Storia dell’Impero bizantino di Georg Ostrogorsky
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Cap. 1 Lineamenti di storia del primo periodo dello Stato bizantino, 324-610
Struttura statale romana, cultura greca e religione cristiana sono le fonti culturali principali dello sviluppo dell’Impero bizantino.
Se si prescinde da uno di questi tre elementi, ci si preclude la comprensione della cultura bizantina.
Solo la sintesi della cultura ellenistica e della religione cristiana con la struttura statale romana ha permesso la formazione di quel fenomeno storico che chiamiamo Impero bizantino.
Questa sintesi è stata resa possibile dallo spostamento del baricentro dell’Impero romano verso Oriente determinato dalla crisi del Terzo Secolo, che ebbe la sua espressione più manifesta nella cristianizzazione dell’Impero romano e nella fondazione della nuova capitale sul Bosforo.
Questi due avvenimenti – la vittoria del cristianesimo e il virtuale trasferimento del centro politico dell’Impero nell’Oriente ellenistico – segnano l’inizio dell’epoca bizantina.
La storia bizantina è in primo luogo un nuovo periodo della storia romana e lo Stato bizantino nient’altro che una continuazione dell’antico Impero romano.
Il termine “bizantino”, com’è noto sorgerà solo molto più tardi e i veri “bizantini” non lo conoscevano.
Essi continuavano a chiamarsi “Romani”, gli imperatori bizantini si consideravano imperatori romani, successori ed eredi dei Cesari dell’antica Roma.
Essi restarono dominati dal prestigio del nome di Roma per tutto il tempo che visse il loro impero, e fino all’ultimo la tradizione dello Stato romano dominò il loro pensiero e la loro volontà politica.
L’impero, eterogeneo dal punto di vista etnico, fu tenuto unito dal concetto romano di Stato e la sua posizione nel mondo fu determinata dall’idea romana di universalità.
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La civiltà bizantina non solo deriva dall’ellenismo, ma è strettamente imparentata con esso da una profonda affinità.
Come la civiltà ellenistica, così anche quella bizantina, è una forza unificatrice e omogeneizzatrice.
Ambedue hanno un carattere epigonico, eclettico, quella bizantina ancor più di quella ellenistica.
Ambedue vivono dell’eredità di culture più grandi, più creative e la loro funzione non è tanto nella creazione originale, quanto piuttosto nella sintesi.
Il tipo culturale del compilatore è caratteristico di ambedue le civiltà.
Ma anche se il lavoro di compilazione non ha la genuinità di un lavoro creativo, anche se con l’imitazione si perde il senso e il reale contenuto dell’originale e l’originale bellezza della forma diventa retorica vuota e convenzionale; ciò nonostante resta un grande merito storico dei bizantini l’amorevole conservazione dei capolavori del mondo classico, lo studio del diritto romano e della cultura greca.
Le due cime più alte della civiltà antica, la grecità e il romanesimo, crescono insieme sul suolo bizantino.
I due prodotti più eccelsi della civiltà classica, l’ordinamento statale romano e la cultura greca, si unificano in una nuova concezione della vita e si fondono col cristianesimo, nel quale lo Stato e la cultura antichi vedevano la loro negazione irriducibile.
La cristiana Bisanzio non rinnega né l’arte né la filosofia pagane.
Il diritto romano resterà sempre la base dell’ordinamento e della coscienza giuridica dei bizantini; e analogamente la cultura greca resterà sempre una delle basi fondamentali della loro vita spirituale.
Anche per i bizantini più religiosi, la scienza, la filosofia, la storiografia e la poesia greche sono elementi essenziali della loro formazione culturale.
La stessa Chiesa bizantina fa propria l’eredità spirituale della filosofia antica e si serve del sistema logico creato dai filosofi greci per l’elaborazione del proprio sistema dogmatico.
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La base di questo sistema [monetario] era il solidus aureo, che normalmente conteneva 4,48 grammi d’oro: una libbra d’oro corrispondeva a 72 solidi; inoltre c’era la siliqua d’argento, che pesava 2,24 grammi e quindi – finché il rapporto tra il valore dell’argento e quello dell’oro fu di 1:12 – rappresentava la ventiquattresima parte del solidus.
Questo sistema si rivelò straordinariamente stabile: per un intero millennio il solidus costantiniano (in greco nomisma, più tardi yperpuron) fu la base del sistema monetario bizantino e per molti secoli godette di grande credito nel commercio mondiale.
Non per questo non fu soggetto a crisi, ma solo a partire dalla metà dell’Undicesimo Secolo il suo valore cominciò sensibilmente a cadere, mentre l’impero stesso si avviava a decadenza.
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Vi erano cioè nella parte bizantina dell’impero cinque comandanti in capo con distinte competenze; e tutti dipendevano direttamente dall’imperatore che da solo personificava l’unità del comando supremo.
Solo con la costituzione del forte esercito mobile dei comitatenses, anche l’esercito di frontiera dei limitanei acquista il carattere di un corpo particolare dell’esercito che ha la funzione specifica della difesa delle frontiere.
I soldati che stazionano sulle frontiere ricevono come compenso del loro servizio un appezzamento di terra; essi rappresentano cioè un corpo militare composto da piccoli proprietari, che vivono dei prodotti del proprio appezzamento di terreno e provvedono alla difesa della frontiera; un tipo di organizzazione che ebbe molta importanza nell’Impero bizantino.
Caratteristico dell’esercito romano-bizantino è il suo progressivo imbarbarimento.
La parte più combattiva e più apprezzata è costituita da barbari, soprattutto germani; tra i sudditi dell’Impero i soldati migliori erano gli illiri.
Il numero dei mercenari stranieri è in continuo aumento e a partire dal Quarto Secolo i migliori tra i barbari cominciano ad entrare, con ritmo crescente, anche tra gli ufficiali.
Altro elemento caratteristico dell’esercito romano-bizantino è il peso crescente della cavalleria dovuto tra l’altro alla necessità di adeguarsi alla tecnica militare dei sasanidi, la cui potenza militare si basava soprattutto sulla cavalleria.
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L’esempio più chiaro e storicamente più importante dell’influenza del cristianesimo sullo Stato romano ai tempi di Costantino è dato dal Concilio di Nicea (325), il primo di quella serie di concili ecumenici che posero le basi dogmatiche e canoniche della Chiesa cristiana.
Fu l’imperatore a convocare il concilio e a dirigerne i lavori; non solo, ma ne influenzò fortemente le decisioni, nonostante non facesse ancora formalmente parte della Chiesa (fu battezzato, com’è noto, solo sul letto di morte).
Ma era già lui, di fatto, il capo della Chiesa, e anche da questo punto di vista rappresentò un esempio per i suoi successori.
Tema centrale del Concilio era la dottrina del presbitero alessandrino Ario, che rifiutava di credere compatibile col monoteismo l’uguaglianza tra il Padre e il Figlio, e quindi negava la natura divina del Cristo.
La dottrina ariana venne condannata e si stabilì il dogma della consustanzialità del Padre e del Figlio; venne così formulato quell’articolo di fede che poi – completato dai risultati del Secondo Concilio ecumenico di Costantinopoli (381), rappresenterà il credo della Chiesa cristiana.
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Il periodo dei conflitti religiosi al tempo di Costanzo fu seguito dalla reazione pagana di Giuliano l’Apostata (361-363).
Con Giuliano giunse a un punto critico uno dei problemi centrali della cultura bizantina, e cioè quello della convivenza della vecchia cultura con la nuova fede.
L’amore per quel mondo classico che si avviava al tramonto, per la sua arte, la sua cultura e la sua saggezza, portò quest’ultimo rappresentante della dinastia di Costantino a dichiarare guerra alla nuova religione.
E sembrò che le interminabili lotte tra i diversi partiti all’interno della Chiesa cristiana gli assicurassero il successo.
I pagani erano numericamente ancora molto forti, soprattutto nella parte occidentale dell’Impero, e particolarmente a Roma; e pagano era anche in gran parte l’esercito che era fortemente barbarizzato.
E non era trascurabile il numero di coloro che ora tornavano a staccarsi dalla religione cristiana.
Ma Giuliano non riuscì a creare un forte movimento anticristiano.
In questa lotta egli restò soprattutto il portavoce dell’aristocrazia culturale pagana dei filosofi e retori neoplatonici, di cui egli stesso faceva parte.
Nella metà orientale dell’Impero, e soprattutto ad Antiochia, dove aveva fissato la sua residenza, l’imperatore andò incontro a gravi delusioni.
L’intima debolezza del suo tentativo reazionario è dimostrato in modo espressamente chiaro dal fatto che nell’organizzazione del suo nuovo clero pagano, Giuliano copiò l’organizzazione della Chiesa cristiana.
Lo zelo con cui si sforzava di far rivivere gli antichi culti pagani (egli stesso faceva sacrifici di animali agli dèi) provocò meraviglia e disapprovazione.
Come ogni reazione che si entusiasma per l’antico in quanto tale e combatte il nuovo in quanto tale, la reazione di Giuliano era condannata al fallimento.
Durante una campagna contro i persiani egli fu ferito da un colpo di lancia e morì sul campo.
E la sua opera morì con lui.
Il suo rapido fallimento non ha fatto in fondo che dimostrare che vi era una necessità storica per la vittoria del cristianesimo.
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Con l’inizio delle invasioni barbariche, l’Impero si trovò a dover affrontare nuovi problemi, le cui ripercussioni sarebbero state di imprevedibile portata.
Ora anche la frontiera settentrionale della parte orientale dell’Impero diventa teatro di continue battaglie.
Ebbe così inizio quella logorante lotta su due fronti che non sarebbe più terminata fino alla caduta dell’Impero bizantino.
D’ora in poi, per tutto il corso della storia, Bisanzio sarà in lotta pressoché costante sia contro i grandi imperi che si formavano in Oriente, sia contro i popoli che tornavano continuamente a minacciarla dal Nord all’Ovest.
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E si giunse a un punto cruciale quando i visigoti apparvero sul Danubio e occuparono la diocesi della Tracia.
Ad essi si aggiunsero gli ostrogoti e gli unni che li seguivano, e ben presto tutta la Tracia veniva sommersa dall’invasione barbarica.
Valente, che da Costantinopoli seguiva gli avvenimenti sul fronte persiano, accorse immediatamente ad affrontare l’esercito barbaro presso Adrianopoli.
