egli domina un secolo che per noi porta giustamente il suo nome.
Certo le sue concezioni sono necessariamente molto lontane dalle nostre.
Abbiamo già sottolineato quanto fosse egoista questa democrazia che fonda la propria libertà sull’asservimento e lo sfruttamento degli altri.
Bisogna aggiungere che il regime di Pericle non è, sotto diversi aspetti, molto diverso da una tirannide.
Alle parole di Cratino sopra “il più grande dei tiranni” fa eco la conclusione di Tucidide (2., 65): “In apparenza si tratta di democrazia, in realtà del governo di un uomo solo”.
Dobbiamo tuttavia riconoscere l’interesse di questa prima esperienza di “socialismo di Stato” (G. Glotz), ispirata sia all’idea che ci si può rivolgere liberamente al popolo e trascinarlo con la seduzione dell’intelligenza, che alla teoria del Nous di Anassagora, secondo cui la Ragione umana è la sola capace di organizzare la vita politica.
Sul Partenone figurano a più riprese gli dèi e gli eroi ordinatori del cosmo contrapposti alla barbarie dei Giganti, dei Centauri o delle Amazzoni, ed anche il levarsi degli astri la cui luce inonda il mondo.
Ispirati all’universo mitico o naturale, sono i simboli doppiamente evidenti di una grande speranza che illumina per la prima volta la Grecia.
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Nel 431 scoppia un nuovo conflitto tra Atene e i Peloponnesiaci.
In apparenza non è che la continuazione della lotta finita soltanto nel 446 con una pace ambigua.
In realtà invece, l’atmosfera è cambiata radicalmente: i successi e l’orgoglio degli ateniesi esasperano le città rimaste indipendenti; inizia una lotta mortale, di quasi trent’anni, nella quale ciascuno fa un uso disperato delle proprie energie: si calcola che Atene abbia mobilitato il 29 per cento della sua popolazione (in epoca moderna; guerre rivoluzionarie, 3 per cento; guerra del 1914-18, 10 per cento).
Nulla di strano dunque che ne esca fiaccata per sempre.
Ma Atene ha fiducia nelle proprie forze e Pericle, senza usare la minima prudenza, sembra deciso a giungere a una prova di forza per approfittare degli incontestabili successi riportati negli ultimi decenni.
I due primi incidenti (questioni di Corcira e di Potidea) la pongono a confronto diretto con Corinto, al città maggiormente offuscata dal trionfo economico della rivale.
Quindi provoca Megara con un decreto intollerabile, che la condanna a sicura rovina impedendole l’accesso ai mercati dell’Impero.
In un congresso della Lega peloponnesiaca riunitosi a Sparta, la guerra viene virtualmente decisa sotto l’energico impulso ei corinzi.
Ma Tucidide (1., 3) nota giustamente che la “causa vera” del conflitto è da ricercarsi nell’urto dell’imperialismo intransigente di Atene contro la volontà d’indipendenza e gli interessi commerciali di qualche città rimasta autonoma.
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Ma il nuovo rispetto dei diritti dell’individuo non è più compatibile con la condotta di una guerra imperialista.
Pericle aveva potuto imporre l’egemonia ateniese perché tutta la città era unita attorno a lui in una forte coesione.
Gli uomini politici che gli succedono – si pensi per esempio ad Alcibiade – sono i primi a dare esempio di indisciplina e di egoismo.
La città crolla nel 404, per non aver voluto scegliere tra la via relativamente austera della potenza, che presuppone il sacrificio di tutti alla causa comune, e la via dell’armonioso sviluppo dell’individualità del cittadino.
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Cap. 2. Il secolo di Pericle o il sorgere dell’età dei lumi
La storia politica del secolo quinto dimostra che Atene non riuscì mai a eliminare i propri rivali e che alla fine dovette soccombere sotto i loro attacchi.
Ciò nonostante, malgrado la durezza e le incongruenze di un imperialismo che noi condanniamo non solo a causa del suo fallimento, la città di Pallade è il fulcro di una civiltà che costituisce una delle più belle realizzazioni dello spirito umano.
E’ ad Atene che si riuniscono tutti i greci dotati di capacità creative nelle diverse attività dello spirito e si elabora un’arte la cui pacata nobiltà non cessa d’imporsi all’ammirazione e all’imitazione.
l’Acropoli, che un giorno fu abbandonata da Atena e sulla quale si onorarono successivamente Gesù e Allah, resta il centro ideale dove si ritrovano tutti coloro che non disperano delle capacità dell’uomo.
Vi è infatti un legame sottile ma chiaro tra il quadro urbano disposto attorno alla collina santa, l’affresco così umano di Erodoto, la tragedia sofoclea delle serene rivolte, il riso sfrenato di Aristofane, gli dèi olimpici di Fidia, il netto grafismo dei vasai del Ceramico e il “demone” di Socrate.
Al centro di tutto vi è un umanesimo che la famosa massima di Protagora riassume solo parzialmente: “L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono” (Platone, Teeteto, 152a).
Questa sinfonia si svolge in tre movimenti, che corrispondono a tre generazioni.
All’epoca delle battaglie di Maratona e di Salamina, una nuova Grecia nasce all’improvviso dalle rovine delle guerre persiane, ancora piena di contrasti, ma che fa già trionfare il suo classicismo.
L’apogeo di Pericle traduce l’euritmia di un mondo che ha trovato un effimero equilibrio.
La guerra del Peloponneso riporta tutte le inquietudini, ma la crisi stessa favorisce lo sboccio delle creazioni più feconde.
Eschilo, Sofocle ed Euripide sembrano quasi riassumere tale evoluzione.
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La caratteristica più evidente della prima generazione è la severità.
Si parla spesso di “stile severo” a proposito delle creazioni della plastica o della ceramica del primo quarto del secolo, ma l’espressione è altrettanto valida per la letteratura contemporanea.
La cultura si libera molto lentamente dal terribile periodo durante il quale viene messa alla prova e dovette, per sopravvivere, approfondire le sorgenti delle sue convinzioni e cercare nuove ragioni di fede nel proprio destino e nei propri dèi.
La transizione è più o meno rapida a seconda dei doversi campi dell’arte, e non bisogna credere che le guerre persiane siano l’unica spiegazione di un movimento che in realtà è anteriore ad esse e solo parzialmente conseguente.
Eschilo e Pindaro scrivono prima del 490 e lo sviluppo della ceramica di stile severo a figure rosse è insensibile, dopo la sua apparizione.
La scultura può forse mostrare una cesura più netta.
Appare abbastanza improvvisamente, malgrado le transizioni, un preclassicismo che rompe con le tradizioni del periodo tardoantico.
Ad ogni modo, notiamo in ogni campo un nuovo sforzo diretto a cogliere l’assoluto atemporale invece dell’aneddoto, a dare all’uomo una sua dignità, e anche un’aspirazione, fino ad allora sconosciuta, verso l’ordine e l’armonia.
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Sui campi di battaglia i greci vinsero solo perché gli dèi combattevano con loro.
A Maratona come a Salamina si videro gli eroi dell’Attica lottare a fianco degli ateniesi.
Il fervore religioso, così caratteristico dell’inizio del secolo, si spiega con gli stretti legami che uniscono città e religione: i successi di Atene rappresentano il trionfo di Atena e degli dèi olimpici.
D’altronde l’olivo sacro dell’Acropoli, pegno dell’alleanza tra la dea e il suo popolo, non rispuntò forse dopo esser stato tagliato dai Persiani?
Ma se questa prova testimonia il soccorso degli dèi, mostra anche quanto siano temibili le potenze soprannaturali.
Benché fervida, la pietà resta contaminata dall’angoscia.
Pindaro (Nemee, 6., 1) sottolinea violentemente la trascendenza del divino: “Una è degli uomini una è la stirpe dei numi”.
Eschilo vive in un mondo di angoscia, sul quale incombe il destino, più potente delle divinità stesse.
Ma in generale domina l’ottimismo.
Gli dèi sono più delle potenze indifferenti al bene e al male.
Zeus, la cui nobile figura primeggia sempre più nel pantheon, è per Pindaro come per Eschilo il garante della giustizia.
L’uomo può confidare in lui, a patto che accetti il suo destino e rinunci all’hybris, la mancanza di misura unita alla violenza, che è la negazione stessa della condizione umana.
Il teatro di Eschilo sviluppa un’idea assai curiosa per noi: gli dèi stessi si sono evoluti.
Zeus inizia con le bravate abominevoli di un tiranno, ma nell’ultima tragedia, che non abbiamo, della trilogia si riconcilia con Prometeo.
Quest’ultimo, a sua volta, non è più l’uomo scaltro di Esiodo, le cui astuzie si rivolgono alla fine contro l’umanità stessa, ma un dio che ama infinitamente l’uomo e che accetta di morire per i suoi protetti: un’anticipazione del Cristo, come è stato detto senza esagerazioni.
Il mondo divino è certo preda di antagonismi che ricordano quelli della città, ma si rivolgono in armonia.
L’Orestiade contiene un’ammirevole lezione: le vecchie dee della vendetta, le terribili Erinni, queste cagne violente che si abbeverano di sangue, diventano le Eumenidi (Benevole), mentre una nuova generazione olimpica, quella di Apollo e di Atena, impone una morale fondata sulla purificazione, la contrizione, il perdono del colpevole penitente.
Le teomachie terminano con il trionfo della concordia; i raggi della speranza illuminano non solo l’iniziato di Eleusi ma anche il cittadino che si rivolge alle divinità poliadi.
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A poco a poco insensibili transizioni liberano il classicismo dal preclassicismo.
L’angoscia si placa, gli dèi diventano olimpici come lo era Pericle, Atene fa trionfare ovunque lo spirito attico.
Indiscutibilmente tutto ciò è riflesso dell’equilibrio politico e sociale che si instaura in quegli anni e dura qualche decennio.
Ma, come quest’equilibrio, così anche la nuova armonia che si impone in tutti i campi è il risultato di uno sforzo doloroso: e potenze del male, se pur vinte, sono ancora presenti nei fregi del Partenone, e il tema della rivolta è al centro dell’opera sofoclea.
Già si preannunciano delle dissonanze, e basterà la scossa provocata dalla guerra peloponnesiaca per trasformare tutto il mondo greco.
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I generi drammatici che si ricolgono direttamente al demos hanno una parte essenziale nella letteratura greca.
La commedia, definitivamente organizzata dal punto di vista tecnico, conosce già il successo dovuto allo scandalo delle sue allusioni sfrenate all’attualità politica, e fin dal 440 le si dovrà proibire di mettere in scena dei personaggi viventi, ma senza ottenere obbedienza.
Di essa purtroppo ben poco ci resta, salvo qualche frammento e qualche nome, tra i quali quello di Cratino, che sembra essere, con la sua verve buffonesca, il miglior precursore di Aristofane.
La tragedia si pone su di un altro registro: continua ad interessarsi ai rapporti tra l’uomo e gli dèi.
Sofocle la riassume ai nostri occhi, benché Euripide abbia iniziato a produrre fin dal 455.
Egli sembra essere il modello dell’uomo felice: sempre vittorioso nei concorsi, ammirato dai concittadini a tal segno che gli affideranno l’incarico di stratega dopo la rappresentazione dell’Antigone, zelante adoratore degli dèi e come tale reputato il più degno ad accogliere Asclepio nella sua dimora, quando giungerà da Epidauro.
La sua tragedia mette in primo piano l’uomo padrone del proprio destino e non più vittima del cieco fato.
Il motore principale è la potente volontà dei protagonisti.
Contemporaneo dell’apogeo di Atene, prima che l’eccezionale longevità lo faccia assistere al declino della sua città, egli è testimone della nuova fiducia che anima il cittadino, oramai sicuro di poter dominare gli avvenimenti con la propria azione, come lo è anche dell’approfondirsi della riflessione morale, soprattutto quando nell’Antigone esalta “le leggi non scritte” della coscienza.
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Possediamo dunque grazie a Erodoto delle descrizioni piene di vita e di colore, e ciò non è poco; nondimeno sotto il cronista appare già lo storico.
La sua documentazione è vasta, tratta in parte dai libri (donde l’accusa di aver saccheggiato i predecessori, che gli vien mossa in particolare da Ecateo), ma ottenuta soprattutto col materiale accumulato durante inchieste e viaggi personali.
Non sarebbe giusto, dunque, rimproverargli di non aver compreso né letto alcuna lingua orientale e di essere perciò rimasto in balia di informatori e ciceroni locali.
Incontestabilmente credulo, egli si sforza di sottoporre a critica tutte le testimonianze pervenutegli e la sua imparzialità è evidente, anche se non nasconde un certo disprezzo per gli ioni e i tebani e una predilezione per gli ateniesi, in particolare per la famiglia degli Alcmeonidi.
Per quanto si interessi soprattutto alle cause secondarie e scorga l’elemento motore della storia essenzialmente nelle virtù e negli intrighi dei grandi uomini, egli non disdegna le cause prime e sottolinea chiaramente che l’origine vera delle guerre persiane deve essere ricercata nello scontro ineluttabile di due imperialismi.
Erodoto merita dunque ampiamente la gloria che Cicerone gli attribuisce indicandolo come “il padre della storia” (De legibus, 1., 1).
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Eraclito di Efeso, così pessimista da essere soprannominato il Melanconico, sembra ricercare il principio delle cose come i “fisiologi” del secolo precedente, e lo trova nel fuoco.
L’universo è per lui un eterno divenire e le massime in cui esprime questa dolorosa constatazione sono famose: “Tutto scorre”; “Non puoi tuffarti due volte nella stessa onda, perché sempre nuova acqua scorre su di te”.
Ma, immutabile fra questa mobilità, persiste il Logos che è legge del divenire, simboleggiata dal fuoco.
Il Conflitto (Polemos) anima l’universo, “padre di tutte le cose, re di ogni cosa” e genera paradossalmente l’armonia suprema, poiché è l’intima tensione che stabilisce i rapporti fra gli opposti (vita e morte, gioventù e vecchiaia, veglia e sonno, giorno e notte) e la forza che fa nascere un elemento dall’altro in un ciclo perpetuo.
In tal modo si ricompone l’unità fondamentale: “Dando ascolto non a se stessi, ma al Logos, è saggio riconoscere che il tutto è uno”, tanto che il profeta della mobilità universale e del conflitto incessante ritrova, al termine della sua meditazione, l’identità essenziale degli esseri e l’armonia del kosmos.
Nietzsche l’ha rilevato con vigore: “Ciò che Eraclito ha contemplato, la presenza della legge nel divenire, sarà ormai contemplato eternamente: è stato lui ad alzare il sipario su questo spettacolo sublime”.
E’ d’altronde comprensibile che i contemporanei, irritati per i suoi discorsi volutamente sibillini, spaventati da quegli abissi dell’Altro e dell’Uno che egli spalancava sotto i loro piedi, l’abbiano chiamato l’Oscuro.
Il mondo è altrettanto vario per Anassagora di Clazomene.
Esso risulta dalla combinazione di sostanze indivisibili.
Ogni cosa contiene, mescolati, i semi di tutte le cose, semi a cui Aristotele darà il nome do omeomerie (parti omogenee).
Un moto incessante tende a dissociarle, ma l’universo non ha fine poiché ogni cosa racchiude in germe l’infinità delle qualità.
In tal modo sono andate isolandosi le diverse parti del mondo in seno all’Infinito: l’umido e il freddo al centro, il secco e il caldo all’esterno.
Tutti questi moti che animano la materia sono resi possibili solo dall’esistenza, al di fuori di essa, di una causa pensante: il Nous o intelligenza, principio organizzatore del kosmos, il cui intervento ha messo ordine nel caos originario.
Anassagora lo concepisce come un movimento circolare, che crea a poco a poco un vortice col quale abbraccia lo spazio infinito, separando ad esempio gli astri e infiammandoli.
Sistema entusiasmante, che mette in luce la facoltà regolatrice e unificatrice dello Spirito in seno al disordine infinito delle qualità e di cui è nota l’influenza sulla politica di Pericle.
Non è difficile infatti comprendere l’amicizia fra i due uomini il cui idealismo si fonda su di un solido positivismo.
Anassagora seziona un montone con un solo corno nato in un gregge di Pericle, e rischia di essere trascinato davanti ai giudici per aver espresso l’opinione che il sole non è altro che una massa incandescente: nemmeno Atene è abbastanza matura per accettare l’audacia delle sue concezioni.
Leucippo di Mileto è anch’egli erede della tradizione ionica, che arricchisce con l’insegnamento di Zenone di Elea.
Alla fine del secolo un suo discepolo, Democrito di Abdera, ne accetta la cosmogonia, ma estende la propria riflessione alle discipline più diverse mostrandosi, per la quantità e la precisione delle sue osservazioni e per le ambizioni enciclopediche, il vero precursore di Aristotele.
Le grandi originalità di questi due filosofi consiste nell’ammettere che la materia è composta di particelle indivisibili, impenetrabili, piene ed infinite, a cui dànno il nome di idee e che sono dotate di differenze solo quantitative (grandezza, forma, posizione).
In seno al vuoto assoluto in cui esse si muovono il moto vorticoso crea degli aggregati secondo il duplice criterio della densità (che respinge verso l’esterno le più leggere) e della forma (che permette l’unione di particelle complementari).
L’anima stessa non sfugge al rigore di tale meccanismo: essa consta di atomi leggeri e sferici, simili al pulviscolo roteante in un raggio di sole e costantemente rinnovati dalla respirazione.
Ciò che colpisce è l’aspetto moderno di tale dottrina, non soltanto perché i suoi autori sono dei remoti precursori delle teorie atomiche del nostro tempo, ma anche perché è la prima volta che per rendere conto dell’universo non si fa appello ad alcun motore esterno come il Logo o il Nous.
Al positivismo ionico continua ad opporsi un razionalismo occidentale, più sensibile alla matematica che alla fisica, esprimentesi volentieri in forma mitica, assillato dal problema del fato e come tale suscettibile talvolta di una più larga espansione.
Il pitagorismo non perde il suo slancio creatore né il suo successo, ma deve ormai competere con Empedocle e i filosofi eleatici.
Il pitagorismo si diffonde largamente in Magna Grecia e nella Grecia stessa, dopo l’espulsione della setta da Crotone.
Avviene però una scissione tra le due tendenze, che coesistono nel pensiero del fondatore: gli acusmatici, , fedeli alla stretta osservanza della dottrina, formano delle vere e proprie confraternite religiose; i matematici, molto più laici, si sforzano di far progredire le scienze, specialmente l’aritmetica, la geometria e l’astronomia, per meglio scoprire l’armonia numerica immanente dell’universo.
Affiorano alcuni nomi, soprattutto alla fine del secolo e all’inizio di quello seguente, senza però che sia possibile far corrispondere ad ognuno di essi un’opera precisa: Filolao, eretico di genio, che oppone la nozione di relatività alle categorie troppo schematiche della tradizione pitagorica; Archita e Teeteto (inizio del secolo 4.), che consentono alla geometria di realizzare dei progressi decisivi facendola assurgere a una somma razionale “aumentando il numero dei teoremi e componendo un insieme più scientifico” (Proclo).
Empedocle d’Agrigento si avvicina a Pitagora per la forte personalità di “mago”, presto circondato da un alone di leggenda.
Vestito di porpora, percorre il mondo ellenico come un re o meglio come un dio, compiendo miracoli al suo passaggio.
Fraziona il monismo degli ioni affermando che vi sono quattro elementi, o piuttosto “quattro radici di tutte le cose” (fuoco, acqua, aria e terra), dottrina che detterà legge per secoli.
Due forze motrici agitano l’universo determinando scambi costanti fra gli elementi: l’Amore e l’Odio, che trionfano alternativamente nel corso d’una serie infinita di cicli.
Tale nozione di ciclo è altrettanto importante per l’anima umana: le anime colpevoli dovranno errare tre volte diecimila anni per redimersi attraverso la sofferenza.
In realtà una simile dottrina è fondamentalmente mistica: emulo di Pitagora, Empedocle afferma la necessità di astinenze e purificazioni, alle quali consacra un trattato.
Questo filosofo è al tempo stesso ingegnere, astronomo, fisico, biologo e taumaturgo.
Tale strano miscuglio di razionalismo e misticismo stona un poco in pieno secolo 5.: Empedocle ricorda piuttosto i pensatori arcaici, i “re filosofi” cari a Nietzsche, tanto più che il dualismo dei due principi motori, la teoria ciclica, le osservazioni rituali fanno pensare agli influssi orientali così decisivi all’alba del pensiero ellenico.
Empedocle porrà fine alla sua romantica esistenza di profeta gettandosi nel fuoco purificatore dell’Etna: i discepoli non ritroveranno che le suole dei suoi calzari, mentre la sua anima prenderà il volo nel fuoco universale.
Quella che si sviluppa a Elea sulle tracce di Senofane è un’autentica scuola.
Il suo maestro indiscusso è Parmenide (inizio del secolo 5.), di cui ci restano alcuni splendidi frammenti, coem l’introduzione al poema, in cui egli ci appare trasportato dal carro delle figlie del Sole verso la Giustizia che gli rivela la verità suprema.
Questa consiste nella realtà dell’Essere e nella non-realtà del Non-essere.
“Ti dirò, gli insegna la dea, quali siano le due sole vie concepibili per la ricerca: la prima, che è l’unica da seguire, è che l’Essere è, e che non è possibile che non sia; la seconda, un semplice sentiero di cui non ci si può fidare in alcun modo, è che l’Essere non è, e il Non-essere è necessario” (fr. 2).
L’Essere è identificato con una sfera perfetta, indistruttibile, immobile e finita.
Verso la metà del secolo Zenone di Elea riprende questa teoria dell’Essere uno e immutabile, dimostrando con le sue famose aporie (Achille e la tartaruga, la freccia immobile in pieno volo) le assurdità della tesi contraria.
Egli è dunque, secondo Aristotele, il vero fondatore della dialettica, il metodo di ricerca mediante la discussione che si imporrà presso la generazione seguente.
Melisso di Samo orienta invece la dottrina nel senso del pensiero ionico, attribuendo all’essere l’eternità e l’infinità.
Se dovessimo ricercare un carattere comune a dottrine così diverse, potremmo ritrovarlo solo nelle loro ambizioni, cosmologiche e ontologiche al tempo stesso: lo scopo che si prefiggono è di spiegare la nascita e l’evoluzione del kosmos; l’intento, quello du conciliare la diversità e l’unità del reale.
Eredi dirette delle filosofie arcaiche, si potrebbe in un certo senso considerarle come la continuazione di queste ultime in pieno secolo 5.
Comunque, fin dal 450, un nuovo indirizzo si fa luce in Grecia: un pensiero critico soppianta il dogmatismo degli ioni e degli occidentali; l’uomo prende il posto dell’universo e dell’essere al centro della speculazione.
E’ questa la rivoluzione portata dai sofisti, che studieremo all’epoca del suo trionfo definitivo.
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Nondimeno il programma costruttivo di Pericle sorpassa di gran lunga tutto ciò che era stato realizzato fino ad allora: il telesterion di Eleusi, i templi di Posidone al Sunio e di Nemesi a Ramnunte, senza contare, in Atene stessa, l’Odeon, i templi di Efesto e di Dioniso, oltre a una nuova sistemazione dell’acropoli.
Pericle ha la fortuna di avere in Fidia, che sarà il suo “soprintendente alla Belle Arti”, un collaboratore indispensabile.
Fidia si circonda di una schiera di artisti e concepisce un disegno generale destinato a trasformare la collina sacra in un incomparabile ponte tra gli uomini e gli dèi.
Nessuna durezza nella disposizione degli edifici e nei loro rapporti, ma una sapiente mescolanza di dorico e di ionico nella quale grazia e severità si uniscono armoniosamente.
Qualcuno (W. Lawrence) ha pensato che il grande artista abbia voluto fare dell’Acropoli la rivale delle acropoli persiane su cui s’innalzano i palazzi dei Grandi Re, quasi per meglio sottolineare le differenze che separavano una civiltà di uomini liberi da una civiltà di schiavi.
Voluto o no, il paragone s’impone: da una parte la dimora di un despota orientale, che schiaccia con il suo potere un mondo di schiavi sottomessi, dall’altra la dimora degli dèi tutelari, ai quali Atene soggiace con tanta maggiore facilità, in quanto essi raffigurano lo Spirito nella sua forma più perfetta.
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A partire dal 430 (ammesso che sia possibile stabilire una data per un mutamento così lieve) una crisi scuote il mondo ellenico; essa si manifesta tanto nei mutamenti che subisce la vita quotidiana, quanto nell’evoluzione del teatro, della scultura, della ceramica o nelle trasformazioni delle credenze religiose.
Le creazioni dello spirito non sono meno brillanti di quelle della generazione precedente, ma l’inquietudine succede alla serenità, il dubbio alla certezza, la ricerca all’equilibrio.
Due cause indipendenti spiegano quest’evoluzione generale.
La più appariscente è la guerra del Peloponneso, lo scontro in cui la potenza di Atene vacilla lungamente prima dello sfacelo e in cui si assiste al declino del suo equilibrio politico, sociale ed economico, ben prima del disastro del 404.
Ma vi è di più, poiché in molti campi la trasformazione è anteriore al conflitto.
Un gruppo di pensatori, rompendo con una tradizione vecchia di quasi due secoli, distoglie la loro attenzione dai problemi cosmologici ed ontologici per trasferirla sull’uomo: la loro critica corrosiva contribuirà a infrangere le vecchie strutture.
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E’ difficile dare un giudizio obbiettivo su tale movimento filosofico.
Nulla di più nobile infatti di questo sforzo, il primo in ordine di tempo nella storia umana, di sottoporre qualsiasi convinzione ai lumi della ragione.
Va ricordata tra l’altro una sentenza di ippia che, rifiutando gli antagonismi su cui è fondata la società greca, considera tutti gli uomini “come dei consanguinei e dei concittadini secondo natura, se non per legge” (cfr. Platone, Protagora, 337c).
Ciò non toglie tuttavia che la sofistica abbia dei punti deboli: a dispetto delle apparenze umanistiche traspare un gran disprezzo per l’uomo: esso si manifesta nell’indifferenza verso ogni norma morale, nell’affermazione che il “ragionamento ingiusto” h alo stesso valore che “quello giusto”.
Anche al di fuori di tali eccessi, la sofistica agisce come un acido corrosivo, poiché investe le credenze fondamentali, lungamente elaborate nel corso dei secoli precedenti, su cui poggiavano le città, la morale, la religione.
Nata dal dubbio, essa non fa che consolidarlo e portarlo alle conseguenze estreme: molto prima delle crisi del secolo seguente, la nozione di polis, fondata sul rispetto della legge, sulla sottomissione cieca dell’individuo alla collettività, sulle distinzioni arbitrarie esistenti tra cittadino e straniero, tra uomo libero e schiavo, tra greco e barbaro, si sgretola il contatto dei corrosivi argomenti della sofistica.
Ci troviamo di fronte al trionfo dell’individuo, dell’uomo che ha come sola arma la ragione contro gli imperativi dello Stato e della tradizione.
Lo stesso movimento fa la sua apparizione, alla medesima epoca, in India e in Cina, dove altri sofisti predicano una dottrina analoga.
Si tratta già dell’Aufklarung, con la sua potenza distruttrice e la sua incontestabile saggezza.
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Il messaggio di Socrate non è meno misterioso dei motivi della sua condanna.
lo conosciamo solo indirettamente attraverso gli scritti di un discepolo troppo stolido e di un altro troppo geniale.
Non essendovi nulla di comune tra le testimonianze di Senofonte e quelle di Platone, se non l’ammirazione per il maestro, non ci dobbiamo stupire che i moderni abbiano fornito di lui dei ritratti così profondamente diversi.
La sua dottrina, se ne ebbe una (del che è lecito dubitare, quando si osservi che l’edonismo dei cirenaici e il misticismo ascetico di Platone lo rivendicano entrambi), si riduce per noi a pochi enunciati.
Egli dà la preminenza all’uomo “facendo scendere la filosofia dal cielo in terra”, secondo il motto di Cicerone (Tusculanae, 5., 4), fa suo il detto di Delfi: “Conosci te stesso”, distorcendolo d’altronde dal suo significato puramente morale per affermare la necessità di un’azione fondata sulla riflessione e sull’introspezione; proclama che “nessuno fa il male volontariamente”, conferendo all’intellettualismo etico la sua espressione più pura.
Afferma i diritti dell’irrazionale; cade in estasi un giorno intero durante l’assedio di Potidea e dà ascolto a quel suo misterioso “demone” (voce della sua coscienza, oppure forza soprannaturale distinta?), che gli impedisce di compiere azioni nefaste.
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Aristofane resta la voce del popolo, benché disprezzi le novità di cui il popolo si nutre.
Euripide è un pensatore orgoglioso che, per quanto imbevuto del nuovo pensiero, ottiene solo cinque volte il primo posto con le sessantotto opere che presenta e preferisce, ormai alla fine della vita, lasciare l’ingrata Atene per la corte di Pella.
Nessuno più di lui porta il segno di quest’epoca, non soltanto perché la sua opera pullula di allusioni precise che fanno la gioia dei commentatori moderni, ma anche e soprattutto perché ne esprime tutte le inquietudini.
Non possiede alcuna dottrina, alcun sistema paragonabile a quelli dei suoi predecessori, inoltre sembra divertirsi a ritrattare in un’opera quel che aveva enunciato in un’altra.
S’interessa alla ricerca e all’analisi, non all’elaborazione di una metafisica o di una morale di cui fissare le norme di volta in volta.
Tale atteggiamento gli è imposto non solo dalla sua natura, dalla sua intelligenza sottile ed eccessivamente fluida, incapace di fissarsi, ma anche dalla educazione ricevuta dai sofisti, che gli hanno insegnato a discernere in tutto il pro e il contro.
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Atene infatti ha fornito una produzione così esuberante, che non si potrebbe certo rimproverarle di dare qualche segno di stanchezza, tanto più che, da generosa maestra, ha largamente diffusa i suoi benefici in tutto il mondo greco e barbaro.
Quando nel 404 suona per essa l’ora dell’inevitabile decadenza, aveva già da più di trent’anni liberato gli spiriti dai pregiudizi atavici, creato nuove forme d’arte e di letteratura, più umane e più aggraziate, concepito uan religiosità più commossa e mistica.
Socrate prenderà ben presto le parti dello Spirito contro la stupidità e la mala fede.
Sono già poste tutte le linee principali per un nuovo classicismo meno rigido e più commosso.
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Cap. 3. L’età delle egemonie, 404-323
Se il secolo 5. si presenta ai nostri occhi come profondamente unitario grazie all’azione di Atene, il 4., che si ferma d’altronde per noi alla morte id Alessandro nel 323, è invece un’epoca di antagonismi.
Tre città importanti appaiono abbastanza potenti per aspirare all’egemonia, pur essendo in realtà troppo deboli per conservarla.
Una crisi molto grave scuote inoltre la Grecia, che sembra affetta da sclerosi e incapace di riformare le sue istituzioni, d’imprimere uno slancio nuovo all’economia e di risolvere i problemi sociali.
Filippo di Macedonia fornisce in modo realistico la dimostrazione del principio, così caro alla filosofia greca, della superiorità dell’uno sul molteplice.
Alessandro potrà allora trascinare la Grecia, unificata e resa schiava da suo padre, in una prodigiosa epopea, destinata a propagare la civiltà greca fino ai limiti del mondo conosciuto.
In pochi anni quegli stessi greci che mendicavano i sussidi del Gran re e dei suoi satrapi diventeranno i signori dell’Oriente.
Ben pochi periodi storici sono così scoraggianti come il mezzo secolo che intercorre tra la caduta di Atene e l’entrata in scena di Filippo di Macedonia.
L’Ellade è divisa dalla rivalità implacabile di Sparta, Tebe e Atene, il cui solo pensiero è quello d’imporre la propria autorità.
Le prime due non esitano a umiliarsi davanti al Gran Re pur di assoggettare più facilmente la Grecia, malgrado il forte movimento panellenico di cui è testimone la letteratura di quell’epoca.
Tali egemonie non sono che ridicoli castelli di carta e le lotte misere ed assurde che provocano avranno un unico risultato: infrangere l’unità dell’Ellade, che saprà opporre solo futili velleità alla fredda determinazione di Filippo.
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L’anno 404 rappresenta una rottura nella storia greca.
Atene, vinta ed umiliata, cade sotto il giogo della tremenda tirannide dei Trenta che, installatisi con la complicità di Sparta, ridurranno il corpo civico a soli tremila cittadini.
Tuttavia già nel 403 la democrazia riprende il potere: una riconciliazione generale ha luogo e durante l’arcontato di Euclide (403-402) si assiste a una notevole opera di riordinamento della costituzione.
A Sparta l’artefice principale della vittoria, Lisandro, cade in disgrazia, il che favorisce il trionfo del re Argesilao 3. di cui Senofonte ci ha lasciato un ritratto estremamente lusinghiero: coraggioso, instancabile, magnanimo, pieno di rispetto per le leggi della propria patria, incapace di qualsiasi ambizione personale.
Effettivamente egli incarna le più belle virtù di Sparta che, pur conservando le sue brillanti qualità di energia, sta morendo, perché non sa scegliere la strada delle riforme e ignora ogni altro principio d’azione che non sia la violenza, ogni altro movente al di fuori dell’interesse più egoistico.
Sono noti alcuni nobili detti di questo re, come ad esemio l’apostrofe per i diecimila nemici uccisi a Corinto: “Sventurata Grecia, hai perduto degli uomini che ti avrebbero assicurato la vittoria nella lotta contro i barbari!”; ma questo spirito panellenico non resiste alla prova dei fatti.
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Nel 355 Atene è ancora la città greca più importante e più ricca, ma ha perduto ormai il suo vantaggio essenziale: l’appoggio delle città che avevano stretto volontariamente alleanza con lei e che, deluse, si sono di nuovo staccate con la forza.
Comunque né essa, né le sue rivali, Sparta e Tebe, possono realizzare l’unificazione dell’Ellade, impoverita e demoralizzata, per contrastare il pericolo che sovrasta e che neppure i più perspicaci sembrano scorgere.
In realtà gravi minacce si stanno profilando contro l’autonomia della Grecia, ma non provengono dall’Oriente.
Sorgono in Macedonia, dove l’anno precedente un giovane sovrano ha preso il potere.
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Dopo che Archelao era stato assassinato dal suo favorito (400-399), la Macedonia aveva trascorso un periodo di crisi.
Aminta 3., salito al trono dopo un periodo di torbidi segnato da un’orrenda serie di delitti, aveva proseguito la lotta per assoggettare i vassalli del paese alto ed aveva condotto abilmente una politica oscillante tra le diverse città greche.
Alla sua morte (370) i due figli maggiori regnarono uno dopo l’altro: Alessandro 2., ucciso per ordine dell’amante di sua madre, Euridice, una principessa tutta presa dai piaceri dei sensi e dalle ambizioni personali; quindi Perdicca 3., che trovò la morte in una grande battaglia contro i popoli dell’Illiria, vicini turbolenti che mettevano in pericolo la frontiera settentrionale.
Nell’anno 359, la situazione è molto grave.
Il figlio di Perdicca, Aminta, troppo giovane per regnare, vede il trono conteso da diversi pretendenti.
L’ultimo figlio di Aminta 3., Filippo, prescelto come tutore di suo nipote, sa imporsi con una tale autorità che tre anni dopo soppianta il suo pupillo, senza incontrare alcuna resistenza e viene proclamato re.
Filippo ha solo ventitré anni quando diventa reggente, ma possiede già una grande esperienza: ostaggio a Tebe, ha frequentato Epaminonda, per il quale nutriva la più viva ammirazione; in seguito ha governato una provincia macedone.
La sua vita privata è molto dissoluta e i suoi avversari non hanno difficoltà a rinfacciarli un amore eccessivo per il vino e per le donne.
Tutti però sono d’accordo nel riconoscere le sue doti politiche: del tutto privo di scrupoli, egli sa alternare abilmente la forza e la diplomazia.
Possiede ugualmente i due doni antitetici dell’energia nell’azione e del temporeggiamento nel corso dei negoziati.
Pag. 324
Ma la sua forza principale rimane l’esercito, a cui dedica un’attenzione particolare, assecondato da un incomparabile capo di stato maggiore, il fedele Parmenione.
La coscrizione obbligatoria gli consente di arruolare contingenti notevoli per un paese la cui popolazione raggiunge forse gli ottocentomila abitanti.
La Macedonia viene suddivisa in circoscrizioni militari, ognuna delle quali fornisce tre unità, una di cavalleria, una di fanteria pesante e una di fanteria leggera.
Durante il combattimento la varietà di questi elementi assicura una grande agilità di manovra; ma l’innovazione più importante è indubbiamente costituita dalla falange, raggruppamento di unità della fanteria pesante armata con la sarissa, una lancia lunga da 5 a 7 metri a seconda della fila.
Senza avere ancora quel carattere massiccio e compatto che assumerà nell’epoca ellenistica, la falange è uno strumento idoneo a contenere l’avversario e a sgominarlo mediante l’autentico muro di ferro opposto dalle sarisse protese: con essa Filippo conquisterà la Grecia e Alessandro sottometterà l’Asia.
Pag. 325
Come Bismarck con i tedeschi [Filippo] vuole trascinare i greci in una grande spedizione comune, destinata a cementarne l’unione.
Una volta ancora il panellenismo gli mostra la via, suggerendogli l’idea di una crociata contro i barbari.
Attaccando la Persia si vendicheranno dunque gli affronti di Serse, e ciò tanto più facilmente in quanto dopo l’assassinio di Ochos il trono è nelle mani di un principe la cui autorità è vacillante, Dario 3. Codomano.
Ma durante le nozze della figlia Cleopatra, un etero, Pausania, uccide Filippo con una coltellata.
Si trattò di vendetta personale, oppure del gesto di un sicario armato da Olimpiade, la moglie del re, stanca di essere trascurata, o piuttosto dal re persiano?
Cosa sarebbe accaduto, comunque, dell’opera immensa di un uomo abbattuto nel pieno delle forze e della gloria?
La vittoria di Filippo non la si può spiegare solo con le funeste divisioni dei greci.
L’equilibrio numerico delle forze in lotta non condannava ineluttabilmente le poleis a inchinarsi davanti al Macedone, ma esse dovevano trovare in se stesse le risorse necessarie per resistergli.
Ora, sia politicamente, sia sul piano sociale ed economico, la polis è scossa fino nelle sue basi tradizionali: la crisi della polis è, al tempo stesso, causa ed effetto del trionfo di Filippo.
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Ci serviremo in particolar modo dell’esempio di Atene, il solo che conosciamo abbastanza bene grazie al gran numero di testi letterari e filosofici.
Possiamo tuttavia supporre che l’evoluzione sia stata la stessa anche nelle regioni in cui l’oligarchia era la forma di governo tradizionale (Sparta, Tessaglia) e in quelle dove esisteva una democrazia moderata (Beozia).
Due cause principali sono all’origine di tali sconvolgimenti: i nuovi rapporti instauratisi tra città e campagna, e la perdita di una parte dei clienti esterni, essenziali per la Grecia incapace di vivere in modo autarchico.
Pag. 332
Tuttavia alcuni fattori di recessione fanno già sentire i loro dannosi effetti.
Da un lato il Pireo non ha più l’incontestabile monopolio di cui godeva nel secolo 5.
I porti dell’Anatolia, sottomessi dall’Impero persiano, hanno infatti ritrovato la loro antica prosperità, specialmente Efeso, che detronizza definitivamente Mileto.
Rosi, Cizico e Bisanzio diventano ricchi empori.
Ma c’è di più.
Il mercato esterno tende a ridursi, a causa dello sviluppo industriale di paesi fino ad allora sottosviluppati che si procuravano ad Atene tutti i prodotti di lusso.
Pag. 335
La città, smembrata da questi due blocchi, si sta disgregando.
Si parla spesso dell’affievolirsi dello spirito civico e tale fattore non deve essere sottovalutato ma è sia la causa che l’effetto del progressivo tramonto della città.
In realtà quest’ultima aveva già cessato di esistere molto tempo prima di sprofondare politicamente sotto i colpi dei macedoni.
La polis era in origine un corpo unitario, in cui ciascun membro era pronto al sacrificio supremo, cosciente di fare parte integrante d’una comunione di diritti e d’interessi.
Ma chi oserebbe ancora parlare d’uguaglianza di diritti in una società in cui gli uni hanno tutto ce gli altri nulla?
Paradossalmente, ognuna delle due classi si sente minacciata dall’altra: i poveri non possono accontentarsi degli oboli, dei misthoi e del teorico; i ricchi non riescono a godersi tranquillamente i propri beni, sempre minacciati o decurtati.
Alla volontà comune che formava l’essenza della polis si è sostituita da ambo le parti la cattiva volontà.
Atene non è la sola a soffrire di questo male che la corrode.
Il massacro dei ricchi di Argo fornisce una prova eloquente degli odi di classe.
La sparta degli Uguali è diventata un mostro d’ineguaglianza.
Talora sorgono dei tiranni che promettono al popolo la spartizione delle terre o il condono dei debiti e non esitano a fare appello agli schiavi, pur di consolidare il loro potere.
Tale minaccia, che in realtà è solo latente, induce Filippo ad esigere dai greci la promessa di non procedere a una liberazione degli schiavi che avrebbe rischiato di sovvertire l’ordine esistente.
Davanti a questa rovina della città, provocata da una rottura dell’equilibrio economico e sociale alla quale non avevano attribuita molta importanza, gli uomini politici e i pensatori trovano in generale solo delle soluzioni parziali, ma non sanno rinunciare al principio stesso della polis.
Alessandro darà il colpo di Grazia alle poleis, ma la conquista dell’Oriente fornirà una soluzione provvisoria all’asfissia economica e agli antagonismi di classe che soffocavano la Grecia.
Pag. 337
Nell’anni 336, alla morte del padre, Alessandro ha vent’anni.
A tredici anni, Filippo l’aveva posto sotto la guida di Aristotele.
Il ragazzo ascolta con fervore le lezioni di un maestro onnisciente: legge Pindaro, Erodoto, Euripide, facendo tesoro di una cultura profondamente ellenica e scoprendosi un amore per la filosofia che non lo lascerà più.
A sedici anni gli viene affidata la reggenza durante una spedizione di Filippo, il che gli permette di iniziarsi all’esercizio del potere.
Malgrado un momentaneo disaccordo col padre, si riconcilia con lui e come figlio maggiore è proclamato re dall’esercito quando Filippo soccombe sotto il pugnale di Pausania.
Inizierà allora un regno di dodici anni e mezzo, destinato a sconvolgere totalmente la situazione dell’Ellade e del mondo orientale.
Pag. 337-338
Molte sono le esegesi fornite dagli storici circa la partenza di Alessandro.
Gli uni lo vedono desideroso di sottrarre ai barbari le colonie dell’Anatolia e di vendicare i patimenti sopportati dai greci durante le guerre persiane, altri invece bramosi di diffondere in Oriente la civiltà ellenica.
Altri infine, con più realismo, pensano che gli stesse a cuore continuare l’opera paterna e che non volesse abbandonare l’esercito di diecimila uomini inviato in Asia da Filippo al comando del Parmenione, allora sul punto di essere gettato a mare.
Consolidare l’unione precaria del regno di Macedonia con la lega di Corinto appare inoltre come uno dei suoi fini principali.
Senza dubbio nessuna di queste ragioni è trascurabile; notiamo però che Alessandro desidera anche far rivivere i ricordi dell’Iliade, formando una coalizione europea contro l’Asia.
Inoltre egli è animato dalle stesse idee di Serse: come già fece il sovrano orientale, egli compie a Troia dei sacrifici in onore di Atena e degli eroi omerici e getta in mare dalla sua nave una coppa d’oro per Posidone.
Il figlio di Dario aveva implorato Elio di concedergli che nessun ostacolo gli impedisse di raggiungere i confini dell’Europa, Alessandro vuole apparire come l’anti-Serse e dà al suo programma iniziale un’ampiezza non certo minore: il primo gesto che compie arrivando al suolo asiatico, è di conficcarvi la propria lancia per farne una “terra conquistata con la punta della lancia”.
Sembra dunque dominato dal sogno, o piuttosto dal progetto d’una monarchia universale fin dall’inizio della sua spedizione.
L’Oriente soccomberà sotto i colpi di Alessandro, perché questi porterà in sé lo slancio irresistibile di un dio.
Pag. 340
All’eredità lasciatagli dal padre, nel consistente regno di Macedonia e nell’egemonia sulla lega ellenica.
Alessandro ha aggiunto la totalità (e forse anche più) dell’Impero achemenide, qual era all’epoca della sua massima estensione sotto Dario 1.
Nessun conquistatore aveva mai riunito un così grande numero di province sotto il proprio scettro, né portato le armi così lontano dalla patria.
Per spiegare tali successi non basta pensare alla forza militare del giovane Stato macedone, al valore dei soldati greci, al disfacimento della monarchia achemenide e alla debolezza e viltà di Dario Codomano.
Si rimane del resto meravigliati davanti all’esiguità dei contingenti che hanno consentito ad Alessandro di compiere la conquista del mondo: forse quarantamila uomini al momento dello sbarco, centoventimila in India, ottantamila alla sua morte.
Sempre presente ovunque, instancabile alla testa della sua cavalleria (così ce lo rappresenta il mosaico della battaglia di Arbela), Alessandro stimola con il proprio esempio l’ardore dei soldati mentre li guida con perizia di un grande capitano.
Inoltre questo intrepido cavaliere, questo condottiero esperto e grandissimo capo sa mostrarsi un organizzatore di genio.
Pag. 345
Questa politica di collaborazione è completata da un’altra, più ambiziosa e totalmente nuova.
Alessandro non accoglie affatto l’ideale panellenico: non intende assoggettare e umiliare il barbaro, ma fonderlo con il greco in un insieme armonico in cui ognuno abbia la sua parte.
Quale mezzo migliore per ottenere tale fusione dell’incremento dei matrimoni misti?
Il re stesso dà l’esempio sposando dapprima Rossane, la figlia di un nobile della Sogdiana, quindi tre principesse persiane.
In una sola giornata la maggior parte dei suoi generali e diecimila uomini della truppa si uniscono con donne indigene in una splendida cerimonia.
Contemporaneamente egli fa educare alla greca trentamila bambini iranici.
Pag. 345
Sul punto di lasciare Babilonia, Alessandro muore improvvisamente, dopo alcuni giorni di agonia (323).
Voci vergognose circolano sul conto di parecchi dei suoi familiari, ma non c’è da stupirsi che la malaria abbia avuto ragione tanto rapidamente di un organismo indebolito dalle orge, dalle cavalcate, dalle veglie notturne, consacrate allo studio, e di un corpo segnato dalle cicatrici.
Dodici anni e mezzo di regno.
Sarebbe troppo facile concludere con un bilancio negativo: inutili violenze, eccessi, di un despota in preda alle delizie dell’hybris; ostilità dei greci resi inquieti dalla proskynesis (adorazione) e più ancora dalla fusione delle razze, a cui avrebbero preferito il duro asservimento dei vinti; enorme vastità geografica di un Impero che non sopravviverà al suo creatore.
Eppure tutte queste tare innegabili non pesano molto in confronto a tutte le novità che egli apporta, concezione d’una monarchia autocratica, dominazione greca sull’Egitto e sull’Asia, fondazione di centri urbani fin nelle più lontane satrapie, compenetrazione delle civiltà ellenica e orientale.
Alessandro va alla conquista del mondo portando con sé un’Iliade postillata dal maestro Aristotele, ma questo eroe leggendario è anche un novatore di genio che respinge la differenza tra il greco ed il barbaro, base dell’ellenismo classico, in favore di un ideale più generoso di unità e di umanità.
Egli fornisce la prova più eloquente di quanto sostiene Plutarco: vi sono dei momenti in cui un grande uomo imprime una svolta al corso della storia.
E’ comprensibile l’ammirazione di un Pirro o di un Cesare per l’eroe che, a soli trentadue anni, muore dopo aver creato un mondo nuovo.
Pag. 356-47
Benché i greci vi si fossero installati in modo più saldo, anche la Sicilia e la Magna Grecia sono esposte alla minaccia dei barbari come le più isolate colonie dell’estremo Occidente.
La pressione barbarica non fa che accentuarsi sia in Sicilia, dove i cartaginesi riprendono l’iniziativa dopo quasi mezzo secolo di calma, sia in Italia, dove i popoli indigeni, spesso organizzati in confederazioni potenti e bellicose (prima i lucani, poi i bruzi), si rivelano più pericolosi degli etruschi oramai in piena decadenza.
Anche qui però il male endemico, rimane la discordia ra le città, le cui conseguenze sono altrettanto funeste che in Grecia.
Ciò nonostante un energico tiranno riuscirà a unire sotto il suo comando uan parte notevole dell’Occidente greco, che si desta dal lungo letargo e ritrova un nuovo periodo di splendore.
Negli anni successivi alla sua morte, avvenuta nel 367, tutto il mondo occidentale greco comincerà a incrinarsi, preannunciando il crollo finale e la conquista da parte di Roma nel secolo seguente.
Pag. 349
Dopo il 367 inizia tuttavia l’ineluttabile declino dell’Occidente, dove innanzitutto alle lotte intestine fra le città.
A Dionisio il Vecchio succede il figlio Dionisio il Giovane, un debosciato che preferisce dare ascolto agli allettamenti edonistici di Aristippo di Cirene piuttosto che fondare, con Platone, uno Stato filosofico.
Dopo un periodo di anarchia in cui tutte le città ritrovano la propria indipendenza, Siracusa fa appello alla metropoli, Corinto, che invia Timoleonte, un uomo giusto incaricato di metter fine alle mene dei tiranni.
Pag. 351
Concludendo, ciò che colpisce di più nella storia del secolo 4. è la forza degli elementi tradizionali e in particolare l’attaccamento alla polis, nonostante tutte le tare che l’evoluzione ha portato a questa istituzione.
Soltanto le iniziative individuali sono state capaci di allargare questo microcosmo chiuso che si ripiegava amaramente sulle proprie contraddizioni interne: l’Oceano rivela il segreto delle sue maree e delle sue terre lontane a Eutimene e Pitea; l’Asia cede i suoi tesori e s’abbandona ad Alessandro.
Esploratori e conquistatori saranno, fin dalla seconda metà del secolo, i pionieri di un universo più aperto, quello dell’epoca ellenistica.
Pag. 352-53
Cap. 4. Il secolo di Platone o l’avvento del misticismo
Il secolo 4. è difficile da analizzare perché dominato dall’inquietudine.
Il complesso delle istituzioni rimane almeno in apparenza stabile e l’uomo è ancora, secondo la famosa definizione aristotelica, “un animale politico”.
Ma le posizioni tradizionali hanno subito scosse profonde e le città sono già indebolite internamente molto tempo prima di soccombere all’attacco irresistibile del macedoni.
L’economia stessa cede a una lenta asfissia.
Allora l’uomo si pone degli interrogativi.
Non perde la speranza di trovare soluzioni razionali ai suoi problemi politici, il che è tipicamente ellenico, e il fattore economico rimane come tale al di fuori delle sue speculazioni.
Filosofi come Platone o Aristotele sviluppano un pensiero prettamente politico ed è lecito supporre che ai loro occhi esso abbia la medesima importanza di quello metafisico.
Inoltre la letteratura politica propriamente detta, che fa la sua comparsa dopo il secolo 5. con la Repubblica degli ateniesi dello Pseudo-Senofonte, assume con Senofonte e Isocrate uno sviluppo considerevole.
Tuttavia i tentativi impiegati per costruire una polis ideale rivelano come quella reale non riesca più a sopravvivere: queste utopie sono una delle prime manifestazioni della fuga dinanzi al concreto.
Al mondo reale viene a sovrapporsi un mondo ideale.
Il filosofo vi ritrova il modello delle realtà sensibili, l’artista cerca di raggiungerlo al di là delle dubbie apparenze, lo stesso uomo del popolo vi aspira dal profondo della propria coscienza.
Una nuova ondata di misticismo si riversa sulla Grecia: esso ha la sua origine in parte negli ultimi agitati decenni del secolo 5. e nella predicazione di Socrate, ma conoscerà una nuova dimensione grazie al genio di Platone.
Pag. 354
La letteratura ci offre la testimonianza più eloquente dei nuovi interessi.
La tragedia languisce, perché si ostina a svolgere gli stessi temi davanti a un pubblico sempre più indifferente.
La commedia resiste meglio al logorio che minaccia tutti i generi drammatici sorti con la democrazia e con essa declinanti, ma troverà la sua vera fisionomia solo verso la fine del secolo.
Le uniche a sopravvivere sono le opere in prosa di un certo tipo, i cui fattori comuni sono l’orientamento pragmatico verso l’azione e la cui forma è in generale l’oratoria.
Pag. 355
L’eleganza dell’atticismo riappare con Senofonte e Isocrate, ma in un contesto del tutto differente: quello della propaganda politica.
Questi due ateniesi hanno in comune non soltanto una certa diffidenza nei confronti dell’ideale democratico della loro patria, ma anche l’aspirazione ad orientare l’opinione pubblica nel senso delle loro idee con gli scritti, dal momento che si tengono al di fuori dell’attività politica.
Entrambi dimostrano d’altronde con i mutamenti del loro pensiero quali difficoltà incontrassero degli spiriti lucidi nell’intricata situazione della Grecia.
Quanto al resto, tutto separa Senofonte, uomo d’azione che trascorre la maggior parte della vita fuori d’Atene, da Isocrate, logografo e maestro che compie tutta la sua carriera in patria.
Pag. 337
Rovinato dalla guerra del Peloponneso, Isocrate, discepolo degli illustri sofisti Prodico e Gorgia, e anche di Socrate, si volge spontaneamente verso l’eloquenza.
Tuttavia la voce troppo debole o la timidezza lo distolgono dal podio delle arringhe, e per dodici anni egli si consacra alla professione di logografo.
Appena conquistate fama e ricchezza, l’abbandona con un certo disprezzo ed apre una scuola di retorica, dedicandosi contemporaneamente all’eloquenza accademica (detta epidittica).
Acquista così un’immensa notorietà sia come maestro che come pubblicista.
Pag. 358
Ma non è questo l’essenziale: ai suoi occhi il problema della Grecia è più importante di quello di Atene.
I greci si avviliscono nella discordia: poiché le città tradizionali non hanno più alcun potere, non resta che rimettersi al re di Macedonia.
Isocrate riflette una nuova concezione politica nata dall’impossibilità di eliminare gli antagonismi: aspira già a un’unione che i macedoni realizzeranno più tardi con la violenza.
Non è facile, più di quanto non lo sia per Senofonte, valutare l’influenza esatta che esercitò su Filippo, ma essa dovette essere certo considerevole.
Per la prima volta un pensatore, a mezza strada fra le utopie di Platone e l’azione diretta di Demostene, imprimeva una direzione personale al destino del mondo ellenico.
Le incertezze in cui si dibatte la coscienza greca sono tali che con altrettanta convinzione e non minore sincerità Demostene prende posizione contro il panellenismo e si batte con tutte le forze contro quello stesso Filippo, nel quale Isocrate vedeva l’arbitro naturale degli elleni.
Della sua azione politica abbiamo già parlato, ma sarebbe ingiusto non aggiungere che essa fu possibile solo grazie al prodigioso talento di oratore di cui era dotato, talento che gli permise di sollevare l’entusiasmo del popolo ateniese e di infondergli nuove energie.
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La storia della filosofia del secolo 4. è tutta segnata dall’influenza di Socrate, il cui metodo, per altro, s’impone più che la dottrina.
Ogni filosofo si pretende suo discepolo, ed è singolare come cinici, cirenaici, accademici si proclamino tutti suoi eredi.
D’altro lato i sofisti hanno reso più duttile il pensiero, hanno abituato a nuove forme di discussione, alle quali Platone stesso non sfugge sempre.
Infine, il pitagorismo resta ancora vitale sia nel campo strettamente scientifico, in cui realizza conquiste decisive, che in quello della speculazione morale e dell’escatologia: Aristotele potrà perfino affermare che il platonismo non è altro che un pitagorismo modificato dal socratismo (Metafisica, 1., 6)
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L’opera colpisce per la sua enorme vastità, poiché abbraccia tutti i campi del pensiero, dall’ontologia all’escatologia, dalla morale alla politica.
Malgrado alcune contraddizioni e qualche pentimento, essa presenta un carattere unitario, pervasa com’è dall’entusiasmo per il mondo ideale, sul quale gli individui e le città devono modellare la propria vita.
Basata sulla conoscenza della matematica, ma anche sull’illuminazione, mistica e realistica al tempo stesso, essa è talmente ricca e multiforme che tutte le dottrine più divergenti hanno potuto scoprirvi le proprie origini.
Già nei tempi antichi, l’aristotelismo prenderà lo spunto del platonismo per riformarlo e per deformarlo.
Altrettanto avviene per la Nuova Accademia, le cui tesi probabilistiche non sarebbero state certo approvate da Platone, e infine per il neoplatonismo, quella meravigliosa e tarda vampata della filosofia greca che di Platone manterrà intatto soprattutto il trasporto mistico e ascetico verso l’Uno, che è Dio.
Altro fattore ancor più sintomatico è che le grandi religioni spiritualistiche del mondo antico s’impadroniranno a loro volta del pensiero platonico per trarne profitto.
Nel secolo 1. della nostra era, l’ebreo Filone di Alessandria tenterà la sintesi tra il pensiero dell’Accademia e il Nuovo Testamento; i Padri della Chiesa ricercheranno nell’opera platonica il primo grado di una saggezza destinata a completare il messaggio di Cristo; anche il più grande di loro, Agostino, realizzerà se stesso solo dopo aver abbracciato il neoplatonismo come una fede.
Arabo, giudeo, o cristiano, il Medioevo sarà impregnato del pensiero di Platone e, senza che ciò appaia paradossale, sarà ancora Platone a dare il segnale della liberazione degli spiriti durante le Rinascenze del secolo 12. o del 15.
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Aristotele, che scrisse anche delle opere sulla retorica e sulla poetica, è uno spirito enciclopedico, cosa rara nell’antichità.
Per fare la sua gloria, sarebbe bastato l’aver eretto a sistema la logica e l’etica e l’aver realizzato un quadro preciso e gerarchico del mondo animale.
Nessuno più di lui si è sforzato di capire la realtà; vorremmo quasi che fosse vero l’aneddoto che lo descrive mentre si getta nella corrente dell’Euripo, deluso di non aver potuto strappare al fiume i segreti del suo moto.
Tuttavia alcuni autori lo rimproverano di aridità poiché non possiede l’entusiasmo di Platone e preferisce non allontanarsi dall’esame della realtà positiva e concreta.
Peggio ancora, lo si accusa di aver isterilito per secoli il pensiero medioevale.
Ma è lui responsabile, se il suo pensiero trionfa incontrastato con Alberto il Grande o Tommaso d’Aquino, e se alcuni teologi, più audaci che onesti, si rifanno alla sua dottrina, fossilizzandola, per introdurvi a viva forza il messaggio cristiano?
Pag. 373-74
Il secondo classicismo artistico, se non si esprime più con la splendida purezza e la serena euritmia del primo, offre tuttavia il quadro più completo d’un mondo le cui fonti vive non sono affatto inaridite.
La letteratura è troppo orientata verso l’azione e la politica, cioè verso fenomeni contingenti.
La filosofia si abbandona a speculazioni ardite, che sconfinano spesso nell’utopia.
L’arte è più ricca di sfumature.
Benché dia in generale l’impressione di un’eleganza priva di accenti aulici e non si discosti dall’atticismo di Lisia o dalla bonomia sorridente di molti dialoghi platonici, essa sa commuovere senza far uso del facile sentimentalismo.
Conserva inoltre il culto della bellezza formale, ottenuta con una sintesi equilibrata tra il numero e l’armonia dei volumi, delle linee e dei colori.
Pag. 387
Nel culto ufficiale non vi sono cambiamenti apparenti.
Esso seguita ad onorare gli dèi della polis, divinità uraniche per la maggior parte e alcune anche ctonie integrate da tempo nella religione poliade, come le “due dee” di Eleusi.
Quanto sia ancora seguito il culto di Apollo lo prova la ricostruzione del tempio di Delfi, distrutto dal cataclisma del 373: oltre ai contributi ufficiali di ogni città, fissati dal congresso panellenico di Sparta, affluiscono in gran numero i doni inviati spontaneamente, cosicché si giunge senza troppa difficoltà ad accumulare l’enorme somma (da 500 a 700 talenti) necessaria per riedificare il santuario degli Alcmeonidi.
Ciò nonostante in una civiltà in cui il culto è un affare di Stato qualsiasi mutamento politico comporta un’evoluzione religiosa.
Ora, nel secolo quarto l’equilibrio della polis è così compromesso che il fervore per le divinità poliadi pare diminuire a vantaggio di altri dèi, meglio corrispondenti alle aspirazioni dell’individuo.
La crisi che già si delineava fin dal 430 si approfondisce ed assume proporzioni sempre più inquietanti.
Pag. 387-88
Si tratta insomma di una religione dinamica e vivace, le cui manifestazioni sono state paragonate a quelle del cattolicesimo all’epoca del Bernini.
L’irreligiosità non è ammessa e i processi per empietà si moltiplicano.
Molti sono in preda ad una febbre spirituale intensa e devono cercare altrove quelle sensazioni che i culti orgiastici sono incapaci di dare.
I demoni rapitori di bambini e i fantasmi ossessionano l’immaginazione popolare, la magia e i sortilegi si sviluppano a tal punto che Platone crede opportuno condannarli con le pene più severe.
Sulle tavolette per il malocchio compaiono molte formule di maledizione e si chiede con insistenza ad Ermes o ad Ecate di legare la lingua e le membra dei nemici più odiati.
Dobbiamo richiamarci a quella contraddizione fondamentale, a cui avevamo già accennato all’inizio: il secolo 4., il secolo di Aristotele, è anche quello in cui l’aspirazione al divino si fa sentire per la prima volta con estrema intensità.
Dovunque trionfano le forze irrazionali a cui ci si abbandona con piacere.
Appaiono certe parole-chiave, alle quali non si vuole rinunciare: amore, salvezza, purificazione, redenzione…
Ognuno risponde a questo appello secondo la propria natura; Platone e Prassitele sanno creare dei mondi radiosi, costruiti al di sopra della realtà, ma i poveri e le donne devono contentarsi di accedere con i tiasi ad un misticismo alla portata di tutti.
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Libro 4. Il rinnovamento ellenistico
Cap. 1. Gli Stati ellenistici
L’epoca denominata convenzionalmente “ellenistica” (in tedesco Hellenismus) inizia con la morte di Alessandro e termina, in date molto differenti a seconda delle ragioni, con la conquista romana.
E’ caratterizzata dall’estensione delle conquiste greche e dallo spostamento del centro di gravità della civiltà greca; il ruolo preponderante non è più assunto dalla Grecia propriamente detta, ma dalle grandi monarchie orientali.
La sua storia è particolarmente complicata: si compone di una lunga serie di guerre accanite e sanguinose e di frequenti usurpazioni che non cessano di modificare le frontiere degli Stati.
La documentazione è invece molto più abbondante di quelle delle epoche precedenti.
Vanno menzionati, in primo luogo, i papiri, conservati in gran numero soprattutto in Egitto, grazie ai quali le testimonianze più diverse hanno potuto giungere sino a noi: lettere di sovrani, testi amministrativi, archivi notarili, corrispondenza privata, quaderni di scuola.
Tratteremo, dunque, solo brevemente dei destini politici del mondo ellenico in un’epoca così tormentata.
Non sarebbe certo il caso di esporre qui le interminabili guerre con le quali i generali di Alessandro si contendono la supremazia dell’Impero.
Fin dal 321, dopo l’assassinio del reggente Perdicca, uan prima spartizione ha luogo a Triparadiso; ad Antipatro viene data la Macedonia, a Tolomeo l’Egitto, a Lisimaco la Tracia, ad Antigono Monoftalmo l’Asia Minore, a Seleuco Babilonia.
A partire dagli anni 306-05, essi assumono il titolo di re (Antipatro è stato sostituito dal figlio Cassandro).
Le lotte continuano ancora per più di vent’anni, contrassegnate da episodi cruenti come l’annientamento e la morte di Antigono Monoftalmo ad Ipso (301) e di Lisimaco a Curupedio (281), e l’uccisione di Seleuco per mano di Tolomeo Cerauno (280).
Si può dire che a questa data i diadochi, o successori diretti di Alessandro, siano tutti scomparsi, dopo quarant’anni di tentativi, d’intrighi, di conflitti per conquistare almeno una parte dell’immenso Impero, dal momento che non potevano dominarlo nel suo insieme.
La situazione tende allora a stabilizzarsi con la costituzione di tre vasti reami: quello d’Egitto con Tolomeo 2. (figlio del primo Tolomeo), quello d’Asia con Antioco 1. (figlio di Seleuco), quello di Macedonia, che tocca ad Antigono Gonata (nipote di Monoftalmo).
Nessuna età ha assistito a lotte personali altrettanto aspre, all’azione di condottieri così arditi, ad alleanze così instabili.
L’indomabile Monoftalmo, suo figlio Demetrio Poliorcete (l’espugnatore di città), valoroso e dedito ai vizi, il duro Seleuco, l’astuto Tolomeo e il brutale Cassandro sono i protagonisti di queste gesta.
La generazione seguente, quella degli epigoni, avrà ambizioni meno vaste, perché tutti i sovrani hanno rinunciato a ristabilire l’Impero universale (illusione lungamente carezzata da diadochi), ed assisterà ad un consolidamento generale dei regni sorti da tante battaglie.
Non è nostra intenzione descrivere le successive campagne che permisero ai romani di porre fine all’indipendenza del mondo greco, né analizzar ei motivi ed i pretesti dei loro interventi, la tortuosa politica senatoriale e la cupidigia dei cavalieri: questi avvenimenti appartengono di fatto alla storia romana.
Richiameremo dunque tali vicende solo in un contesto ellenico.
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Nella Grecia propriamente detta alcune città, in particolare Atene ed episodicamente Corinto, conservano un’indipendenza formale e un’apparenza di istituzioni tradizionali.
Il declino però si accentua in seguito agli sconvolgimenti sociali e alla crisi economica che comporta un impoverimento generale.
Solo alcune città insulari traggono profitto dal progressivo spostamento della potenza politica ed economica che si localizza ora in Oriente.
Se Atene ha perduto ogni influenza, ciò non è dovuto tanto alle imprese dei sovrani macedoni (nel 228 essa giunge fino ad espellere la guarnigione del Pireo, riacquistando almeno apparentemente un’autonomia totale), quanto piuttosto al fatto che si è spento lo spirito democratico.
Certo le istituzioni sono sempre le stesse, nonostante l’aggiunta di due tribù a quella di Clistene, ma il popolo non è più sovrano.
Il teorico e la maggior parte dei misthòi sono stati soppressi; il potere è concentrato nelle mani dell’Areopago e dello stratega più importante, quello degli opliti.
Il servizio militare è scomparso e lo Stato affida la difesa a mercenari.
Gli efebi non sono più che studenti i quali si riuniscono per continuare i propri studi.
L’attività economica è notevolmente diminuita in seguito all’abolizione delle cleruchie ed all’inattività del Pireo, tagliato fuori dalle grandi rotte commerciali.
Si avrà uan leggera ripresa dopo la “liberazione” della Grecia e soprattutto quando, nel 166, i romani restituiscono qualche cleruchia, aggiungendovi Delo per fare opposizione agli abitanti di Rodi.
Tale ripresa durerà fino al saccheggio di Silla, nell’86.
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Sul piano intellettuale il prestigio della città resta notevole.
Le cerimonie continuano ad avere un fasto eccezionale, specie i Misteri Eleusini e le Dionisiache, durante le quali hanno luogo rappresentazioni non solo di opere classiche, ma anche di commedie nuove, piacevoli pitture della società contemporanea.
Un seleucide, un lagide, un principe numida non disdegnano di prendere parte ai concorsi delle Panatenaiche.
Le scuole filosofiche di Atene sono le più brillanti del mondo ellenico e il loro prestigio seduce un pubblico raffinato e sazio, che non ha tuttavia perso il gusto per le costruzioni dell’intelletto.
Le sue “botteghe” di scultura diffondono nel mondo intero eccellenti copie di capolavori del periodo classico.
Si va già delineando il ruolo che Atene avrà in epoca romana: un centro universitario, depositario d’un passato cancellato per sempre, nel quadro monumentale ancora intatto della città periclea.
In Grecia la situazione è dovunque critica.
Certo l’agricoltura progredisce, grazie all’uso dei concimi, che permettono di ottenere ricche messi, e l’allevamento trae profitto dall’estensione dei pascoli, ma pochi se ne avvantaggiano, poiché la grande proprietà è in continua espansione secondo una tendenza già evidente nel secolo 4.
L’industria e il grande commercio sono in pericolo, malgrado una breve ripresa negli anni successivi alla conquista di Alessandro.
Ben presto infatti i nuovi Stati orientali cominciano a fabbricare sul luogo i prodotti di prima necessità.
La Grecia è ancora affetta dalla perpetua carenza di cereali, tanto più costosi in quanto il prezzo del grano, dopo essere diminuito all’inizio del secolo 3., subisce un aumento notevole nel 2.
Al contrario può esportare solo olio e vino, i cui prezzi sono purtroppo stabili, e prodotti di lusso che consentono all’artigianato di sopravvivere modestamente, in particolare a Corinto e ad Atene.
Gli elementi più dinamici d’altra parte hanno abbandonato la madrepatria e i ricchi investono il loro denaro solo in terre, il che fa scomparire il fermento indispensabile dell’attività economica presente nell’epoca classica.
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Rodi mette in ombra tutte le isole vicine.
Formatasi nel 408 dal sinecismo di tre città, si è destreggiata abilmente nel secolo 4. ed ha resistito agli attacchi del Poliorcete.
Verrà in futuro un lungo periodo di splendore e conserverà la sua indipendenza in mezzo agli intrighi dei re, offrendo un magnifico esempio di sopravvivenza della polis in piena età ellenistica.
La sua costituzione è di tipo moderato: si tratta di una repubblica a carattere mercantile, , gelosa del suo diritto di cittadinanza, ma pronta ad accogliere generosamente e a proteggere tutti gli stranieri che possano accrescere la sua ricchezza.
La prosperità di Rodi è dovuta essenzialmente alla sua posizione privilegiata, vicinissima alla costa asiatica e di fronte ad Alessandria.
Possiede tre porti, muniti di depositi e arsenali importanti: uno per il commercio, uno militare e uno si scalo.
I suoi giganteschi magazzini rigurgitano di vino e di olio (prodotti sul posto o importati), di grano pontico ed egizio, di vasi, di prodotti esotici, che vengono poi ridistribuiti in tutto il bacino Mediterraneo.
Le anfore contrassegnate dai suoi sigilli sono presenti ovunque: nelle steppe della Pontide come in Gallia o in Spagna.
Essa ha dunque ereditato il ruolo tenuto dal Piero nell’epoca classica.
Le sue banche sono particolarmente attive; la sua flotta da guerra (cinquanta vascelli, mantenuti in perfetta efficienza) conserva la pace nell’Egeo conducendo un’accanita lotta contro i pirati.
Il suo codice marittimo (la lex Rhodia) è talmente famoso che Marco Aurelio ne accoglierà alcuni principi, più tardi ereditati anche da Bisanzio e da Venezia.
E’ così ricca e così utile a tutti che, distrutta da un terremoto nel 227, viene ricostruita immediatamente con l’aiuto e il soccorso dell’intero mondo ellenico.