Qui si giunse il 9 agosto 378 ad una battaglia memorabile in cui i visigoti, appoggiati dagli ostrogoti, sconfissero l’esercito romano fino a distruggerlo, e lo stesso imperatore vi perse la vita.
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Ma il processo di progressiva separazione era sempre più evidente.
Sia dal punto di vista politico che da quello culturale le vis di sviluppo delle due metà dell’impero divergevano sempre più.
Un’espressione visibile e molto importante di questa progressiva separazione è l’approfondimento della divisione linguistica.
In Occidente la conoscenza della lingua greca è virtualmente scomparsa; in Oriente invece la lingua latina, pur continuando ad essere la lingua ufficiale e quindi artificiosamente coltivata, perde sempre più d’importanza in confronto a quella greca.
La grecizzazione dell’Oriente procede ininterrottamente, soprattutto ai tempi dell’imperatore Teodosio Secondo e dell’imperatrice Eudocia Augusta.
Non a caso alla nuova università di Costantinopoli i professori greci erano più di quelli latini.
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Nel quinto decennio del Quinto Secolo l’Impero d’Oriente attraversò uan nuova crisi dovuta alla minaccia degli unni capeggiati da Attila.
Incursioni e saccheggi si alternarono a trattati di pace di breve durata, che imponevano all’Impero condizioni ogni volta più dure ed umilianti.
Tutta la penisola balcanica era stata devastata e saccheggiata quando infine Attila, dopo aver imposto all’Impero dure condizioni finanziarie, si diresse verso l’Occidente.
Invase la Gallia e fu sconfitto dal capo dell’esercito romano d’Occidente, Ezio, presso i Campi Catalunici (451).
L’anno seguente gli unni devastarono l’Italia, ma già nel 453 Attila morì e con la sua morte andò anche in frantumi il suo regno gigantesco.
Ma la liberazione degli unni non riuscì ad evitare la disgregazione dell’Impero romano d’Occidente.
La situazione peggiorava continuamente.
Dopo l’assassinio di Ezio (454) e di Valentiniano Terzo (455) in Italia regnava il caos.
Le più importanti province fuori d’Italia si trovavano in mano a popoli germanici che fondarono propri regni, come i vandali in Africa e i visigoti in Gallia e Spagna.
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Leone fu il primo imperatore che ottenne la corona dalle mani del patriarca di Costantinopoli: tutti i suoi predecessori, nonostante la loro fedeltà alla fede cristiana, si accontentavano di ricevere il diadema da un generale o da un altro funzionario, secondo la tradizione romana; venivano sollevati su uno scudo e acclamati dall’esercito, dal popolo e dal senato.
L’innovazione del 457 è significativa in relazione al potere conquistato dall’episcopato di Costantinopoli e sancito dall’ultimo concilio ecumenico.
D’ora in poi gli imperatori bizantini verranno incoronati dal patriarca della capitale: così la cerimonia dell’incoronazione veniva ad acquistare il carattere di un’investitura religiosa.
Alla cerimonia dell’incoronazione temporale, che aveva un carattere prevalentemente militare, si aggiungeva una incoronazione religiosa, che col passare del tempo fece passare sempre più in secondo piano la vecchia cerimonia di origine romana, finché nel Medioevo la soppiantò del tutto.
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Egli riprendeva il potere proprio mentre l’Impero romano d’Occidente giungeva al suo crollo definitivo.
Al governo di Costantinopoli non restò che prendere atto del fatto compiuto.
La cosa venne facilitata dall’atteggiamento conciliatore di Odoacre, che riconobbe esplicitamente la sovranità dell’imperatore d’Oriente.
Il nuovo dominatore d’Italia venne nominato magister militum per Italiam e governò il paese coem plenipotenziario dell’imperatore.
Le apparenze vennero salvate, ma di fatto l’Italia era persa per l’Impero e, come quasi tutto il resto dell’Occidente, caduta sotto il dominio germanico.
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La crisi che aveva portato alla caduta della metà occidentale dell’Impero romano fu superata dall’organismo più sano della sua parte orientale, economicamente più forte e più densamente popolata.
Ma anche l’Impero d’Oriente attraversò la stessa crisi, visse tutto il terrore delle invasioni barbariche, lottò per un secolo intero contro il pericolo dell’imbarbarimento dell’organismo statale e dell’esercito.
Mentre le ondate delle invasioni barbariche si abbattevano sull’Occidente, Bisanzio stessa era rimasta paralizzata in tutte le sue membra e raramente osava uscire da un ruolo di semplice spettatrice passiva.
A cavallo tra il Quinto e il Sesto Secolo la crisi etnica in Oriente era ormai definitivamente superata e ora Bisanzio sembrava in grado di condurre una politica più attiva e di fare un tentativo per recuperare i territori occidentali perduti.
Nonostante l’amministrazione separata delle due metà dell’Impero, l’idea della sua unità era rimasta viva; e analogamente conservava forza, nonostante le conquiste germaniche in Occidente, l’idea dell’universalità dell’Impero romano.
L’imperatore romano continuava ad essere considerato il capo dell’orbis romanus e dell’ecumene cristiana.
I territori che avevano appartenuto uan volta all’Impero romano erano considerati come suo eterno e irrevocabile possesso, anche se erano amministrati da re germanici.
Ma del resto questi stessi re riconoscevano la sovranità dell’imperatore romano e non esercitavano che un potere delegato da questi.
Era un diritto naturale dell’imperatore romano riconquistare l’eredità di Roma.
Era una sacra missione quella di liberare il territorio romano dal giogo dei barbari stranieri e degli eretici ariani, per riportare ai suoi antichi confini l’unico Impero romano e cristiano ortodosso.
Giustiniano Primo (527-565) pose la sua politica al servizio di questa missione.
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Una caratteristica tipica della legislazione giustinianea è la forte accentuazione dell’assolutismo imperiale.
Il Corpus iuris civilis diede una sanzione giuridica al potere autocratico, e questo eserciterà a lungo una notevole influenza su tutto il futuro sviluppo delle scienze politiche, non solo a Bisanzio, ma in tutto l’Occidente.
Il diritto romano resterà a Bisanzio il fondamento di tutto lo sviluppo del suo ordinamento giuridico e il Corpus di Giustiniano è il punto di partenza per tutto il lavoro futuro in questo campo.
Invece in Occidente solo nel Dodicesimo Secolo si ritornerà al diritto romano: l’assimilazione del diritto romano attraverso lo studio del Corpus iuris civilis di Giustiniano ebbe un’importanza fondamentale nell’elaborazione delle concezioni politiche e giuridiche dell’Occidente.
E da allora in poi il diritto romano, nella forma datagli dalla codificazione giustinianea, diventò un fattore fondamentale nello sviluppo del diritto in tutt’Europa, fino ai giorni nostri.
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Per quanto il numero dei pagani si fosse considerevolmente assottigliato, la loro influenza nella vita culturale e nell’insegnamento restava molto forte.
Giustiniano interdisse ai pagani l’insegnamento e nel 529 chiuse l’Accademia di Atene, la culla del neoplatonismo pagano.
Gli insegnanti che ne vennero cacciati si rifugiarono alla corte dell’imperatore persiano e portarono in Persia i frutti della cultura greca.
A Bisanzio la vecchia religione era ormai morta e con questo si chiudeva un’intera epoca della storia romana.
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Nella letteratura e nell’arte la vecchia cultura sotto spoglie cristiane ebbe una nuova fioritura, a cui doveva seguire ben presto un lungo periodo di decadenza culturale.
Il periodo di Giustiniano non fu, com’era nei suoi desideri, l’inizio di una nuova era, ma la fine di una grande epoca al suo tramonto.
Giustiniano non riuscì a rinnovare l’impero: riuscì soltanto ad estendere – per breve tempo – le sue frontiere, ma non gli fu possibile operare una rigenerazione interna del vecchio Stato romano.
La restaurazione territoriale mancava di solide basi e per questo le conseguenze dell’improvviso crollo della restaurazione giustinianea furono doppiamente disastrose.
Dopo tutti i suoi grandiosi successi Giustiniano lasciò ai suoi successori un impero internamente esausto, e in completa rovina economica e finanziaria.
Questi ebbero ora il compito di riparare alle manchevolezze del grande imperatore e cercare di salvare quello che si poteva ancora salvare.
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Maurizio è uno dei più importanti imperatori bizantini.
Il suo regno rappresenta uan tappa fondamentale nella trasformazione della struttura statale del vecchio Impero tardo-romano nel nuovo, più vitale, ordinamento dell’Impero bizantino medievale.
Il maggior peso attribuito alla politica orientale e la forzata rinuncia alla maggior parte delle conquiste di Giustiniano in Occidente non significò una rinuncia agli interessi dell’Impero in Occidente.
Con le importanti misure organizzative di Maurizio, si riuscì a conservare all’impero per lungo tempo almeno una parte dei suoi possedimenti occidentali.
Raggruppando i resti dei possedimenti giustinianei, creò gli esarcati di Ravenna e di Cartagine e con una rigorosa organizzazione militare cercò di renderli capaci di autodifendersi.
I possedimenti nordafricano e quelli di Ravenna – circondati da territori in mano ai longobardi, vennero organizzati come luogotenenze militari e l’amministrazione sia militare che politica fu affidata agli esarchi.
Ambedue gli esarcati divennero gli avamposti della potenza bizantina in Occidente.
Questo tipo di organizzazione inaugurò il periodo della militarizzazione dell’amministrazione bizantina e preannunciò il sistema dei temi.
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Gli anni dell’anarchia sotto il regno di Foca rappresentano l’ultima fase della storia dell’Impero tardo-romano.
Così finisce il periodo tardo-romano o primo periodo bizantino.
Dalla crisi uscì un’altra Bisanzio, liberata ormai dall’eredità del decadente Stato tardo-romano, e alimentata da nuove forze.
A questo punto ha inizio la storia bizantina propriamente detta, cioè la storia dell’Impero greco medievale.
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Cap. 2. Lotta per l’esistenza e il rinnovamento dello Stato bizantino, 610-711
Ma per quanto smaglianti fossero le vittorie militari riportate da Eraclio, la grandezza e il significato di questo periodo non risiede nella politica estera.
Le conquiste in Oriente andarono perdute pochi anni dopo, quando iniziarono le invasioni arabe.
Quello che invece restò fu la riforma militare e amministrativa.