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La potenza effettiva è rappresentata dalla Macedonia, che estende la sua egemonia anche sulle città apparentemente indipendenti della Grecia continentale.
Le tengono testa soltanto la lega achea e quella etolica.
L’Epiro fa una meschina figura, benché si riprenda il regno di Piero.
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Il regno dei due ultimi sovrani, Filippo 5. (figlio di Demetrio 3.) e suo figlio Perseo, è dominato interamente dalla lotta contro Roma.
Filippo 5. è un monarca energico, ma violento e si lascia trascinare dagli achei in una guerra contro gli etoli, la “guerra degli alleati”, terminata nel 217 con la pace di Naupatto sulla base dell’uti possidetis.
La prima guerra di Macedonia, in cui gli etoli e Pergamo si trovano a fianco dei romani, e Filippo si allea con Annibale, si concluda a Fenice (205) con la spartizione dell’Illiria tra Roma e Filippo.
La seconda guerra, in cui gli etoli e anche gli achei sono alleati con Roma, vede la disfatta della falange macedone a Cinocefale (197).
L’anno seguente Filippo è obbligato, in seguito a un trattato di pace, a rinunciare alla Tessaglia e alla Grecia e deve consegnare la flotta; Flaminino proclamerà allora a Corinto la libertà dei greci.
Perseo riprende la lotta ma, irresoluto ed avaro, non possiede affatto le qualità del padre.
La terza guerra di Macedonia trova il suo epilogo nella disfatta di Pidna (168): Perseo è trascinato a Roma per il trionfo di Paolo Emilio.
La Macedonia viene suddivisa in quattro distretti, più tardi verrà ridotta a provincia (148).
Nel 146 in seguito ad una rivolta Corinto è espugnata e rasa al suolo da Mummio: orrendo misfatto, che segna la scomparsa di una delle più belle città della Grecia.
Eccetto Sparta, Atene e Delfi, che ottengono di diventare federate, tutte le altre città greche devono versare un tributo.
La Grecia resta sottoposta all’autorità del proconsole di Macedonia fino al 27, anno in cui Augusto ne farà una provincia speciale, l’Acaia.
Essa soccombe restando fedele a se stessa: nemica di ogni costrizione, preferisce allearsi al barbaro romano, piuttosto che accettare il giogo della Macedonia.
Ricordiamo infatti che a Cinocefale gli assalti furiosi degli etoli contribuirono in parte alla vittoria dei romani.
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Instaura il suo dominio a Siracusa, mettendo in fuga i mamertini e riceve il titolo di re.
Il suo regno non è vasto, ma lo amministra imitando i metodi dei sovrani ellenistici.
Le principali disposizioni della famosa Lex Hieronica, che regola l’esazione dell’imposta fondiaria sui contadini del re e limita i proventi degli appaltatori, sono ispirate all’Egitto dei lagidi.
Roma le adotterà a sua volta, apportandovi profonde modifiche.
L’artigianato artistico e il commercio sono ancora fiorenti.
Le monete con l’effigie della regina Filistide sono autentici capolavori.
Il prestigio di cui gode gli permette d’intervenire anche in Oriente, al soccorso dell’Egitto in preda alla carestia, o di Rodi, distrutta da un terremoto.
Ricostruisce il teatro, si circonda di artisti e letterati, e anche se Teocrito gli preferisce il Filadelfo, Archimede da solo basterebbe a rendere famosa Siracusa.
Quando la Sicilia diventa il campo di battaglia di romani e cartaginesi, Ierone agisce con prudenza.
Nel 263 stringe alleanza con Roma, già sua nemica, accettando di pagare un tributo, e nel 248 ottiene di venire esentato da tale obbligo.
I servigi da lui resi in questa occasione contribuiscono alla vittoria romana.
La Sicilia viene annessa, ma Ierone conserverà il regno fino alla morte, avvenuta nel 215 durante la seconda guerra punica.
Siracusa crede allora di poter rompere l’alleanza con Roma e si schiera con Annibale.
Nel 211 Marcello la conquista con un assedio, nonostante le macchine da guerra di Archimede, che perisce vittima della soldataglia, e l’abbandona al saccheggio,
E’ la fine della Sicilia greca.
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L’Impero che Seleuco 1. lascia a suo figlio Antioco 1. è vastissimo; si estende infatti dall’Afghanistan agli Stretti, dal Ponto alla Siria.
E’ anche molto composito: vi si parlano tutte le lingue, dal greco al persiano, dall’aramaico ai dialetti asiatici.
Tutte le religioni coesistono, dal politeismo ellenico allo zoroastrismo, dal giudaismo ai culti indigeni dell’Anatolia.
Le forze centrifughe sono così potenti, che la storia del regno è quella del suo progressivo smembramento.
Possiamo stupirci solo che tale disgregazione non sia avvenuta più rapidamente.
Il suo vero centro è la Siria, dove fin dal 300 Seleuco fonda la capitale, Antiochia sull’Oronte.
E’ logico quindi che il frazionamento abbia luogo essenzialmente nelle regioni più lontane dalla Siria: l’Anatolia settentrionale e le satrapie orientali.
I seleucidi sono stati senza dubbio vittime della scelta del fondatore della dinastia: i Gran Re, loro predecessori, erano stati infatti più accorti e avevano amministrato l’Impero da capitali situate nel suo centro geometrico, l’Iran.
Ma Seleuco è un greco e intende fare delle sue conquiste uno Stato ellenico, quindi mediterraneo.
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Uno smembramento tale è dovuto anche all’incredibile debolezza dei sovrani seleucidi.
Il potere è minato dagli intrighi della corte, dove delitti e usurpazioni si succedono a catena, spesso sotto l’istigazione di regine abusive.
I funzionari più altolocati non dànno sempre prove di fedeltà, come quel Molone, stratega della Media, che si solleva contro Antioco 3.
I vicini sovrani dell’Egitto, a cui sono pur legati da tanti vincoli dinastici, fanno loro una guerra implacabile per il dominio della Celesiria.
Ma la più grande debolezza del regno sta forse nella mediocrità della maggior parte dei suoi sovrani.
E dire che avevano avuto un grande esempio nella persona del fondatore stesso della dinastia, rude combattente che aveva meritato il soprannome di Nicatore (Vincitore).
Fin dall’ultimo periodo del regno di suo nipote, Antioco 2. Theos, oscuri intrighi di palazzo, nei quali la regina Laodice ha un ruolo indegno, portano alla divisione del regno tra due fratelli, Seleuco 2. Callinico e Antioco Ierace.
Alla loro morte i seleucidi vengono spogliati di ogni possedimento a nord del Tauro.
Un solo monarca viene a interrompere questo processo di decadenza: Antioco 3. (223-187), che ristabilisce il potere indebolito da tanti dissensi, riconquista gran parte dell’Asia Minore, percorre l’Oriente fino all’India in un’anabasi stupefacente che ricorda quella di Alessandro, e strappa definitivamente l’Egitto alla Celesiria.
Giunto all’apice della sua gloria, merita a ragione l’appellativo di Grande.
Le sue ambizioni suscitano però la gelosia di Pergamo e di Rodi, che fanno appello a Roma, già inquieta perché aveva accolto Annibale come consigliere.
Antioco viene sconfitto dagli Scipioni a Magnesia sul Supilo (189) e privato, con il trattato di Apamea, di tutta l’Anatolia oltre il Tauro.
Questo sovrano ardito ed ambizioso, che era potuto apparire come un secondo Alessandro, trova la morte nella Susiana in una scaramuccia contro i suoi stessi sudditi ribelli, offrendo così ai moralisti un esempio della potenza della Fortuna sul destino d’un mortale.
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Lo Stato attalide nacque da un tradimento.
Lisimaco aveva affidato la custodia della cittadella di Pergamo, che conteneva un notevole tesoro, a Filetero, ufficiale di padre greco e di madre paflagone.
Questi passa dalla parte di Seleuco 1. (282) ottenendone la signoria su Pergamo, a condizione di riconoscersi suo vassallo.
Suo nipote, Eumene 1., rompe con Antioco 1. proclamandosi indipendente.
Il passo decisivo è compiuto dal nipote di Eumene 1. e suo successore, Attalo 1., che combatte vittoriosamente contro i galati e osa arrogarsi il titolo di re (240).
Egli conclude soprattutto un trattato d’alleanza con Roma, alla quale sarà fedele durante le prime guerre di Macedonia.
Tale alleanza segnerà ormai tutta la storia di Pergamo e grazie ad essa i suoi re cesseranno di essere i sovrani d’un piccolo regno anatolico per intervenire in modo decisivo negli eventi storici del mondo greco durante il secolo 2.
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Fin dal tempo della conquista assira gli ebrei hanno perso la loro indipendenza; conservano però fortissime tradizioni nazionali e trovano grande forza nell’alleanza che, secondo la loro credenza, li unisce a Jahweh.
Sono divisi in due gruppi, la cui evoluzione è molto differente in Giudea e nella diaspora.
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L’emigrazione degli ebrei dalla Giudea era un evento storico di vecchia data, poiché risaliva almeno alla grande catastrofe del 586: la presa di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor seguita dall’esilio.
Si tratta della Diaspora (Dispersione) che si accentua quando la Palestina entra a far parte del mondo greco per opera di Alessandro e più ancora dopo le agitazioni ebraiche del secolo 2.
L’area di tale dispersione è considerevole.
La popolazione ebraica in tutto il mondo all’epoca ellenistica poté essere valutata intorno agli otto milioni.
Essa è raggruppata principalmente in quattro zone: Babilonia, Siria, Anatolia, Egitto, ciascuna delle quali conta oltre un milione di ebrei.
Ma essi si trovano numerosi anche in Cirenaica, nelle isole dell’Egeo, in Grecia, persino in Africa, in Italia e in Spagna.
Dappertutto hanno luogo delle conversioni al giudaismo, specialmente tra le donne (gli uomini infatti provano ripugnanza a farsi circoncidere): si va formando così una categoria di semi convertiti, i cosiddetti sebomenoi (coloro che temono Dio).
Esiste un solo Tempio, ma le sinagoghe (luoghi di riunione e di preghiera) si moltiplicano.
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Ciò nonostante la differenza fra gli ebrei di Giudea, spesso solo superficialmente ellenizzati, e quelli della Diaspora rimane considerevole.
L’assimilazione della cultura greca in questi ultimi è molto più profonda (particolarmente in Anatolia, in Siria e in Egitto), ed essi non esitano, pur rimanendo fedeli al principio essenziale della loro fede che è il monoteismo, ad abbandonare alcune delle pratiche più assurde della loro religione, che avrebbero reso difficile la loro vita in un mondo ellenizzato.
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Il monarca è l’espressione vivente della legge e le sue decisioni non hanno bisogno di essere approvate da alcun consiglio o da alcuna assemblea; in ciò sta la differenza essenziale con il periodo classico, in cui la legge era espressione di una volontà collettiva.
In pratica i documenti in cui si manifesta il volere dell’onnipotente re, sono svariati: leggi (nomoi), regolamenti (diagrammata), ordinanze (prostagmata), che rivestono spesso la forma di lettera.
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Tali istituzioni sono destinate ad avere un seguito importante, sia sul piano storico che su quello ideologico.
Quel Traiano che Plinio il Giovane ci presenta nel suo Panegirico, è l’erede diretto d’un monarca ellenistico ed è anche evidente che lo stratega ha servito da modello al proconsole e più ancora al legato di Augusto.
Ma l’esame dei problemi economici e sociali sorti nei regni greci d’Oriente con la conquista pone dei problemi altrettanto appassionanti: si notano la stessa audacia, lo stesso spirito moderno nelle situazioni adottate, da cui appare chiaramente la vitalità di un ellenismo che rifiuta di sclerotizzarsi.
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I successori di Alessandro si trovano davanti a un problema che già il macedone dovette affrontare: organizzare la vita economica e sociale in regni dove essa dipendeva tradizionalmente dall’autorità del re.
Vi si consacrano con il pensiero costante (frutto della saggezza e del buon senso), di non sovvertire troppo l’ordine già esistente.
Tuttavia le condizioni nuove (sviluppo d’una borghesia capitalista di origine greca e introduzione della moneta in Egitto) determinano trasformazioni profonde, particolarmente sensibili nei centri urbani.
La sovrapposizione di una classe di conquistatori a una massa di indigeni vinti (benché abituati da lungo tempo alla dominazione straniera), conferisce al mondo ellenistico una sua facies originale che prefigura in molti casi quella del futuro Impero romano.
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Tutte questa città sono delle vere e proprie poleis nel senso greco del termine, con un territorio, un’autonomia municipale (specialmente in campo giuridico e finanziario) e dei magistrati.
Naturalmente non costituiscono più degli Stati indipendenti come nell’età classica: sono poste per la massima parte sotto la severa tutela d’un governatore (epistata) e talvolta devono accogliere una guarnigione.
D’altra parte il sovrano fa spesso prova di liberalità nei loro riguardi contribuendo con i fondi personali alla costruzione di edifici pubblici, soccorrendole in caso di catastrofe, accordando loro dei privilegi che ne accrescono l’autonomia, come il diritto d’asilo o l’inviolabilità.
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L’ambizione degli Attalidi è di fare di Pergamo l’Atene del mondo ellenistico.
La sua biblioteca rivaleggia con quella di Alessandria; il palazzo reale contiene un vero museo di scultura, e vi nasce senza dubbio la critica d’arte.
La scuola di retorica, le botteghe di scultura che accentuano gli effetti patetici sono meritatamente celebri, come pure gli artisti dionisiaci protetti dal sovrano, grazie ai quali la città diviene il centro principale dell’arte drammatica.
Il più bell’omaggio reso a Pergamo è forse quello di Plinio il Vecchio (33, 149): “Da quando morì Attalo (il re che lasciò ai romani i suoi Stati), i romani cominciarono a damare, e non più soltanto ad ammirare, le meraviglie straniere”.
Pergamo, scuola di Roma, si pone così a fianco di Atene, scuola della Grecia.
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Il suo sviluppo però non è in rapporto diretto con quello dell’Egitto.
La formula latina Alexandria ad Aegyptum (Alessandria presso l’Egitto) sottolinea una realtà valida anche per l’epoca tolemaica.
La grande città, simile agli altri centri ellenistici ma più rigogliosa, è la capitale di un regno che, nella chora, continua la sua esistenza immutabile.
E’ questa in fondo la vera debolezza di Alessandria e di coloro che l’hanno fondata.
Accecati dalle forme tipicamente greche dello Stato, esso sono riusciti a creare una polis grande, fiorente, senza poterla inserire nella vita del regno a cui essa è stata quasi sovrapposta.
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La vita economica subisce un mutamento radicale.
La Grecia ha perduto ormai quella funzione centralizzatrice e dominatrice che le era stata propria in passato.
Il suo declino era cominciato fin dal secolo 4.: soltanto due centri insulari (Rodi e più tardi Delo), e Corinto, conservano un’importanza internazionale.
Tutte le attività tendono a concentrarsi in Asia Minore, in Siria e in Egitto.
………………
Da un lato i regni ellenistici sviluppano un attivo commercio sia tra di loro sia con la Grecia.
Esso è costituito dall’inizio da derrate alimentari (l’Egitto in particolare è un grande esportatore di grano; i greci d’Oriente invece importano buon vino, di provenienza greca o anatolica, e olio d’oliva; i papiri ci forniscono utili informazioni riguardo a scambi commerciali ancor più specializzati, come per esempio l’esportazione delle nocciole del Ponto); Poi da materie prime (legno, pece, metalli).
Inoltre circolano manufatti di buona qualità: le cosiddette ceramiche di Megara, i vasi di metallo, i bronzi artistici, ex voto e gioielli, tessuti e tappeti di lusso (lo sviluppo delle industrie di base permette oramai la fabbricazione diffusa degli oggetti di uso corrente).
Anche il traffico degli schiavi è molto sviluppato.
D’altra parte la conquista dell’Oriente permette di importare nel bacino mediterraneo i prodotti delle regioni interne dell’Africa, dell’Arabia e delle Indie: avorio, spezie, incenso, profumi, perle e pietre preziose, legni pregiati……
L’importanza dei porti della Siria e di Alessandria può essere spiegata col fatto che questi prodotti vi arrivano per le vie di terra o marittime.
L’acquisto di prodotti di gran lusso porta a un deficit della bilancia commerciale, e di qui a un’emorragia d’oro e d’argento che persisterà sino alla fine dell’Impero romano.
Avremo occasione di trattare di questo traffico commerciale in terre lontane, causa e allo stesso tempo conseguenza dell’interesse del mondo ellenistico pe rle regioni che la Grecia del periodo classico aveva quasi trascurate.
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La domanda è considerevole.
Non si tratta solo più dei fattori costanti, che permangono, come ad esempio la necessità, per la Grecia, di procurarsi i viveri di prima necessità, o, per l’Egitto, d’importare legno o ferro.
A queste necessità vitali se ne aggiungono altre originate dal raffinamento d’una civiltà che non intende rinunziare ad alcun piacere o ad alcun lusso.
I sovrani spendono a profusione per mantenere la propria corte e per organizzare delle feste, che diventano quasi un obbligo e un segno tangibile del loro prestigio.
Una borghesia ricca e illuminata, amante del fasto, non può più contentarsi della vita austera dei greci del secolo 5.
Si ricerca tutto quanto è sontuoso e accresce il prestigio.
Perfino il Mediterraneo diventa ormai troppo piccolo per soddisfare tutte le cupidigie: l’Africa nera e l’India forniscono prodotti per decorare palazzi e dimore o per adornare la persona, e comunque oggetti che rendono più attraente la vita quotidiana con il fascino dell’esotismo.
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La ragione più profonda dello sviluppo d’un vasto commercio internazionale va ricercata nell’avvento definitivo di una grande borghesia capitalista, di cui fanno parte banchieri ed appaltatori generali, ma anche armatori e commercianti.
Spesso i trafficanti si associano tra loro, come si può osservare con particolare evidenza a Delo.
Talvolta sono abbastanza potenti da agire da soli, come quell’Apollonio, diocete di Filadelfo, del quale gli archivi di Zenone rivelano non soltanto gli interessi ricavati dall’immensa proprietà di Fayum, ma anche i legami commerciali con la Siria.
I greci più dinamici, una volta espatriati, accumulano in tal modo favolose fortune in Oriente, imitati dai siriani, dagli egizi e in seguito dai negotiatores italici, che approfitteranno sempre più della preponderanza politica di Roma per imporsi come padroni del mercato.
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A prescindere da altri fattori capitali, che analizzeremo in seguito, i sovrani sono indotti ad occuparsi attivamente della terra, perché la conquista ha conferito loro i diritti già riconosciuti ai faraoni e agli achemenidi.
La terra appartiene dunque per la maggior parte al monarca; è “la terra del re” (basiliké gé), data in appalto con un contratto a dei “contadini del re”.
Essi la coltivano pagando un canone che, con le tasse, può giungere fino a comprendere la metà del raccolto.
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Ciò nonostante, il sistema è in una certa misura 8difficile determinare in quale) modificato dalla novità sostanziale costituita dall’introduzione e dalla diffusione definitiva del sistema monetario.
L’economia puramente naturale dell’Egitto viene profondamente trasformata dai due corollari conseguenti all’uso della moneta: la banca e l’interesse dei capitali ricavati dalle imposte.
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Questo interesse che il potere manifesta per i lavori agricoli, affatto nuovo nel mondo ellenico, non tarderà a dare i suoi frutti.
Si scrivono trattati di agronomia.
Le aree coltivate aumentano grazie al drenaggio delle paludi e all’irrigazione delle zone periferiche del deserto.
La più bella creazione del Nuovo Impero, l’immensa oasi del Fayum, riprende a vivere dopo il lungo abbandono del Basso Impero.
Mezzi tecnici più perfezionati vengono introdotti nell’irrigazione: un congegno a ruota dentata e la vite di Archimede tendono a sostituire gli shaduf primitivi.
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I risultati economici di tale politica sembrano felici: la produzione del suolo e l’allevamento vengono intensificati; sul piano sociale invece nulla è previsto per migliorare la condizione del contadino, sfruttato ancor più duramente che sotto i faraoni.
Nelle epoche di crisi egli non ha altra risorsa se non l’anacoresi, cioè la fuga davanti all’oppressione e all’iniquità.
I lagidi non vollero comprendere che aumentando i salari e opprimendo di meno il ceto rurale, avrebbero incrementato il potere d’acquisto e il commercio interno.
La società sorta dalla conquista è di tipo coloniale, con la sovrapposizione degli occupanti (macedoni o greci) agli indigeni.
Questi ultimi rimangono molto più numerosi: in Egitto, circa 8 milioni d’indigeni contro appena 1 milione d’invasori.
Tale sproporzione provoca conseguenze inevitabili in simili casi: da parte dei greco-macedoni, una reazione difensiva intensa a preservare l’integrità della loro civiltà, e non di meno una orientalizzazione progressiva, particolarmente evidente in campo religioso; da parte degli indigeni, delle reazioni a carattere nazionalistico dirette a conservare costumi e credenze; il che non esclude la comparsa di un élite che si ellenizza per interesse.
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La nascita di una borghesia numerosa e agiata costituisce il fenomeno più notevole di quest’epoca.
Le sue rendite provengono dall’industria e soprattutto dal commercio, ma l’acquisto di beni fondiari non è mai trascurato.
I suoi mezzi materiali ed il suo livello intellettuale sono più elevati che nell’epoca precedente; da ciò deriva una trasformazione profonda della vita quotidiana.
La borghesia ama vivere bene, una tavola ben imbandita, le cortigiane, le dimore confortevoli e non si priva delle soddisfazioni più raffinate che possono offrire la poesia, l’arte o la filosofia.
Un personaggio sempre più comune è il finanziere.
Nei grandi mercati i banchieri accumulano enormi ricchezze; non meno potenti sono gli appaltatori generali, i quali, soprattutto in Egitto, approfittano del desiderio del re di non correre rischi personalmente.
La maggior parte dei redditi è affidata alle banche, il che costituisce una garanzia supplementare in un paese che conosce da poco tempo un’economia monetaria.
Certo il sovrano si premunisce con precauzioni eccezionali: l’appaltatore deve versare una cauzione; tutti i mesi i suoi conti sono verificati dall’economo ed egli stesso garantisce con i suoi beni personali.
I papiri ci dànno un’idea dell’enorme contenzioso dei differenti contratti d’affitto.
Ed è chiaro che non si vedrebbero uomini di ogni razza (specialmente greci ma anche egizi ed ebrei) disputarsi gli appalti, se il sistema non fosse molto lucrativo per i pubblicani.
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Re, borghesi, funzionari e sacerdoti vivono sfruttando la fatica degli umili.
La scissione della collettività in due classi antitetiche, ricchi e poveri, e lo sfruttamento degli uni da parte degli altri, fenomeni già apparsi nel secolo 4. in Grecia, non fanno che accentuarsi nel mondo ellenistico.
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Schiacciato da un sistema oppressivo, da affitti iniqui e abitazioni malsane, il contadino fugge.
Si tratta dell’anacoresi, uno dei fenomeni più gravi della tarda epoca ellenistica, che diverrà in seguito una delle piaghe dell’Egitto romano e assumerà anche caratteri religiosi con i primi anacoreti cristiani.
Malgrado quanto è stato detto in proposito, il deserto offre asilo solo a un’infima minoranza, poiché la vita vi è possibile solo per coloro che sono abituati al nomadismo.
Alessandria invece, con la sua moltitudine formicolante e poco controllabile, esercita una forte attrazione: vi si può trovare del lavoro e i templi sono disposti a dare asilo ai contadini disertori.
Altri ancora si raggruppano in bande di briganti che devastano la pianura.
Nei papiri possiamo notare l’angoscia e le aspre lamentele di coloro che restano e che la solidarietà del villaggio costringe a pagare per i fuggitivi.
Le denunce indignate si moltiplicano presso gli agenti del re.
I papiri mostrano in modo evidente il profondo malcontento che regna nelle campagne.
I contadini vi appaiono violenti e ribelli; le loro rivendicazioni hanno un accento di rivolta contrastante con il tono calmo di adulazione adottato in simili circostanze dai “piccoli greci”.
Questo scoraggiamento e questa turbolenza spiegano perché le rivolte abbiano trovato tanta eco nella chora egizia.
In tal modo va sempre più aumentando il divario tra il mondo urbano che sfrutta e quello rurale che viene sfruttato.
In questo fenomeno M. Rostovtzeff scorge a ragione la tara più profonda delle società antiche a partire dal secolo 4., e una delle cause determinanti della loro rovina.
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Uno dei fattori essenziali di tale ellenizzazione è la presenza dei soldati nelle città o nelle metropoli dei nomi.
L’esercito ha un ruolo talmente importante negli eventi del mondo ellenistico, nato d’altronde dalla stessa conquista e diviso da lotte incessanti, che merita uno studio particolare.
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Il mercenario, spesso esiliato per sempre, diventa uan specie di apolide privo di qualsiasi diritto politico.
Vita militare e vita civile, così intimamente legate nella Grecia classica, si dissociano definitivamente.
Certo, non è raro vedere delle guarnigioni, delle unità, e persino delle associazioni di soldati votare decreti onorifici ed eleggere magistrati, ma tali manifestazioni non portano a risultati concreti di tipo politico; senza dubbio esprimono solo la nostalgia delle antiche istituzioni che molti di loro conservano sempre viva.
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Per quanto lontani dalla patria, i mercenari greci e macedoni restano profondamente attaccati alla grecità, pur subendo in modo rilevante l’influenza dei culti locali.
Sembra che sia in gran parte da attribuire a loro la fondazione dei ginnasi che si moltiplicano negli Stati ellenistici.
Ma su questo punto dobbiamo fare una distinzione: nel mondo siro-anatolico i ginnasi sono aperti agli indigeni, avidi di accedere alla cultura greca; in Egitto, al contrario, esso sono dei club gelosamente riservati agli occupanti, e quando l’esercito viene invaso dai semiti divengono il focolare d’una specie di massoneria ellenica, desiderosa di preservarsi dalla contaminazione dei barbari.
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I regni ellenistici lasciano un’impressione confusa di riuscita e d’insuccesso.
Da una parte, grandi città cosmopolite dalla larghe strade e dai nobili monumenti, un’innegabile prosperità, una borghesia dinamica e in piena espansione e l’ellenizzazione di una classe media di origine indigena.
Dall’altra la crisi delle campagne che, duramente sfruttate, non traggono alcun profitto dal nuovo ordinamento.
Il re e i grandi capitalisti, nelle cui mani è concentrato il potere, si curano solo dei loro profitti e, coscientemente o no, favoriscono quella scissione tra mondo urbano e rurale che solo in apparenza sembra inserirsi nella tradizione della civiltà greca.
In realtà, benché la civiltà classica trovasse la sua espressione più completa nella polis, quest’ultima comprendeva nella sua sfera vitale anche la campagna.
In alcune caratteristiche dell’ellenismo c’è, ancora prima della conquista, un’anticipazione di quello che sarà l’Impero romano, nel quale questa scissione sta quasi all’origine della sua grandezza che della sua debolezza.
Dobbiamo tuttavia sottolineare che la situazione in Egitto si deteriora considerevolmente: preti, guerrieri e funzionari acquistano privilegi sempre maggiori a scapito del sovrano, e le campagne, rovinate dall’anacoresi, rimangono quasi incolte.
Si è giustamente parlato di un “rifiuto delle masse”, che vengono abbandonate alla loro sorte, senza che si faccia nulla per migliorarne il livello di vita (delle riforme avrebbero invece potuto essere un mezzo, dal punto di vista capitalistico, per risanare l’economia), e senza offrire un ideale capace di dare un senso al loro lavoro.
Ciò nonostante dobbiamo sottolineare per spirito d’obbiettività che i sovrani hanno fatto il possibile per fronteggiare la situazione, soprattutto tenendo conto del numero esiguo d’immigranti greci e macedoni, incapaci d’imporsi e di stimolare le masse indigene molto più numerose.
Riprendendo una famosa frase che si riferiva all’Alto Impero, potremmo dire, con tutte le restrizioni che comporta questa formula, che il mondo ellenistico era allora il migliore dei mondi possibili.
Un diocete esprimeva un pensiero analogo scrivendo: “Nessuno ha il diritto di fare ciò che desidera, ma tutto è organizzato nel modo migliore”.
Del resto lo studio della civiltà che si è sviluppata in questo contesto storico ci permetterà di sottolineare successi d’altro tipo, spesso molto brillanti.
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Cap. 3. L’ultima trasformazione della grecità spirituale
L’abbondanza un po’ disordinata delle creazioni dell’epoca ellenistica colpisce in modo particolare.
Vi si osserva una vitalità così rigogliosa, che difficilmente può essere ridotta ad unità.
L’individualismo, che già tanti progressi aveva compiuto dalla fine del secolo 5., trionfa ormai pienamente.
Esso si esprime attraverso le forme più diverse: il successo della lirica, l’aspirazione del filosofo a una saggezza personale, le esigenze mistiche dell’anima preoccupata di ottenere la propria salvezza.
Ma l’uomo, paradossalmente, sembra poter affermare la propria individualità sono in seno alla collettività.
I poeti si raccolgono in cenacoli, le tradizioni delle botteghe degli artisti esercitano un influsso in scuole rigidamente organizzate.
Persino i mistici trovano un loro dio soltanto all’interno delle confraternite.
Sotto l’impulso di queste tendenze si organizzano, grazie all’aiuto di sovrani illuminati, biblioteche e istituti in cui si accumula e accresce il sapere umano.
I due primi Tolomei, sotto l’influenza di Demetrio Falereo discepolo di Teofrasto e del poeta Faleta di Coo, dotano la loro capitale del Museo e della Biblioteca.
Il Museo (letteralmente “santuario delle Muse) fondato da Sotere, diviene con Filadelfo un centro accademico di studi superiori: i sapienti vengono mantenuti e pagati grazie alla munificenza del principe e trovano gli strumenti, collezioni, giardini zoologici e botanici, necessari ai loro studi.
La Biblioteca, annessa al Museo, non cessa di ampliarsi: duecentomila volumi alla morte di Sotere, quattrocentomila a quella di Filadelfo, che acquista fondi importanti (in particolare quello di Aristotele), settecentomila al tempo di Cesare.
Filadelfo crea inoltre, nel Serapeo, uan seconda biblioteca, ricca di cinquantamila opere.
Gli Attalidi fanno concorrenza ai Lagidi fondando a Pergamo una biblioteca di quattrocentomila volumi, specializzata in opere d’erudizione e meno fornita di opere letterarie.
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Le novità sono altrettanto evidenti per quanto concerne i rapporti degli artisti con i potenti e con il pubblico.
Un tipo umano del tutto nuovo compare in questo contesto sociale: l’uomo di lettere.
Tuttavia, poiché l’antichità ignorava la nozione di diritto d’autore, il letterato non può vivere che grazie alla generosità del sovrano, a meno che non disponga di risorse proprie.
Il mecenatismo diventa dunque la base di tutta la vita letteraria: esso è particolarmente in auge presso i primi Lagidi, che incoraggiano sia la letteratura che le arti e le scienze.
Il pericolo a cui neanche i più grandi poeti potevano sfuggire era quello dello sviluppo di una poesia di corte, con le sue inevitabili adulazioni.
Teocrito, dopo aver tentato invano d’imporsi all’attenzione di Ierone di Siracusa ed avere soggiornato a Coo, dove aveva forse dei parenti, viene a stabilirsi ad Alessandria, e qui finalmente ottiene il favore del re Adelfi.
Ciò gli fornisce l’occasione di scrivere uno degli idilli più mediocri, l’Elogio di Tolomeo: un vero esercizio scolastico nel rigoroso pedantismo del suo schema, modellato sui panegirici dei sofisti e dei retori: vi sono lodati successivamente i genitori, la nascita, i meriti di Filadelfo.
L’esempio delle Siracusane invece, uno dei suoi poemi più perfetti, in cui sa descrivere lo splendore delle feste del palazzo reale ed entrare con eleganza nel gioco dell’apoteosi dei monarchi, Teocrito mostra come la poesia di corte non isterilisca necessariamente l’ispirazione.
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Se la tragedia è morta, la commedia invece sopravvive per un certo tempo con grande splendore ad Atene e si diffonde in Macedonia (Filippo fa dare delle rappresentazioni dopo la presa di Olinto, e Alessandro dopo quella di Tebe) e nell’Oriente ellenistico.
Il coro e la parabasi spariscono: degli intermezzi tendono a spezzare in singoli atti la materia fino ad allora continua.
Un prologo, ispirato a quello della tragedia, permette al poeta di rendere omogenea l’azione e di esporre le proprie opinioni, quasi come avveniva un tempo nella parabasi.
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La storia sopravvive pur trasformandosi radicalmente.
Seguendo la strada tracciata da Eforo di Cime, essa tende a divenire universale: la sua curiosità abbraccia, oltre alla Grecia, tanto l’Oriente (che le si apre con l’epopea di Alessandro) che l’Occidente, su cui le progressive conquiste romane attirano sempre più l’attenzione.
Ma la massa degli eventi è ormai talmente considerevole e le ricerche necessarie talmente vaste, che lo storico diventa un erudito il quale attinge la sua materia dai libri; la sola eccezione è rappresentata da Polibio, che deve alla conoscenza diretta dei fatti narrati l’incontestabile superiorità sui predecessori e sugli emuli.
D’altra parte, la storia si propone sempre più come ricerca scientifica e abbandona talvolta ogni pretesa letteraria.
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Fin dall’inizio della sua opera, Polibio assegna alla storia una duplice funzione didattica, politica e morale: ricavarne degli insegnamenti per l’uomo che governa e insegnare a resistere ai colpi della fortuna avversa.
Rifiuta perciò ogni ornamento e in particolare la retorica.
Per raggiungere il suo scopo deve consacrarsi alla ricerca delle cause, mostrandosi così un discepolo fedele di Tucidide.
Anch’egli esige che si faccia una distinzione tra i pretesti e i motivi reali delle guerre.
Fra questi ultimi, attribuisce un’importanza preminente all’azione di forti personalità, come Annibale o Scipione, alle istituzioni e ai costumi (pensa che la rivalità tra Roma e Cartagine fosse inevitabile, a causa di una sorta di determinismo), ai fattori economici (mostra con grande evidenza il ruolo assunto nella politica romana dal movimento dei capitali, dalla borsa, dai negotiatores). Ai fattori sociali (insiste sull’influenza e importanza della crisi demografica nel declino della Grecia).
Insomma, per lui la storia non è affatto la narrazione di eventi particolari, ma un’opera d’intelligenza orientata verso fini pratici.
Malgrado questa costante tendenza alla spiegazione razionale, invoca spesso la Tyche (Sorte), anche se non ammette, pare, l’esistenza del caso e della provvidenza nello svolgimento degli eventi storici.
La Tyche rappresenta dunque una specie di residuo ed egli si sforza, per quanto gli è possibile, di attribuire ad avvenimenti umani cause umane: così ad esempio la conquista romana appare ai suoi occhi come il risultato di un piano prestabilito e delle doti eccezionali d’una razza.
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Le esigenze di natura etica, già notevoli nelle scuole tradizionali, non fanno che accentuarsi nelle due dottrine che compaiono alla fine del secolo 4., l’epicureismo e lo stoicismo.
Con un po’ di esagerazione si potrebbe dire che la filosofia si presenta ora come il rifugio contro i disorientamento dell’uomo, che non trova più una ragione di vita nel mestiere di cittadino.
La sua prima aspirazione è di offrire una soluzione al problema della felicità; in un caso come nell’altro, malgrado evidenti differenze, la risposta è la stessa: la felicità consiste nel controllo di sé raggiunto da un’anima che sa sfuggire al mondo, liberarsi dalle contingenze, raggiungere uno stato d’indifferenza (atarassia per gli uni, apatia per gli altri), da cui nulla potrà più distoglierla.
Il fondamentale ascetismo che si trova alla base di tali dottrine non è certo una novità alla fine del secolo 4., ma per la prima volta è fondato sulla scienza e in particolare sulla fisica; donde il dogmatismo scientifico che, in realtà, le allontana nettamente dalle filosofie umanistiche della grande tradizione classica.
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La ricerca della felicità intrapresa dai filosofi è senza dubbio il sintomo più caratteristico di quest’epoca turbolenta.
Tale felicità non è tuttavia possibile senza il distacco dell’anima, che mediante l’ascesi si sottrae alle vicissitudini della vita.
Allo stesso modo, durante la crisi dei secoli 3. e 4. dopo Cristo, lo slancio mistico del neoplatonismo prometterà all’iniziato le beatitudini dell’evasione.
Si fa dunque strada un nuovo ideale morale: all’eroe dei tempi più antichi, al cittadino dell’età classica, succede il saggio.
Vi è una sorta di rassegnazione in questa concezione, una fuga davanti al reale, che bisogna dominare dal momento che non lo si può accettare.
Dobbiamo però sottolineare la grandezza di questa ascesi che rende onnipotente l’anima.
La salvezza, a cui aspirano tutte le religione di allora, è ottenuta con la lotta.
Il pensiero ellenico sceglie ormai definitivamente la via dell’individualismo, poiché la coscienza è sola di fronte al suo destino; ma non dispera neppure di riformare lo Stato specialmente grazie agli stoici, eminenti consiglieri dei sovrani; e, quel che è più importante, in un magnifico slancio di vera e propria filantropia non dimentica che tutti gli uomini sono fratelli.
La simiglianza dei concetti di atarassia e di apatia, che rappresentano il punto di arrivo di due dottrine radicalmente eterogenee, non può non colpire lo storico.
Del resto, è stata anche sottolineata la vicinanza tra questi due stati di calma serena e il nirvana delle dottrine indiane: vi si può scorgere indubbiamente qualcosa di più d’un accostamento fortuito.
Certo non è senza un motivo che la medesima saggezza si manifesta nel Mediterraneo orientale e nella pianura indogangetica, tra cui cominciano a stabilirsi contatti così fecondi.
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Se la filosofia e la scienza ci hanno trasportati nel “templi sereni” il cui accesso è riservato solo a pochi specialisti,
l’arte ci riconduce nell’ambito della vita quotidiana.
Infatti nessuna epoca ha mai richiesto come questa agli artisti di abbellire le città e le abitazioni.
Dal punto di vista quantitativo la produzione è immensa; si costruisce febbrilmente e i grandi cantieri di scavi hanno riportato in luce a migliaia statue grandi e piccole destinate a decorare gli edifici.
Gli architetti, gli scultori, i pittori non furono mai così numerosi.
Il mondo ellenistico vive nella prosperità e i sovrani sentono il bisogno di circondarsi di uomini capaci di dare lustro alle loro capitali e alle loro dimore.
Un’altra ragione sta nello sviluppo di una borghesia ricca, amica delle arti e delle lettere, nella quale le tendenze evergetiche si sviluppano nelle corti.
L’arte si laicizza, dato che i grandi promotori sono ora i re e i ricchi borghesi.
Naturalmente l’architettura e la scultura religiose continuano a fiorire, tanto più che non esiste città greca che non abbia il suo santuario, e l’urbanizzazione è uno dei fenomeni più tipici dell’epoca.
Tuttavia, a parte qualche eccezione, lo slancio della fede non esiste più: la costruzione dei templi non comporta innovazioni di alcun genere e ci si contenta generalmente d’impiegare modelli già noti; la statuaria raffigura divinità dai tratti molto umani e le scene di genere sostituiscono spesso il rilievo a carattere religioso.
Nelle belle città ordinate secondo un piano urbanistico razionale, gli edifici civili si moltiplicano; palazzi e case private fanno a gara per lusso e comodità.
L’influenza dell’Oriente non è più sensibile e le arti indigene, oramai in piena stasi, imitano spesso i modelli greci.
Dappertutto trionfa l’ellenismo e assistiamo, malgrado le nette differenze esistenti tra una scuola e l’altra, alla genesi di una sorta di koiné artistica.
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Nonostante le opinioni contrastanti, l’arte greca non rinasce nell’epoca ellenistica perché non era affatto morta; e nemmeno sopravvive a se stessa, poiché innova e si rinnova seguendo le vie più diverse.
Il suo carattere fondamentale va ricercato nella rappresentazione dell’uomo e delle sue angosce, ma anche nell’aspirazione a una felicità serena.
Poche sono le emozioni ch’essa esprime, dal furore delle passioni fino alle dolcezze idilliche.
Nessun tema viene trascurato: greci e barbari, vecchi e bambini, bellezza ideale e deformità.
Destinata piuttosto alle classi agiate, essa trova spesso la sua aspirazione nel mondo degli umili.
Tenta tutte le strade: dal romanticismo di Pergamo fino al barocco di certi rilievi alessandrini.
E’ un’arte prettamente greca, perché come non mai sa cogliere l’essenza dell’uomo in tutte le sue sfumature.
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La religione tradizionale non scompare, come non scomparve nel secolo 4.
Le Panatenee continuano a svolgere le loro processioni lungo le pendici dell’Acropoli, gli atleti si misurano nelle gare olimpiche e Delfi pronunci ai suoi oracoli ambigui, mentre i pellegrini invadono i sagrati di Eleusi: tutti questi santuari continueranno d’altronde ad esser frequentati molto tempo dopo il periodo ellenistico, fino al tramonto del mondo antico.
Ma il fervore della fede non esiste più e i sacrifici pubblici forniscono solo l’occasione per un buon pasto fra l’allegria generale.
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Le divinità dell’Oriente hanno un fascino speciale, fatto in parte di esotismo e di mistero, al quale la Grecia era stata anche troppo sensibile fin dal 420.
Il loro trionfo durante l’epoca ellenistica avviene tanto più facilmente in quanto i greci occupano ormai le sedi stesse di questi culti.
L’Influenza dell’Asia minore rimane notevole, mentre diminuisce quella tracica e aumenta quella egizia.
Tralasceremo provvisoriamente il buddismo e il brahmanesimo, di cui avremo occasione di sottolineare la forza d’attrazione sui greci della diaspora nelle zone più orientali.
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Nuove forme di pensiero fanno la loro apparizione: l’astrologia, l’alchimia: ma nessuna è più importante dell’ermetismo, che trae il suo nome da Ermes, equivalente ellenico del Thoth egizio.
Dio benevolo, inventore della scrittura geroglifica e dispensatore di tutte le scienze sacre, egli misura il tempo, scrive il destino, sa formulare le invocazioni secondo il tono richiesto e, secondo i teologi di Ermopoli, crea anche il mondo con il suo verbo demiurgico.
Per quanto riguarda i trattati ermetici, d’epoca romana anche se derivano da testi ellenistici, gli specialisti non sono sempre d’accordo nel discernere gli elementi egizi da quelli ellenici o anche iranici.
In ogni caso la parte concernente le antiche speculazioni indigene è notevole: “I greci – dichiara Asclepio in uno di questi libri (Corpus hermeticum, 16, 2) – sono capaci solo di parlare nel vuoto e di trovare delle dimostrazioni: in verità, tutta la filosofia dei greci non è che un rumore di parole. Quanto a noi, egizi, non ci serviamo di semplici parole, ma di suoni pieni di significato”.
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Gli adepti delle nuove divinità si raggruppano in comunità culturali.
Mentre per gli dèi poliadi il luogo riservato ai riti era per definizione la città stessa, ora ci troviamo di fronte ad associazioni private, vere confraternite, in cui i fedeli si riuniscono a fianco a fianco dopo aver scelto liberamente di adorare lo stesso dio.
Greci e barbari, cittadini e forestieri, vi confluiscono.
Benché gli schiavi si radunino talvolta fra loro (come i competaliasti a Delo), la maggior parte delle comunità accolgono indistintamente uomini liberi e schiavi.
Uomini e donne sono considerati uguali e anche i bambini sono ammessi come chierichetti.
E’ facile immaginare il poderoso fermento d’unificazione sociale rappresentato da queste confraternite: al mondo classico, in cui l’opposizione fra il greco e il barbaro, tra il cittadino e lo schiavo era assoluta, in cui la donna era in ultima analisi disprezzata, succede un mondo nuovo che cancella gli antagonismi.
Tutti gli uomini, si sentono fratelli perché venerano uno stesso dio e attendono da lui la stessa salvezza.
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In quest’epoca tormentata dall’angoscia gli uomini colti ed eletti trovano il proprio equilibrio nella ragione filosofica che dissipa i dubbi, così come gli umili trovano la salvezza nelle speranze che le diverse dottrine offrono loro.
Roma sarà l’erede di questa religione tanto viva e fervente, in cui il contributo dell’Oriente non deve essere sottovalutato rispetto a quello ellenico.
Da questo mondo nascerà più tardi un’altra religione orientale, fondata anch’essa sui misteri, anch’essa apportatrice di salvezza, che s’imporrà lentamente: il cristianesimo.
Quantunque le sue radici ebraiche siano evidenti, esso troverà la base psicologica nelle dottrine ellenistiche: la trinità, la possibilità di un’unione tra la natura divina e quella umana, la madre del Salvatore, il culto dei santi; tutti questi dogmi possono trovare il loro equivalente diretto nei regni ellenizzati d’Oriente, mentre sono profondamente estranei al giudaismo.
Notiamo inoltre, ed è forse ciò che più conta, che il cristianesimo come i culti mistici dell’Asia o dell’Egitto insegna ad amare e non a temere Dio.
Nel vasto confronto tra la Grecia e l’Oriente, originato dalle conquiste di Alessandro, è difficile determinare quale sia stato l’apporto orientale alla civiltà ellenistica; esso è quasi nullo in letteratura e nella scienza, un poco più palese in arte, in filosofia, nelle scienze, ma molto importante nella religione.
Tutto ciò che concerne la letteratura in generale e il linguaggio, è poco sensibile alle influenze orientali, ma i riti e le credenze dell’Oriente seducono con il loro mistero gli spiriti.
Un greco dell’Egitto in caso di malattia si rivolgerà ad un medico greco, che impiegherà un metodo diagnostico, un trattamento e una farmacopea quasi esclusivamente ellenici.
Ma se in questo modo non otterrà la guarigione, la chiederà a Amenhotep figlio di Apu, “dio molto buono”, implorandolo nelle tombe poste sulla montagna di Tebe.
Molti graffiti, quasi tutti incisi in greco, dimostrano la frequenza di queste pratiche.
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Cap. 4. Al di là delle frontiere politiche
L’estensione dell’oikoumene è forse il fenomeno più importante dell’epoca.
Esso si manifesta chiaramente sia in Occidente che in Oriente e non è quindi originato solo dalla conquista di Alessandro.
Vi sono interessati sia territori di antica civiltà, come Cartagine o l’India, sia regioni ancora barbariche, come la Scizia, la Gallia o l’Iberia.
Dappertutto, il mondo si schiude alla penetrazione ellenica; grazie alle relazioni commerciali, all’arte, al pensiero, alla religione, il modo di vivere dei greci si diffonde lontano, facendo da lievito alle civiltà più diverse.
In questa evoluzione generale possiamo distinguere due aspetti differenti.
Da una parte il fenomeno, ben noto fin dai tempi arcaici, dell’ellenizzazione mediante la fondazione di colonie in terre balcaniche: senza Marsiglia per esempio l’Occidente gallico, ligure o iberico non sarebbe diventato quello che fu invero.
D’altra parte i rapporti commerciali su grandi distanze (alcune migliaia di chilometri separano l’Occidente mediterraneo dall’India e dalla Cina), che stabiliscono un contatto fra mondi prima ignoti l’uno all’altro.
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Fin dal quinto secolo l’Occidente è quasi interamente celtizzato, ma il dinamismo turbolento dei celti li spinge ad altre conquiste.
All’inizio del secolo quarto essi occupano l’Italia padana creandovi uan nuova Gallia.
La Gallia meridionale riceve nuove ondate di immigranti nel secoli quarto e terzo, le Isole Britanniche e la Spagna nel terzo; altri s’installano nella valle danubiana e giungono fino all’Illiria e in Tracia.
Le orde dei galati saccheggiano la Grecia nel secolo terzo, prima di volgersi verso l’Asia Minore, dove molti finiranno per stanziarsi definitivamente in Galazia.
A partire dal 250 i belgi conquistano tutto il nord della Francia e una parte della Gran Bretagna.
Al termine di questa espansione la regione celtica comprende la Germania fino all’Elba, tutta l’Europa centrale da una parte e dall’altra del Danubio, le Isole Britanniche, la Francia, l’Italia settentrionale, la Spagna e il Portogallo.
Nella stessa Scandinavia notiamo molte influenze celtiche, dovute soprattutto all’importazione di oggetti artistici.
Nessun altro popolo dell’Europa indipendente è altrettanto potente.
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Marsiglia conserva la sua potenza.
Durante la seconda guerra punica è la più fedele alleata di Roma, con la quale manteneva da tempo ottimi rapporti.
Nel secolo secondo Roma la ricompensa inviando le sue truppe a difenderla contro i celto-liguri e dotandola d’un vasto territorio tolto ai suoi nemici lungo il litorale, mentre fino ad allora essa aveva potuto disporre esclusivamente di un retroterra molto ristretto.
Solo la cattiva scelta nel conflitto fra Cesare e Pompeo le farà perdere la libertà e verrà allora annessa all’Impero.
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Da tempi immemorabili la costa che si stende dalle foci del Rodano fino all’Arno era occupata da popoli primitivi, i fieri liguri, d’origine non indoeuropea.
In Provenza essi si fondono con la nuova ondata d’invasori celti (secolo quarto), dando così vita a una civiltà mista.
nasce una potente confederazione celto-ligure, quella dei Sali, che ha come principali centri Arles e Entremont (alla periferia di Aix-en-Provence).
Per quanto i rapporti con Marsiglia siano spesso tesi, si formano presto dei legami commerciali, tanto più che i celti si mostrano più sensibili dei liguri all’ellenismo.
Del resto Marsiglia è potentemente fortificata e possiede ancora a Saint-Blaise uno straordinario avamposto, che solo i luogotenenti di Cesare riusciranno a distruggere.
I suoi mercanti sono ben protetti e generalmente vengono accolti con favore, in virtù d’accordi stipulati con gli indigeni dell’interno.
Una mano di bronzo (inizio del secolo primo) rinvenuta nell’Alta Provenza è una tessera d’ospitalità con i velauni, tribù delle Alpi Marittime.
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Questo insediamento coloniale nel retroterra sembra essere un fatto unico; ma solo il commercio può spiegare l’ellenizzazione tanto rapida dei celto-liguri.
Vengono introdotte la coltura della vite e dell’olivo, in misura tuttavia assai limitata.
Gli oppida sono fortificati secondo le tecniche greche con mura ben costruite, che contrastano con quelle delle cinte della Gallia chiomata.
Il culto di Dioniso si diffonde con l’amore per il vino.
I celti cominciano a scrivere la loro lingua con l’alfabeto greco: esistono in Provenza una quarantina d’iscrizioni celto-greche assai enigmatiche, tra cui le famose dediche alle Madri (dee galliche della Fecondità) di Glanon.
Ma, soprattutto, prende forma un’arte celto-greca, nota essenzialmente grazie alle scoperte di Entremont e di Roquepertuse.
I temi sono celtici, ma la tecnica è visibilmente ispirata a quella greca.
Certo questa scultura rimane assai barbara e ci si stupisce che, per quanto risalga ai secoli terzo e secondo, faccia sovente pensare all’arcaismo greco, coem se gli scultori all’inizio si fossero trovati davanti agli stessi problemi e per risolverli avessero ricorso alle stesse convenzioni.
Se però si confrontano questi oggetti celto-greci con le sculture prettamente celtiche, come la testa scoperta a Msecké-Zébrovice (Boemia) con la sua bizzarra stilizzazione, o il dio col cinghiale di Euffigneix (Alta Marna), si potranno notare i decisivi progressi, compiuti sotto l’influenza mediterranea.
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Dalle Alpi ai Pirenei, la Gallia meridionale è una “Gallia greca”, secondo l’espressione di Giustino.
Benché Marsiglia non vi eserciti alcuna supremazia politica, i suoi scambi commerciali introducono largamente nuove esigenze e un altro stile di vita.
La differenza con le regioni celtiche dell’interno rimane sostanziale: qui infatti la civiltà conserva una rozzezza gallica, malgrado alcuni evidenti apporti ellenici.
A partire dal 125 Roma, dovendo assicurarsi il collegamento con le province iberiche, occupa la regione di cui Narbo Martius diverrà la capitale, e crea una nuova provincia, la Transalpina, che prenderà il nome di Narbonense sotto il regno di Augusto.
La conquista romana modifica rapidamente i rapporti di forza, benché Marsiglia rimanga indipendente fino al 49 ed assorba un vasto territorio.
Gli oppida della Provenza che hanno opposto resistenza vengono invece selvaggiamente distrutti e perfino nel Languedoc, dove sopravvivono avendo preferito la sottomissione, il commercio va orientandosi risolutamente verso l’Italia, come risulta dal gran numero di monete romane.
La decadenza di Marsiglia precede di qualche tempo la sua rovina politica; del resto la grande strada costruita dai romani, la via Domiziana, passa volutamente lontano da Agde, il centro principale del suo traffico.
Roma occupa oramai il posto della città focese, che nell’epoca imperiale sarà una città morta, un centro universitario geloso del suo patrimonio ellenico, preservato per tanti secoli.
Ma l’impronta data da Marsiglia al Mezzogiorno della Francia non scomparirà: se la Narbonense raggiungerà un incomparabile splendore, lo dovrà al fatto di essere stata percorsa, in ogni senso e fin dai tempi più arcaici, dai mercanti greci, ricevendone la civiltà
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Ciò nonostante dobbiamo riconoscere i limiti di tale ellenizzazione, che svanisce rapidamente man mano che si procede verso la Meseta e che non impedisce ad altre influenze di manifestarsi, e in particolare a quella cartaginese.
Ma la trasformazione che ne deriva, così come avvenne per la Gallia meridionale, non è meno profonda.
In queste due regioni una delle creazioni più brillanti della civiltà greca, la statuaria, ha sedotto gli indigeni al punto da spingerli ad imitarla per esprimere le loro proprie concezioni.
Anche qui i romani, quando conquistano la Spagna per strapparla ai cartaginesi (l’intervento romano ha luogo nel 219, con il primo sbarco di truppe ad Emporion, dunque molto tempo prima che in Gallia Transalpina), grazie ai greci si trovano davanti a un paese non più barbaro.
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Al principio dell’epoca ellenistica il Mediterraneo centrale è diviso fra due repubbliche aristocratiche, dapprima alleate e poi ben presto rivali: Cartagine e Roma.
Entrambe subiscono l’influenza dell’ellenismo più intensamente delle nazioni barbare d’Europa.
L’antica colonia fenicia non è più confinata nell’isolamento dei secoli precedenti.
La sua apertura sul mondo esterno fa però aumentare le agitazioni sociali.
Il popolo, ostile al potere aristocratico, rivendica i suoi diritti dopo le sconfitte della prima guerra punica e la rivolta dei mercenari.
Una grande famiglia, quella dei Barca, ne approfitta per appoggiarsi alle classi inferiori e dar corso in Spagna ad una serie d’imprese personali che ricordano quelle di Alessandro e dei diadochi.
Uno dopo l’altro Amilcare (che vi sbarca nel 237), il genero Asdrubale e il figlio Annibale, vi estendono progressivamente il loro potere.
Lo Stato da loro creato si appoggia su un esercito di mercenari e presenta tutti i caratteri d’una monarchia ellenistica: essi svolgono uan politica d’integrazione razziale, sposano delle principesse iberiche, fondano una nuova Cartagine (Cartagena) e coniano delle monete su cui sono effigiati come re, la testa cinta dal diadema.
Dopo un’interruzione di quasi due secoli Cartagine riprende a commerciare con il mondo greco.
I suoi rapporti con l’Egitto sono particolarmente stretti, così come con Rodi e la Campania,
La moneta vi compare fin dal secolo quarto (persino dal secolo quinto nella Sicilia punica, per pagare i mercenari); il campione usato è quello fenicio, identico a quello dei Tolomei.
A Tebe e a Delo risiedono numerosi mercanti punici; Tebe ha un prosseno a Cartagine.
Plauto, ispirandosi a una commedia greca, fa sbarbare un negoziante punico a Calidone, dove c’è un rappresentante della sua città.
Il traffico è basato sullo scambio con manufatti greci, derrate alimentari del Magreb e minerali greggi, importati grazie al commercio con le lontane terre dell’Africa nera (oro dei placers della Gambia) o con le Isole Britanniche (stagno).
Gli oggetti greci sono frequenti a Cartagine stessa o nelle necropoli del Capo Bon: vasellame, bronzi, avori.
Un bel vaso con decorazione plastica, ritrovato ad Alessandria, presenta una testa d’uomo sul coperchio e una rana al di sotto: simbolo egizio della resurrezione.
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A Roma, l’ellenizzazione era già un fatto compiuto.
Le due date essenziali sono il 343, anno dell’accordo con Capua, che orienta interessi e curiosità verso una zona profondamente ellenizzata, e il 272, anno che vede la caduta di Taranto e che mette un termine definitivo alla conquista della Magna Grecia.
D’ora in poi i contatti politici e militari con il mondo ellenistico, la dominazione progressiva sul bacino orientale del Mediterraneo e l’afflusso di schiavi dall’Oriente non faranno che accelerare il processo.
Invano i conservatori cercheranno di arrestarlo: Catone il Vecchio farà approvare delle leggi sontuarie, ma egli stesso imparerà il greco in tarda età; nel 186 il Senato reprimerà severamente i Baccanali, senza peraltro riuscire a scacciare Bacco né a vincere il misticismo.
La causa di questa irreversibilità deve essere ricercata nell’evoluzione profonda che caratterizza la situazione sociale.
La città è divisa dalle lotte fra patrizi e plebei, gli uni e gli altri avidi di piaceri.
Il potere autocratico dei sovrani orientali esercita un certo fascino sugli spiriti più nobili; si avvicina sempre di più il momento in cui degli imperatores privi di scrupoli detteranno legge allo Stato.
Quanto al popolo, essi non è insensibile al radicalismo di certi pensatori politici greci.
Compare inoltre il grande commercio, che segue l’esempio greco.
A partire dal 326, Roma fa coniare in Campania le sue prime monete d’argento, i “didracmi romano-campani”.
La sua iniziazione all’economia monetaria è abbastanza rapida: fin dal 289 abbandona il campione greco a favore del sistema della libbra e nel 269 trasferisce i laboratori nella città stessa.
Nel 179 costruisce ad Ostia un vasto porto di tipo ellenistico.
Da quel momento i negotiatores e i banchieri italici si differenzieranno dai loro concorrenti orientali solo per un’avidità ancor più sfrenata.
Il cambiamento più palese si manifesta nelle abitudini della vita quotidiana.
L’abitazione tradizionale, con l’atrium, viene ampliata nella parte posteriore con un peristilio.
I pavimenti si rivestono di mosaici, le pareti di affreschi, di cui Pompei ed Ercolano hanno conservato begli esemplari.
I vecchi mobili di legno sono sostituiti con tavole di marmo e letti in bronzo.
I ricchi vogliono abiti più sontuosi, banchetti e cibi più raffinati.
La città diventa più bella, non solo perché si costruiscono nuovi edifici, ma anche perché i saccheggi vi fanno affluire in gran numero i capolavori dell’Oriente.
Silla riporta un capitello dell’Eretteo: la nave carica d’opere d’arte rinvenuta al largo di Mahdia (Tunisia) conteneva forse uan parte del suo bottino.
Il caso di Verre è lungi dall’essere isolato.
Le conseguenze sulla moralità pubblica sono funeste.
La vecchia società patriarcale si dissolve; l’autorità del pater familias è messa in dubbio.
Matrimoni d’interesse e divorzi sono sempre più frequenti e la ricerca sfrenata del piacere succede all’austerità d’un tempo.
Pag. 509-10
Dobbiamo esaminare soprattutto le forme epurate d’arte ellenistica che producono a Roma un prodigioso risveglio artistico.
La letteratura, fino ad allora piuttosto rozza, nasce realmente nella seconda metà del secolo terzo.
Le prime manifestazioni sono il teatro e il poema epico.
Tragedia e commedia si sostituiscono alle forme drammatiche primitive (indigene o di provenienza etrusca e osca) e traggono i loro soggetti dalla Grecia.
Lo si nota nella commedia di costume chiaramente greca, la palliata (che deve il suo nome al pallium, abito greco).
L’epopea trova uan naturale fonte d’ispirazione nelle lotte titaniche di Roma contro Cartagine, ma utilizza esclusivamente gli schemi ellenici.
L’arcaico verso il latino, il saturnio, lascia presto il posto ai metri greci.
Anche la storia si sviluppa in questo periodo, ma i primi annalisti, Q. Fabio Pittore e L. Cincio Alimento, non pensano di poter scrivere se non in greco.
Pag. 511
Il più concreto dei popoli comincia ad apprezzare la filosofia.
Nel 155 Atene invia come ambasciatori i capi delle sue scuole più famose (Liceo, Accademia, Portico).
Carneade crea uno scandalo tenendo due conferenze contraddittorie sul medesimo tema.
Il circolo degli Scipioni è un intenso focolaio intellettuale e non è certo un caso se Cicerone lo sceglie come sfondo per i suoi dialoghi filosofici.
Ormai i filosofi affluiscono a Roma e, per quanto siano spesso oggetto di schermo, l’influenza che esercitano è duratura.
……………….
L’antica religione romana con il suo fondamentale animismo e i suoi strani riti sopravvive, ma vi si sovrappongono sempre più elementi ellenici, secondo un processo evolutivo iniziatosi fin dall’epoca arcaica.
Già da lunga data le principali attività del pantheon romano erano state identificate con divinità greche.
Apollo, così greco da essere stato il solo a conservare il proprio nome, favorisce con lo sviluppo del rituale ellenico il progresso d’una religione aperta e fraterna, in netta opposizione con il severo formalismo tradizionale.
Il suo culto favorisce successivamente la rinascita del pitagorismo e il rifiorire degli oracoli sibillini dell’epoca sillana.
Cerere prende il volto mistico e doloroso di Demetra, madre di Persefone, e viene venerata alla greca durante il sacrum Caereris, in cui le matrone osservano il digiuno e l’astinenza sessuale per nove giorni.
Venere, un antico demone della fecondità femminile, diventa la protettrice dei grandi uomini: Silla, Cesare, Pompeo.
Ma i tradizionali dèi ellenici non sono più sufficienti né ai romani, né agli stessi greci.
Il misticismo orientale irrompe a sua volta in Roma, specialmente durante la terribile crisi della seconda guerra punica.
Dopo Canne si attende il responso dell’oracolo di Delfi, e nel 212 vien fatta venire da Pergamo la Gran Madre di Pessinunte, solennemente consacrata sul Palatino.
I misteri bacchici attraggono tutti coloro che non separano il misticismo dai culti di tipo più naturalistico.
Nel 186 il Senato deve intervenire duramente contro le orge scandalose dei Baccanali.
La repressione è terribile: settemila arresti, per la maggior parte seguiti da esecuzioni capitali.
Indubbiamente, al di sotto di tutte le forme di ellenizzazione, sopravvive il vecchio sostrato romano, sempre caratterizzato da una grande concretezza e amore per il prammatismo, e con la sua diffidenza nei confronti delle speculazioni e delle ricerche intese a rendere più bella l’esistenza.
Si è osservato, per esempio, che i nomi dei legumi sono latini, mentre quelli dei fiori sono greci.
Ma la penetrazione dell’ellenismo è irresistibile; d’altronde le medesime necessità, le medesime aspirazioni appaiono in Italia e nel bacino orientale del Mediterraneo.
A partire dal secolo terzo anche Roma diviene uan città ellenistica.
I suoi cittadini più illustri non dimenticano questo debito culturale e Cicerone ricorda a suo fratello ch’egli comanda a dei greci, “una razza che, non paga di essere civile, passa per essere la culla della civiltà”. (1,. 1., 27).
Pag. 513-14
La spedizione di Alessandro in India apre degli orizzonti illimitati all’espansione greca verso Oriente.
A causa dell’ammutinamento dei veterani il conquistatore non può penetrare fino nel bacino del Gange, e i suoi eredi, i Seleucidi, assisteranno al progressivo smembramento di un regno smisuratamente grande, che perderà le satrapie orientali.
Ma i contatti che si sono così stabiliti non s’interrompono: lo testimonia fin dall’inizio del secolo terzo la storia del più grande fra gli imperatori indiani dell’epoca ellenistica, Asoka.
Principi greci continuano a regnare su vastissime regioni divise oggi tra le repubbliche meridionali dell’Urss, l’Afghanistan, il Pakistan e perfino una parte dell’Unione Indiana.
Meglio ancora, i rapporti commerciali e culturali tra l ‘India e il mondo mediterraneo si intensificano.
Pag. 522
È sorprendente il fatto che questi regni greco-battriani, e poi greco-indiani, siano potuti sopravvivere per due secoli.
Quest’appassionante avventura storica è stata possibile solo grazie al dinamismo e all’abilità di quei condottieri i cui profili energici e scaltri si stagliano sulle monete.
Alcuni osano spingere i loro eserciti molto più lontano di Alessandro, fino in piena valle del Gange.
Dotati del titolo di re, come i monarchi seleucidi o lagidi, e dei loro stessi epiteti, a volta anche prima di loro (Antimaco Theos, Platone Epifane) amministrano i propri Stati alla maniera greca, con l’aiuto di strateghi che governano le satrapie e tengono sotto di sé dei meridarchi (comandanti di frazioni).
La politica di urbanizzazione continua e conosciamo la città di Demetriade di Aracosia, fondata da un Demetrio, e un Dionisopoli nel Gandhara.
Pag. 525-26
Una parte della pianura dell’Indo e del Gange si aprì per un breve periodo alle ardite iniziative di questi re; ma durante tutto il periodo ellenistico vi si svolse un’altra epopea, quella dei mercanti che spediscono verso il Mediterraneo i prodotti di lusso dell’India e dell’Afghanistan: avori, pietre, preziose, perle, profumi, spezie, mussola, legni pregiati e inoltre animali (elefanti soprattutto e pappagalli, cani, bestiame indiano, che ritroviamo ad Alessandria), e perfino delle cortigiane.
Possiamo individuare tre strade che costituiranno le grandi arterie per il traffico con l’India nell’epoca romana, ma che erano già utilizzate fin dall’epoca ellenistica.
La più semplice è costituita dalla rotta marittima che giunge in Arabia; essa è utilizzata durante il monsone che permette di andare e ritornare rapidamente e a date regolari.
Ora, il monsone fu conosciuto dai greci solo in un periodo tardo, grazie ad un certo Ippalo: verso l’80 a. C. per gli uni, verso il 40 della nostra era per altri.
Da molto tempo i marinai arabi, indiani e cingalesi avevano notato il fenomeno e il traffico più importante si trovava dunque nelle loro mani.
Le mercanzie venivano generalmente sbarcate nel Golfo Persico, a Gerrha e, alle bocche del Tigri, nella città di Alessandria Charax (più tardi chiamata Antiochia).
Nel primo caso esse sono convogliate per mezzo di carovane condotte dai gerrhei verso Petra, di qui raggiungono Gaza e i porti della Siria e Alessandria.
Nel secondo caso risalgono fino a Seleucia sul Tigri, dove si ricongiungono con la seconda via.
Pag. 527
I ritrovamenti di Begram, ai quali si dovrebbero aggiungere i documenti ionici e gli enigmatici poliedri alessandrini di Tessila, dimostrano che fin dall’epoca ellenistica – dunque molto prima che il commercio romano faccia affluire gli oggetti greco-romani – degli esemplari di grande qualità artistica provenienti dal Mediterraneo giungono nel mondo indiano.
Si può così spiegare la profonda influenza che l’arte greca esercita su quella buddistica contemporanea.
Si dovrebbe tuttavia parlare piuttosto di influenza occidentale, poiché l’apporto ellenico è accompagnato spesso da componenti iraniche e persino mesopotamiche.
Pag. 529
Le divinità e gli eroi della religione greca forniscono dunque al buddismo la sua iconografia, come avverrà più tardi con il cristianesimo.
Tuttavia, paradossalmente, la tradizione ellenica sarà più forte in Asia che in Occidente.
Nel corso di un millennio circa il Budda-Apollo conquista a poco a poco le Indie, l’Asia centrale, l’Indocina, la Cina, la Corea, il Giappone, subendo una lenta evoluzione e varie deformazioni.
In tutto l’ellenismo non esistono ripercussioni così impreviste.
Il più bello fra gli dèi greci si diffonde contemporaneamente all’evangelizzazione buddistica: la sua influenza si estende a macchia d’olio in terre lontane.
Pag. 530
I rapporti tra l’India e l’Occidente non si limitano allo scambio di prodotti di lusso e gli insegnamenti dell’arte greca; si instaura anche una serie di rapporti che conduce questi due mondi a una conoscenza più diretta.
Certo non sono contatti nuovi: alcuni elementi orientali del pitagorismo possono essere di origine indiana.
In ogni modo lo è di sicuro il “grande anno” di 10800 anni che, secondo Eraclito, discepolo di Aristotele, parla della visita fatta a Socrate da un saggio indiano, che gli insegna come non si possano conoscere le cose umane senza conoscere quelle divine: vero o falso, l’aneddoto non sembra affatto assurdo.
La storia delle scienze (soprattutto l’astronomia e la medicina) fornirebbe inoltre esempi validi di questa influenza dell’Oriente sull’Occidente.
I trattati ippocratici fanno menzione delle cure indiane.
Quello Sui venti spiega la malattia con la circolazione del vento nel corpo seguendo le speculazioni braminiche.
Platone nel Timeo spiega l’equilibrio corporeo con l’esistenza di tre sostanze fondamentali: l’aria, la flemma e la bile, dottrina classica nella fisiologia indiana.
Le ambascerie e il commercio moltiplicano le informazioni sul lontano Oriente nei regni mediterranei.
Si ammira la vita esemplare e la saggezza dei gimnosofisti.
La famosa conversazione di Cinea con il suo padrone Pirro ricorda in modo curioso un dialogo tra il re Koravyo e il Budda Ratthapalo.
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Si ha difficoltà ad ammettere che siano esistiti rapporti più lontani ancora, con il mondo mongolo e cinese.
Essi sono tuttavia indiscutibili, benché sporadici e soltanto intuibili, in parte grazie ai reperti di casuali ritrovamenti archeologici.
Anche in questo caso la Battriana ha un ruolo capitale.
Delle piste interminabili, sulle quali il viaggiatore soffre la sete e deve superare dei tratti molto ardui, la congiungono da lunga data con il mondo cinese.
Due di queste piste meritano una particolare attenzione.
La prima raggiunge Kashgar attraverso le valli del Pamir e aggira sia a nord (Aksu, Turfan, Kanchow) il bacino desertico del Tarim; da questo punto la strada verso la Cina diviene più facile.
La seconda pista punta dritta verso nord in direzione di Samarcanda, dove si può raggiungere il tratto settentrionale della prima ad Aksu, oppure continuare verso nord-est e raggiungere il Fiume Giallo attraverso la Mongolia.
I testi cinesi citano Ta-yuan (Fergana), annessa almeno in parte dai re battriani, e Ta-hia (Battriana).
Forniscono notizie precise sulla conquista del regno battriano da parte dei Yueh-chi.
L’imperatore Wu manda in Afghanistan una missione con lo scopo di raccogliere delle informazioni; essa è diretta da Chang-Ch’ien (circa 138-125) e il suo resoconto verrà utilizzato e parzialmente riprodotto verso il 100 da Ssu-ma Ts’ien: vi sono menzionate in particolare numerose città fortificate che possono essere solo opera dei greci.