Su di essa riposa la potenza bizantina degli anni seguenti e, con la sua decadenza, inizia la decadenza della struttura statale bizantina.
L’ordinamento dei temi, fondato da Eraclio, è la spina dorsale dell’Impero bizantino medievale.
L’Età di Eraclio rappresenta nella storia bizantina una svolta non solo nella vita politica ma anche in quella culturale.
Con Eraclio si chiude la fase romana e si apre quella bizantina nel vero senso della parola.
La completa grecizzazione e la forte clericalizzazione di tutta la vita pubblica dànno una nuova fisionomia a tutto lo Stato.
Nel primo periodo bizantino la lingua latina resisteva con straordinaria tenacia nella vita pubblica: lo Stato non si decideva a prendere atto della progressiva grecizzazione dell’Impero se non a poco a poco e con estrema indecisione, senza risolversi a introdurre un cambiamento definitivo.
La caratteristica del primo periodo dello Stato bizantino è il bilinguismo tra governo e popolo: la lingua ufficiale dell’amministrazione e dell’esercito era il latino, che la grande maggioranza della popolazione orientale non comprendeva.
Al tempo di Eraclio si pose fine a questa situazione e la lingua greca divenne la lingua ufficiale dell’Impero bizantino.
La lingua del popolo e della Chiesa divenne così anche la lingua dello Stato.
Il processo di grecizzazione che prima veniva artificiosamente frenato, si sviluppò ancora più rapidamente, e nelle generazioni immediatamente successive la conoscenza del latino era divenuta una rarità perfino negli ambienti colti.
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L’anno nel quale iniziarono le vittorie bizantine contro la Persia è anche l’anno dell’egira degli arabi.
Mentre Eraclio sconfiggeva l’Impero persiano, Maometto poneva le fondamenta dell’unità religiosa e politica degli arabi.
L’opera di Maometto, poco sviluppata e intellettualmente debole, contiene peraltro uan certa energia primordiale che la rende un potente stimolo all’azione.
Pochi anni dopo la morte del profeta ebbero inizio le grandi invasioni degli arabi che dall’opera di Maometto si sentirono spinti a espandersi come una forza elementare oltre i confini della propria povera terra.
Il loro scopo non era tanto la conversione dei popoli alla nuova fede, quanto la conquista di nuove terre e il dominio sugli infedeli.
I due grandi imperi confinanti furono le prime vittime della loro sete di conquiste: la Persia venne sconfitta al primo attacco, Bisanzio perse le sue province orientali solo dieci anni dopo la morte del profeta.
Questa continua lotta aveva indebolito ambedue i contendenti e così spianata la strada agli arabi.
Dopo la sconfitta della Persia da parte di Eraclio, l’antico impero dei Sasanidi era caduto nel disordine più caotico; un usurpatore succedeva all’altro, tutta l’impalcatura dello Stato era in pezzi.
Ma anche le forze della vittoriosa Bisanzio erano uscite esaurite dalla dura lotta.
Inoltre inconciliabili divergenze religiose avevano eretto un muro di odio tra Costantinopoli e le sue province orientali; le tendenza separatistiche delle popolazioni copte e siriane erano state rafforzate e la loro volontà di difesa era stata definitivamente soppressa.
Anche le deficienze dell’organizzazione militare e la situazione disastrosa in cui si trovava l’amministrazione a causa del prepotere dei grandi proprietari fondiari locali, furono fattori che contribuirono a facilitare il compito degli invasori.
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Tanto allora quanto precedentemente in politica estera il problema principale era quello della continua avanzata degli arabi.
In ottemperanza alle clausole del trattato che il patriarca di Alessandria, Ciro, aveva concluso con gli arabi dietro ordine di Martina, e che stabiliva una scadenza precisa per lo sgombero del territorio da parte dei bizantini, le truppe bizantine salparono da Alessandria il 12 settembre 642 e si diressero a Rodi.
Intanto il vittorioso generale arabo ‘Amr entrava il 29 settembre nella città di Alessandro Magno, da dove gli arabi continuarono ad espandersi lungo la costa nordafricana, conquistarono la Pentapoli e nel 643 presero la città di Tripoli sulla Sirte.
Dopo la morte di Omar (novembre 644) ‘Amr venne richiamato dal nuovo califfo ‘Othman, e questo fatto incoraggiò i bizantini ad intraprendere una nuova controffensiva.
Il generale bizantino Manuele si diresse verso l’Egitto alla testa di una grande flotta; gli riuscì di sorprendere la guarnigione araba e di riconquistare Alessandria.
Ma questo successo fu di breve durata.
‘Amr venne immediatamente rimandato in Egitto, sconfisse presso Nikiu l’armata di Manuele e nell’estate del 646 rientrò in Alessandria.
Manuele fu costretto a fuggire a Costantinopoli, mentre la popolazione copta di Alessandria, con alla sua testa il patriarca monofisita Beniamino si sottomise spontaneamente agli arabi e ratificò formalmente la propria sottomissione dichiarando di preferire il giogo arabo a quello bizantino.
Dopo questa reiterata conquista di Alessandria l’Egitto restò per sempre sotto dominazione musulmana.
L’Impero bizantino aveva perduto definitivamente la più ricca ed economicamente più importante delle sue province.
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Dopo essersi liberato dal pericolo che veniva dall’Oriente, l’imperatore Costante poté dedicarsi alle province occidentali dell’Impero.
Nel 658 intraprese una campagna nella regione balcanica occupata dagli slavi; attaccò la “Slavinia”, dove “molti vennero fatti prigionieri e sottomessi”.
La scarsezza delle notizie non ci permette di precisare nei dettagli quali fossero le conseguenze di questa campagna di Costante Secondo.
Quello che possiamo dire con sicurezza è che Costante Secondo costrinse una parte degli slavi – probabilmente in Macedonia – a riconoscere la sovranità bizantina.
Si trattava della prima grande controffensiva bizantina contro gli slavi dai tempi di Maurizio.
Pare che la spedizione di Costante Secondo fosse accompagnata da deportazioni in massa di Slavi in Asia Minore.
Ed è a partire da questo periodo che le fonti parlano di slavi in Asia Minore e di soldati slavi al servizio imperiale.
Nel 665 una divisione di cinquemila soldati slavi passò agli arabi e venne da questi insediata in Siria.
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Dopo la morte di Costante Secondo, gli successe sul trono di Costantinopoli il suo giovane figlio Costantino Quarto (668-885).
Il suo regno inaugurò un periodo di importanza fondamentale sia per la storia universale che per quella bizantina: il regno durante il quale nella lotta bizantino-araba si avrà la svolta decisiva.
Ancora mentre Costante Secondo si tratteneva in Occidente, Mu’awiya dopo la composizione delle lotte interne al califfato, riprese le armi contro l’Impero bizantino.
Nel 663 gli arabi riapparvero in Asia Minore e, da allora in poi, le loro incursioni si ripeterono di anno in anno.
La regione venne interamente devastata e gli abitanti deportati e fatti schiavi; nel frattempo gli arabi erano giunti fino a Calcedonia e molti di loro restarono a svernare in territorio bizantino.
Ma la lotta decisiva, la lotta per Costantinopoli e quindi anche per l’esistenza stessa dell’Impero bizantino si svolse in mare.
Il califfo Mu’awiya riprese il piano di conquista, elaborato quando era governatore della Siria, al punto in cui lo aveva dovuto interrompere più di un decennio prima.
Gli arabi avevano occupato Cipro, Rodi, Coo; questa catena di isole venne completata con la conquista di Chio; nel 67’ un generale di Mu’awiya si impadronì della penisola di Cizico, nelle immediate vicinanze della capitale bizantina.
Gli arabi avevano così in mano una sicura base per le operazioni contro Costantinopoli.
Ma prima di sferrare l’attacco contro la capitale, nel 672 un distaccamento della flotta araba prese Smirne, mentre un altro si impadroniva delle coste della Cilicia.
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Per la prima volta era stata fermata l’avanzata araba.
L’invasione araba, che fino allora era andata avanzando come una valanga, senza quasi incontrare resistenza, era stata arrestata per la prima volta.
Nella grande lotta per la difesa dell’Europa dall’avanzata araba, la vittoria di Costantino Quarto rappresenta uan svolta di importanza mondiale, come più tardi la vittoria di Leone Terzo nel 718 e quella del 732 di Carlo Martello, a Poitiers, all’altro estremo del mondo di allora.
Di queste tre vittorie, che salvarono l’Europa dal dilagare dei musulmani, la vittoria di Costantino Quarto è non solo la prima, ma anche la più grande.
Senza dubbio quell’offensiva araba contro Costantinopoli era l’ultimo argine che si opponeva all’invasione.
Il fatto che questo argine abbia retto significò la salvezza non solo dell’Impero bizantino, ma di tutta la cultura europea.
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Il territorio che i bulgari occuparono era già stato slavizzato da tempo: era abitato dalla stirpe dei Severi e da sette altre tribù slave, che ora vennero costrette a versare tributi ai bulgari invasori e sembrarono allearsi con essi nella lotta contro i bizantini.
Sul territorio dell’antica provincia della Mesia, tra il Danubio e la catena dei Balcani venne così a formarsi un impero slavo-bulgaro.
L’invasione dei bulgari nella parte nordorientale della penisola balcanica occupata dagli slavi ebbe così l’effetto di accelerare il processo della strutturazione statuale e portò alla creazione del primo impero jugoslavo.
All’inizio i bulgari e gli slavi rappresentarono due entità etniche distinte e ancora per molto tempo verranno chiaramente distinte fonti bizantine; ma in seguito a poco a poco i bulgari si amalgamarono completamente nella massa slava.
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L’ordinamento dei temi è uno dei problemi più importanti dello sviluppo dello Stato bizantino nel primo Medioevo.
Le opere storiche bizantine non trattano mai in modo dettagliato questo problema, ma a partire dalla seconda metà del Settimo Secolo troviamo nelle fonti sempre più frequenti riferimenti ai temi; il che dimostra che quest’organizzazione amministrativa si incorporava sempre più organicamente nell’Impero bizantino.
Un documento di Giustiniano del 17 febbraio 687 cita accanto ai due esarchi d’Italia e d’Africa i cinque strateghi di Opsikion, dell’Anatolia, dell’Armenia, del tema marittimo dei Carabisiani e del tema della tracia.