Pag. 532
Dal Bou Regreg al Gange, dall’Elba al Nilo azzurro, il solo fattore capace di unificare in un certo modo questo mondo così vario è la diffusione dell’ellenismo.
Ma il pensiero e il modo di vivere dei greci viene assimilato in modo diverso, a seconda della distanza, del carattere etnico e, soprattutto, del grado di civiltà.
Roma esce totalmente trasformata dal contatto con i regni ellenistici; i celti, gli iberi, i nubiani raggiungono grazie ad essi un modo di vita più umana; gli indiani invece riceveranno solo un nuovo concetto della bellezza.
D’altronde la grecità si impone ovunque non con la forza, ma con il suo indefinibile fascino.
Esso conquista moralmente dei popoli già sottomessi ma anche i romani, politicamente vittoriosi sui greci, e i parti e gli sciti, affrancati dalla loro tutela.
La famosa frase di Orazio (Epistole, 2., 1., 156) sulla “Grecia vinta, che ha vinto il suo feroce vincitore è valida anche per molte altre nazioni, oltre che per Roma repubblicana.
Cedere al fascino ellenico non significa per nessun popolo rinunciare a se stesso; ma piuttosto trovare i mezzi per realizzarsi pienamente, per meglio esprimersi ed accedere a una vita più umana.
Donde l’importanza di un’arte che diffonde forme magnificamente armoniose, un linguaggio in cui materia e spirito sembrano fondersi, e una sintassi che esprime nel modo più raffinato le apparenze e la realtà essenziale.
Per i migliori dell’ellenismo è stato una liberazione, l’accesso ai templi sereni, l’abbandono delle superstizioni e dei ritualismi.
Per tutti è stato una rivelazione, una profonda presa di coscienza delle proprie possibilità virtuali, un mezzo per approfondire le convinzioni più intime.
L’austero volto degli eroi di Entremont e il sorriso sereno e superiore dei Budda, del Grandhara possono perciò essere considerati allo stesso modo figli della Grecia.
Pag. 534
Conclusioni generali
Un’altra avventura inizia con l’annessione progressiva dei regni ellenistici da parte di Roma.
Il periodo storico che si apre non è tuttavia del tutto differente da quello che lo precede.
Da una parte il territorio orientale dell’Impero rimane per intero di lingua e di cultura greca; la Grecia stessa conosce nel secolo secondo d. C. una rinascita, alla quale contribuiscono personalità differenti come Plutarco, Luciano e Pausania.
D’altra parte in Occidente le province più dinamiche, che dimostrano una lunga vitalità, sono quelle penetrate dall’ellenismo: la Betica, la Tarraconese, la Narbonese e l’Africa.
La stessa Roma è totalmente ellenizzata: diffonde ovunque un’educazione retorica ereditata dai greci, un’arte che rimane, fino alla rottura del secolo terzo, nella corrente di quella ellenistica, una letteratura ispirata dai modelli greci, una religione derivata da un sincretismo greco-orientale.
Sotto il regno degli Antonini la filosofia di Stato è direttamente ispirata dal pensiero stoico.
La monarchia autocratica e gli ingranaggi dell’amministrazione provinciale sono ricalcati sui reami ellenistici.
Durante la crisi che, nel secolo terzo, scuote il mondo romano fino nelle sue fondamenta, Plotino e i suoi discepoli trovano nuovi fermenti di vita spirituale in una rinascita del platonismo.
Una religione orientale, che fin dal secondo secolo ha assimilato la parte più viva del pensiero antico, si diffonde sempre più.
L’apologista Giustino osa scrivere: “Socrate era stato una incarnazione del Logos; il Cristo ne fu un’altra più completa, poiché egli è la verità assoluta”.
Dopo la divisione definitiva dell’Impero in due parti, l’Occidente risente sempre meno degli apporti ellenici, sebbene le lettere greche continuino per un certo tempo ad essere diffuse.
In Oriente, dove la pressione dei barbari è stata meno forte, il basileus bizantino si considera fino al 1453 come l’erede diretto degli imperatori romani e dei monarchi ellenistici.
Il platonismo si diffonde a Costantinopoli durante il secolo nono con l’opera di Psello, e conquista Mistra nel secolo quindicesimo grazie al pensiero di Gemisto Platone.
In Occidente la grecità contribuisce sensibilmente al rinnovamento del pensiero sia durante la rinascita carolingia che nel Rinascimento, quando eruditi e poeti “compulsano giorno e notte gli esemplari greci”.
Senza trattare di periodi storici più recenti, dobbiamo tuttavia riconoscere che la grecità bizantina e anche quella classica, dopo aver permeato la cultura romana (il cui ruolo storico, oltre all’unificazione politica, brillantemente realizzata, del mondo mediterraneo, è stato quello di servire da ponte con la cultura greca) fece giungere i suoi lumi fino nelle tenebre medievali e fu alla base del rinnovamento che ha inizio con l’era moderna.
L’ampiezza e la durata di una tale influenza non possono lasciare indifferente lo storico.
Noi non consideriamo più, come Renan, il “miracolo greco” quale una creazione assoluta, una Fiat lux; sappiamo con certezza che i greci, con la loro curiosità e la loro duttilità, subirono le influenze dei preelleni e degli orientali.
Anch’essi fecero da ponte tra le prime affermazioni della civiltà umana negli imperi d’Oriente e Roma, che a sua volta trasmise questo messaggio fino al Medioevo e alla nostra epoca.
D’altra parte oggi noi conosciamo le tare di una civiltà alla quale non possiamo più, in ogni modo, guardare come a una età dell’oro.
In effetti la civiltà greca offre anche un altro volto; non possiamo dimenticare l’esistenza della schiavitù, le orribili esposizioni di bambini, la pederastia, di cui Platone, mettendola sullo stesso piano della ginnastica o della filosofia, faceva un tratto caratteristico dei greci, che si differenziano così dai barbari.
La disunione costante rese inoltre la storia greca, da Micene all’epoca ellenistica, un seguito quasi ininterrotto di conflitti cruenti.
“Atene è stata solo un’immagine rudimentale del paradiso” (J. L. Borges).
Ciò nonostante non possiamo fare a meno di sottolineare quel dinamismo fondamentale, elemento permanente nel corso di due millenni, che sopravviverà, elemento permanente nel corso di due millenni, che sopravviverà persino all’annientamento politico del mondo greco.
La sua causa prima, ed anche la più evidente, deve essere ricercata nell’energia, nella costanza, nell’ostinazione di un piccolo popolo.
Queste caratteristiche sono tanto valide quanto quelle che noi a giusto titolo ammiriamo in tutto lo sviluppo della storia romana.
Questo accanimento compare tanto negli sforzi compiuti per creare delle forme politiche, per aprire nuovi sbocchi economici, che nella conquista della verità realizzata con intelligenza e passione.
Socrate, nel Fedro, non vuole che i suoi compagni si addormentino per la siesta: è meglio dialogare, affinché le cicale messaggere dicano alle Muse che essi praticano la filosofia e la musica, due discipline sorelle coem le loro divine patrone.
Lungo tutti questi secoli vi è un fine al quale mira la civiltà greca; nel tardo ellenismo esso viene simboleggiato con l’antica immagine omerica della catena d’oro, divenuta allegoria di quel saldo legame, che unisce tutte le generazioni nella ricerca del vero.
Da ciò proviene lo spirito giovanile che nella grecità ci appassiona e ci seduce.
“Voialtri greci siete sempre dei fanciulli: un greco non è mai vecchio. Voi tutti siete giovani nell’animo”, diceva già a Solone, con una certa condiscendenza, il sacerdote egizio del Timeo di Platone (22b).
Al centro di questa ricerca si intuisce uan costante: lo sforzo inteso ad ottenere i mezzi che permettono ad un uomo di realizzarsi compiutamente.
Ma l’uomo greco non è un isolato e vive fra altri uomini; di qui il suo interesse per il problemi politici e la sua appassionata ricerca di nuove forme sociali, assai mutevoli secondo le epoche (regni achei o ellenistici, città arcaiche o polis classiche) che non soffochino la personalità dell’individuo.
Uomo in un kosmos che gli è infinitamente superiore, ma che egli può dominare stabilendo delle relazioni armoniose con le potenze soprannaturali e, soprattutto, elaborando una cosmologia e una scienza che ne penetrino i misteri.
Uomo infine che si trova di fronte ai suoi problemi e che deve procurarsi i mezzi per controllare i suoi istinti e dirigere il suo destino.
Possiamo dunque definire le due caratteristiche che, sommariamente, fanno emergere meglio le qualità della civiltà greca: ordine e misura.
L’ordine, come insegnava Anassagora, è il trionfo dello spirito: con la sua azione si possono subordinare gli elementi inferiori a quelli superiori dopo una dura battaglia; ma per ottenere questo risultato bisogna dapprima vincere se stessi; e, ancor più, andar oltre la propria individualità.
Non meno difficile da raggiungere è la misura; essa nasce da un calcolo ragionato delle capacità e dei limiti dell’uomo e permette al cittadino greco di sottrarsi agli eccessi degli imperialismi orientali e alla violenza delle passioni.
Non dobbiamo dunque meravigliarci se i greci si sono ostinatamente rifiutati di mutilare l’uomo, di soffocare uan qualunque delle componenti che gli conferiscono la sua perfetta novità.
Il corpo è accuratamente educato, la sensibilità viene controllata solo per essere compiutamente valorizzata.
Non esistono infatti sentimenti umani che i greci non abbiano percepito e ai quali non abbiano dato un’espressione definitiva.
Essi compaiono in tutta la loro gamma: dall’affetto pieno di turbamento di Ettore che si congeda dal cittadino che si sacrifica per la patria alla devozione degli spiriti mistici.
Lo spirito ha un ruolo di primo piano, e il maggior titolo di gloria della civiltà greca è forse quello di aver fondato la scienza razionale e la filosofia.
Ma i creatori del razionalismo hanno lasciato un posto anche alle potenze più oscure dell’anima: sull’acropoli il tempio della Ragione, raffigurata con i tratti di Atena, e il santuario di un’antica dea-orso, Artemide Brauronia, sono posti uno accanto all’altro.
L’epoca ellenistica assiste al trionfo del misticismo e contemporaneamente all’apogeo della scienza antica.
Non vi è armonia senza un equilibrio, ricercato, tra le capacità e i poteri dell’uomo; e questa armonia è essenziale poiché, tra tutti i valori, i greci stimano soprattutto la bellezza.
“Solo la bellezza ha avuto – dice Platone (Fedro, 25od) – il privilegio di poter essere ciò che è più in evidenza e che possiede il fascino più amabile”.
Essa è la qualità che gli dèi più apprezzano nelle offerte che vengono fatte loro, e non è per nulla separata dalla virtù, poiché l’ideale umano è il kalos kagathos, l’uomo che è ad un tempo bello e buono.
Per Platone tutta la dialettica dell’amore si orienta verso la bellezza, considerata come una divinità, e gli stoici considerano un artista il fuoco supremo che anima il mondo.
La bellezza non si separa nemmeno dall’intelligenza, poiché nasce da precise proporzioni matematiche, da canoni in cui lo spirito impone la sua legge alla materia.
Essa è vincitrice e vinta allo stesso tempo, al termine di una dura lotta; è una caratteristica degli dèi immortali, ma anche degli uomini mortali che vi trovano il mezzo più adatto per divenire simili alla divinità.
Ultimo simbolo dell’ellenismo, Ipazia, le geometres, figlia dell’ultimo dei filosofi del Museo di Alessandria, illustre seguace di Platone, percorre la città seguita dai suoi discepoli che incatena con la sua bellezza non meno che mostrando loro la proiezione della sfera.
Essa muore in un giorno dell’anno 415, lapidata dai cristiani che in lei perseguitano quell’ellenismo al quale dovevano una delle parti più alte della loro fede.
Pag. 534-38
Bibliografia
Opere generali
La civiltà della Grecia arcaica e classica / F. Chamoux. – Sansoni, 1968
La città greca / G. Glotz. – Einaudi, 1956
Economia e società
Paideia: la formazione dell’uomo greco / W. Jaeger. – La Nuova Italia, 1936-59
Religione
La religione nell’antica Grecia fino ad Alessandro /R. Pettazzoni. – Boringhieri, 1957
Psiche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i greci / E. Rodhe. – Laterza, 1914
Vita intellettuale
Pensatori greci / Th. Gomperz. –La Nuova Italia, 1933-62
Storia del pensiero greco / L. Robin. – Mondadori, 1962
Letteratura
Storia della letteratura greca / A. Lesky. – Il Saggiatore, 1962
Bibliografia per periodi
L’età delle invasioni
La civiltà egea 7 G. Glotz. – Einaudi, 1962
Minoici e micenei / L. R. Palmer. – Einaudi, 1969
La Grecia e il vicino Oriente prima di Omero / A. Severyns. – Sansoni, 1962
Epoca geometrica e arcaica
La Magna Grecia / J. Bérard. – Einaudi, 1966
Le eterie nella vita politica ateniese del 6. e 5. secolo / F. Sartori. – 1957
Il classicismo
Alessandro il Grande / G. Radet. – Einaudi, 1944
Il mondo di Atene / Luciano Canfora
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Cap. 1.: Introduzione: Atene tra mito e storia
Ma il mito di Atene, grazie soprattutto alla mediazione delle scelte bibliotecarie di Alessandria e alla forza della cultura romana alla fine ha vinto.
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La forza di quel mito sta nella duplicità di piani su cui è possibile ed è giusto leggere l’epitafio pericleo.
E’ evidente, infatti, che svincolato dalla situazione concreta (l’epitafio discorso falso per eccellenza) e dalla concreta vicenda dei protagonisti (Pericle princeps in primo luogo), quella immagine di Atene è, comunque, fondata, e perciò ha retto e alla fine ha vinto.
Ma il paradosso è che quella grandezza che il Pericle tucidideo delinea – e che era vera già allora – era l’opera essenzialmente di quei ceti alti e dominanti che il ‘popolo di Atene’ tiene sotto tiro e, quando possibile, abbatte e perseguita.
E il Pericle ‘vero’ questo lo sapeva benissimo e lo aveva vissuto e patito in prima persona.
La grandezza di quel ceto consistette nel fatto di aver accettato la sfida della democrazia, cioè la convivenza conflittuale con il controllo ossessivo occhiuto e non di rado oscurantista del “potere popolare”: di averlo accettato pur detestandolo, com’è chiaro dalle parole dette de Alcibiade, da poco esule a Sparta, quando definisce la democrazia “una follia universalmente riconosciuta come tale”.
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L’acrimonia con cui Aristofane nelle Nuvole rappresenta quel mondo elitario, con Socrate al centro, davanti al suo pubblico, in cui prevaleva certamente il tipo dell’”Ateniese medio”, dimostra – come del resto il Socrate platonico dichiara apertamente nell’Apologia – che l’”Ateniese medio” detestava e guardava con sospetto quel mondo: dal quale per lo più provenivano le persone che erano (a rotazione e conquistandosi il consenso) a capo della città.
Aristofane sta in bilico tra questi due importanti soggetti sociali: è il mestiere che si è scelto a porlo in bilico; se non fosse stato così, il suo lavoro artistico sarebbe andato incontro al fallimento.
Perciò è così complicato cercar di definire ‘il partito’ di Aristofane.
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Il ‘miracolo’ che quella straordinaria élite ha saputo compiere, governando sotto la pressione non certo piacevole della ‘massa popolare’, è stato di aver fatto funzionare e prosperare la comunità politica più rilevante del mondo delle città greche e, ciò facendo, aver modificato almeno in parte, nel vivo del conflitto, se stessa e l’antagonista.
Questo lo si capisce bene studiando l’oratoria attica, ove si può osservare come la parola dei ‘signori’ – i soli la cui parola ci è nota – si impregni di valori politici che sono di base nella mentalità combattiva e rivendicativa della ‘massa popolare’: innanzi tutto to ison, ciò che è uguale e, quindi, giusto.
Lo si è visto – all’inizio – ripercorrendo i motivi cardine dell’epitafio pericleo.
Del quale si coglie solo in parte il senso se ci si limita a constatare quanto esso sia limitrofo della parola demagogica.
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Da questa duplicità di piani discendono i due tempi della storia di Atene: da un lato il tempo storico e contingente, che è quello di una esperienza politica che – così com’era nella sua contingente storicità – si è autodistrutta, e dall’altro il tempo lunghissimo, che è quello della persistenza nei millenni delle realizzazioni di quell’età frenetica.
E ci si potrebbe spingere oltre, osservando che se Atene funzionò così, se produsse tanto perché una élite aperta accettò la democrazia, cioè il conflitto e il rischio costante della sopraffazione, allora ciò significa che, a sua volta, anche quel meccanismo politico, per la cui definizione tanto si sono affannati e inquietati gli interpreti (da Cicerone a George Grote o a Eduard Meyer), recava dentro di sé due tempi storici: quello ut nunc di cui l’opuscolo di Crizia è solo in parte una caricatura e, per altro verso, il valore inestimabile del conflitto come detonatore di energia intellettuale e di creatività durevole, che è forse il vero lascito di Atene e l’alimento legittimo del suo mito.
Pag. 14-15
Cap. 2. Lotta intorno a un mito
Come è noto, l’impero ateniese ebbe origine da una iniziativa degli isolani che maggiormente avevano collaborato, nei limiti delle rispettive forze, alla vittoria nella guerra navale contro i Persiani (480. A. C.).
Creazione della flotta, voluta con lungimiranza da Temistocle, costruzione tumultuaria delle “grandi mura” miranti a trasformare Atene in una fortezza con un magnifico sbocco al mare, e nascita di una lega inizialmente di tipo paritario (‘Atene e gli alleati’ con il tesoro federale sistemato nell’isola di Delo) sono azioni concomitanti che segnano l’inizio del secolo ateniese, di cui la vittoria a Maratona dieci anni prima era stata solo un antefatto (passibile, allora, anche di altri sviluppi).
Come il ventesimo secolo incomincia col 1914 così il quinto secolo incomincia con Salamina e la nascita dell’impero ateniese: destinato a durare per poco più di settant’anni, fino al crollo del 404 e la riduzione di Atene, priva ormai di mura e senza flotta, a mero satellite di Sparta.
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La giustificazione dell’impero in ragione della vittoria sui Persiani ha avuto una lunga storia.
Quando Isocrate la riprende è pura ideologia: l’attacco verso Oriente è fuori dell’orizzonte ateniese (e di ogni altra potenza greca).
La seconda lega naufragherà dopo trent’anni in una logorante guerra tra Atene e gli alleati (la ‘guerra sociale’: 357-355); di lì a qualche anno, guidata da Demostene, Atene cercherà l’aiuto persiano contro la Macedonia e alla fine sarà proprio la Macedonia a scatenare l’attacco decisivo a Oriente e porterà in pochi anni alla dissoluzione dell’impero persiano (334-331 a. C.).
E nondimeno il mito di Atene liberatrice dei greci perché vincitrice dei persiani funzionava ancora quando Demostene – nel 340/339 – cercava di giocare, con disinvoltura realpolitica, la carta persiana, scontrandosi in assemblea, ancora alla vigilia di Cheronea, contro il radicato mito del “nemico tradizionale dei greci” e perciò “immutabile avversario di Atene”.
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Ma Filippo non ha invaso l’Attica, come pure si era temuto all’annuncio della sconfitta; ha cercato il compromesso.
Ha dato corpo ad una sua “pace comune”, col trattato di Corinto (336).
Sapeva di aver vinto ma non era certo di aver fiaccato definitivamente Atene.
Non deve perciò sorprendere che, qualche decennio più tardi, quando ormai la fine dell’impero persiano ad opera di Alessandro aveva cambiato la faccia del mondo, purtuttavia, alla notizia della morte di Alessandro Atene è stata in grado di mobilitare daccapo una coalizione panellenica che fu per qualche mese (323-322: la cosiddetta “guerra lamiaca”) in grado di mettere a rischio il predominio macedone in Europa.
E’ con la fine della guerra lamiaca, più che con Cheronea, che finisce la storia di Atene come grande potenza.
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La verità storica cede il passo alla necessità, immediata, urgente, di disegnare con nettezza il ritratto del nemico.
A questo punto al feroce lotta per l’egemonia durata oltre un secolo diventa una gara cavalleresca in cui le potenze si scontravano “pur non avendo in origine torti reciproci di cui dolersi” ma per il dovere di “riparare torti inflitti ad altri”.
Ed in questa gara, mentre quella tebana sfuma quasi nel nulla; e perché Sparta, come già argomentava Isocrate nel Panegirico, ha commesso più ingiustizie nella sue breve egemonia che non Atene nei suoi oltre settant’anni.
Il lettore rischia quasi di crederci.
In questa pagina è come se la storia conosciuta incominciasse con l’egemonia ateniese, con l’impero, e non ci fosse invece una lunghissima fase precedente nella quale la potenza regolatrice degli equilibri era stata Sparta.
Ma Sparta non aveva saputo, o voluto, esportare il suo “mito”.
Cap. 3. Un mito tra i moderni
Della nascita e dello sviluppo dell’Impero ateniese avevamo una descrizione sintetica e severa nel primo libro di Tucidide, al principio del suo excursus sul ‘Cinquantennio’ intercorso tra la vittoria di Salamina (480) e lo scoppio della lunga guerra contro Sparta e gli alleati (431).
Lì Tucidide spiega in brevi tratti come si era prodotta la torsione in senso imperiale dell’alleanza sorta sull’onda del successo ateniese contro la Persia.
Ma l’attenzione dello storico e del politico è rivolta soprattutto al rapporto sempre più diseguale tra Atene e gli alleati, non però alla parallela e conseguente trasformazione del “popolo di Atene” in cero privilegiato all’interno della realtà imperiale considerata nel suo complessivo e unitario funzionamento.
Pag. 31
E’ la città dove si pratica la censura: e la vittima è nientemeno che Socrate.
“Défions nous, messieurs, de cette admiration pour certaines réminiscences antiques!”.
Insomma, la polarità che vorrebbe istituire tra una libertà oppressiva (cioè la democrazia antica) e la libertà libera dei moderni (da lui auspicata e che, incauto, vede finalmente realizzata nella Francia di Luigi 18.) gli si sfascia quando si tratta di Atene.
E’ lì che il suo teorema si inceppa perché Atene è le due cose assieme, come si evince del resto dall’epitafio pericleo-tucidideo, a saperlo leggere.
Pag. 38
Negli anni Sessanta del 5. secolo tutta la popolazione povera di Atene si strinse attorno a un partito unitario con lo scopo di impossessarsi del potere politico.
Alla guida si pose Efialte, un uomo la cui personalità sappiamo purtroppo assai poco, ma che certamente è da considerarsi tra le più spiccate intelligenze politiche dell’antichità.
Bastava in fondo un unico provvedimento per rovesciare l’ordine esistente e sostituire il potere del proletariato a quello della borghesia: si doveva far decadere il principio, in virtù del quale l’attività svolta in Consiglio e presso i tribunali era considerata solo onorifica.
Appena a un membro del Consiglio o a un giudice popolare fosse stata pagata una diaria che gli avesse consentito di vivere, sarebbero cadute le barriere che sino ad allora avevano tenuto i proletari lontani da una partecipazione attiva alla vita pubblica.
Solo così si sarebbe veramente salvaguardato il principio dell’elezione a sorte introdotto dalla repubblica borghese.
Ora, in tutte le circoscrizioni dello Stato i cittadini poveri erano assai più numerosi dei ricchi e la semplice applicazione del sorteggio avrebbe perciò determinato necessariamente nel Consiglio e nei tribunali una maggioranza di poveri.
Raggiunto questo obiettivo, tutto il resto sarebbe venuto da sé.
Pag. 41-42
Se non aspiravano al socialismo, ancor meno i proletari ateniesi pensavano all’abolizione della schiavitù.
Già prima abbiamo sottolineato come non esistesse che in modo irrilevante un sentimento di solidarietà tra i greci liberi e gli schiavi importati dai paesi barbari.
Il proletariato ateniese, appena assunto il potere, si preoccupò comunque di garantire legalmente agli schiavi un trattamento più umano, e questo provvedimento resta pur sempre a gloria dei cittadini poveri di Atene.
La totale abolizione della schiavitù, sarebbe stata di scarsa utilità pratica per i cittadini nullatenenti.
Per quanto riguarda Atene non abbiamo notizia che esistesse disoccupazione tra i liberi, e, come diremo più avanti, i salari dei lavoratori liberi qualificati erano abbastanza alti al tempo della dittatura del proletariato, e perciò non è ipotizzabile che con l’abolizione della schiavitù essi sarebbero ulteriormente cresciuti.
Pag. 42-43
Riassumendo, possiamo dire che l’antica polis costituì, dopo la creazione della disciplina degli opliti, una corporazione di guerrieri.
Ovunque una città voleva seguire una politica attiva di espansione sul continente, essa doveva seguire in misura più o meno grande l’esempio degli spartani, vale a dire formare gli eserciti di opliti addestrati traendoli dai cittadini.
Anche Argo e Tebe crearono all’epoca della loro espansione dei contingenti di guerrieri specializzati – a Tebe legati ancora dai vincoli della fratellanza personale.
Le città che non possedevano truppe di questo genere, come Atene e la maggior parte delle altre, erano sul terreno costrette alla difensiva.
Dopo la caduta delle schiatte (gene) gli opliti cittadini costituirono però ovunque la classe decisiva tra i cittadini di pieno diritto.
Questo strato non trova nessuna analogia né col Medioevo né in altra epoca.
Anche le città greche diverse da Sparta avevano, , in grado più o meno rilevante, il carattere do un accampamento militare permanente.
Perciò, agli inizi della polis degli opliti, le città avevano sviluppato sempre più l’isolamento verso l’esterno, in antitesi con l’ampia libertà dei movimenti dell’epoca di Esiodo: e molto spesso sussistevano limitazioni all’alienabilità dei lotti di guerra.
Ma questa istituzione scomparve già per tempo nella maggior parte delle città, e diventò del tutto superflua quando assunsero importanza predominante sia i mercenari ingaggiati sia, nelle città marittime, il servizio nella flotta.
Ma anche allora il servizio militare rimase in ultima analisi decisivo per il dominio politico nella città, e questa conservò il carattere di una corporazione militaristica.
Verso l’esterno, fu proprio la democrazia radicale di Atene ad appoggiare quella politica espansionistica che, abbracciando l’Egitto e la Sicilia, aveva quasi del fantastico in relazione al limitato numero degli abitanti.
Verso l’interno la polis, quale gruppo millenaristico, era assolutamente sovrana.
La cittadinanza disponeva a suo arbitrio del singolo individuo sotto ogni aspetto.
La cattiva amministrazione domestica, specialmente lo sperpero del lotto di terra ereditato (i bona paterna avitaque della formula di interdizione romana), l’adulterio, la cattiva educazione dei figli, il maltrattamento dei genitori, l’empietà, la presunzione – cioè in genere ogni comportamento che metteva in pericolo la disciplina e l’ordine militare e cittadino, e che poteva eccitare la collera degli dei a danno della polis – venivano duramente puniti, nonostante la famosa assicurazione di Pericle nell’orazione funebre di Tucidide, secondo la quale ad Atene ognuno poteva vivere come voleva.
Pag. 44-45
Ciò che accadde ad Atene alla fine del 5. secolo non si ripeté altrove, perché soltanto Atene offriva la necessaria combinazione di elementi: sovranità popolare, un gruppo ampio e attivo di pensatori vigorosamente originali e le esperienze uniche provocate dalla guerra.
Proprio le condizioni, insomma, che attiravano ad Atene le menti migliori della Grecia potevano metterle, e le misero per un certo tempo, in una situazione singolarmente precaria.
Atene pagò un prezzo terribile: la maggiore democrazia greca diventò soprattutto famosa per avere condannato a morte Socrate e per aver allevato Platone, il più vigoroso e il più radicale moralista antidemocratico che il mondo abbia mai conosciuto.
Pag. 45
La discussione su Demostene e Filippo, assunti quasi a metafora di conflitti attuali, si era sviluppata anche in Italia.
Il Demostene di Piero Treves (1933) ed il Filippo il Macedone (1944) di Arnaldo Momigliano rendono bene questa polarità.
Proprio dall’ambiente del fascismo culturale italiano venne il più duro attacco contro Jaeger.
E’ la lunga e aspra recensione scritta da Gennaro Perrotta sulla rivista del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai “Primato”.
Lì viene messo sotto accusa il “classicismo”, che ha consacrato a Demostene “un culto eroico”, viene definito il libro di Jaeger “prova della funesta immortalità del classicismo”, sbeffeggiato Piero Treves come autore di “uno sconclusionato libretto su Demostene e la libertà dei Greci”, vilipeso il concetto di libertà come autonomia, esaltata la “necessità e razionalità della storia” che sta alla base del trionfo di Filippo contro la “libertà grettamente municipale di Atene”.
Il tutto nel nome di Droysen, di Beloch e della vera politica “che non sa che farsi della rettorica”.
Il tono è sovraeccitato e trasparentemente politico: Treves, come ebreo, aveva dovuto riparare in Inghilterra per le leggi razziali del 1938, e la guerra hitleriana stava facendo strame della “libertà come autonomia”.
Non è senza significato che, della traduzione italiana del Demostene di Jaeger (Einaudi, 1942), l’autore nonché collaboratore di Calogero sua rimasto anonimo.
Pag. 49-50
Sorge perciò la domanda: come mai, nonostante i vincitori fossero stati i macedoni e nonostante proprio grazie a loro e alle loro istituzioni culturali (Alessandria etc.) la cultura greca si fosse salvata nei secoli che precedono l’egemonia romana, nondimeno alla fine era stata l’immagine di Demostene che aveva prevalso, così come quella dell’Atene classica?
Sì che c’era voluto, millenni dopo, un Droysen per capovolgerla e lanciare la visione dell’Ellenismo come epoca positiva, come lunghissima fase positiva della Weltgeschichte.
(Nel mai realizzato disegno droyseniano, l’Ellenismo andava considerato nel suo sviluppo storico almeno fino all’Islam).
Il ripristino del primato dell’Atene classica fu dovuto essenzialmente ai romani.
Furono i romani, i quali per dominare davvero il Mediterraneo dovettero abbattere non solo Annibale ma soprattutto la ferrea e armatissima monarchia macedone, a ‘declassare’ il ‘nemico’, e ad esaltare – in un misto di idealizzazione letteraria e sterilizzazione politica – Atene, il suo mito e la sua centralità.
Declassarono i macedoni in favore del proprio ruolo imperialistico e inventarono, si potrebbe dire, il ‘classicismo”, di cui Atene era il focus: dunque il contrario dell’Ellenismo.
Che Atene potesse anche diventare un modello politicamente pericoloso, come quando il cesaricida Marco Giunio Bruto arruolava ‘repubblicani’, uno dei quali era il povero Orazio, tra la gioventù studiosa che frequentava le scuole della città-museo, non costituiva un vero rischio.
E poi s’era visto al tempo di Silla cosa i romani erano capaci di fare ad Atene se mai fosse apparsa militarmente fastidiosa, come accadde nell’ultimo sussulto di autonomia politica, quando Atene si schierò con Mitridate.
Il mito letterario-museale di Atene, culla del classicismo, durava e fioriva ancora al tempo di Adriano.
Non erano certo valse le opzioni di Cesare, e soprattutto di Antonio, in favore dell’ultima monarchia ellenistica, quella di Cleopatra, ad intaccare la scelta fondamentale.
Anzi, se Cicerone traduceva la Corona demostenica, nelle scuole di retorica si elaboravano declamationes che scongiuravano Alessandro di non voler superare i confini del mondo.
Pag. 52
Cap. 4. Una realtà conflittuale
Il conflitto domina la vita ateniese in ogni suo aspetto.
Il teatro mette in scena, per sua stessa natura, genesi, finalità e struttura, il conflitto.
Il tribunale – che ben più dell’assemblea è il luogo dove si esplica capillarmente e direttamente la democrazia – è, e non può non essere, conflitto: le Vespe aristofanee in tanto mordono come satira in quanto si riferiscono ad una realtà primaria delle vita cittadina.
L’assemblea è la sede ufficiale dello scontro, aspro e continuo, beninteso se il contesto è la democrazia.
Ed è dal conflitto tra gli opposti valori delle aristocrazie per un verso e del demo per l’altro che si mette in moto il pensiero etico.
Nella polis, spazio limitato, il possesso della piena cittadinanza è il bene più conteso: quando il conflitto degenera in guerra civile il primo intervento è la limitazione della cittadinanza.
E la guerra come forma normale di risoluzione dei conflitti unifica in un coerente atteggiamento d’insieme questo modo di essere.
“Ares cambiavalute di corpi umani che regge la bilancia dello scontro – canta il coro dell’Agamennone di Eschilo – […] rimanda ai parenti polvere lacrimata e arsa, colmando di cenere, in cambio di uomini, vasi funerari, carico maneggevole”.
Secondo Platone, nelle Leggi, gli spartani lo sanno da sempre: sono allevati secondo l’assioma “che tutti devono condurre durante la loro vita una guerra perpetua contro tutte le città”.
La morte politica domina l’esperienza ateniese sin dal principio.
E’ un carattere di cui cogliamo le remote matrici nella grecità arcaica.
Che l’Iliade, cioè il racconto aspro di una guerra di rappresaglia con le sue infinite e minuziose descrizioni di morte, e l’Odissea, il cui culmine è un massacro per vendetta, siano stati da molto presto i testi fondativi e formativi è segno di una visione cupa e conflittuale della convivenza che segna in modo durevole quelle società.
La centralità della guerra d’altra parte è inerente a tali società in quanto strumento primario per la cattura di oro e di schiavi, cioè delle forme primarie e basilari di ricchezza e di produzione (la schiavitù).
La retorica della guerra, il dovere della guerra, la pratica della guerra come strumento di selezione e accertamento del valore e definizione delle gerarchie investe la poesia come anche l’arte figurativa.
Tirteo, Callino, Archiloco stesso ne parlano come dell’ovvio habitat del maschio, cioè, nella visione arcaica, del principale fattore e attore della storia.
L’educazione parte dal presupposto che “è bello (kalon) morire combattendo in prima fila”.
Dare la morte e riceverla sembra qui la forma privilegiata di comunicazione.
Al ritorno dalla lunghissima guerra intorno a Troia i guerrieri greci vengono coinvolti in una serie di “rese dei conti” di carattere politico-passionale, che si traducono, per esempio, nel caso di Agamennone, in una serie di omicidi a catena, e nel caso di Odisseo in una vera e propria strage.
Pag. 54-55
Ma neanche gli avversari avevano la mano leggera.
I siracusani, sconfitta la grande armata ateniese, gettarono a morire nelle latomie centinaia di prigionieri ateniesi (413 a. C.).
Lisandro, dopo la vittoria decisiva contro Atene ad Egospotami (405 a. C.) fece gettare in acqua centinaia di prigionieri ateniesi.
Il crollo demografico del mondo greco al passaggio dal quinto al quarto secolo si spiega anche così.
Per comprendere la portata e il costo umano di tutto ciò conviene ricordare che la guerra è, nel mondo antico, la norma nelle relazioni internazionali, la pace è l’anomalia: perciò nei trattati di pace viene indicata la durata prevista.
Sono paci ‘a tempo’ e quasi sempre il tempo scade molto prima del previsto; la rottura del trattato di pace si produce ben prima.
La pace è dunque, al più, una lunga tregua: e la parola che designa la pace è la stessa che significa ‘tregua’: spondai.
E’ dunque facile comprendere che decenni e decenni di conflittualità diffusa che sfocia periodicamente in grandi ‘guerre generali’ hanno determinato un declino demografico inarrestabile, cui ha contribuito in grande stile la gestione miope del diritto di cittadinanza, come ben dice l’imperatore Claudio nell’efficace squarcio storico che Tacito gli attribuisce.