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L’ordinamento dei temi, che si sviluppa sempre più forte nell’Asia Minore e progressivamente prende piede anche in certi territori della penisola balcanica, costituisce l’ambito in cui si compie la rigenerazione dell’Impero bizantino.
Nel corso di un lungo periodo il governo bizantino si preoccupa con sorprendente ostinazione di introdurre nel territorio dell’Impero il maggior numero possibile di slavi e di collocarli, come stratioti e come contadini, nei temi creati ex novo, per accrescere in questo modo le forze armate dell’Impero, e per rafforzare economicamente il paese.
Il rinnovamento interno, conosciuto dall’Impero bizantino a partire dal Settimo Secolo, consiste soprattutto proprio nel formarsi di una forte classe contadina e nel costituirsi di un nuovo esercito di stratioti, cioè nel rafforzamento della piccola proprietà contadina, dal momento che anche gli stratioti residenti sono piccoli proprietari terrieri.
Nella prestazione del servizio militare allo stratiota seguiva di regola il figlio maggiore, che succedeva anche nel fondo militare gravato dall’obbligo del servizio.
I restanti suoi eredi costituivano però un’eccedenza di forze agricole cui la quantità di terreno libero offriva un naturale campo di attività; in questo modo anche il contadino veniva ad essere inquadrato nell’ordinamento degli stratioti.
I contadini liberi e gli stratioti appartengono ad una sola classe e questa classe è ora la forza fondamentale dell’Impero bizantino.
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Ma in forte aumento è anche la proprietà terriera della Chiesa e dei monasteri, grazie alle donazioni dei devoti bizantini di tutte le classi.
Questo fenomeno, insieme all’incessante sviluppo del monachesimo, è un’espressione della crescente potenza della Chiesa.
Un’idea dell’enorme sviluppo dei monasteri a Bisanzio è data dalla più tarda testimonianza del patriarca Giovanni Antiocheno(fine dell’Undicesimo Secolo), che, nonostante le evidenti esagerazioni, ne dà un’immagine abbastanza esatta.
Questo alto rappresentante del clero orientale e deciso difensore dell’intoccabilità dei beni dei monasteri disse che la popolazione dell’Impero bizantino prima dell’inizio della crisi iconoclastica si divideva in due grandi gruppi: monaci e laici.
E all’aumento del numero dei monasteri e dei monaci corrispose anche un aumento della proprietà terriera ecclesiastica.
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La politica della dinastia eracleia, che fece della piccola proprietà degli stratioti e dei contadini liberi il pilastro fondamentale dell’Impero, non poteva essere accetta all’aristocrazia bizantina.
Con Giustiniano Secondo la politica del governo assunse un indirizzo anti aristocratico particolarmente accentuato, e l’atteggiamento brusco e provocante del giovane imperatore, che non esitava mai a ricorrere alla violenza, portò la tensione al massimo.
Fonti orientali ben informate dimostrano che l’atteggiamento di Giustiniano minacciava l’aristocrazia di completo annientamento.
D’altra parte alcune delle misure che prese non erano certo atte a conquistarsi l’appoggio popolare.
La sua politica colonizzatrice – anche se rispondeva alle necessità dello Stato – era molto dura per coloro che ne erano colpiti, che venivano strappati alla loro patria e gettati in regioni sconosciute e disabitate.
Inoltre il governo di Giustiniano Secondo impose duri gravami finanziari ai suoi redditi soprattutto per i grandi programmi di costruzioni cui l’imperatore, cercando di emulare il suo grande omonimo, si era appassionatamente dedicato.
Il fiscalismo spietato provocò l’odio della popolazione contro i funzionari incaricati delle finanze, il sakellarios Stefano e il Logothetes genikou Teodoto, che pare si siano particolarmente distinti per la loro brutalità e mancanza di riguardi.
Alla fine del 695 scoppiò la rivolta contro il governo di Giustiniano Secondo e il partito degli azzurri elevò al trono imperiale Leonzio, lo stratega del nuovo tema dell’Ellade.
I due luogotenenti di Giustiniano, il sacellario Stefano ed il logotete Teodoto perirono travolti dalla furia della folla e a Giustiniano venne tagliato il naso.
L’imperatore detronizzato venne esiliato a Cherson, dove già Martino aveva finito i suoi giorni d’esilio.
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Si trattava della prima dinastia bizantina nel vero senso della parola; una dinastia i cui rappresentanti avevano governato l’Impero per cinque generazioni, per un secolo intero.
Se consideriamo la storia di questa stirpe eccezionale ci vediamo sfilare davanti tutta una galleria di uomini in cui effettive doti di statisti si combinano con una ipertensione morbosa: il grande Eraclio, il riformatore dell’Impero, che alla testa della sua armata combatte la guerra santa e ottiene vittorie favolose sul potente Impero persiano, ma poi, stanco ed esausto, assiste passivamente all’avanzata degli arabi e passa gli ultimi anni della sua vita in uno stato di grave turbamento mentale; Costante Secondo – il figlio di un uomo consunto dalla tisi – che sale sul trono ancora fanciullo, con il fresco ricordo delle sanguinose lotte famigliari, che diventa un sovrano dalla prepotente volontà autocratica e cade per un grande, ma utopistico ideale; Costantino Quarto, l’eroico vincitore della guerra contro gli arabi che, dopo il suo avo, fu colui che meritò più di chiunque altro il titolo di salvatore dell’Impero, un grande generale e statista, morto precocemente all’età di soli trentatré anni, e infine Giustiniano Secondo, un sovrano di doti eccezionali, che contribuì più di ogni altro all’elaborazione della nuova organizzazione statale, ma che per il suo dispotismo che non conosceva limiti, per la sua mancanza di autocontrollo e la sua crudeltà addirittura morbosa, si preparò una tragica fine e si rese responsabile della caduta della dinastia.
Il periodo creativo della dinastia eraclea si concluse con la prima fase del regno di Giustiniano Secondo.
Nel periodo che va dall’ascesa al trono di Eraclio alla prima detronizzazione di Giustiniano si svolge la più dura lotta per l’esistenza che l’Impero bizantino abbia mai dovuto sostenere e la più grande trasformazione interna che abbia mai vissuto.
Pur avendo sconfitto i persiani e gli avari, Bisanzio fu costretta a cedere vasti territori agli arabi.
Riuscì comunque a conservare, dopo dura lotta, il cuore dei propri possedimenti, a impedire ai musulmani l’accesso all’Europa e a preservare la propria esistenza in quanto grande potenza.
L’estensione dell’Impero si ridusse notevolmente, ma nei suoi nuovi confini Bisanzio si trova ad essere più salda e più forte.
Alla vecchia organizzazione statale tardo-romana viene data nuova vita attraverso profonde riforme interne e l’accesso dall’esterno di forze giovani e fresche.
Il suo ordinamento militare viene riorganizzato in modo rigoroso e unitario e l’organizzazione dell’esercito viene trasformata e basata sulle forze degli stratioti-contadini; si ha un forte aumento della classe dei liberi contadini che si dedicano alla coltivazione di nuove terre e che coi tributi che pagano rappresentano il più sicuro pilastro delle finanze dell’Impero.
E’ sulle fondamenta poste nel Settimo Secolo che si basa la futura forza dello Stato bizantino.
Grazie alle riforme introdotte dalla dinastia di Eraclio, Bisanzio riesce a sostenere al difesa contro gli arabi e i bulgari e infine a scatenare un’offensiva decisiva e vittoriosa in Asia e nella penisola balcanica.
Ma quanto quest’epoca è ricca di guerre eroiche, altrettanto essa è povera in fatto di vita culturale, di attività letteraria e artistica.
Infatti con la scomparsa del vecchio ceto aristocratico si estingue anche la vecchia cultura da essa incarnata, e dopo lo splendore e la ricchezza della letteratura e dell’arte del tempo di Giustiniano, segue nel Settimo Secolo un periodi di aridità culturale.
Questo attribuisce a tale epoca un aspetto cupo, tanto più che in Bisanzio penetra una crudezza di costumi veramente orientale.
Le arti figurative sono irrilevanti.
La letteratura mondana e la scienza sono mute.
Richiamata in causa da nuove controversie religiose, la teologia è l’unica a far sentire la sua voce.
La Chiesa acquista un’importanza sempre maggiore.
La vita bizantina assume un caratteri mistico ed ascetico.
Gli stessi imperatori sono dei mistici: Eraclio, “il liberatore della terra santa”, Costantino, “il faro della ortodossia”, Giustiniano, “il servo ci Cristo”.
L’Impero romano universale appartiene ora al passato.
Mentre in Occidente si formano regni germanici, Bisanzio, pur restando sempre aderente alle idee statali ed alle tradizioni romane, diviene un impero medievale greco.
La cultura e la lingua greca (che raggiunge la vittoria definitiva nel territorio di Oriente dopo al romanità artificiosa dell’epoca transitoria paleo bizantina) dà a questo impero un suo proprio sigillo e ne indirizza lo sviluppo in una nuova direzione.
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Cap. 3. L’età della crisi iconoclastica, 711-843
La grande crisi, che si abbatté su Bisanzio nell’età della controversia iconoclastica, si preannuncia già durante il regno di Filippico Bardane e in questo risiede l’importanza storica di questo breve e poco fortunato regno.
Infatti Filippico aveva rinfocolato non solo le dispute cristologiche, ma aveva provocato anche una strana controversia sulle immagini, una lotta, che invero non colpiva ancora il culto delle immagini come tale, ma che comunque si serviva del carattere simbolico dell’immagine come strumento della controversia, preannunciando quindi la grande lotta iconoclastica degli anni seguenti.
Come armeno, Filippico Bardane secondo ogni apparenza aveva tendenza al monofisitismo.
Non arrivò tanto lontano da avanzare un riconoscimento di questa eresia, ma apparve come un deciso sostenitore del monoteletismo che era stato condannato trent’anni prima al Quarto Concilio ecumenico.
Di propria autorità emanò un editto imperiale col quale respingeva le decisioni del Sesto Concilio Ecumenico e dichiarava il monotelismo la sola dottrina ortodossa.
Questa volta ebbe la sua espressione simbolica nella distruzione di un dipinto nel palazzo imperiale, rappresentante il Sesto Concilio Ecumenico e nella rimozione di un’iscrizione commemorativa del Concilio che era posta davanti al palazzo sulla Porta Milion; al suo posto venne messa un’effigie dell’imperatore e una del patriarca Sergio.