Se Sparta è un caso simile, in quanto Stato apertamente razziale, in cui la comunità ‘pura’ dominante è in guerra permanente con le etnie-classi sociali sottoposte, Atene – pur nella grande apertura dovuta ai commerci, in larga parte praticati da non-ateniesi residenti (i cosiddetti meteci) – è ugualmente ostile all’estensione indiscriminata della cittadinanza.
E ciò perché la cittadinanza comporta privilegi politici ed economici che il ‘popolo’, soggetto principale della democrazia, non intende condividere.
In questa chiusura signori e popolo – pur in conflitto su tutto il resto – sono pienamente concordi, fruitori come sono, entrambi (sia pure in diversa misura), dei vantaggi pratici della ricchezza riveniente dall’impero.
Pag. 56-57
Il profilo della storia ateniese come conflitto rischia non di rado di scivolare nella guerra civile deve incominciare con uno sguardo lungo.
Dal conflitto sociale esasperato che Solone nel 594/3 disinnescò con la seisacstheia e la svalutazione della moneta (che tagliava alla radice la massa stessa dei debiti), alla presa del potere da parte di Pisistrato (561/0), all’ambigua posizione degli Alcmeonidi - Clistene arconte sotto Pisistrato -, all’ammazzamento di Ipparco (514), all’intervento spartano (510), all’invenzione contestuale della democrazia e dell’ostracismo (508/7), al tentativo di colpo di mano di Isagora appoggiato dagli spartani contro Clistene, alla rivolta popolare che riporta Clistene al potere.
Pag. 59-60
L’eliminazione dell’avversario politico (dalla violenza fisica all’ostracismo, esilio, uccisione in una specie di gradatio: la scena politica ateniese offre esempi di tutti e tre i generi) appariva prassi non sconcertante, ma, piuttosto, drammatica prosecuzione della lotta politica.
Colpisce, in anni di molto successivi, una tremenda uscita demostenica risalente al 341, quando ormai la resa dei conti con la Macedonia si avvicinava e l’ossessione di Demostene era la ‘quinta colonna’ del sovrano macedone all’interno della città: “la lotta è per la vita o per la morte: questo bisogna capire. E quelli che si sono venduti a Filippo bisogna odiarli o ammazzarli”.
L’eliminazione fisica dell’avversario come esito del conflitto è una eventualità messa in contro, non è una situazione estranea – almeno potenzialmente – alla prassi del quotidiano scontro politico.
Pag. 63
Ma dal conflitto nasce anche il diritto, che a sua volta è figlio delle domande capitali sulla “giustizia” (to ison).
Il conflitto scaturisce infatti immancabilmente dalla aspirazione alla immediata compartecipazione, alla condivisione in parti uguali.
E dalla nozione di uguale/giusto discendono anche le questioni etiche, e anche la questione, ancor più tormentosa perché insolubile, della sofferenza del giusto e dell’indifferenza inspiegabile del divino.
In Atene tutto questo sfocia nella forma di comunicazione di massa più influente: il teatro.
Il teatro di Dioniso, dove, in un contesto politico e rituale molto suggestivo, vengono rappresentate le tragedie al cospetto dell’intera città, è il cuore della comunità.
Ciò che le persone pensano si forma a teatro, nella costante fruizione della drammaturgia, direttamente regolata dal potere pubblico: molto più che nella stessa assemblea popolare.
Qui la parola politica assume quasi sempre la forma della mediazione sospetta, mirante al risultato immediato, a strappare il consenso contingente.
Ed è dei più acculturati.
Non mira necessariamente allo scavo in direzione del vero.
E i politici che sanno bene quanti conti il teatro non solo lo tengono d’occhio ma talvolta si impegnano essi stessi direttamente come coreghi.
Temistocle arconte nel 493/492 assegna il coro al tragediografo Frinico, che mette in scena la Presa di Mileto (la triste epopea della rivolta ionica contro i persiani), nel 476 è corego ancora per Frinico che mette in scena le Fenicie (il dramma riguardava la vittoria ateniese a Salamina).
Pericle, appena venticinquenne, è corego per Eschilo, che mette in scena i Persiani.
Non tutte le implicazioni di questo gesto ci sono chiare: al di là della ovvia scelta ‘liturgica’ al servizio della città, doverosa per un politico on crescita, c’è un senso speciale (un Alcmeonide, con quel passato sospetto, che contribuisce alla celebrazione delle vittorie sui persiani), e c’è anche un prendere posizione per Temistocle (l’anno dopo colpito da ostracismo).
Tutto questo ‘funziona’ intorno al teatro.
Pag. 65-66
Cap. 5. La democrazia ateniese e i socratici
Due pensatori sono stati messi a morte dai tribunali ateniesi: Antifonte e Socrate.
Entrami erano settantenni quando bevvero la cicuta.
Il primo fu accusato di aver tradito la città complottando col nemico; il secondo di corrompere i giovani e di non credere negli dei della città.
Il primo si era a lungo astenuto dalla politica attiva e aveva deciso di impegnarsi solo quando gli parve giunto il momento e offerta la possibilità di instaurare un ordine completamente diverso da quello ‘democratico’.
Il secondo non fece mai politica, ma si trovò ad un certo momento della sua vita, dati i meccanismi affidati al cado dagli organi rappresentativi della città, alla ‘presidenza della repubblica’ (il collegio dei pritani): proprio nel giorno in cui l’assemblea, in funzione giudicante, decideva di condannare a morte i generali vincitori alle Arginuse, fu l’unico ad opporsi alla procedura illegale, e poco mancò che lo buttassero giù fisicamente dal suo seggio.
Ma alla politica come problema aveva dedicato gran parte della sua straordinaria forza critica.
Pag. 67
Cap. 6. I quattro storici di Atene
Tucidide elabora anche la teoria che dei fatti storici si possono studiare i “sintomi”.
Lo dice a proposito della ricostruzione del passato più remoto, nella cosiddetta ‘archeologia’; lo dice a proposito della stretta concatenazione, dovunque si produca un conflitto, tra guerra esterna e guerra civile; e lo riafferma, quasi negli stessi termini, quando spiega il grande spazio da lui riservato ai sintomi della peste.
Alla base c’è l’idea, mutuata dalla sofistica, della sostanziale immutabilità della natura umana.
Pag. 79
Parte prima. Il sistema politico ateniese: “Una gilda che si spartisce il bottino”.
Cap. 1. “Chi vuole parlare?”
In conclusione.
La commedia può dire molto di più di quel che si può dire nell’assemblea, ma, proprio perché parla esplicitamente, e non per metafora, della politica cittadina, non può non tener conto dei vincoli e dei limiti inerenti al funzionamento della macchina politica, non può calpestare quelle “clausole di sicurezza” (o di garanzia, come si dice nel moderno linguaggio costituzionale) con cui il sistema, nella fattispecie la democrazia assembleare, difende se stessa.
C’è del vero al di là del tono eccessivamente ammirativo, in ciò che scrive Madame de Stael su Aristofane, e il suo giudizio può valere per l’intera commedia attica ‘antica’: “Aristofane – scriveva la figlia di Necker – viveva sotto un governo talmente repubblicano che tutto veniva messo in comune col popolo, e gli affari pubblici passavano agevolmente dalla piazza delle riunioni al teatro”.
E certo il teatro è, in Atene, accanto all’assemblea e ai tribunali, un pilastro del funzionamento politico della comunità.
Sono quelle le tre sedi in cui la comunità si riconosce tale e nelle quali la comunicazione è davvero generale e immediata.
E questo è un tratto specifico di Atene.
Atene è certamente, del mondo greco, il luogo dove più largamente si consuma cultura: “un paese – ricorriamo ancora alle parole di Madame de Stael – dove la speculazione filosofica era quasi altrettanto familiare alla comune delle persone che i capolavori artistici, dove le ‘scuole’ si tenevano en plein air”.
En plein air, cioè a teatro, veniva portata in discussione, delibata e magari derisa anche l’ipotesi radicale di una società comunistica (Aristofane, Ecclesiazuse), di cui però Platone discuteva al chiuso.
Ed è degno di nota, a questo proposito, il giudizio convergente del Pericle tucidideo nell’epitafio (“siamo il luogo di educazione dell’intera Grecia”) e di Isocrate nel Panegirico, che pure su tanti punti a quell’epitafio si contrappone (“ho voluto dimostrare, con questo discorso, che la nostra città è all’origine di ogni positiva realizzazione per gli altri greci”).
Atene del resto è il luogo di maggiore alfabetizzazione: basti pensare alla assoluta prevalenza di epigrafi attiche su quelle di ogni altra provenienza per il periodo in cui Atene fu anche il rizzo Diceopoli, mentre attende che l’assemblea finalmente si popoli, scrive (“e io intanto passo il tempo a lamentarmi, a sbadigliare, a smaniare, a fare peti, a scribacchiare e a farmi dei conti”).
Pag. 86-87
Il teatro tragico molto raramente trattava materia storico-politica che potesse considerarsi attuale.
Quando nel 493 (o 492) a. C. Frinico mise in scena La presa di Mileto il pubblico ebbe una forte reazione emotiva, molti scoppiarono in lacrime.
Il poeta fu punito per aver messo in scena quella sventurata vicenda della rivolta ionica (peraltro poco efficacemente sorretta dagli ateniesi) e fu fatto divieto di portare mai più in scena quella vicenda.
Invece venti anni dopo, Eschilo, coi Persiani, che mettono in scena la sconfitta dei persiani a Salamina e la grande vittoria ateniese che fu alla base della nascita dell’impero, conseguì il successo: e corego fu Pericle, allora appena venticinquenne.
Il meccanismo di controllo sui contenuti non potrebbe essere più chiaramente illustrato.
Mettere in scena la vittoria sui persiani era qualcosa di molto simile alla pedagogia storico-politica impartita con il rito quasi annuale degli “epitafi” per i morti in guerra.
Anche negli epitafi Atene appariva sempre vittoriosa nelle guerre del passato, e sempre propugnatrice delle cause giuste, contro nemici che erano anche despoti o tiranni.
Ma, appunto, la materia storico-politica nel teatro tragico non era usuale.
Molto più usuale quella mitologica, che aveva l’enorme vantaggio della immediata comprensibilità da parte del pubblico, trattandosi di repertorio conosciuto e tradizionale, nonché il vantaggio per gli autori, della eventuale allusività di vicende remote e indiscutibili (dunque sottratte a qualunque censura) se opportunamente rivissute, riproposte, secondo una libertà nei confronti del bagaglio mitico-religioso caratteristica della religiosità greca.
“Le opere dovevano essere di grande respiro e a forti tinte per impressionare le masse” scrive Rosenberg, il quale ha il merito di mettere in luce lo stretto nesso che vi è tra la grande, enorme, massa degli spettatori e la conseguente necessità di materia semplice e nota oltre che fortemente emotiva.
La mediazione offerta dal bagaglio mitologico liberamente ripensato consentiva di esprimere valori, dunque di interloquire con la città su di un piano, in senso alto, politico, fino a prese di posizione e fino a porre domande sommamente radicali.
Questo sfuggiva a qualunque controllo preventivo di qualunque zelante arconte eponimo per quanto dotato di senso civico e per quanto fervente assertore della ‘morale media’.
Un riscontro negativo poteva venire dal pubblico, che rifiutando il premio (come lo rifiutò quasi sempre ad Euripide) mostrava di respingere questa indiretta e altamente problematica, e non di rado squassante, ‘politica’ proveniente dalla scena.
Pag. 89-90
Cap. 2. La città messa in discussione dalla scena
Esponenti dei ceti elevati, i quali pur dotati della necessaria preparazione per la politica, disertavano l’assemblea, sceglievano però di far sentire la propria voce critica attraverso il teatro, dalla scena.
Raggiungevano così un pubblico molto più vasto, a fronte dell’endemico assenteismo assembleare, e correvano molti rischi (a parte, beninteso, quello di non conseguire il premio).
Pag. 89
Orbene, con la téchne Antifonte ha fatto, nel 411, ciò che a chiunque (Tucidide compreso) sembrava una impresa impossibile: togliere di mano agli ateniesi la democrazia dopo circa un secolo di pratica ininterrotta di tale regime politico particolarmente caro al demo (cioè alla ‘maggioranza’, al più forte).
L’Antifonte che esalta, in quel trimetro, la téchne e i suoi prodigi contro la superiorità della natura, è dunque in piena sintonia con l’Antifonte tucidideo, il quale “preparandosi da moltissimo tempo” riuscì a fare quello che a chiunque sarebbe parso impossibile e che la scienza politica moderna ha definito “forza irresistibile delle minoranze organizzate”.
Pag. 94-5
Condizione dello schiavo – che ha chiara memoria di sé quando era libero -, non inferiorità del barbaro, condizione femminile, aporie della monogamia: erano temi che scalfivano in profondità le certezze etiche e sociali della città, dell’”ateniese medio” buon democratico.
E Antifonte proprio sul tema del carattere fittizio della distinzione greco-barbaro (cioè libero-schiavo) si esprimeva con forza nel trattato Sulla verità: “La verità del sofista Antifonte – scrisse Wilamowitz nel suo grande libro sulla Fede dei greci – dissolveva ogni vincolo del diritto e della morale (e del costume) in quanto tirava le conseguenze più radicali, estreme, del contrasto tra ciò che è giusto secondo natura e ciò che è giusto secondo la convenzione (“la legge”).
“Noi siamo più barbari dei barbari” – scrive Antifonte in quel frammento, restituitoci da un papiro – perché abbiamo posto un abisso “tra greci e barbari”, laddove per natura siamo uguali, “respiriamo tutti col naso e prendiamo tutti il cibo con le mani”.
Pag. 95-96
“E’ strano – commenta Wilamowitz – che uno che scriveva in questo modo sia rimasto indisturbato e non abbia dovuto andarsene”.
La questione è giusta, ma può trovare risposta proprio nell’ipotesi di un unico Antifonte.
Chi parla in quel modo, infatti, non è, necessariamente, un campione dell’uguaglianza di tutti gli uomini, addirittura “antesignano” della mentalità abrogazionista affermatasi nell’America di Jefferson o nella Francia di Robespierre: sarebbe un grande abbaglio anacronistico interpretare così quelle righe.
Per quanto il contesto conservatosi sia molto limitato, è abbastanza evidente che siamo di fronte al ben riuscito esercizio sofistico consistente nel mettere in crisi le certezze consolidate della città che si reputa democratica: e la leva per scuotere quelle certezze è pur sempre la scoperta dell’alterità tra legge e natura.
Un argomento spiazzante come quello dell’identità fisica (“naturale”) degli uomini può diventare distruttivo rispetto ai privilegi del demo (al potere in nome dell’eguaglianza: eguaglianza zeppa in una città piena di schiavi) ed è anche un’eccellente premessa per avvalorare altre forme politiche di gerarchia, come quelle appunto – fondate sulla competenza – che gli oligarchi pensanti e agguerriti rivendicano e propugnano.
E tenteranno di realizzare per ben due volte sul finire del quinto secolo: nel 411 sotto la leadership di Antifonte e nel 404 sotto la guida di Crizia.
Pag. 96
La riflessione sulle varie possibili forme di ‘giusta’ gerarchia politica, sui criteri di competenza che dovrebbero essere alla base di una sana gerarchia, sulle forme non ‘aritmetiche’ ma ‘geometriche’ di giustizia (ison, che vuol dire anche, al tempo stesso, giustizia e uguaglianza) bene si concilia con lo smantellamento dell’abisso che proprio la democrazia ateniese – a partire da Solone – ha frapposto tra il libero e lo schiavo.
Il potere di tutti purché di condizione libera è il bersaglio: perché quei tutti non sono selezionati affatto col criterio della competenza e si godono il bene derivante dallo status di cittadino pleno iure per la sola ragione di trovarsi dalla parte giusta (di non essere cioè piombati nel campo di coloro, gli schiavi, che la città democratica relega nel campo di non uomini).
Ecco come l’apparentemente semplicistico brano della Verità di Antifonte, lungi dall’essere un “Manifesto” ante litteram, si annoda bene alle premesse politiche e filosofiche di coloro che della città democratica additano il difetto alla radice e che non accettano il compromesso col “popolo sovrano” che consente ai maggiorenti di “guidare” ed “essere guidati” dalla massa incompetenze (per usare l’immagine cara a Tucidide nel ritratto di Pericle).
Pag. 97
Il frammento più lungo proviene dal Sisifo, dramma satiresco che, secondo l’ipotesi formulata da Wilamowitz, concludeva una tetralogia i cui primi tre drammi erano Tennes, Radamanto e Piritoo.
Del Piritoo merita attenzione almeno un frammento (22 Diels-Kranz), in cui un personaggio demolisce senza remore la figura del politico professionale (rhetor) dominatore delle assemblee: “un carattere nobile – così si esprime questo personaggio – è cosa più sicura della legge: giacché la legge un qualunque politico te la fa a pezzi e te la sconvolge in tutte le direzioni con le sue ciarle, ma il carattere non lo potrà mai abbattere”.
Pag. 99
Euripide non può essere poso in diretto rapporto con le convulsioni politiche della città, ma la sua vicenda personale – nei limiti in cui ci è nota – conferma quella vicinanza agli ambienti da cui quelle convulsioni si sprigionarono.
I dati che possiamo assumere come certi e particolarmente indicativi sono due: uno negativo e uno positivo.
Diversamente da Sofocle, impegnato a farsi eleggere stratego e a ricoprire cariche di grande peso (strategia, ellenotamia), Euripide si è rigorosamente astenuto da qualunque attività politica.
Come nel caso di Antifonte, è importante ciò che non ha fatto.
Il gesto che alla fine compie, andarsene via da Atene dopo il 408, è almeno altrettanto significativo della sistematica defezione dalla vita pubblica: se ne va quando viene restaurata, col rientro di Trasilio e della flotta di Samo e con la fine del regime ‘moderato’ (terameniano) dei ‘Cinquemila’, la democrazia.
Se a questo si aggiunge il buon rapporto con Crizia e il fatto di venir bersagliato sistematicamente, non meno di Socrate, dalla commedia – buon indicatore delle pulsioni dell’”ateniese medio” – il ritratto si chiarisce.
E si comprende tanto l’ostinazione sua nel porre in discussione i pilastri etico-politico-sociali della città democratica, quanto l’insuccesso sistematico di fronte al pubblico.
Non è casuale che l’ultima delle sue cinque vittorie, conseguita postuma, sia stata ottenuta nella spettrale Atene governata dai Trenta del 404/3.
Pag. 101
Non ci soffermeremo dunque sulla critica euripidea ai pilastri etici e sociali (famiglia, schiavitù, religione) su cui si fonda la città, ma guarderemo con una certa attenzione ad un caso concreto di critica politica: ad una discussione sul fondamento stesso della democrazia ateniese (e della democrazia in generale) che Euripide introduce nel bel mezzo di una tragedia, le Supplici (databili intorno al 424 a. C.), costruita ancora una volta intorno ad un mito ben noto al pubblico, quello della saga tebana e del destino dei sette assalitori di Tebe col relativo corollario del fratricidio.
Pag. 105
Cap. 3. Pericle princeps
Il contagio pestilenziale fu talmente sconvolgente per la città che lo storico cha ha raccontato quelle vicende, Tucidide, ha ritenuto di dedicare pagine alla descrizione della pestilenza e dei sintomi del contagio, “perché, se un domani ritornerà, si sappia come si presenta questo malanno”; e descrive la città in preda alla devastazione morale e materiale: cumuli di cadaveri bruciati per le strade, degrado morale, crollo dei freni che regolano la convivenza.
Pag. 113
Uno dei creatori della scienza politica, Thomas Hobbes, il quale a lungo non scrisse, e quando cominciò a scrivere tradusse Tucidide in inglese, premettendovi una mirabile introduzione, osserva a questo proposito che Tucidide ebbe una visione politica profondamente monarchica; infatti i due personaggi positivi della sua storia sono Pisistrato – il cosiddetto tiranno – e Pericle, il monarca.
Questa immagine della “democrazia solo a parole, ma di fatto governo del principe”, ha avuto una vitalità lunghissima.
Si potrebbe dire che l’idea stessa di princeps nella realtà politica della Roma tardorepubblicana prende le mosse da Pericle.
Il nome che è giusto fare è quello di Cicerone, il quale – teorico della politica, critico della decadenza della repubblica romana, quattro secoli dopo Pericle – sogna il princeps: ha l’idea che dalla difficoltà strutturale della repubblica si uscirà attraverso un princeps, e lo delinea nel De Republica, a giudicare dai frammenti che abbiamo, esattamente con le parole con cui Tucidide descrive il potere di Pericle: “Pericles ille, et auctoritate et eloquentia et consilio, princeps civitatis suae”.
Pag. 115
Nel Gorgia, è Socrate che parla, è lui che descrive i grandi corruttori della politica.
A suo giudizio, nella storia ateniese, sono quattro: Milziade, Temistocle, Pericle e Cimone.
Platone è spietato, come sempre, nella sua critica radicale del sistema politico ateniese.
I personaggi che qui condanna in blocco erano stati anche tra loro rivali, eppure li condanna tutti in quanto corruttori del popolo.
Perché fecero quello che Tucidide nega che Pericle abbia fatto: parlare pros hedonèn, “per far piacere” al popolo.
Rimprovera a Pericle proprio l’oratoria demagogica, l’assecondare l’assemblea e per questo, dice il Socrate del Gorgia, “ha reso gli ateniesi peggiori di quello che erano”.
Non soltanto lo condanna per questa oratoria demagogica, per questo assecondare il popolo, ma anche perché per primo introdusse un salario per i pubblici uffici.
Il salario per ricoprire una carica, che è l’architrave del meccanismo democratico ateniese.
Pag. 116
L’ordinamento ateniese, come ogni democrazia antica, ha nell’assemblea di tutti il fondamento.
Ma cos’è propriamente l’assemblea di tutti?
Quando Erodoto raccontò che alla morte di Cambise qualcuno aveva prospettato di instaurare la democrazia in Persia, “alcuni greci” non gli credettero.
Dire, per esempio ad Atene, che nell’Impero persiano, immensa realtà geografica, qualcuno volesse instaurare la democrazia significava far immaginare una assemblea di tutti in un grande Stato territoriale: qualcosa di impossibile.
Ma anche ad Atene l’assemblea di tutti è un’idea-forza.
Quando, molti anni dopo, gli oligarchi abbatteranno il sistema politico ateniese e abrogheranno il salario per i pubblici uffici, dichiareranno – come ben sappiamo – che in fondo, anche in regime assembleare, al massimo cinquemila persone andavano all’assemblea.
Atene a metà del 5. secolo ha trentamila cittadini maschi adulti in età militare.
La realtà concreta della democrazia assembleare è una realtà mobile, nella quale il corpo civico attivo può cambiare, come ora vedremo, in ragione dei rapporti di forza.
Pag. 116
Il tribunale è il ganglio intorno a cui si svolge la lotta di classe.
Spostare i poteri dell’Areopago in tribunali popolari significava spostare il peso decisivo su un altro ceto.
Questa è la riforma del 462.
Ed essa avviene perché all’assemblea c’erano altri.
Quattromila opliti erano in Messenia a combattere agli ordini di Cimone, e Efialte e Pericle realizzano con il sostegno di un’altra massa cittadina una riforma epocale.
Per maggiore chiarezza azzardiamo un paragone.
Si tratta di una realtà molto simile – per certi versi – a quella dell’Atene della democrazia diretta: la Parigi dell’anno 2. della Repubblica, la Parigi delle Sezioni.
Nelle Sezioni ci sono i sectionnaires, cioè i frequentatori abituali, i sanculotti.
Ammazzato Robespierre, i sanculotti se ne vanno dalle Sezioni e arrivano i borghesi.
Le Sezioni continuano a funzionare, quindi formalmente il meccanismo è lo stesso; però è come se nelle vene scorresse un sangue diverso.
E’ la stessa cosa che succede nel 462: assenti gli opliti, decidono i teti, i nullatenenti.
Fra Salamina e la terza guerra in Messenia, Atene è diventata una grande potenza marittima, la cui forza è nelle navi; quindi il soggetto sociale decisivo è diventato quello legato al potere navale, e Pericle deve fare i conti con i teti.
Pag. 116
“La storia non deve stancarsi di ripetere che in essa vige un criterio di misura del tutto diverso dalla moralità e dalla virtù privata” scriveva Droysen (1808-1884) nel 1838.
Cap. 4. Una critica non banale della democrazia
Scrive Aristotele che la svolta nel sistema politico ateniese del secolo precedente è rappresentata dal dopo Pericle, dall’affacciarsi alla direzione dello Stato di uomini come Cleone e Cleofonte.
Aristotele rende anche ‘visivamente’ questa volta, quando rileva il mutamento di tono, di stile, dovuto all’emergere dei nuovi capi popolari: il deterioramento infatti si verifica – per lui – appunto sul versante democratico.
Fino a Pericle, anche i capi popolari sono “onorati” (eudokimountes): dopo, emerge un Cleone, cioè colui che più d’ogni altro ha contribuito a corrompere il demo, colui che per primo “si mise ad urlare alla tribuna, a vomitare ingiurie, a parlare scoprendosi in modo scomposto”.
In questa raffigurazione sprezzante e caricaturale – che del resto nella tradizione su Cleone è quasi stereotipa – Aristotele focalizza emblematicamente il segno esterno della svolta prodottasi.
Alla politica dei signori era subentrata la politica dei popolani.
Così, quando, subito dopo, nomina Cleofonte, il capopopolo degli ultimi anni della guerra peloponnesiaca, lo chiama sprezzantemente “il fabbricante di lire”.
Pag. 130
E siamo così, per merito di questa apologia di Alcibiade, ancora una volta dinanzi ad una vera e propria divaricazione.
Alcibiade esprime la propria repugnanza per la demokratia, per questa “notoria pazzia”, con altrettanta durezza che il “vecchio oligarca” ma – all’opposto di lui ( o di un Frinico, o di un Antifonte) – è convinto che proprio la guerra e l’incombente minaccia militare del nemico abbiano reso impossibile qualunque tentativo di sovvertire questa “dittatura del demo”.
Mentre gli oligarchi promotori del colpo di Stato del 411 conteranno apertamente sull’aiuto spartano, mentre l’autore di questo opuscolo prospetta come unica seria ipotesi di salvezza il classico rimedio di “aprire le porte” e far entrare i nemici, per Alcibiade è veramente pericleo, poiché la distinzione di fondo è per lui, buon alcmeonide, tra l’ordine tradizionale (demo come opposto di tirannide) che ha reso Atene grandissima e liberissima e la demokratia, cioè il predominio incontrollato del demo.
Il primo va difeso, ed è un valore durevole, il secondo è transitorio ed è immodificabile finché c’è guerra.
Pericleo è, anche, Alcibiade, nella consapevolezza di essersi trovato spesso contro il demo ed i suoi ispiratori, così come Pericle è stato anche, temporaneamente, sconfitto, quando il demo gli si è posto apertamente contro.
E’ soprattutto con la formula “eravamo alla guida della comunità nel suo insieme (tou Xympantos)” che Tucidide rende chiaro il filo che congiunge Pericle ad Alcibiade come ideatori di una forte leadership che si pretende, super partes, guida di “tutta la comunità” (dalla Xympasa polis come si esprime Tucidide nel bilancio postumo su Pericle).
Pag. 149-150
Cap. 5. Demokratia come violenza
Demokratia non nasce dunque come parola della convenienza politica, ma come parola di rottura, esprime la prevalenza di una parte più che la partecipazione paritetica di tutti indistintamente alla vita della città (che è espressa piuttosto da isonomia).
Addirittura la democrazia nasce, secondo Platone, con un atto di violenza: “quando vincono i poveri, e uccidono alcuni dei ricchi, altri li scacciano, e ai rimanenti concedono di compartecipare alla pari alla vita politica e alle cariche, e per lo più in essa le cariche vengono affidate per sorteggio”; e prosegue osservando che questa instaurazione violenta si realizza o senz’altro con le armi ovvero per una spontanea autoesclusione del partito avverso “che si ritira in preda al terrore”.
Demokratia non racchiude in sé neanche l’implicita legittimazione derivante dal concetto di “maggioranza”; concetto, questo, ben più presente in plethos che in demos.
Non a caso Otanes, nel dibattito costituzionale che si sarebbe svolto secondo Erodoto, alla corte persiana nel corso della crisi successiva alla morte di Cambise, dice che il plethos archon, cioè appunto “il governo della maggioranza” ha il nome più bello, isonomia.
Su questo punto Aristotele è molto chiaro ed esplicito:
“Non si deve definire la democrazia alla maniera che sogliono oggi alcuni, come il predominio dei più numerosi, né l’oligarchia come il regime in cui pochi sono i padroni dello Stato.
Se infatti, per fare un esempio, i cittadini fossero in tutto 1300, e di costoro 100 fossero ricchi e non concedessero l’accesso alle cariche restanti 30 non ricchi, ma peraltro liberi e per il resto uguali, nessuno direbbe che quello è un regime democratico.
Analogamente, se i poveri fossero pochi ma egemoni rispetto ai ricchi, più numerosi, nessuno definirebbe oligarchia un tale regime, sol perché tutti gli altri, che in questo caso sarebbero i ricchi, si troverebbero esclusi dalla cariche pubbliche.”
Pag. 152-53
Dunque demokratia vale essenzialmente dominio di un gruppo sociale – il demo -, non necessariamente della maggioranza; e demo sono “i poveri tra i cittadini”, secondo la definizione senofontea, o meglio, come precisa Aristotele, “agricoltori, artigiani, artigiani, marinai, manovali, commercianti”.
Pag. 154
Il Pericle tucidideo dunque pone l’accento sull’uguaglianza (to ison), intesa appunto – e il Menesseno lo rispecchia fedelmente – come antitetica rispetto al dominio di una sola parte.
Giacché to ison è, al tempo stesso, “ciò che è uguale” e “ciò che è giusto”.
Quello Che è potuto sembrare l’elogio pericleo, talora imputato addirittura allo stesso Tucidide, della “democrazia” ateniese è invece uno dei testi che maggiormente ‘prendono le distanze’ da una tale forma politica.
Nel famoso dialogo senofonteo tra il vecchio Pericle e il giovane Alcibiade intorno alla violenza e alla legge, la conclusione è che, quando la massa legifera prevalendo sui ricchi, quella è violenza, non è legge.
Pag. 155
Cap. 6. Egualitarismo antidemocratico
Ma l’evoluzione più interessante si produce, per influenza della sofistica e della sua scoperta del contrasto tra la natura e la legge, in un’ala oligarchica-radicale che si è anche resa responsabile, sul piano politico, dei più clamorosi tentativi di sovvertimento dell’ordine democratico.
Nella sua critica estrema ai privilegi del demo, più di un teorico oligarchico sembra assumere come punto di riferimento proprio quello che per un Teognide era il disvalore assoluto, cioè lo schiavo.
Lo schiavo, cioè la prova ‘vivente’ del fondamento genetico della disuguaglianza e delle differenze di casta (il figlio di una schiava sarà uno schiavo anch’esso).
Orbene un Antifonte, il temibile, lo scontroso, il “troppo bravo” Antifonte – come ce lo rappresenta Tucidide nell’appassionato ritratto – intacca proprio questa certezza.
Pag. 157
Sempre nell’Athenaion Politeia spicca la notazione, polemica, secondo cui ad Atene anche gli schiavi se la passano bene: ma per rilevare contestualmente che il demo non è esteriormente distinguibile dagli schiavi (1., 10).
Qui, in questa affermazione che ad Atene schiavi e demo nemmeno si distinguono, ci sono le premesse per un ulteriore passo: perché mai il demo, che è in tutto uguale agli schiavi, accentra nelle proprie mani la politeia?
Alle spalle c’è, evidentemente, il riconoscimento dell’uguaglianza “di natura” tra gli uomini, che è la dirompente scoperta della sofistica.
Ma questa scoperta – che finiva col mettere in discussione proprio i privilegi del demo - si è tradotta, politicamente, in esperimenti ultra oligarchici.
Ha costituito ad esempio, nel caso dei Trenta, la premessa non per esperimenti ‘utopistici’, ma al contrario per il tentativo di abbassare il demo al livello degli schiavi, espropriandolo dello ‘spazio politico’.
Coi Trenta sembra quasi di veder tradotta in esperimento concreto l’idealità di un sofista “egualitario” coem Falea di Calcedone, teorico, a cavallo tra quinto e quarto secolo, di un rigido livellamento delle proprietà e dei patrimoni, e al tempo stesso propugnatore della riduzione di tutti i lavoratori manuali (artigiani etc.) al livello di “schiavi pubblici” (demosioi) – un’anticipazione, per certi aspetti, del cosiddetto “comunismo platonico”.
Pag. 159
Certo, è proprio sul tema del rapporto con gli schiavi che la democrazia viene attaccata dai suoi avversari.
Si può dire anzi che quello della maggior licenza degli schiavi in regime democratico è quasi un topos.
Secondo Platone, l’estremo segno degenerativo, nella città retta dal demo, si ha “quando gli schiavi e le schiave sono liberi tra uomini e donne”.
E Teramene, quando vuol definire gli ideali della democrazia radicale, dice: “io ho sempre combattuto contro coloro che apprezzano la democrazia solo quando a comandare sono gli schiavi e i poverissimi che venderebbero la città come per una dracma”.
Pag. 160
La democrazia radicale, dunque, che è la principale beneficiaria della guerra, è anche responsabile di questa condizione più ‘libera’ e di benessere assicurata agli schiavi.
E’, per così dire, un sistema schiavistico imperfetto.
Quando, nel secolo successivo, il demo avrà perso l’egemonia politica, e sarà economicamente immiserito, e la pressione servile si sarà fatta più pesante e i ricchi non ce la faranno più da soli a difendersi, allora l’impegno ad impedire “esili, confische di beni, suddivisioni di terre, remissioni di debiti, liberazione di schiavi a fini sediziosi” sarà sancita, con la massima evidenza, in un trattato internazionale imposto, dopo Cheronea, da Filippo, disinvolto protettore delle fazioni oligarchiche nelle città greche”.
Pag. 163
Parte seconda: Il buco nero: Melo
Cap. 7. Il terribile dialogo
Cap. 8. La vittima esemplare
E’ stata una vittoria della propaganda sulla verità ad opera del maggiore storico ateniese esaltatore alquanto autolatrico del “valore perenne” della “faticosa ricerca della verità”: in un certo senso un vero capolavoro.
Pag. 173
Intorno alla vicenda di Melo vi fu di certo un moto di opinione per lo meno in ambienti presso i quali l’impero era oggetto di critica.
Ripristinata la corretta informazione sui presupposti della vicenda (Melo ha defezionato e col tempo è passata a sostenere occultamente lo sforzo bellico spartano), resta il fatto macroscopico della decisione ateniese di regolare i conti con Melo proprio nel 416, cioè ben cinque anni dopo la stipula della pace con Sparta.
E’ in questa punizione ritardata il motivo della scandalo.
Era usuale (lo attesta Isocrate, Panegirico, 100)rinfacciare ad Atene la feroce repressione di Scione e di Melo: quei due episodi venivano citati insieme (conferma tra l’altro dell’affinità delle due vicende), ma Scione aveva defezionato subito dopo Amfipoli, dunque in piena guerra (424/3) ed era stata esemplarmente punita da Cleone appena possibile (422/1).
Invece per Melo si attinsero anni prima di intervenire.
L’intervento si sviluppò in tre fasi distinte: a) sbarco e tentativo di trattativa; b) fallimento della trattativa e assedio; c) resa e punizione durissima dei Melii, voluta da Alcibiade (circostanza, quest’ultima, taciuta da Tucidide).
pag. 174
Cap. 9. Euripide a Melo
Nell’estate del 416, quando l’invio di una flotta contro Melo era stato appena deciso o la flotta era al più appena sbarcata nell’isola, Euripide chiese il coro per una tetralogia dedicata al ciclo troiano: Alessandro, Palamede, Troiane e il dramma satiresco Sisifo.
Essa fu rappresentata alle Dionisie del 415 (marzo), quando ormai Melo era stata conquistata, una cleruchia ateniese insediata, gli abitanti sterminati, le donne rese schiave.