Analogamente più tardi gli imperatori iconoclasti rimuovevano le immagini di natura religiosa, ma davano la massima pubblicità alle immagini dell’imperatore.
Il monotelismo di Filippico non riuscì a prevalere, la sua politica ecclesiastica provocò una forte opposizione che affrettò la sua caduta, ma ciò nonostante egli riuscì a trovare alcuni sostenitori, o almeno simpatizzanti, negli ambienti dell’alto clero bizantino, e tra questi anche il futuro patriarca Germano.
Inoltre riapparvero tendenze monofisite, il che sta a dimostrare che l’eresia monofisita-monotelita non era stata affatto sradicata da Bisanzio.
Naturalmente l’aperta professione, da parte dell’imperatore, di un’eresia che era stata condannata all’ultimo Concilio Ecumenico, provocò a Roma una decisa opposizione, che si manifestò in una forma affatto caratteristica.
Quando venne annunciata la sua ascesa al trono, Filippico inviò al papa Costantino Primo, insieme alla propria effigie, una confessione di fede piena di accenti monoteliti.
A Roma l’effigie dell’imperatore eretico venne respinta e non venne nemmeno coniata sulle monete; e il suo nome non venne menzionato nelle funzioni religiose e nella datazione degli avvenimenti.
Alla rimozione della rappresentazione del Sesto Concilio Ecumenico dal palazzo imperiale di Costantinopoli, il papa rispose facendo portare nella chiesa di San Pietro immagini che rappresentavano tutti e sei i concili.
Così, poco prima dello scoppio della grande controversia sul culto delle immagini, si svolse tra l’imperatore eretico e il papa una strana lotta, in cui l’immagine era uno strumento della disputa e la posizione delle due parti si esprimeva nell’accettazione o nel rifiuto di determinate rappresentazioni iconografiche.
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Con la liberazione di Costantinopoli e la vittoria in Asia Minore si chiudeva una fase importante della lotta bizantino-araba.
I futuri attacchi degli arabi creeranno seri problemi all’Impero, ma non porranno più in questione la sua esistenza.
Costantinopoli non subirà più un assedio arabo e l’Asia Minore, che grazie al sistema dei temi, possedeva forti capacità di resistenza nonostante alcuni contraccolpi, restò saldamente parte integrante dell’Impero.
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La controversia iconoclastica aprì un nuovo – affatto caratteristico – capitolo della storia bizantina.
L’opposizione di Leone Terzo al culto delle immagini diede inizio alla crisi che segna della sua impronta tutti questo periodo e che fa dell’Impero il teatro di lotte intestine durate più di un secolo.
La crisi si preparava lentamente.
Il fatto che essa abbia assunto la forma di una controversia sulle immagini è determinato dal particolare valore simbolico che i bizantini attribuivano ad esse.
Nella Chiesa greca il culto delle immagini dei santi aveva raggiunto negli ultimi secoli, particolarmente nell’età post giustinianea, una sempre maggiore diffusione ed era diventato una della forme principali in cui si esprimeva la religiosità bizantina.
D’altra parte non mancavano nello stesso seno della chiesa tendenze contrarie al culto delle immagini in quanto sembrava che il cristianesimo, come religione puramente spirituale, dovesse escluderlo.
Questa opposizione era forte soprattutto nelle religioni orientali dell’Impero, che da molto tempo erano terreno fertile di fermenti religiosi, in cui continuavano ad esistere considerevoli residui di monofisismo e si rafforzava ed estendeva la setta dei pauliciani, nemica di ogni culto ecclesiastico.
Ma fu solo il contatto con il mondo arabo a far divampare l’opposizione al culto delle immagini.
La tendenza iconoclasta di Leone Terzo venne attribuita, dai suoi nemici, ora ad influenze ebraiche, ora arabe.
Il fatto che Leone Terzo abbia perseguitato gli ebrei e li abbia costretti al battesimo, non esclude la possibilità che egli sia stato influenzato dalla religione mosaica, col suo rigoroso divieto delle immagini; analogamente la guerra contro gli arabi non esclude che l’imperatore sia stato influenzato dalla cultura araba.
La persecuzione degli ebrei che ebbe luogo sotto Leone Terzo – una delle relativamente rare persecuzioni antisemite della storia bizantina – deve essere piuttosto considerata come un segno del rafforzarsi dell’influenza ebraica in questo periodo; a partire dal Settimo Secolo, nella letteratura teologica bizantina compaiono in sempre maggior numero scritti polemici che rispondono ad attacchi ebraici contro il cristianesimo.
Ancor più importante è l’atteggiamento filo-arabo di Leone, che i suoi contemporanei chiamarono saraktenofron.
Gli arabi, che da decenni percorrevano in lungo e in largo l’Asia Minore, non portavano a Bisanzio solo la spada, ma anche la loro cultura, e insieme a questa, la loro caratteristica ripugnanza nei confronti della riproduzione delle sembianze umane.
L’iconoclastia nasceva così nelle regioni orientali dell’Impero da un caratteristico incrocio di un’accezione rigorosamente spirituale della fede cristiana, con le dottrine di settari iconoclasti e le concezioni delle antiche eresie cristologiche, come anche gli influssi di religioni non cristiane, il giudaismo e soprattutto l’islam.
Dopo la vittoria sull’avanzata militare dell’Oriente, ora iniziò, nella forma della controversia sulle immagini, la lotta contro l’avanzata degli influssi culturali orientali.
E colui che preparò la via a questa penetrazione dell’influenza culturale orientale fu lo stesso imperatore che aveva respinto l’avanzata araba alle porte di Costantinopoli.
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L’imperatore non riuscì però a costringere la lontana Italia ad aderire all’iconoclastia.
Ma la controversia iconoclastica scoppiata a Bisanzio ebbe profonde ripercussioni nei rapporti tra Costantinopoli e Roma.
Dopo la pubblicazione dell’editto iconoclastico, che elevava la dottrina contraria al culto delle immagini a dottrina ufficiale dello Stato e della Chiesa dell’Impero, la rottura – tanto a lungo ritardata – divenne inevitabile.
Papa Gregorio Terzo, il successore di Gregorio Secondo, si vide costretto a condannare in un concilio l’’iconoclastia bizantina.
Leone Terzo – che si era illuso di convincere il papa, come questi si era illuso di convincere l’imperatore – si vide a sua volta costretto a fare prigionieri i legati di Gregorio Terzo.
Alla divisione religiosa seguì quella politica: le prime conseguenze politiche della controversia iconoclastica furono un approfondimento della frattura tra Costantinopoli e Roma e un sensibile indebolimento delle posizioni bizantine in Italia.
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Nella situazione in Oriente si era determinata uan svolta favorevole a Bisanzio.
La forza degli arabi era stata scossa sia dalle guerre dell’epoca di Leone Terzo, sia da una grave crisi interna.
La gloriosa dinastia degli Omayyadi si avviava al tramonto e dopo una lunga guerra civile venne sostituita nel 750 da quella degli Abbasidi.
Il trasferimento del centro dello Stato da Damasco nella lontana Bagdad si accompagnò al cambiamento di dinastia.
Quindi la pressione cui Bisanzio era esposta da questo lato si attenuò e si poteva passare alla controffensiva.
Già nel 476 Costantino irruppe nella Siria settentrionale ed occupò Germanicea, la patria dei suoi antenati.
Seguendo i metodi tradizionali della politica coloniale di Bisanzio, trasferì un gran numero di prigionieri nella lontana Tracia, dove ancora nel Nono Secolo si troveranno colonie di monofisiti siri.
Anche sul mare Bisanzio ottenne una notevole vittoria: il comandante della Marina Bizantina, lo stratego dei Cibirreoti, annientò nel 747 presso Cipro uan flotta araba che era stata mandata da Alessandria.
Un successo ancora maggiore ebbe la campagna che l’imperatore intraprese nel 752 in Armenia e Mesopotamia: due importanti fortezze confinarie, Teodosiopoli e Melitene, caddero nelle mani dei bizantini.
Anche questa volta i prigionieri vennero mandati in Tracia, presso il confine bulgaro, che venne fortificato su ordine dell’imperatore.
Naturalmente questi successi non portarono nessuna conquista territoriale duratura all’Impero, giacché ben presto le fortezze che erano state conquistate caddero di nuovo nelle mani degli arabi.
Ma le vittorie di Costantino sui confini orientali erano comunque molto importanti perché erano un sintomo che la situazione era mutata: era finito il tempo in cui Bisanzio doveva lottare per la propria esistenza.
La lotta arabo-bizantina aveva ora il carattere di conflitto di frontiera, in cui inoltre l’iniziativa era spesso nelle mani dell’imperatore bizantino.
Nell’Oriente Bisanzio non era più l’aggredito, ma l’aggressore.
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I grandi successi di Costantino Quinto nelle guerre arabe e in quelle bulgare erano costate la limitazione della sua politica estera alla sfera di interessi orientali.
Mentre Costantino Quinto celebrava le sue vittorie in Oriente, il dominio bizantino in Italia subì un crollo completo.
La tensione tra Roma e l’imperatore iconoclasta sul Bosforo si acutizzava continuamente.
Ma fintanto che il papato credeva di poter contare sull’aiuto dell’Impero bizantino contro la pressione longobarda, e fintanto che non c’era un’altra potenza che potesse sostituire Bisanzio, Roma metteva da parte le divergenze religiose e serbava lealtà all’Impero.
Ma nel 751 Ravenna cadde in mano dei longobardi, e l’esarcato di Ravenna cessò di esistere.
Con questo avvenimento il dominio bizantino nell’Italia settentrionale e centrale era finito e svanita l’ultima speranza del papa nell’aiuto dell’imperatore bizantino.
Ma nello stesso tempo sull’orizzonte romano apparve uan nuova potenza, la cui protezione rappresentava un aiuto più accetto che non quello della eretica Bisanzio: il giovane impero dei franchi.
Il papa Stefano Secondo attraversò personalmente le Alpi e si incontrò il 6 gennaio 754 con re Pipino, a Ponthion.
Questo memorabile incontro aprì i rapporti fra Roma e il regno dei franchi e gettò le basi dello Stato della Chiesa romana.
Il papato voltò le spalle all’imperatore bizantino e stabilì un legame con il re dei franchi, da cui meno di mezzo secolo dopo doveva sorgere l’Impero d’Occidente.
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Lo stesso imperatore prese parte all’attività letteraria: scrisse non meno di tredici scritti teologici, di due dei quali – ma sembra si tratti dei due più importanti – ci restano frammenti.
Gli scritti di Costantino Quinto, che dovevano indicare le linee direttive per le risoluzioni del Concilio, rappresentano un essenziale approfondimento della dottrina iconoclastica.
A differenza dei sostenitori del culto delle icone, che facevano una distinzione fondamentale tra l’immagine e il suo archetipo e intendevano l’immagine come un simbolo, nel senso neoplatonico, Costantino Quinti, influenzato da concezioni magico-orientali, postula una perfetta identità, una consustanzialità tra l’immagine e l’archetipo.
Ponendosi sul terreno delle controversie cristologiche si batte soprattutto contro la rappresentazione di Cristo e va molto più in là dei vecchi iconoclasti che combattevano il culto delle immagini soprattutto perché rappresentava uan restaurazione dell’idolatria.
Mentre i difensori del culto delle immagini, come il patriarca Germano e soprattutto Giovanni Damasceno, fondavano la rappresentazione di Cristo sulla sua incarnazione e consideravano la rappresentazione del Salvatore nella sua forma umana una conferma della sua incarnazione, Costantino impugna la possibilità di una vera rappresentazione di Cristo a causa della sua natura divina.
Così da ambedue le parti la controversia iconoclastica viene collegata alla dogmatica cristologica, e la lotta pro o contro il culto delle immagini diventa una prosecuzione, in una forma nuova, delle vecchie dispute cristologiche.
Nelle sue espressioni più radicali l’iconoclastia si intreccia col monofisismo e anche gli scritti di Costantino Quinto, che rappresentava l’ala più radicale della corrente iconoclasta, rivelavano inequivocabilmente delle tendenze monofisite.
Ciò non deve meravigliare, se si tiene presente che il monofisismo non solo predominava alle frontiere dell’Impero, in Siria e Armenia, ma – come aveva dimostrato la reazione monotelita sotto Filippico – esso conservava gli stessi territori dell’Impero.
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Con quale durezza venisse condotta questa lotta dal governo di Costantino Quinto, è dimostrato dal comportamento dello stratego tracio Michele Lacanodracone, uno dei più zelanti collaboratori dell’imperatore, che pose i monaci del suo tema di fronte alla scelta di abbandonare l’abito monastico e sposarsi oppure essere accecati e esiliati.
Vi fu una forte emigrazione di monaci, che si diressero verso il sud d’Italia, dove fondarono molti nuovi monasteri e scuole, creando così nuovi centri di cultura greca.
A Bisanzio la marea della lotta iconoclastica montava sempre più: l’imperatore radicalizzò ulteriormente la sua lotta, andando molto oltre le decisioni del Concilio del 754 ed entrando anche in aperta contraddizione con esse: si scagliò non solo contro il culto delle immagini e delle reliquie, ma anche contro il culto dei santi e la venerazione di Maria.
La vita religiosa dell’Impero bizantino avrebbe subito uan trasformazione completa, se l’opera di Costantino Quinto non fosse crollata con la sua morte.
Nel ricordo della posterità il violento governo di Costantino Quinto venne considerato un’epoca di terrore spietato.
Per secoli il nome di Costantino Copronimo venne ricordato con un odio inestinguibile e dopo la restaurazione dell’ortodossia la sua salma venne allontanata dalla chiesa dei Santi Apostoli.
Ma anche il ricordo dei suoi successi bellici e delle sue gesta eroiche gli sopravvisse, e quando all’inizio del Nono Secolo Bisanzio si trovò sotto la minaccia bulgara, il popolo si riunì attorno alla tomba di Costantino Quinto e implorò il morto imperatore di voler uscire dalla tomba e salvare l’Impero nell’ora del pericolo.
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Il breve governo di Leone Quarto (775-780) rappresenta ip periodo di transizione tra l’apogeo dell’iconoclastia di Costantino Quinto e la restaurazione del culto delle icone sotto Irene.
Leone Quarto, figlio di Costantino Quinto e della sua prima moglie, la principessa cazara, era per natura un uomo incline alla moderazione.
Gli attacchi contro il culto di Maria cessarono, e anche la politica anti monastica che il suo predecessore aveva adottato nella seconda parte del suo regno, venne abbandonata; non solo, ma Leone non esitò ad affidare a monaci più importanti seggi episcopali.
Ciò nonostante non fu capace di fare una svolta completa e seguì la tradizione politica iconoclastica: molti funzionari di corte, sostenitori del culto delle immagini, vennero fustigati pubblicamente e imprigionati (780).
Questo è l’unico casi di persecuzione iconoclastica dell’età di Leone Quarto che ci è stato tramandato: paragonato ai metodi di Costantino Quinto, si trattava di una bena ben mite.
Il freno che fu posto alla persecuzione iconoclastica sotto Leone Quarto era una reazione naturale contro il massimalismo di Costantino Quinto.
A questo si aggiunse l’influenza dell’energica moglie di Leone Quarto, l’imperatrice Irene, che proveniva dall’iconodula Atene ed era essa stessa una sostenitrice del culto delle immagini.
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La morte precoce di Leone Quarto (8 settembre 780) portò al trono suo figlio Costantino Sesto, all’età di soli dieci anni.
L’imperatrice Irene prese la reggenza e divise anche ufficialmente il trono con suo figlio minorenne.
Ci fu un nuovo tentativo di usurpazione in favore del cesare Niceforo, ma l’energica imperatrice schiacciò la ribellione – che pare provenisse da elementi iconoclasti e che nelle sue file contava molti alti ufficiali – e costrinse i fratelli del suo defunto marito a farsi preti.
Con il passaggio della conduzione degli affari di governo nelle mani di Irene, la restaurazione del culto delle icone era ormai decisa.
Tuttavia essa venne preparata lentamente e con grande prudenza: un brusco rovesciamento della politica ecclesiastica non era infatti possibile: il sistema iconoclastico aveva dominato per mezzo secolo, le più importanti cariche dello Stato e della Chiesa erano in mano a uomini che, per convinzione o adattamento alle circostanze, ne erano sostenitori, e anche gran parte dell’esercito, fedele alla memoria del glorioso imperatore Costantino Quinto, continuava ad essere iconoclasta.
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Alla presenza di trecentocinquanta vescovi e di un gran numero di monaci, sotto la presidenza del patriarca Tarasio, si tennero a Nicea, dal 24 settembre al 13 ottobre, in rapida successione, sette sedute; il che sta a dimostrare l’accuratezza con cui il Concilio era stato preparato.
Il Concilio si trovò di fronte ad un’importante decisione di politica ecclesiastica con il problema dei vescovi che avevano partecipato ad attività iconoclastiche, ma che sotto i tre governi precedenti, avrebbero avuto molta difficoltà a comportarsi differentemente.
Come disse uno di loro, essi erano “nati, cresciuti ed educati nell’eresia”.
Con accorta moderazione, il Concilio riammise nella comunità della Chiesa quelli che erano stati iconoclasti e che avevano ritrattato la loro eresia di fronte all’assemblea conciliare.
Ma questo atteggiamento tollerante non ottenne l’approvazione dei monaci, e si giunse a discussioni molto violente su questo problema.
Per la prima volta apparve qui la divisione esistente all’interno della Chiesa bizantina, e che si protrarrà per tutto il corso della sua storia.
Da una parte c’era la tendenza radicale dei monaci, dei cosiddetti zeloti, che si attenevano rigorosamente alle prescrizioni canoniche e rifiutavano rigidamente ogni compromesso; dall’altra la tendenza dei cosiddetti politici, che sapeva sottomettersi alla ragione di Stato e alla situazione politica esistente, che collaborava lealmente con il potere temporale, fintanto che questi restava fedele all’ortodossia, e non era contrario a certi compromessi.
Al Concilio di Nicea ebbe il sopravvento la tendenza moderata.
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Bisanzio e Carlo Magno
Ma storicamente più importante di tutti gli insuccessi militari in Asia e nei Balcani fu la perdita di prestigio che Bisanzio venne a subire in seguito a quello che contemporaneamente avveniva in Occidente.
Fu una tragedia per il vecchio impero il fatto che, mentre alla testa del regno dei franchi stava uno dei più grandi sovrani del Medioevo, il suo destino si trovasse nelle mani di donne ed eunuchi.
Con la conquista della Baviera, la cristianizzazione e l’assorbimento dei sassoni, l’espansione a spese degli slavi in Oriente, la distruzione del regno degli avari, l’abbattimento e l’annessione del regno dei longobardi, Carlo Magno aveva fatto del suo regno la più grande potenza del mondo cristiano del tempo.
Abbattendo il regno dei longobardi, aveva adempiuto al compito cui Bisanzio si era dimostrata incapace, e questo aveva completamente annientato l’autorità dell’Impero bizantino in Roma.
Quindi la Chiesa romana si alleò ancor più strettamente con il regno dei franchi e si allontanò ulteriormente da Bisanzio.
Questa situazione non poteva essere alterata dal fatto che al Concilio ecumenico di Nicea era stata ristabilita la pace religiosa tra Costantinopoli e Roma, che Bisanzio era tornata all’ortodossia e difendeva con più zelo che mai il culto delle immagini.
Il Concilio di Nicea non aveva portato ad una vera riconciliazione tra le due metropoli.
Roma si aspettava una revoca di tutte le misure prese nel periodo iconoclastico, non solo di quelle religiose, ma anche di quelle politiche; voleva un completo ristabilimento dello stato quo ante, e soprattutto la restituzione dei diritti giurisdizionali di Roma in Italia meridionale e nell’Illirico.
Ma Costantinopoli non voleva saperne di tutto questo.
Al Concilio di Nicea non si era nemmeno parlato di questo problema; il passo della lettera del papa Adriano Primo all’imperatore bizantino che trattava questo problema venne semplicemente tagliato nella traduzione greca che venne letta al Concilio.
Inoltre erano stati anche soppressi i passi in cui il papa si riservava il diritto di censurare l’anti canonica elezione del patriarca Tarasio e protestava contro il titolo di “patriarca ecumenico” di cui Tarasio si fregiava; e soprattutto i passi della lettera papale in cui si parlava del diritto al primato di Roma o anche semplicemente del primato di San Pietro.
Il papato era di fatto eliminato dall’Oriente, come l’Impero bizantino era estromesso dall’Occidente.