Sino a quel momento la grande spedizione contro Siracusa non era stata ancora portata in discussione dinanzi all’assemblea.
Che dunque la tetralogia culminante nel dramma (le Troiane) consacrato al duro destino delle prigioniere troiane sia stata concepita sull’onda della campagna contro Melo – come si è talvolta cercato di dimostrare – è ipotesi più che legittima.
Problematica può apparire la connessione da taluno istituita tra le Troiane ed il sorgere in Atene di una psicosi di massa favorevole alla spedizione contro Siracusa: Tucidide data, peraltro assai sommariamente, tale “volontà diffusa” nell’inverno 416%5 (6., 1, 1,), quando cioè la tetralogia veniva ormai rappresentata.
Pag. 177
L’attacco contro l’isola di Melo fu sferrato in tempo di pace, mentre cioè era in vigore la pace stipulata nel 421 che si suole definire “pace di Nicia” in quanto da lui fortemente voluta e sottoscritta.
Questo elemento resta spesso in ombra, nella considerazione moderna di quella vicenda, grazie all’impalcatura stessa del racconto tucidideo che enumera come “anni di guerra” anche gli anni di pace.
Si aggiunga la tendenza dell’intero racconto tucidideo a ridimensionare quella pace come “tregua infida” e si aggiunga poi che l’impostazione tucididea, , del tutto originale, secondo cui dal 431 al 404 non ci fu che un’unica guerra ha prevalso, per cui l’idea di una ininterrotta guerra ventisettennale è divenuta senso comune.
Il che ha portato a rubricare la vicenda di Melo come un episodio di guerra.
Ciò ha sminuito enormemente la gravità dell’iniziativa ateniese, che invece va rimessa in luce e che trova conferma anche nell’accanito e prolungato dibattito sulle responsabilità ateniesi in quella vicenda che riappare carsicamente nella riflessione politica ateniese (nei limiti in cui ci è nota) fino alla vigilia di Cheronea, alla fine quasi del secolo seguente.
La visione unitaria della guerra spartano-ateniese considerata come un unico conflitto, ancorché legittima e audace al tempo stesso, non fu fatta propria né dai contemporanei né nel secolo successivo dai pensatori e dagli oratori politici ateniesi.
Questo è stato più volte osservato, ma non è superfluo ripeterlo qui.
Che i contemporanei (o almeno una parte di essi) si sentissero, dopo il 421, ritornati ad una condizione di pace ed ai vantaggi che ne derivano lo si ricava per esempio dalle argomentazioni, tutt’altro che inefficaci sul pubblico dell’assemblea, svolte da Nicia nel dibattito assembleare intorno alla proposta messa in moto da Alcibiade di intervenire in grande stile in Sicilia.
Il rifiorire di Atene “inconseguenza della pace di Nicia” è descritto con toni molto netti e con dovizia di dettagli da Andocide, quando rievoca quegli anni nel suo discorso Sulla pace con Sparta (8) del 392/391.
Ed un acuto lettore rinascimentale di questa emblematica vicenda – il Machiavelli – aveva ricavato, non a torto, la conclusione che Atene avesse vinto la guerra decennale (431-421).
Vi era dunque, sul momento, e vi fu a lungo dopo, un’altra visione della storia della guerra che portava a collocare l’intervento contro Melo in una luce – se possibile – ancor più negativa: e, se per lo meno per i contemporanei, più veridica.
Pag. 180-81
Sparta ovviamente non intervenne, e sarebbe stato del resto ben singolare in un momento in cui, nonostante tutto, Sparta e Atene erano pur sempre legate dal trattato di alleanza stipulato nel 421 subito dopo la stipula della pace.
Per il Melii fu micidiale quella scelta della grande potenza in cui avevano confidato.
Ma nel 404 Lisandro, su ordine degli efori, riportò i Melii superstiti (ben pochi ovviamente) nella loro isola, forse ancora ingombra dai 500 cleruchi ateniesi installatisi dopo il massacro.
E così Sparta, luogo privilegiato dell’eunomia, poté far quadrare ancora una volta i conti della potenza e della virtù.
Pag. 186
Cap. 10. Isocrate demolisce la costruzione polemica tucididea sulla vicenda di Melo
Werner Jaeger seppe cogliere l’intreccio profondo che lega la colossale messinscena tucididea sulla vicenda di Melo.
E scrisse, in un veloce, intelligente appunto nascosto in un angolo di un libro non riuscitissimo come il Demosthenes, che Senofonte ha perseguito “una unità intrinseca (Einheit der inneren Haltung)” rispetto a Tucidide.
E’ più ragionevole pensare che, semplicemente, si tratta di Tucidide in un caso come nell’altro.
Oltre tutto, la storia editoriale del lascito tucidideo si comprende ancora meglio se si considera la vicinanza politica tra Tucidide e Senofonte, cementata, potremmo dire, dall’esperienza di entrambi nelle due oligarchie.
Pag. 189
Intermezzo
Cap. 11. Effetti imprevisti del “mal di Sicilia” (415 a. C.): ciò che Tucidide vide
Fu una smania di salpare che Tucidide con parola che non adopera mai altrove definisce “eros” o anche “desiderio smodato”: “Volevano andare in Sicilia per sottometterla.
In realtà i più non conoscevano neanche le dimensioni dell’isola, quali popoli la abitassero, quanti fossero i barbari e quanti i greci; non capivano di imbarcarsi in una guerra grande quanto quella che avevano combattuto contro Sparta e i suoi alleati”.
E qui, con orgogliosa polemica contro le scelte impulsive dei suoi concittadini, traccia da esperto geografo et etnografo un profilo della Sicilia e del suo popolamento.
Dopo di che commenta: “E’ contro un’isola di teli dimensioni che gli ateniesi volevano muoversi: il loro vero desiderio era di conquistarla tutta quanta, dicevano però di coler proteggere le popolazioni di stirpe affine ed i loro alleati recenti”.
Ma c’era chi concepiva progetti anche più ambiziosi: Alcibiade, affacciatosi ancora giovanissimo alla politica e illustratosi in un infelice esordio diplomatico e militare nei due anni precedenti, al di là della Sicilia pensava addirittura a Cartagine: anzi la conquista della Sicilia era per lui “la premessa per la conquista di Cartagine”.
Pag. 194
Parte terza. Come perdere la guerra avendola vinta
Antefatto
Diversamente dai suoi contemporanei, nonché dagli storici e politici del secolo successivo, Tucidide – lo abbiamo già ricordato – ha intuito la sostanziale unità del conflitto apertosi nella primavera del 431 a. C. con l’ultimatum spartano e terminato con la capitolazione di Atene nell’aprile del 404.
Tale visione unitaria trova un calzante parallelo nella valutazione delle due guerre mondiali sviluppatesi nella prima metà del Novecento come fasi di un unico conflitto.
In entrambi i casi si tratta di due periodi bellici prolungati, nell’intervallo tra i quali si producono conflitti minori e tensioni in altre aree, sicché la pace stessa che conclude il primo dei due (la pace di Nicia nel primo caso, la pace di Versailles nel secondo) viene percepita come qualcosa di provvisorio.
Va però osservato che la coscienza di tale unità si forma, necessariamente, a posteriori.
E’ lo sviluppo degli avvenimenti che dà via via maggior forza all’idea che il primo conflitto si sia solo apparentemente concluso e sia inevitabilmente riaperto per proseguire finché uno dei due grandi soggetti in lotta soccomba definitivamente.
Fermo restando, comunque, che la persuasione stessa che si sia alla fine giunti ad un epilogo veramente conclusivo viene non di rado messa in discussione dall’ulteriore sviluppo degli avvenimenti: a riprova del fatto che qualunque periodizzazione storica è provvisoria.
Non a caso Teopompo ha proseguito l’opera di Tucidide continuando fino al 394 a. C., cioè fino alla rinascita delle mura di Atene abbattute nella capitolazione del 404.
Nel caso della riflessione storico-politica di Tucidide sulla grande guerra di cui fu testimone, vediamo affiorare man mano nella sua opera la scoperta dell’unità dell’intero conflitto.
Per parte loro, d’altro canto, Lisia, Platone, Eforo continuarono a ragionare in termini di tre guerre distinte: guerra archidamica (431-421 a. C.), conclusa da una pace molto impegnativa quale la cosiddetta pace di Nicia, guerra siciliana (415-413 a. C.), guerra deceleica (413-404 a. C.).
Era ben presente a questi interpreti della vicenda ateniese che la pace di Nicia aveva segnato un punto fermo e che, come Nicia aveva temuto, fu proprio l’attacco di Atene contro Siracusa nel 415 a provocare la riapertura del conflitto tra Sparta ed Atene, principali firmatari della pace di Nicia.
e poiché l’attacco ateniese contro Siracusa non era una mossa inevitabile, ne discende che la riapertura catastrofica per Atene del conflitto era soltanto una, ma non l’unica delle possibilità sul tappeto.
La stessa grande discussione in assemblea popolare tra Nicia che sconsiglia l’impresa siciliana e Alcibiade che la caldeggia cavalcando un’ondata di opinione pubblica infiammatasi per la presunta facile conquista dell’Occidente, significa per l’appunto che due strade si aprivano e che la svolta bellicista non era una scelta inevitabile.
Quando dunque Tucidide dà tanto rilievo al fatto che due strade si aprivano e fu imboccata quella sbagliata, con ciò stesso dimostra di non aver ancora maturato la visione in certo senso deterministica di un conflitto unitario, destinato inevitabilmente a riaprirsi e a concludersi con l’annullamento di una delle due potenze in lotta.
Una tale visione egli l’ha maturata via via, quando ha potuto constatare che Sparta e Corinto si inserivano nella guerra tra Atene e Siracusa e riaprivano il conflitto in Grecia denunciando la pace di Nicia.
La conquistata visione unitaria ha prodotto integrazioni importanti nel primo libro dell’opera sua, quali il rapido profilo del cinquantennio tra le guerre persiane e lo scoppio del conflitto con Sparta, nonché quel memorabile breve commento che egli colloca al termine del congresso di Sparta, dove dichiara che gli spartani accedettero alle sollecitazioni corinzie in pro di una risposta militare alla crescente egemonia ateniese “non perché persuasi dai corinzi e dagli altri alleati, ma perché ormai temevano l’accrescersi costante della potenza ateniese e vedevano che la gran parte della Grecia era soggetta ad Atene”.
Scoperta dell’unità dell’intero conflitto, intuizione della “causa verissima” (allarme spartano di fronte alla crescente potenza imperiale ateniese), necessità di tracciare un rapido profilo della genesi e crescita dell’impero ateniese, sono dunque tutti fenomeni strettamente intrecciati tra loro e costituiscono la traccia sotterranea per dipanare, perlomeno a grandi linee, la stratigrafia compositiva del racconto tucidideo.
Ma gli effetti di tale scoperta, che reinterpretava originalmente un’intera fase storica, ha avuto come conseguenza – nella mente dello storico – un processo di svalutazione del rilievo di alcune tappe del conflitto inizialmente da lui stesso considerate di grande importanza: per esempio, gli incidenti (Corcira, Potidea, l’embargo contro Megara) che precedettero di qualche anno lo scoppio del conflitto, e che inizialmente erano parsi a Tucidide cause talmente rilevanti da richiedere un’esposizione analitica che occupa gran parte del primo libro.
Analogamente si spiega il racconto minuziosamente analitico della campagna siciliana, la quale dovette dapprima essere concepita come la narrazione di un altro conflitto, con un suo proprio proemio etno-geografico, e divenne poi parte di un racconto molto ampio, i cui anni di guerra vengono immessi nell’unica progressiva numerazione dei ventisette anni.
E’ di per sé evidente che questa modifica in corso d’opera della visione generale del conflitto, nel giudizio tucidideo, ha determinato scompensi narrativi: che parvero sconvenienti ad un critico puntiglioso ma non profondo come Dionigi d’Alicarnasso.
Orbene, nel quadro dalla acquisita visione unitaria del conflitto, è evidente che la pace di Nicia finisce con l’apparire ed essere presentata come poco più che una tregua.
Ma tale non fu la percezione dei contemporanei e forse fino ad un certo momento dello stesso Tucidide, come è chiaro dalle stesse parole che egli fa pronunciare a Nicia all’inizio del libro 6., là dove Nicia descrive la ripresa economica appena avviata grazie alla pace dopo il decennio di invasioni spartane dell’Attica.
Questa svalutazione del significato della pace di Nicia comporta che resti in ombra, nel racconto tucidideo, il più macroscopico dei risultati della pace: il riconoscimento finalmente formalizzato dell’impero ateniese da parte spartana e l’accettazione della sua consistenza ‘territoriale’.
Se solo si considera che la nascita stessa dell’alleanza stretta intorno ad Atene aveva rappresentato una rottura di fatto dell’alleanza panellenica capeggiata da Sparta, sorta con l’invasione di Serse (480 a. C.), ben si riesce a comprendere la portata epocale della presa d’atto da parte spartana dell’ufficiale esistenza e legittimità dell’impero ateniese.
Tale presa d’atto è affidata al testo della pace di Nicia, che Tucidide stesso ci ha conservato.
Chi dunque pensi, come il Machiavelli, che Atene aveva “vinto la guerra” non è fuori strada.
La frequentazione dei testi greci da parte del Machiavelli fu indiretta ma sempre all’altezza della sua penetrante capacità di leggere politicamente il passato.
Nel libro terzo dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio il Machiavelli tocca quasi per caso questa materia e approda ancora una volta ad una delle sue drastiche formulazioni geniali.
Prende spunto da un problema squisitamente politico e cioè il maggior peso che le élites acquistano in caso di guerra.
A suffragio di questa sua tesi porta il caso di Nica di fronte alla campagna siciliana e inserisce, cosa piuttosto insolita per lui, un ampio riferimento al racconto tucidideo.
Ed è qui che lascia cadere quasi per incidens una dichiarazione che al lettore moderno appare quasi stravagante e che invece è profondamente vera, che cioè Atene avesse vinto la guerra: ovviamente la guerra decennale, conclusasi con la pace di Nicia, la cui portata politica e diplomatica gli è perfettamente chiara:
“Egli fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in una repubblica, ne’ tempi pacifichi, sono negletti; perché, per la invidia che si ha tirato dietro la riputazione che la virtù d’essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai cittadini che vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro superiori.
E di questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico greco; il quale mostra come, sendo la repubblica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato l’orgoglio degli spartani, e quasi sottomessa tutta l’altra Grecia, salse in tanta riputazione che la disegnò di occupare la Sicilia.
Venne questa impresa in disputa in Atene.
Alcibiade e qualche altro cittadino consigliavano che la si facesse, come quelli che, pensando poco al bene pubblico, pensavono all’onore loro, disegnando essere capi di tale impresa.
Ma Nicia, che era il primo intra i reputati di Atene, la dissuadeva: e la maggiore ragione che, nel concionare al popolo, perché gli fusse prestato fede, adducesse, fu questa: , che consigliando esso che non si facesse questa guerra, e’ consigliava cosa che non faceva per lui; perché, stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, facendosi guerra, sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe superiore o equale (cap. 16)”.
Pag. 206-210
Cap. 12. Scandali e oscure trame (415 a. C.) con una silloge di documenti
Cap. 13. Lotta politica nella grande potenza d’Occidente: Siracusa, 415 a. C.
Ne consegue – in Magna Grecia e in Sicilia – una tradizione di democrazia totalitaria che sfocia normalmente in ‘tirannide’, cioè in un forte potere personale repressivo verso i ceti alti, e, necessariamente, sia pure in diverse forme, verso l’intera società.
Dal punto di vista dell’immagine consolidata dalla storiografia greca superstite e successiva, questo tipo di democrazia totalitaria è rimasto perdente.
La competizione, in Magna Grecia e in Sicilia, tra democrazia e tirannide spiega, o aiuta a capire, perché la ‘tirannide’ occidentale duri così a lungo.
Essa prolunga la sua esistenza nel 5. e nel 4. secolo a. C. (e in certi casi fono alla conquista romana) appunto perché è la forma che li assume la democrazia.
Al contrario in Grecia la ‘tirannide’ per una lunga fase scompare.
Lo scenario ateniese è del tutto diverso.
Qui la democrazia si compenetra con l’individualismo dei ceti alti, assertori, come si sa, della isonomia e assai poco inclini, anzi in genere ostili, alla demokratia (“potere popolare”).
Il principio che informa la concezione aristocratica della eleutheria/isonomia, e che è largamente teorizzato nell’epitafio pericleo-tucidideo è: tutti, ricchi o meno, siano liberi di esprimere le rispettive potenzialità, ma vinca il migliore”.
Pag. 241
Cap. 14. Internazionalismo antico
Ma l’episodio ha rilievo anche per l’aspetto relativo all’automatismo delle alleanze: i signori, appena la città è sconfitta, rovesciano il demo grazie alla vittoria spartana contro la propria città.
Nel caso dei “signori” quell’automatismo ha funzionato senza scosse né incertezze.
Atene può scontrarsi, perseguendo la sua politica di potenza (che è il suo principale obiettivo), anche contro città che non siano rette da oligarchie.
Sparta non si è mai trovata, da quando si è sprigionato il conflitto con Atene per l’egemonia, ad appoggiare regimi popolari.
L’aiuto a Siracusa è dato in nome della comuen origine ‘dorica’, ma, ovviamente, ha la sua ragion d’essere nella politica di potenza.
Si può azzardare dunque una diagnosi di carattere generale: nel mondo greco, nell’età dei conflitti per l’egemonia, sono gli oligarchi i veri “internazionalisti”.
Pag. 245
Cap. 15. La guerra totale
Tra le guerre del 5. secolo a. C. la cosiddetta guerra peloponnesiaca fu l’unica che non si risolse con una o due battaglie (“con due battaglie navali e due terrestri” si era risolta la più grande delle guerre precedenti, la guerra contro Serse, coem notava Tucidide nell’ultimo capitolo del suo lungo proemio).
Ma questo fu chiaro dopo.
O meglio fu sempre più chiaro via via che la guerra venne assumendo un aspetto nuovo dal punto di vista militare: quello di uno stato di belligeranza che poteva durare anni, nonostante il verificarsi di scontri che in altri contesti sarebbero risultati immediatamente risolutivi.
Né la cattura a Sfacteria di tanti spartiati in un solo scontro, né la sconfitta ateniese a Delion, bastarono a porre termine al conflitto.
Conflitto che si sviluppa, negli anni della guerra decennale, e poi daccapo durante la “guerra deceleica” (413-404 a. C.), come un susseguirsi di scontri marginali e relativamente impegnativi che sfociano ad un certo momento in più impegnativi eventi militari, per attestarsi subito dopo in una conflittualità più limitata, e così via.
E’ come se i belligeranti si studiassero, magari impegnandosi in scontri di modesta entità, in vista del momento in cui imporre all’avversario lo scontro risolutivo nelle condizioni per lo più sfavorevoli.
Di qui l’andamento del conflitto, simile in questo alle guerre moderne ben più che alle guerre arcaiche, di cui i greci fino a quel momento avevano fatto esperienza (fatta eccezione, s’intende, per il lungo e remoto assedio di Troia.
Pag. 246
La definizione di “guerra totale” tenta di rispondere al quesito: perché in tutta la storia millenaria dei greci soltanto la “guerra peloponnesiaca” durò tanto a lungo.
Non ci riferiamo soltanto alla originale concezione tucididea di un unico conflitto ventisettennale, bensì anche ai due conflitti ‘parziali’, entrambi durati ben dieci anni, la guerra detta “decennale” (431-421) e la guerra detta “deceleica” (413-404).
Tucidide, il cui racconto è sapientemente selettivo, dietro l’apparenza di una quasi inscalfibile né ulteriormente dilatabile (ma apparente) totalità, ci guida nella comprensione di un andamento bellico nel quale lo “stato di guerra” perdura indipendentemente dalla frequenza con cui avvengono scontri terrestri e navali e indipendentemente dalla loro distruttività.
Non è che si combatta ininterrottamente, ma i due principali contendenti cercano costantemente dove e quando colpire.
Ciascuno punta ad infliggere colpi con le armi in cui si considera più forte e sul terreno che stima più favorevole.
Di qui la discontinuità dello scontro diretto pur nella continuità dello status di guerra e l’ampiezza crescente del teatro di operazioni.
E’ sintomatico, e aiuta a comprendere il fenomeno, il fatto che, già nel caso della guerra decennale, Atene tenti più volte di intervenire in Sicilia (nel 426 e poi nel 422), ben prima dell’intervento in grande stile del 415 che trasformerà definitivamente, e fino al momento della capitolazione di Atene, la guerra ‘peloponnesiaca’ in guerra mediterranea, da Siracusa al Bosforo alle isole dell’Egeo antistanti l’Asia.
Pag. 248-49
E soprattutto guerra civile andrebbe preso in altro senso rispetto a quello che Hanson mutua dall’esperienza della guerra di secessione americana.
Fu guerra civile, come s’è detto (cfr. paragrafo 2), perché erano in gioco al tempo stesso l’egemonia e i modelli politici: per la semplice e macroscopica ragione che l’egemonia che Atene era venuta acquisendo era coessenziale al suo sistema politico (la democrazia imperiale) e si fondava sull’esportazione/importazione di quel modello nelle città alleate/suddite.
E’ per questo che Lisandro, nel momento della vittoria finale, pretende anche e contestualmente il cambio di regime nella città finalmente sconfitta, anche se tale cambio non figurava formalmente tra le clausole della capitolazione.
Il fatto che le cose abbiano preso presto, già poco dopo la vittoria, un’altra piega nulla toglie alla lucidità dell’intuizione del vincitore.
Ma come non ricordare, a questo proposito, che anche per il secondo conflitto mondiale, nonostante quasi ogni scelta dei contendenti in lotta sia stata dettata dal calcolo realpolitico più che dalle opzioni ideologiche e di principio, fu comunque anche una gigantesca guerra civile?
Ecco perché l’analogia diagnostica più efficace, per comprendere l’interminabile conflitto 431-404, resta pur sempre quella del conflitto che occupò la prima metà del Novecento.
Ed ecco perché la sola definizione appropriata a connotarlo è quella di “guerra totale”.
Pag. 250
Parte quarta. La prima oligarchia: “Non era impresa da poco togliere la libertà al popolo ateniese”.
Cap. 16. Anatomia di un colpo di Stato: il 411
Da quando in Atene si era presa coscienza della catastrofe siciliana il clima politico era mutato.
Un primo segno erano stati i propositi di “buona amministrazione” su cui Tucidide posa un velo di ironia.
Sta di fatto che per i nemici della democrazia, per coloro che da sempre l’avevano avversata come il peggiore dei regimi, quella catastrofe era la prova di quanto rovinoso fosse un tal regime, un regime nel quale ”il primo capitato può prendere la parola” e la città può essere portata perciò alla rovina dalla avventata decisione di un giorno.
Oltre tutto la democrazia è un sistema disperante: “Il popolo può sempre addebitare la responsabilità delle decisioni a quell’unico che ha presentato la proposta o l’ha messa ai voti, e gli altri tirarsi indietro dicendo: io non ero presente!”.
E’ la stessa irresponsabilità politica denunciata da Tucidide quando ricorda l’indignazione della gente contro i politici che avevano caldeggiato la spedizione siciliana: “come se non l’avessero votata essi stessi!”.
Insomma parve giunto il momento della resa dei conti.
Il disastro era troppo grande, l’emozione e la paura troppo forti, e l’occasione quindi troppo favorevole perché i circoli oligarchici, l’opposizione occulta, i vecchi inaspriti e i giovani “dorati” dell’antidemocrazia non passassero all’azione.
La nomina dei dieci “anziani tutori” della politica cittadina – l’altro provvedimento sotto l’impressione della sconfitta – non era che un primo segno del nuovo clima che veniva maturando.
Un clima nel quale lentamente le parti si invertono.
Se nel predominio popolare e assembleare sono i signori, i “nemici del popolo” che per lo più tacciono, ora incomincia a verificarsi il contrario.
Ora gli oligarchi proclamano davanti all’assemblea un programma, che era la negazione del principio base della democrazia periclea del salario minimo per tutti: sostenevano che soltanto chi serviva in armi poteva ottenere un salario e che non più di cinquemila cittadini dovevano avere accesso alla politica.
In tempi normali nessuno avrebbe osato anche solo profferire queste ipotesi senza cadere sotto l’accusa pericolosa di “nemico del popolo”.
L’assemblea e il Consiglio continuavano a riunirsi, ma non decidevano se non quello che stabilivano i congiurati, “e ormai chi parlava nell’assemblea erano soltanto loro ed esercitavano la censura preventiva su qualunque intervento altrui”.
La crisi politica di Atene in questi mesi cruciali della primavera del 411 è tutta in questo mutamento: gli oligarchi hanno preso il potere servendosi né più né meno che degli strumenti propri del regime democratico.
Pag. 252-53
Piegarsi a riflettere su questi eventi, in sé effimeri, è per Tucidide come concepire e comporre un manuale di fenomenologia politica, i cui temi sono: come il popolo perde il potere, come il terrore bianco riesca a paralizzare la volontà popolare e renda innocua la “maggioranza” indotta addirittura a decretare la propria decapitazione politica, come gli oligarchi siano incapaci di tenere il potere quando l’hanno conquistato perché subito scoppia tra loro la rivalità e la spinta al dominio di uno solo, come al politica estera determini, in ultima analisi, quella interna, onde la perdita dell’Eubea porta alla rapida fine dell’oligarchia allo stesso modo che alla sconfitta in Sicilia aveva affossato la già turbata democrazia.
Pag. 254
Il regime oligarchico non sopravvisse a questa débâcle.
Appena giunte le notizie dall’Eubea si tenne, immediatamente, una prima assemblea in cui i capi dell’oligarchia, i cosiddetti “Quattrocento” furono deposti e tutti il potere passò ai “Cinquemila” (la cui lista peraltro non era stata mai fatta, e che solo ora fu definita); nei giorni successivi si tenne una serie di assemblee che portarono all’elezione di nomoteti e ad altre decisioni relative alla costituzioni (97,2).
Pag. 258
Cap. 17. Tucidide tra i “Quattrocento”.
Densità narrativa.
E’ questo l’elemento distintivo di quell’unicum che è la cronaca dei meno du quattro mesi del governo oligarchico del 411 che leggiamo nell’8. libro di Tucidide, e che ne occupa la metà.
Nessun episodio ha, nell’opera, un tale spazio.
Forse solo Sfacteria (oltre due mesi): e Tucidide probabilmente era lì e ha visto da vicino l’assedio.
Non basta dire: ‘s’informava’.
Nessuna informazione recuperata interrogando testimoni può produrre una narrazione praticamente quotidiana, in grado cioè di rispecchiare lo svolgimento quotidiano degli eventi.
Un raffronto obbligato e illuminante è costituito da Erodoto.
Egli narra fatti che certamente non ha visto (le guerre persiane) con una densità narrativa illusoria: la densità del suo racconto, anche per la seconda guerra persiana, è ben più lassa.
Avevo affrontato la questione del carattere apparentemente totale (senza ‘vuoti’) ma in realtà selettivo della narrazione storiografica in generale, e antica soprattutto, circa quarant’anni fa in Totalità e selezione nella storiografia classica (Laterza).
E resto del parere che quel criterio sia valido: la ‘densità narrativa’ come strumento che ci può orientare nel valutare la genesi di ciò che leggiamo nelle opere storiografiche degli antichi.
Punto di partenza resta l’intuizione di Eduard Schwartz nelle prime pagine del suo saggio sulle Elleniche senofontee.
Pag. 269
Cap. 18. Il principale responsabile
Se è vero sempre che “la storia vera è quella segreta”, come ebbe a dire felicemente Ronald Syme, più che mai lo è nel caso di una congiura; e, più in generale, dovunque l’azione politica sia svolta o promossa da società segrete.
Le ‘eterie’ ateniesi tali erano senza dubbio, anche se, come accade non di rado in organizzazioni del genere, qualcosa trapelava all’esterno.
Vi era certamente un livello più aperto, che si manifestava e si esprimeva nel contesto ludico del simposio.
E vi era un livello molto più delicato e molto meno aperto, dove si progettava, si tramava, si rivaleggiava e, se del caso, ci si tradiva, come avvenne nelle convulse giornate delle delazioni e contro-delazioni conseguenti agli scandali ‘sacrali’, ma in realtà politici, del 415.
Non deve sfuggire la precisione terminologica di Tucidide: per un verso parla di ‘eteri’ quando ad esempio riferisce la riunione dei congiurati in cui Frinico espone controcorrente i suoi dubbi, per altro verso quando parla di Pisandro in azione e proteso ormai all’organizzazione concreta della trama dice che costui visitò, ad Atene, una per una, “le congiure in atto”.
Pag. 270
Cap. 19. Frinico il rivoluzionario
I temi in discussione sembrano essere due: se ancorare le fortune dell’imminente azione eversiva al richiamo di Alcibiade riservando e riconoscendo dunque all’ingombrante esule un ruolo protagonistico; e se contare sull’automatismo del cambio di regime anche nelle città alleate una volta preso il potere in Atene.
Su entrambi i punti – nota Tucidide con ammirazione e consenso – Frinico vedeva più lontano degli altri.
E parlava chiaro (come del resto è normale, tra oligarchi, quando non si deve manovrare la retorica demagogica).
Agli altri sembrava plausibile, e da accogliere, l’offerta di Alcibiade: un accordo con la Persia in cambio del proprio rientro ad Atene purché non più in democrazia.
Frinico invece metteva in guardia.
Diceva – riferisce Tucidide come uno che è stato presente -: a me, Alcibiade non sembra affatto incline ad un regime piuttosto che ad un altro, l’unica cosa cui mira è di poter rientrare, in un modo o nell’altro, “chiamato dalla sua eteria (ypo ton etairon parakletheis) dopo aver rimesso in sesto la città dalla sua condizione attuale”.
E qui Tucidide inserisce un suo commento: “il che era vero!”.
Aggiungeva Frinico che anche l’argomento relativo agli intendimenti del Gran Re gli sembrava errato: “ormai che anche i peloponnesiaci erano sul mare ed avevano così numerose città sotto il loro dominio, era improbabile che il Gran Re spostasse il suo favore dalla parte degli ateniesi, dei quali comunque non si fidava, pur potendo invece farsi amici i peloponnesiaci, dai quali non aveva mai subito alcun danno”.
Parole molto significative, che evocano il rancore mai sopito in Persia nei confronti di Atene per il ruolo svolto nella rivolta della Ionia novant’anni prima.
Frinico passava quindi a spiegare – e Tucidide assicura che quelle furono esattamente le sue parole - che le città alleate oppresse dal governo popolare ateniese non avrebbero affatto scelto di restare più volentieri con Atene dopo il colpo di mano e l’instaurazione qui di un governo oligarchico: non vorranno “seguitare ad essere servi, ma dell’oligarchia (douleuein met’oligarkias) vogliono liberarsi e basta; e qui soggiunse quello che Moses Finley ha poi definito “il paradosso di Frinico”: “non dimentichiamo – disse – che l’impero fa comodo anche a noi e che gran parte dei nostri vantaggi materiali vengono appunto dall’impero”.
E disse anche qualcosa di più pungente vista la circostanza e l’ambiente in cui parlava: che la disaffezione degli alleati-sudditi sarebbe rimasta immutata anche dopo il cambiamento di regime giacché gli alleati-sudditi sapevano benissimo che dei crimini commessi dal regime democratico nei loro confronti erano stati per lo più istigatori e promotori proprio i ‘signori’ (i kalokagathoi).
Questa discussione in cui i partecipanti non hanno alcun bisogno di praticare la seduzione oratoria (non avendo davanti materia prima umana a cui destinarla) ma guardano la realtà in faccia, magari con una divisione di ruoli che si forma nel corso stesso della discussione, è molto simile a quella che si svolge nel più volte ricordato dialogo Sul sistema politico ateniese.
Pag. 281
Questo è un luogo tucidideo di straordinaria importanza.
Uno dei luoghi, oltre tutto, in cui Tucidide esprime direttamente le sue vedute politiche: il che gli accade più spesso del solito proprio in questo lunghissimo diario della crisi del 411.
(Si pensi alla netta valutazione positiva, come “primo vero buongoverno in Atene”, del governo terameniano dei Cinquemila).
Ma è straordinario questo luogo anche su di un piano più profondo, inerente alla concezione stessa della storiografia che Tucidide invera nell’empiria della scrittura.
Lo studio della politica vivente è per lui la sola vera forma di conoscenza storica: di qui l’accento posto sul valore esemplificativo degli eventi considerati nel loro stesso svolgersi rispetto alle diagnosi, e prognosi, di cui il vero, e dunque lungimirante, politico si dimostra capace.
Frinico ha visto ciò che gli altri non hanno voluto intendere sebbene messi sull’avviso.
E perciò andranno incontro al fallimento: l’esperienza di un governo finalmente non dominato dagli umori popolari e dalla necessità di assecondarli (cioè la democrazia) fallirà quando addirittura si staccherà l’Eubea dall’impero, e allora si correrà ai ripari liquidando il governo di Antifonte, Aristarco e compagni.
Esito che rappresenta una grande, ma sterile, vittoria postuma di Frinico (che nel frattempo era stato assassinato in circostanze mai del tutto chiarite).
Pag. 283-84
Cap. 20. Frinico cade e risorge: variazioni sul tema del tradimento.
Guillaume Guizot, l’abile ministro di Luigi Filippo, definiva il marchese di Lafayette “ornamento di tutte le cospirazioni”, poiché per circa mezzo secolo il suo nome veniva fuori puntualmente ad ogni cospirazione: ancora durante la Restaurazione quando vendite carbonare pullulavano negli ambienti militari ben dopo il ritorno del Borbone sul trono della Francia.
Alcibiade, rispetto alla crisi cronica e alle convulsioni della politica dalla pace di Nicia (421) al governo dei Trenta (404), potrebbe apparire il Lafayette della Repubblica ateniese.
Appena trentenne, nel 421, egli era l’uomo che tramava per far saltare la pace appena stipulata, due anni più tardi è il grande tessitore della fallimentare coalizione sconfitta a Mantinea, nel 415 è il principale sospettato nella tormenta degli scandali sacrali, ai quali non era certo estraneo, e che, nonostante il sarcasmo tucidideo sull’allarmismo patologico della mentalità democratica, una trama politica celavano.
Nel periodo trascorso a Sparta, e poi nell’entourage del satrapo Tissaferne, è riuscito a destare sospetti in tutti.
Nel 411 è al centro, come potenziale o ipotizzato complice più che come promotore, di tutte le manovre in atto.
E passa per essere l’uomo senza del quale non si può vincere, senza del quale la Persia continuerebbe ad essere ostile; e che però non rientrerebbe in città se non dopo un cambio di regime, comunque non – come mandò a dire ai congiurati – “sotto la democrazia, colpevole di avermi cacciato”.
Pag. 286
Mentre Alcibiade, ignaro del fallimento della sua contro-manovra, si affannava ad incrinare la fiducia di Tissaferne negli spartani, Pisandro sbarcava coi suoi uomini ad Atene.
Si presentava come messo dalla flotta di Samo e parlò davanti all’assemblea popolare: era pur sempre, nella considerazione corrente, un “demagogo” di lungo corso.
In sintesi il suo discorso fu: vi si offre la possibilità di avere il Gran Re come alleato e dunque di sconfiggere gli spartani, le condizioni sono: a) far rientrare Alcibiade, b) e perciò “far funzionare diversamente la democrazia”.
Questa formula è il gioiello, una vetta della mistificazione linguistica della parola politica.
Pisandro sta preparando la trama che ha come obiettivo l’abbattimento del regime democratico, ma deve catturare il consenso, e allora inventa la formula “ci vuole un’altra democrazia”, “non possiamo continuare a praticare la democrazia alla solita maniera”, se vogliamo che “Alcibiade rientri e ci porti l’’alleanza con la Persia”.