Un’alleanza con Costantinopoli non poteva dare più alcun vantaggio alla Chiesa romana, nonostante che ora sembrasse ricostituita l’unità sui più brucianti problemi religiosi del tempo.
Invece un’alleanza con il grande vincitore dei longobardi offriva grandi prospettive, nonostante che un accordo con il re dei franchi sul problema del culto delle immagini apparisse difficoltoso e richiedesse molte concessioni.
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Per quanto l’incoronazione imperiale in San Pietro fosse opera del papa, e non del re, dopo che questo passo denso di enormi conseguenze era stato compiuto, Carlo dovette far fronte ai problemi che ne sorgevano; doveva assicurarsi il riconoscimento di Bisanzio, senza di che il suo titolo imperiale sarebbe stato campato in aria.
Ovviamente non si poteva raggiungere lo scopo limitandosi ad affermare che il trono di Costantinopoli era vacante fintanto che fosse stato occupato da una donna, o che Bisanzio – come i Libri Carolini tentavano di dimostrare – era caduta nell’eresia.
Nell’802 ambasciatori di Carlo Magno e del papa vennero inviati a Costantinopoli, con il compito di portare all’imperatrice bizantina una domanda di matrimonio da parte di Carlo, per poter così “riunificare l’Oriente e l’Occidente”.
Ma, dopo il loro arrivo, una congiura di palazzo tolse il trono ad Irene e ritardò quindi la soluzione del problema.
L’azione partiva da alti funzionari e ufficiali dell’Impero e portò sul trono Niceforo, che fino allora era stato logothetes genikou.
Irene venne prima deportata nel isola di Prinkipos e poi a Lesbo, dove morì poco dopo.
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Nei confronti dell’Impero d’Occidente l’atteggiamento del governo bizantino mutò radicalmente.
Niceforo Primo non volle saperne delle pretese di Carlo Magno al titolo imperiale; non solo, ma giunse fino al punto di vietare al patriarca Niceforo l’abituale invio al papa dei synodika.
Prese cioè un atteggiamento irriducibilmente ostile non solo nei confronti del suo vero rivale, ma anche del papa che lo appoggiava.
Intanto la potenza di Carlo Magno aumentava irresistibilmente e si estendeva anche su possedimenti bizantini.
Ai tempi di Irene aveva già conquistato l’Istria e molte città della Dalmazia; nell’810 il giovane re Pipino prese anche Venezia.
Carlo possedeva ora un mezzo di pressione che non poteva mancare di avere effetto sull’indebolita Bisanzio.
Il governo di Michele Primo era pronto a riconoscere a Carlo Magno il titolo di imperatore in cambio della restituzione dei territori occupati: nell’812, ad Aquisgrana, Carlo venne salutato basileus dall’ambasciatore bizantino.
Ora esistevano due imperi non più soltanto de facto, ma anche de iure.
Na d’altra parte il re dei franchi era stato riconosciuto soltanto imperatore, non imperatore romano, e lo stesso Carlo ha del resto consapevolmente evitato di definirsi imperatore dei romani.
Questo titolo i bizantini lo riservavano solo a se stessi, sottolineando così la differenza tra l’imperatore occidentale e l’unico vero imperatore dei romani, che risiedeva a Costantinopoli.
Ma il legame con Roma è essenziale alla concezione medievale dell’Impero.
E come Bisanzio si era sempre considerata un impero romano, anche se questo concetto appare solo raramente nel titolo imperiale prima del Nono Secolo, così anche l’Impero occidentale era legato a Roma tramite il papato, anche se ciò trova espressione nel titolo imperiale solo nell’età degli Ottoni.
Quindi, con la formazione e il riconoscimento di un secondo impero, anche il diritto esclusivo dell’Impero bizantino all’eredità di Roma veniva posto in questione.
La disintegrazione dell’Impero carolingio e il nuovo rafforzamento dell’Impero bizantino offrì più tardi agli imperatori di Bisanzio la possibilità di considerare come non avvenuto il riconoscimento dell’Impero d’Occidente dell’812.
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Michele Secondo era ora padrone della situazione, ma Bisanzio era uscita indebolita dalle devastazioni della quasi triennale guerra civile.
Inoltre si era visto che lo Stato bizantino, dilaniato dalle controversie religiose, era anche minato da tensioni sociali.
Il califfo, che aveva appoggiato con tutti i mezzo la sollevazione di Tommaso, non poteva lanciare un vigoroso attacco contro Bisanzio, a causa delle difficoltà interne del suo Impero; ma da altri settori del mondo arabo gravi pericoli minacciavano l’Impero bizantino.
Pirati arabi provenienti dalla Spagna, si impadronirono nell’816 dell’Egitto e vi stabilirono temporaneamente il proprio dominio; e dieci anni dopo occuparono Creta.
Bisanzio veniva così a perdere una delle più importanti roccaforti strategiche nel Mediterraneo orientale.
Tutti i tentativi di Michele Secondo e dei suoi successori per riconquistare il possedimento perduto, furono vani: per quasi un secolo e mezzo gli arabi occuparono l’importante isola, che divenne la base da cui partivano per continue imprese piratesche con le quali terrorizzavano tutta la zona circostante.
Contemporaneamente Bisanzio subiva una grave sconfitta in Occidente.
Approfittando delle discordie tra i comandanti bizantini locali, nell’827 arabi africani sbarcarono in Sicilia.
Incursioni degli arabi sulla Sicilia erano frequenti a partire dal Secolo Settimo, ma ora aveva inizio una conquista sistematica dell’isola.
Il predominio dell’Impero bizantino nel Mediterraneo e in particolare anche nell’Adriatico ne era gravemente scosso.
Costantino Porfirogenito considerò il periodo di Michele Secondo l’epoca del più grave indebolimento dell’influenza bizantina sulla costa adriatica e sulle regioni slave nella parte occidentale della penisola balcanica.
L’aver trascurato la flotta dopo la caduta del califfato degli Omayyadi e della loro potenza navale, ebbe conseguenze disastrose.
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Sotto Teofilo vi fu l’ultima ondata iconoclastica.
Nell’837 il capo degli iconoclasti, Giovanni Grammatico, salì sul seggio patriarcale ed iniziò nuovamente una dura persecuzione dei veneratori di icone.
Come già ai tempi di Costantino Quinto, la lotta iconoclastica culminò nella lotta contro il monachesimo.
Una forma particolare di supplizio venne inflitta a due fratelli palestinesi, Teodoro e Teofane, ai quali vennero impressi versi iconoclastici sulla fronte con un ferro rovente, per cui vennero poi soprannominati graptoi.
Teofane era poeta, noto per i versi in lode delle sante icone; dopo la restaurazione dell’ortodossia divenne metropolita di Nicea.
Ma per quanto l’imperatore e il patriarca si sforzassero con tutti i mezzi di far rivivere il movimento iconoclastico, la loro impotenza si manifestava sempre più chiaramente.
La sua sfera di influenza si limitava praticamente alla capitale ed era solo la volontà dell’imperatore e dei suoi pochi fedeli collaboratori ad assicurare autorità a questa politica.
Alla morte di Teofilo (20 gennaio 842) l’iconoclastia crollò e così si concluse anche la grande crisi che si era espressa in questo movimento.
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Cap. 4. L’età d’oro dell’Impero bizantino, 843-1025
Come la lotta contro le invasioni persiana e araba fu il periodo decisivo per l’esistenza statuale dell’Impero bizantino, così la crisi iconoclastica lo fu per il suo sviluppo spirituale.
All’invasione militare dell’Oriente era seguita un’invasione spirituale che si riversò sull’Impero nella forma della controversia iconoclastica.
La sua sconfitta ebbe nello sviluppo spirituale dell’Impero bizantino un significato analogo a quello che ebbe la sconfitta militare nel suo sviluppo politico.
Il crollo del movimento iconoclasta significava la vittoria delle particolarità religiose e culturali greche su quelle asiatiche, personificate nell’iconoclastia.
Come Impero greco-cristiano, Bisanzio aveva ora anche dal punto di vista cultuale la sua ubicazione propria tra l’Oriente e l’Occidente.
Una nuova età si apriva per Bisanzio: un’età di grande risorgimento culturale, cui seguì ben presto anche un grande sviluppo politico.
Non fu la dinastia macedonica, bensì il movimentato regno dell’ultimo degli Amoriti, Michele Terzo, ad aprire la nuova età.
Barda, Fozio, Costantino, sono le tre grandi figure che annunciano l’inizio di una nuova era.
L’epoca della crisi iconoclastica fu caratterizzata da un sensibile restringimento dell’orizzonte politico.
E’ in questo periodo che ha luogo il più accentuato decadimento dell’ideale dell’impero universale e il crollo della potenza bizantina in Occidente.
La politica ecclesiastica degli imperatori iconoclasti e il loro scarso interesse per la parte occidentale dell’Impero accelerò la separazione tra Bisanzio e l’Occidente e provocò il processo che, attraverso la fondazione dello Stato della Chiesa, portò all’incoronazione imperiale di Carlo Magno.
Ma se nell’universalismo dello Stato bizantino si erano aperte grosse falle, ora l’Oriente da parte sua doveva sottrarsi all’universalismo della Chiesa romana, e già l’iconoclasta Costantino Quinto aveva compiuto il primo passo in questo senso quando sottopose la maggior parte della penisola balcanica e l’Italia meridionale alla giurisdizione del patriarcato di Costantinopoli.
Ma solo dopo il superamento della crisi iconoclastica il patriarcato di Costantinopoli poté contrapporsi al papato come un rivale sullo stesso piano e intraprendere la lotta contro Roma.
Così come l’Impero occidentale si innalza a spese dell’universalismo statale bizantino, così ora il patriarcato di Costantinopoli si innalza a spese dell’universalismo ecclesiastico romano.
La prima fase di questo processo, che si concluse a svantaggio di Bisanzio, ebbe luogo nel periodo della crisi; la seconda, che ristabilì su nuove basi l’equilibrio a favore di Bisanzio, venne introdotta dalla grande lotta di Fozio.
Pag. 200-201
Ma di fronte ad un compio molto più importante pose lui e suo fratello Metodio l’appello del principe moravo Rotislao, che mandò un’ambasceria a Costantinopoli chiedendo l’invio di missionari.
Il fatto che Rotislao si rivolgesse a Bisanzio si spiega con il timore dell’influenza del clero franco e con il desiderio di crearsi, appoggiandosi a Bisanzio, un contrappeso contro il pericolo di un accerchiamento franco-bulgaro.