Pag. 288
Cap. 21. Morte di Frinico e processo al cadavere
Cap. 22. Il processo ad Antifonte
Riepilogando.
Il dato di partenza dev’essere quanto scrive Tucidide su quel memorabile processo, il cui verdetto era già scritto in partenza.
E Antifonte era il primo ad esserne consapevole.
Come pensare che smentisse puerilmente le proprie idee, che erano ben note ai suoi accusatori e visibili dai suoi comportamenti?
Come pensare che Tucidide, se davvero ebbe davanti un’apologia in cui Antifonte si scrollava di dosso ogni responsabilità nel colpo di Stato e ogni addebito si sentimenti anti-democratici, si spingesse, nello stesso contesto, ad additare in Antifonte il vero artefice del colpo di Stato e ad esaltare la sua apologia come “eccellente”, anzi insuperata?
Quella pagine di Tucidide è forse, insieme con la lunga riflessione sullo stile di governo di Pericle e il fallimento dei suoi successori (2., 65), tra le più importanti di tutta l’opera, e certo tra le più significative anche dal punti di vista della biografia dello storico.
Pag. 324
Cap. 23. Gli altri processi
Il “cambiamento” non significava affatto ritorno alla democrazia: anzi, i due punti qualificanti della nuova situazione erano agli antipodi della democrazia (solo 500 cittadini pleno iure e divieto categorico, ribadito con pene severissime per i trasgressori, del ‘salario’).
Il ‘salario’ era il simbolo stesso, il palladio, della democrazia, che i vecchi, caricaturali, del coro della Lisistrata giurano di voler difendere anche con le armi.
Dunque argine assoluto contro il ritorno al ’vecchio regime’ democratico.
E nondimeno per i capi del gruppo fino ad allora dominante – Antifonte, Pisandro, Acheptolemo, Onomacle, Aristarco, Alessicle – l’unica soluzione era fuggire a Sparta.
E’ evidente che paventavano una resa dei conti in cui, come sempre nella lotta politica ateniese, non ci sarebbero state mezze misure: o ammazzare o essere ammazzati.
Pag. 326
Cap. 24. La commedia di fronte al 411
E’ sapiente la parodia, in realtà assai vicina all’originale, del linguaggio politico del momento.
Lo si coglie nel diverbio Probulo-Lisistrata sull’amministrazione del tesoro e lo si coglie nell’attacco stesso con cui i vecchi lanciano il loro grido di allarme: “Chiunque è uomo libero non può starsene a dormire!”.
Non è affatto casuale che il coro dei vecchi adoperi un lessico politico in cui oligarchia e tirannide valgono come sinonimi.
Questo è un aspetto cruciale del linguaggio di parte democratica, di cui Tucidide ci dà due volte – in punti cruciali del suo racconto – capitale testimonianza, e che ha a che fare con la costruzione ideologica più forte della democrazia ateniese: l’auto-rappresentazione della democrazia come antitesi polare della tirannide.
Per cui la mentalità e la prassi oligarchica ricadono, per così dire, nell’ambito della ‘tirannide’, dell’aspirazione alla tirannide.
Il che non è totalmente svincolato dalla reale dinamica della lotta politica.
Tucidide stesso sa (e Aristotele ripete) che tra gli oligarchi scoppia ben presto la gara per cui “ciascuno vuol essere il primo”; e l’oligarca-tipo del celebre e acutissimo ritratto delineato da Teofrasto nei Caratteri va in giro ripetendo di continuo il verso omerico “uno sia il capo!”; così come – in quanto caposaldo della stessa politica – ripete il ritornello: “o noi o loro in città!”.
Nelle due occasioni in cui Tucidide parla di colpi di Stato ad Atene – quello paventato (e forse abortito) del 415 e quello, portato a compimento, del 411 – attribuisce alla coscienza popolare (“il demo pensando che etc.”, “il demo ricordando ciò che sapeva per tradizione orale, etc.”) il timore di una “congiura – come egli si esprime – oligarchica e tirannica”.
In questo caso riferisce pensieri correnti nel demo.
Commentando però l’exploit dei tre artefici della rivoluzione oligarchica – e dando in questo caso l’idea di parlare in prima persona – osserva che era impresa grande “togliere la libertà al demo a cento anni circa dalla caduta dei tiranni”.
In questo secondo caso sembra che egli faccia propria quella equiparazione oligarchia/tirannide che è l’ideologia di base del demo ateniese, confermata tra l’altro e ribadita annualmente negli epitafi.
In realtà a ben vedere la frase è volutamente ambigua.
Vi è infatti anche un altro modo di utilizzare il concetto di “libertà del popolo”: è quello, sommamente ostile, dell’opuscolo dialogico Sul sistema politico ateniese che denuncia come principale stortura del regime democratico il fatto che “il popolo vuol essere libero, anziché assoggettarsi all’eunomia”.
Ed è del tutto evidente, alla luce degli altri, espliciti, giudizi tucididei sulla irresponsabilità con cui il popolo fa uso della propria illimitata libertà d’azione in democrazia (poiein o ti bouletai), che proprio di questo Tucidide intende parlare.
La libertà che “sembrava impossibile togliere al demo dopo un secolo” è per l’appunto quel poiein o ti an doké, quel porsi al di sopra delle leggi che connota il ‘potere popolare’.
Ecco perché, quasi a completare il pensiero sulla libertà/arbitrio che i congiurati avevano finalmente spento, Tucidide prosegue osservando che quella ‘libertà’ del popolo ateniese era consistita essenzialmente nel dominio sugli altri: perché la del popolo ateniese viene a sostanziarsi della tirannia che esso esercita sugli altri.
Il coro dei vecchi, a sua volta, a sua volta, lancia l’allarme con uno straordinario attacco oratorio appellandosi a “chiunque vuol essere libero” e subito dichiara di temere la tirannide (“odore di Ippia”, “pugnale nel mirto”, “statua di Aristogitone”), per poi concretamente identificare la libertà nel misthos, che la tirannide appunto metterebbe in pericolo.
E’ un campionario perfetto del gergo democratico.
Resta senza risposta la domanda, legittima, se Aristofane stia semplicemente descrivendo l’allarmismo democratico o stia approfittando della scena comica per lanciare un allarme.
Pag. 338-340
E nello stesso tempo –dopo la rappresentazione dell’Oreste (408) – se ne va Euripide, della cui collaborazione in drammaturgia con Crizia si è detto a suo tempo.
Ovvio che non possiamo pretendere di leggere tra le righe in una tradizione biografica così inquinata come quella sedimentatasi intorno alla figura di Euripide.
Rispetto a tale tradizione è di per sé molto più importante il fatto che Aristofane lo prendesse di mira ancora più che lo stesso Socrate.
Mentre è fatica sprecata cercare di incasellare Euripide in una delle correnti democratiche ateniesi, ha più senso rilevare come il radicalismo della sua critica del costume lo collochi in quell’area intellettuale di critici radicali delle convenzioni su cui la città democratica poggia che poté vedere nella presa del potere da parte di dottrinari alla Antifonte e Crizia o di miscredenti della democrazia come Teramene un fatto positivo.
Salvo a rimanere delusi, come dice Platone di sé al principio della lettera settima.
Non può essere un caso che, volendo, nelle Rane, indicare gli ‘allievi’ di Euripide, Aristofane abbia indicato in Teramene e Clitofonte.
Clitofonte – cui si intitola un dialogo platonico avente come oggetto la giustizia! – è colui che, nel 411, aveva ulteriormente appesantito il decreto di Pitodoro che mise in moto la procedura di nomina dei Quattrocento, con un ulteriore decreto che ordinava di riesaminare le leggi note come di Clistene in quanto la ‘vera’ costituzione di Clistene non era democratica ma, semmai, soloniana.
Crizia, Teramene, Clitofonte (che riapparirà puntualmente nel 404): se questo è il milieu intellettual-politico di Euripide, non è difficile comprendere perché l’atmosfera della aggressiva restaurazione democratica del 409 gli possa essere parsa irrespirabile.
Aristofane invece, nonostante tutto, a quel che sappiamo, rimase.
Gli ispiravano antipatia i leaders democratici; ma neanche questi dottrinari, la cui ‘coerenza’ poteva diventare omicida, erano nelle sue corde.
Uno che, dopo l’anno terribile degli scandali sacrali e delle persecuzioni giudiziarie e dei tradimenti di tutti verso tutti, scrive gli Uccelli (414) non ha palesemente fiducia né negli uni né negli altri.
Pag. 349-50
Parte quinta. Tra Alcibiade e Teramene
Cap. 25. Una verità dietro due versi
Cap. 26. Il ritorno di Alcibiade
Il ritorno della democrazia ridiede slancio alla città, e soprattutto segnò il ricongiungimento della flotta, ormai agli ordini di Alcibiade, con i cittadini, dopo la separazione determinatasi a seguito della presa di potere da parte dei Quattrocento.
Alcibiade era dunque rientrato nel generale convincimento che egli fosse l’unico possibile restauratore della potenza ateniese.
Nelle fonti che parlano di questi avvenimenti ritorna frequentemente l’espressione “il solo” (monos).
Ma, come vedremo, l’accordo tra Alcibiade e i suoi concittadini durò poco.
Per intanto si produsse un fenomeno altrettanto inaudito quanto l’attribuzione dei pieni poteri ad Alcibiade.
Gente umile, “i poveri” – riferisce Plutarco – si recavano insistentemente nella dimora di Alcibiade e gli chiedevano di assumere “la tirannide”.
Plutarco, che ci dà questa importante notizia – assente, ovviamente, negli appunti tucididei messi in ordine da Senofonte – dice esattamente che questa massa di poveri “era presa dalla smania incredibile (eran erota thaumaston) di essere sotto la sua tirannide”.
Non solo: lo incitavano ad abrogare leggi e decreti e politici professionali (li definivano “i chiacchieroni”) responsabili di “mandare in rovina la città”.
Questo è uno squarcio di realtà che, senza la capacità di Plutarco di dar conto delle sue immense letture, sarebbe andato smarrito.
Ed è sommamente istruttivo: perché dimostra ancora una volta, quasi in ideale ricongiungimento all’esperienza di Pisistrato, la vicinanza, almeno dal punto di vista della base sociale, tra democrazia e tirannide.
Ma c’è qualcosa di più: quell’attacco ai “chiacchieroni” rovinosi per la città sta ad indicare che, a vent’anni ormai dalla morte di Pericle (princeps secondo Tucidide e ‘tiranno’ secondo il comici), la fiducia nel ceto politico si era logorata.
Perlomeno tra i ceti più poveri: consapevoli dell’inganno ‘democratico’, del loro non contar nulla nonostante il meccanismo apparentemente egualitario dell’assemblea, essi cercano ormai di saltare la mediazione del ceto politico che li ha delusi, e puntano ad un nuovo ‘tiranno’ di loro fiducia.
Un ciclo della storia politica ateniese si stava chiudendo.
Plutarco commenta giustamente (35, 1) chenon riusciamo a cogliere “cosa veramente Alcibiade pensasse della tirannide”.
E si limita a notare la paralisi degli altri politici dinanzi ad un tale pericoloso trionfo, protesi perciò a liberarsi di lui: “che riprendesse il mare al più presto”; e gli concessero anche, cosa inaudita ma rientrante nei ‘pieni poteri’, di “scegliersi i colleghi che voleva”.
Ed è per questo che, di lì a poco, l’insuccesso a Notion di un suo subordinato determinerà la sua mancata rielezione ed il suo nuovo ritiro dalla scena.
Non aveva osato compiere quel passo audacissimo, forse troppo azzardato, che gli veniva proposto; aveva pensato di affidarsi al ‘metodo’ di Pericle di puntare comunque alla rielezione annuale: e perciò lo si poté colpire al primo insuccesso [paragone con Matteo Renzi].
Ma per un momento non breve la posizione raggiunta gli era parsa tale da non esigere la esplicita assunzione della tirannide.
Un grande poligrafo ottocentesco che ha dedicato ad Alcibiade una mirabile e appassionata biografia, Henry Houssaye, ha descritto bene questa perplessità di Alcibiade: “nominato generale con pieni poteri su tutto l’esercito sia di mare che di terra, padrone della politica interna e della politica estera, acclamato all’assemblea ogni volta che vi appariva, idolatrato dal popolo, temuto da tutta la Grecia non meno che del re di Persia, non aveva forse già in pugno poteri sovrani? Consacrato dittatore (autokrator) dalla volontà popolare perché avrebbe dovuto tradirla per farsi tiranno? Investito dalle leggi di pieni poteri perché avrebbe dovuto violarle?”.
Pag. 263-64
Cap. 27. Il processo degli strateghi
Cap. 28. Teramene uno e due
A questo punto comincia ad essere evidente al lettore che intorno alla figura di Teramene si è aperta una battaglia, politica e poi storiografica, che è cominciata vivente lui medesimo; e che è andata avanti almeno fino alla ‘codificazione’ aristotelica della storia costituzionale di Atene, dove spicca quell’inquietante capitolo ventottesimo culminante in una specie di plaidoyer, di Aristotele, in difesa di Teramene “modello del buon cittadino”.
Inquietante è quel capitolo per varie ragioni, non ultima la esclusione di Pericle dal novero dei ‘buoni politici’ e l’inclusione – invece – di Tucidide, figlio di Melesia, suo sfortunato avversario, tra i tre in assoluto migliori (beltistoi): accanto a Nicia e a Teramene.
In parte avrà pesato in questa scelta l’influsso della dura valutazione platonica nei confronti di Pericle.
Ma questo non basta a spiegare la singolarità di quel capitolo.
Tra l’altro Teramene è del tutto assente dal ‘mondo di Platone’ e anzi ci si stupirebbe di trovarcelo dato il legame mai sconfessato – anzi dichiarato e valorizzato in un dialogo che porta il suo nome – di Platone con Crizia.
Pag. 373
Che dunque Teramene sia stato al centro di una discussione politico-storiografica di enorme rilievo – che investiva i momenti decisivi del dramma ateniese (la pace coatta divenuta resa incondizionata; la seconda oligarchia e la guerra civile) – è dimostrato dalla diametrale opposizione tra i sue trattati di Teramene che emergono dalle fonti nonché dalla violenza polemica degli assertori dei due opposti profili.
Violento è il dettagliato ritratto che Lisia inserì nel Contro Eratostene; appassionata, e ben lontana dalla abituale freddezza è l’apologia che ne fa Aristotele (e già Eforo).
E fonti riemerse per caso dal naufragio delle letterature antiche, per esempio il cosiddetto “Papiro Michigan di Teramene”, ci permettono di constatare che motivi di bruciante polemica presenti nelle parole di un testimone oculare quale Lisia (“gli altri usano il segreto contro il nemico, Teramene l’ha adoperato contro di voi”) ritornavano nella storiografia: da un’opera di storia infatti proviene quel frammento di papiro.
Lì veniva data la parola a Teramene, il quale con efficaci argomenti difendeva la sua linea: condurre una trattativa nascondendone i contenuti ai suoi concittadini.
Ma era difficile per lui sottrarsi alla taccia di aver preteso fiducia incondizionata per poi mandare alla rovina la città che si era messa, disperatamente, nelle sue mani.
Lisia su questo punto è perentorio, ma ancor più duro – pur senza il ricorso a toni sopra le righe ed anzi in stile secco e oggettivo – è il resoconto della condotta di Teramene, in quei mesi, racchiuso nel secondo libro delle Elleniche.
Di tale narrazione, il punto di partenza è la disastrosa battaglia navale di Egospotami (estate 405), il punto di arrivo è la capitolazione di Atene e la distruzione delle mura (aprile 404); di mezzo l’assedio e la strenua resistenza di Atene – durata quasi nove mesi – al blocco spartano dopo la perdita dell’ultima flotta.
Il clima da feroce resa di conti in cui la guerra volge al termine è chiaro già dal modo in cui Lisandro, vincitore ad Agospotami forse grazie al tradimenti, tratta i vinti: tranne il generale fellone, Adimanto, unico prigioniero che Lisandro risparmia, tutti gli altri vengono passati per le armi.
Il tradimento è, come si sa, parte essenziale della guerra.
Sono le “anime belle” inorridiscono di fronte alla necessaria sospettosità di grandi leaders che hanno dovuto fare i conti con l’ossessione del tradimento.
“Non vi è faccenda che non richieda l’utilizzo di spie” insegna il maestro Sun Tzu nel 13. capitolo dell’Arte della guerra
Pag. 376-77
Intermezzo
Cap. 29. Gli spartani non esportarono la libertà: Isocrate contro Tucidide
Parte sesta. La guerra civile
Cap. 30. Atene anno zero: come si esce dalla guerra civile
Ad Atene ancora una volta fu un’assemblea popolare ad abbattere la democrazia.
Sotto gli occhi di Lisandro e con in casa gli spartani in armi, l’assemblea elesse i Trenta: una magistratura straordinaria che aveva il compito di scrivere una nuova costituzione.
Furono scelti gli oligarchi più in vista.
Tra gli altri Teramene che, secondo Lisia, fu addirittura il promotore della proposta.
Ma questa volta il “coturno” sarebbe stato presto liquidato da uomini, come Crizia, più spregiudicati e forse anche protesi, a differenza di Teramene, verso una impossibile rottura col passato di Atene.
Così ebbe inizio il truce regime dei Trenta.
Pag. 394
Cap. 31. Dopo la guerra civile: la salvazione individuale, 401-399 a. C.
Ecco perché Senofonte non fu presente al processo di Socrate.
Né stupisce che Socrate gli avesse sconsigliato di andarsene da Atene.
Giacché Socrate per se stesso, quando venne il suo turno, decise appunto in quel modo: di non salvarsi andandosene da Atene, il che fino all’ultimo, come sappiamo dal Critone platonico, gli sarebbe stato pur possibile.
Senofonte ha fatto dunque, disobbedendo a Socrate, quello che Socrate non ha voluto fare: si è sottratto alla giustizia della sua città.
Certo la sua posizione doveva essere piuttosto seria: poiché la condanna fu l’esilio, il reato doveva essere di sangue; e sappiamo che l’amnistia del 403 non valeva per questi reati (Aristotele, Costituzione degli ateniesi, 39, 5).
Il che spiegherebbe la scelta di ritirarsi ad Eleusi, e quella conseguente di scomparire nell’armata di Ciro quando la repubblica oligarchica di Eleusi fu sopraffatta a tradimento.
Anche per Socrate si trattava di un tardivo contraccolpo della guerra civile: per lui “era rimasto in città”, come si disse allora di coloro non si erano uniti ai democratici del Pireo, e che, soprattutto, era noto per aver “educato” Crizia, come gli fu rinfacciato post mortem in un libello di successo ed ancora tanti anni dopo da Eschine in un discorso giudiziario di grande risonanza (1., 173).
La sua memoria non ci è stata forse serbata da quei giovani “ricchissimi” della cui frequentazione egli si vanta nell’Apologia platonica (23c)?
Dunque il processo contro di lui nell’anno 399, un anno ricco di processi apertamente dissonanti con la lettera e lo spirito dell’amnistia, rientrava in quella resa dei conti che è spesso il prolungamento più penoso di una guerra civile.
Pag. 411
Cap. 32. Dopo la guerra civile: il dibattito costituzionale
Se le cose stanno in questo modo si chiariscono vari punti.
Innanzitutto svanisce l’idea che ci sia stata una proposta limitativa della cittadinanza ancorata al requisito di “possedere terra”.
Nella lunga storia ateniese della lotta intorno al possesso della cittadinanza questo sarebbe un unicum contrastante con il criterio base ogni volta riproposto.
Invece una volta inteso rettamente il senso del primo discorso si comprende che, in quelle assemblee cui fa cenno anche Aristotele, qualche proposta punitiva ultra-democratica era stata avanzata per escludere i grandi proprietari terrieri, cioè il ceto più ricco (nello spirito del discorso sui “cani alla catena”), e che il primo parlante di questa coppia di discorsi ha contrastato l’iniziativa argomentando che c’erano stati anche ricchi proprietari ‘patrioti’.
E il parlante potrebbe essere, in tal caso, proprio Formisio, il cui nome Dionigi trovava attestato come protagonista di questa vicenda.
Pag. 421
Naturalmente non sappiamo perché, nel rotolo di cui Dionigi disponeva, questo discorso di Formisio stesse insieme ad un testo, di opposto orientamento, attribuito a Lisia.
Probabilmente Lisia si era espresso, o in forma di pamphlet o con una vera demegoria (nei primi giorni del rientro degli esuli nessuno poteva impedire ad uno dei finanziatori di Trasibulo di parlare all’assemblea, ancorché meteco: quale che sia l’esatta data del decreto di Trasibulo che estendeva la cittadinanza), ed aveva svolto quegli argomenti radical-patriottici che leggiamo nei capitolo 6-7.
E poiché il suo bersaglio era il discorso moderatissimo e subalterno agli spartani che Formisio aveva pronunciato in quella occasione i due testi furono, ad un certo punto, accorpati.
Il discorso del secondo parlante (cioè Lisia) rispetto all’altro parlante (Formisio) sembra vertere non tanto sul merito della proposta cui Formisio si oppone ma sulla subalternità nei confronti degli spartani: che Formisio sapeva benissimo essere stati, Pausania in odio a Lisandro, artefici della liquidazione del governo oligarchico e dunque della restaurazione dell’ordinamento preesistente.
(Ma magari a Pausania sarebbe piaciuta una moderata patrios politeia, mentre Trasibulo e Lisia e molti altri pretesero la democrazia pienamente restaurata).
Perciò il nocciolo degli argomenti svolti dal secondo parlante è: non dobbiamo accettare alcuna tutela spartana e, se necessario, siamo pronti a contrastare anche loro (palese insensatezza estremistica).
Ma questa impostazione non è forse quella che Aristotele nel suo breve cenno dice che si affermò e fu assunta come premessa per la piena restaurazione democratica?
“Il popolo si è liberato con le sue sole forze”, dunque non siamo debitori di nulla a Pausania e agli spartani.
E’ questa l’impostazione del secondo parlante, è questo il suo punto di forza: agevolò nettamente la restaurazione democratica, anche se, ovviamente, la proposta di ridurre all’atimia i proprietari perché tradizionali sostenitori dell’oligarchia fu certamente accantonata.
Probabilmente anche per merito di Formisio.
Pag. 422-23
Parte settima. Uno sguardo sul 4. secolo
Cap. 33. Corruzione politica
Poiché la maggior parte dell’oratoria attica superstite è del 4. secolo, è comprensibile che per tale epoca noi siamo largamente informati sul fenomeno della corruzione politica in ogni suo aspetto.
Grandi e monumentalizzati oratori protagonisti della politica si scambiano, su tale terreno, le accuse più pesanti in un intreccio, per noi spesso inestricabile, di falso e di vero.
E determinante è ovviamente lo schieramento, il punto di vista.
Dal punto di vista dei gruppi politici favorevoli al predominio macedone, la politica demostenica è “al soldo della Persia”.
Eschine (Contro Ctesifonte, 156 e 239) e Dinarco (Contro Demostene, 10 e 18) sono espliciti, anche se si riferiscono soprattutto all’epoca successiva a Cheronea (338 a. C.).
Ma nulla autorizza a pensare che prima della sconfitta di Cheronea le cose andassero diversamente.
Una tradizione storiografica, evidentemente filomacedone, forniva anche i dettagli sull’argomento: Alessandro avrebbe trovato a Sardi, dopo la caduta dell’impero persiano e la conquista degli archivi persiani, le lettere del re di Persia con cui i satrapi della Ionia ricevevano l’ordine di sostenere Demostene in ogni modi e di versargli somme colossali (Plutarco, Vita di Demostene, 20, 4-5).
Il re di Persia era consapevole della minaccia rappresentata dalle mire macedoni e dalla aggressività di Filippo, e perciò pagava Demostene perché fomentasse l’opposizione contro Filippo in Grecia.
Plutarco, il quale qui potrebbe dipendere da Teopompo, forse dal suo durissimo e implacabile libro sui “demagoghi ateniesi”, inserito quale digressione nelle Storie filippiche, precisa anche che Alessandro trovò, negli archivi persiani, una documentazione completa: non solo le lettere del re di Persia ai satrapi, ma anche le lettere di Demostene, evidentemente indirizzate ai suoi interlocutori persiani, e addirittura i rendiconti dei satrapi, attestanti l’entità delle somme versate all’oratore ateniese.
Non abbiamo tracce altrettanto circostanziate dell’analogo rapporto esistente tra il re di Macedonia e gli avversari di Demostene: quegli avversari – Eschine e Filocrate per esempio – cui Demostene rinfaccia continuamente di essere “pagati” dal sovrano macedone e di agire perciò, nella scena politica ateniese, sempre e soltanto nell’interesse del sovrano macedone.
Ma non abbiamo ragione di dubitare che anche Demostene dica il vero quando batte, ossessivamente, su questo tasto.
Ovviamente, nessuno dei due schieramenti agisce alla luce del sole come rappresentante degli interessi dell’una o dell’altra grande potenza: il sostegno viene dato in modo indiretto.
Il compito di Eschine e dei suoi amici è quello di smorzare l’allarme che Demostene e i suoi lanciano senza soste contro le mire macedoni: Eschine ed i suoi tendono a dar apparire quello di Demostene coem un allarmismo infondato; e quando l’attrito si fa evidente ed è impossibile negare l’ostilità di Filippo verso Atene, tendono in tutti i modi a dimostrare che è la politica provocatoria di Demostene e dei suoi che ha portato la situazione al punto di rottura.
Al tempo stesso si sforzano in tutti i modi di far emergere che Demostene in tanto si schiera per la rottura frontale e senza mediazioni nei confronti della Macedonia, in quanto lavora per il re di Persia: non dunque per quell’esasperato e sempre ostentato patriottismo che occupa tanta parte dei suoi discorsi.
Pag. 424-25
E’ evidente l’ottica faziosa con cui la fonte di Plutarco presenta il fenomeno Pericle.
Una politica di lavori pubblici che ha come fine ‘sociale’ un salario ai nullatenenti diviene – in quest’ottica – uno strumento di corruzione generalizzata.
E vengono messi insieme fenomeni tra loro diversi: la politica di opere pubbliche, la voglia di arricchirsi da parte degli architetti che quelle opere siressero, il ‘salario’ ai frequentatori del teatro, la moltipilcazione delle occasioni festive, in quanto occasioni ‘demagogiche’.
Anche il dialogo Sul sistema politico ateniese deplora: “Gli ateniesi celebrano il doppio di feste rispetto agli altri”.(3., 8).
Occasioni demagogiche, le feste, in quanto, oltre tutto, momento adatto al consumo gratuito di carne: cibo costoso, per i non benestanti.
Pag. 427
Una magistratura i cui comportamenti venivano costantemente scrutati e sottoposti al controllo era, comprensibilmente, quella da cui maggiormente dipendevano le sorti della città: la strategia.
Magistratura elettiva (insieme con l’ipparchia), era riservata di fatto ad esponenti delle più alte classi di censo (pentacosiomedimmi, cavalieri).
Questo spiega perché quelle due magistrature sono costantemente ‘sotto osservazione’: non solo per la estrema delicatezza del ruolo, per l’enorme potere che esercitano, ma anche per il tipo di persone agli occhi popolari sempre sospette, che le riveste.
Pag. 430
Cap. 34. Demostene
Ma una “tregua sociale” i proprietari la ottennero soltanto sotto la dominazione macedone: una delle clausole principali della “pace comune” stipulata tra Filippo e gli Stati greci (338) e confermata nel 336 da Alessandro impegnava tutti gli Stati e le città contraenti ad impedire “esilii, confische di beni, suddivisioni di terre, remissioni di debiti, liberazione di schiavi a fini sediziosi”.
Anzi, il trattato del 338 fu preso a base non solo nel 336 ma anche nel 319, su iniziativa di Filippo 3. e Poliperconte, e nel 302 con Demetrio Poliorcete e Antigono Monoftalmo.
Ed è interessante osservare il tono di grande rispetto con cui Filippo, nella Lettera agli Ateniesi tramandata nella raccolta demostenica, parla “dei cittadini più ragguardevoli” (gnorimotatoi) delle città greche, perseguitati dai sicofanti che vogliono ingraziarsi il demo (12., 19): si può anzi osservare che qui Filippo adopera termini tecnici della lotta politico-sociale degli Stati greci.
Pag. 440
Cap. 35. Epilogo: dalla democrazia all’utopia
La democrazia e l’impero erano nati insieme.
Temistocle che porta Atene alla vittoria, a Salamina, genera l’una e l’altro: e la sua intuizione di munire immediatamente la città di un potente sistema di mura, superando con l’inganno le resistenze e l’opposizione spartana, suggella, col necessario strumento difensivo, il successo conseguito e pone le premesse per il futuro conflitto con Sparta.
Quelle mura costituiscono il ‘palladio’ tanto della democrazia quanto dell’impero, e formalizzano la rottura degli equilibri fino allora incentrati sulla indiscussa egemonia spartana sull’intero mondo greco.
Del resto la pretesa spartana di impedire ad un’altra città, Atene, di munirsi di mura denota di per sé che de facto la prevalenza di Sparta interferiva fin nella vita interna delle altre comunità.
Il conflitto era cominciato sin da subito.
E’ formalistico delimitare il periodo di guerra al trentennio finale del quinto secolo: in un crescendo, quel conflitto ha inizio con la nascita stessa delle mira.
E le mura saranno, al momento della capitolazione di Atene (404), il principale bersaglio dei vincitori e l’oggetto di disperata e vana difesa da parte dei vinti.
E la rinascita di quelle mura nel 394 segnerà il nuovo inizio di una seconda, e meno durevole ma a suo modo produttiva, nuova avventura imperiale.
Pag. 451
A ben vedere, tutta l’opera di Platone, là dove affronta direttamente il problema politico (la Repubblica è il documento più grande ma non certo l’unico), presuppone che l’impero non c’è più e che il conflitto sociale non conosce soste e raggiunge vertici di asprezza: donde la necessità di trovare una soluzione totalmente nuova, più profonda, del problema politico, che si intreccia indissolubilmente con la conflittualità sociale.
Portando alle estreme conseguenze la questione, Aristotele, nel terzo e nel quarto libro della Politica, perverrà alla perfetta identificazione tra forme politiche e gruppi sociali e formulerà l’identificazione compiuta democrazia = dominio (governo) dei poveri versus oligarchia = dominio (governo) dei ricchi, indipendentemente dalla consistenza numerica dei due gruppi contrapposti.
Pag. 452
Non era la prima volta che Senofonte si impegnava nella riflessione sul miglior ordinamento.
Per la gran parte della sua vita egli era rimasto fermo nella persuasione della superiorità dell’eunomia spartana su ogni altra forma di ordinamento politico e sociale.
E aveva conformato, cosa rara, le sue scelte di vita a tale convincimento.
Se fino alle guerre persiane Sparta era stata indiscutibilmente la grande potenza nonché il modello di comunità incentrata sull’armata di terra e sulla identità cittadino-guerriero (non dissimile è ancora l’Atene di Milziade), con l’irrompere della flotta ateniese e quindi dell’impero e quindi della democrazia quel kosmos spartanocentrico si era spezzato.
Si era infranto e aveva prodotto uan sequela di guerre e conflitti: fino a quello interminabile ed efferato e alla catastrofe finale.
Tutto ciò era parso a molti, e a Senofonte in primis, una conferma della gravità dell’errore di partenza: essersi discostati dall’eunomia.
Il ‘credo’ senofonteo di questi anni, culminati nella sua partecipazione diretta alla guerra civile dalla parte oligarchica, è racchiuso, e retrospettivamente riaffermato, nella sua Costituzione degli spartani.
A Sparta – egli osserva – è addirittura vietato il possesso dell’oro e il valore principale è l’obbedienza ai magistrati: anche i potenti visi adeguano (cap. 8)!
Pag. 457
La questione sociale domina il quarto secolo come domina l’oratoria demostenica: anche quando l’oratore sembra parlar d’altro.
Quando c’era l’impero, il conflitto si svolgeva all’interno della ‘gilda’ per dirla ancora con Weber, e aveva come posta in gioco la redistribuzione del bottino.
Perduto l’impero una prima e seconda volta, la immediata reazione dei ceti più forti è stata quella di tentare di ridurre la cittadinanza.
Negli anni che intercorrono tra il decollo dell’avventura politica di Demostene, proteso a trovare per la sua città spazio per una terza ‘egemonia’ (magari nell’orbita della Persia), e la disfatta definitiva del 322, cioè nel corso di un trentennio, si consuma ancora una volta lo scontro sociale che non conosce soste.
E quando i benestanti avranno i macedoni come garanti della sconfitta dell’ultima reincarnazione della democrazia imperiale, per prima cosa ridurranno il corpo civico a novemila cittadini, sulla base del censo e su esplicita sollecitazione di Antipatro.
E’ l’Atene di Focione a sovranità limitata.
Ed è l’inizio di un declino che non conoscerà soste.
Al tempo di Cicerone e di Posidonio di Apamea, al tempo di Silla in guerra contro Mitridate, sarà il governo del filosofo e politico Atenione.
Posidonio, di cui si è salvata una pagina in cui si narra quella vicenda, non esita a ridurre, con inusitata ferocia, il mito della grande Atene – che parla per bocca di Atenione, caricatura di Demostene – ad una farsa: “Basta con il templi sbarrati, i ginnasi abbandonati, il teatro deserto, muti i tribunali e la Pnice, sacra agli dei, priva del demo!”.
Questo dice il demagogo, nella derisoria parafrasi del filosofo di Apamea, cliente dei potenti romani.
Atene era ormai, per lui, come per Cicerone, il luogo della “nimia libertas”, ora ridotta in farsa.
E per essa, a loro giudizio, era finita.
Pag. 462-63
Bibliografia
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Democrazia / D. Musti
Atene: la costruzione della democrazia / G. Camassa
Storia greca / H. Berve. – Laterza, 1966
Storia della civiltà greca / J. Burckhardt. – Sansoni, 1955
Storia dei greci / G. De Sanctis. – La Nuova Italia, 1939
Economia e società / M. Weber. – Ed. di Comunità, 1974
Storia economica: linee di una storia universale dell’economia e della società / M. Weber. – Donzelli, 1993
La lega ateniese del sec. 4. a. C. / S. Accame. – Signorelli, 1941
Storia delle finanze greche dai tempi eroici fino all’inizio dell’età greco-macedonica / A. M. Andreades. – Cedam, 1961
Il partenone / M. Beard. – Laterza, 2004
Polis: un modello per la cultura europea / G. Cambiano. – Laterza, 2000
Gli architetti del Partenone / R. Carpenter. – Einaudi, 1979
L’imposizione progressiva nell’antica Atene / G. Gera. – 1975
Frinico fra propaganda democratica e giudizio tucidideo / G. Grossi. – 1984
Filippo il macedone / A. Momigliano. – Le Monnier, 1934
Rapporti di forza: storia, retorica, prova / C. Ginzburg. – Feltrinelli, 2000
Machiavelli e gli storici antichi: osservazioni su alcuni luoghi dei discorsi sopra la prima deca di Tito Livio / M. Martelli. – Salerno, 1998
La città e l’uomo: saggi su Aristotele, Platone, Tucidide / L. Strauss. – Marietti, 2010
Studi sull’Athenaion politeia pseudosenofontea / L. Canfora. – In: Atene e Roma 29, 1984
Commento all’Athenaion Politeia dello pseudo-Senofonte / W. Lapini. – 1997
La costituzione degli ateniesi dello pseudo-Senofonte / G. Serra. – 1979
Aristofane: introduzione alle commedie / J. G. Droysen. – Sellerio, 1998
Commedie di Aristofane / G. mastromarco. – Utet, 1983-2006
Aristofane autore di teatro / C. F. Russo. – Sansoni, 1962
Lisia: difesa dall’accusa di attentato alla democrazia / a cura di D. Piovan. – Antenore, 2009
Memoria e oblio della guerra civile: strategie giudiziarie e racconto del passato in Lisia / D. Piovan. – ETS, 2011