A Bisanzio si apriva invece la possibilità di portare la propria influenza in un territorio nuovo, molto lontano, e di esercitare in questo modo una pressione sulla Bulgaria, situata tra i due paesi.
Una dimostrazione dell’accortezza della direzione politica ed ecclesiastica bizantine è il fatto che essa affidò l’importante missione ai fratelli di Tessalonica e fece predicare in territorio slavo la nuova fede in lingua slava.
Condividono il merito della conquista degli slavi alla fede cristiana Costantino e Metodio insieme con il patriarca Fozio e il cesare Barda.
La cristianizzazione degli slavi abitanti nell’Impero era stata compiuta dai bizantini già da molto tempo.
Ma solo ora aveva inizio il periodo di vasta attività missionaria nell’ampio mondo slavo oltre i confini dell’Impero.
Costantino creò anzitutto un alfabeto slavo (il cosiddetto alfabeto glagolitico) e procedette quindi alla traduzione della Sacra Scrittura in slavo (nel dialetto macedonico-slavo).
Anche le funzioni religiose vennero dai fratelli di Tessalonica celebrate in slavo.
Il successo della missione era così assicurato.
Più tardi Metodio – dopo la prematura morte di Costantino, che si estinse il 14 febbraio 869 in un monastero greco di Roma, sotto il nome di Cirillo – soccombette nella lotta contro il clero franco, giacché l’appoggio di Bisanzio non aveva in quella lontana regione l’efficacia sufficiente, mentre Roma, dopo averlo appoggiato all’inizio, lo abbandonò; i suoi discepoli vennero espulsi dal paese.
Ma ciò nonostante l’opera sua e del suo grande fratello radicò profondamente la cultura bizantina nelle regioni slave e produsse ricchi frutti.
Per gli slavi meridionali e orientali essa ebbe una importanza incancellabile.
La scrittura, agli inizi della loro letteratura e cultura nazionale questi popoli li debbono ai fratelli di Tessalonica, agli “apostoli degli slavi”.
Pag. 209
Il conflitto tra Roma e Costantinopoli giunse al culmine.
Oppositore di Roma, Fozio divenne non solo il campione dell’indipendenza della Chiesa bizantina, ma anche il campione degli interessi vitali dell’Impero bizantino.
Senza riserve il cesare Barda e l’imperatore Michele Terzo si schierarono dietro il grande patriarca.
L’imperatore inviò al papa una lettera che esprime con un orgoglio senza precedenti la coscienza dell’indipendenza e della superiorità di Bisanzio.
In forma ultimativa vi si chiedeva la revoca del giudizio papale contro Fozio e veniva respinta con asprezza tagliente la pretesa romana al primato.
Il patriarca andò ancora più in là: si eresse a giudice della Chiesa occidentale, accusandola di errori in problemi liturgici e disciplinari, e soprattutto attaccò la dottrina occidentale della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio (ex patre filioque).
Fozio, che il papa credeva di poter chiamare davanti a sé in qualità di imputato, accusava Roma di eresia, in nome dell’ortodossia.
Nell’867 un sinodo riunito a Costantinopoli sotto la presidenza dell’imperatore scomunicò papa Niccolò, condannò per eresia la dottrina romana della processione dello Spirito Santo e dichiarò illegali le intrusioni romane nelle questioni della Chiesa bizantina.
Venne mandata una circolare ai patriarchi orientali in cui si trattavano e si condannavano duramente le dottrine e gli usi eterodossi della Chiesa romana e, soprattutto, di nuovo, il Filioque.
Pag. 210-11
Particolare considerazione meritano quelle novellae di Leone Sesto in cui vengono revocati gli antichi diritti delle curie cittadine e del Senato.
D’altronde l’ordine curiale era già da tempo decaduto, così come l’autorità amministrativa e legislativa del Senato esisteva solo sulla carta.
Ciò non toglie importanza alla sua definitiva abolizione per decreto legale, perché in ognuna delle tre novellae essa viene esplicitamente motivata col fatto che ormai l’intera amministrazione dell’Impero è nelle mani del sovrano.
La legislazione di Leone Sesto rappresenta la conclusione di un importante processo storico, che riunisce tutto il potere dello Stato nelle mani dell’imperatore e affida tutte le questioni statali alla cura dell’apparato dei funzionari imperiali.
L’onnipotenza dell’imperatore e la burocratizzazione della vita dello Stato giungono sotto la dinastia macedone a pieno sviluppo.
Il Senato, composto dei più alti funzionari, conduce ora un’esistenza apparente e ha ormai perso, non solo le sue vecchie funzioni, ma anche quel significato che aveva nel Settimo e Ottavo Secolo.
Lo Stato si identifica con l’imperatore e il suo apparato militare e burocratico.
L’imperatore è eletto da Dio, e sta sotto la protezione della provvidenza divina.
Egli è il capo supremo di tutta l’amministrazione imperiale, capo supremo dell’esercito, giudice supremo e unico legislatore, protettore della Chiesa e custode della fede ortodossa.
Egli decide sulla guerra e sulla pace, la sua sentenza è definitiva e irrevocabile, le sue leggi sono considerate come ispirate da Dio.
D’altra parte egli si deve attenere al diritto vigente, ma può emanare nuove leggi o revocarne di vecchie.
Coem capo dello Stato, l’imperatore possiede praticamente un potere illimitato, ed è legato solo dai precetti della morale e della tradizione.
Pag. 220
L’organizzazione dei temi giunse ad una certa conclusione verso la fine del Secolo Nono.
In conseguenza della progressiva suddivisione dei grandi temi originari in unità più piccole e dell’introduzione dell’ordinamento dei temi in altre regioni, il numero dei temi fu molto accresciuto e contemporaneamente si ottenne una notevole semplificazione nell’amministrazione civile delle province.
Dal momento che i temi del Nono Secolo erano poco più grandi delle vecchie province, , il proconsolato dei temi si fuse con il governo delle province.
Nella seconda metà del Nono Secolo venne abolito anche l’ufficio di proconsole di tema e con ciò scomparve l’ultimo residuo dell’ordinamento dioclezianeo-costantiniano.
Alla testa dell’amministrazione civile i protonotarioi dei temi, che prima dirigevano la cancelleria proconsolare, sostituiscono gli anthypatoi.
Ne risultò che il predominio del potere militare dello stratego divenne ancora più evidente.
Allo stesso modo la varietà nella più antica organizzazione dei temi lascia il posto a un sistema compatto e strettamente unificato, poiché anche le diverse minori circoscrizioni militari – cleisure, arcontie, ducati, catapanati, drungariati - che si erano formate accanto alle unità propriamente dette dei temi, ricevono via via il rango di tema.
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La descrizione dettagliata di questa spedizione, contenuta nel Libro delle cerimonie di Costantino Settimo, menziona fra le forze bizantine anche settecento marinai russi, che ebbero per ricompensa un kentenarion aureo.
La partecipazione di russi ad una campagna militare bizantina è una conseguenza dei nuovi rapporti russo-bizantini.
Il principe russo Oleg, che si era stabilito a Kiev, e si era assicurata la “via dei variaghi ai greci”, era apparso nel 907 con una potente flotta davanti a Costantinopoli ed era riuscito a strappare al governo bizantino un trattato che garantiva la posizione giuridica dei mercanti russi che andavano a Bisanzio.
Questo trattato, che venne ufficialmente ratificato nel settembre del 922, segna l’inizio di regolari rapporti commerciali tra Bisanzio e il giovane regno russo.
Tra l’altro esso assicurò anche ai russi il diritto di partecipare alle campagne militari dell’Impero.
Pag. 229-30
Il fatto che l’espansione degli elementi economicamente più forti si rivolgesse soprattutto all’agricoltura e all’acquisto di beni dei contadini, si spiega anche con la situazione in cui si trovava allora l’economia bizantina.
Nella città il governo pose al libero gioco delle forze economiche limiti ancor più rigidi che nella campagna.
L’economia urbana, legata e strettamente controllata non lasciava alcun posto per un’iniziativa privata di grande estensione e per i capitali eccedenti l’acquisto di terre restava in pratica l’unico investimento possibile.
Il movimento di espansione della nobiltà latifondista si manifestò in due modi.
Da una parte avvenne attraverso l’assorbimento della piccola proprietà terriera nelle province bizantine, minando l’esistente ordinamento socio-economico in Bisanzio; dall’altra estese i confini dell’Impero riuscendo a strappare terre anche ai nemici dell’Impero.
Le conquiste bizantine in Oriente furono soprattutto opera dell’aristocrazia dell’Asia Minore.
Ma allo stesso tempo esse sono un effetto di un forte entusiasmo religioso che ispirò Bisanzio nella sua lotta contro gli infedeli.
Pag. 253
Ma il periodo del poderoso sviluppo della potenza dell’Impero bizantino fu anche il periodo del rinnovamento dell’Impero occidentale.
Si risvegliò la rivalità tra i due imperi, che ideologicamente aveva le sue basi nell’idea dell’unicità dell’Impero e nel fatto che l’uno e l’altro rivendicavano a sé l’eredità di Roma; e politicamente negli interessi delle due potenze che si scontravano nel sud d’Italia.
Ottone il Grande, che aveva ricevuto a Roma la corona imperiale un anno prima dell’ascesa al trono di Niceforo Foca, e che aveva conquistato quasi tutta l’Italia, inviò nel 658 un’ambasceria a Costantinopoli allo scopo di giungere ad un’amichevole intesa sul possesso di quella parte d’Italia che non era ancora caduta nelle sue mani.
Il suo ambasciatore, il vescovo Liutprando di Cremona, che era stato a Costantinopoli già ne 949, sotto Costantino Settimo, per incarico di Berengario Secondo, sottopose al governo bizantino il progetto di un’unione matrimoniale ra il figlio di Ottone Primo e una sorella del giovane imperatore Porfirogenito di Bisanzio, la cui dote avrebbero dovuto essere i possedimenti dell’Impero bizantino in Italia meridionale.
Questa proposta venne a Bisanzio accolta come uno scherno e le si rispose con scherno.
L’imperatore bizantino vedeva che con i recenti avvenimenti in Occidente gli interessi e il prestigio del suo impero erano danneggiati sotto vari punti di vista.
Il fatto che Ottone avesse preso la corona imperiale, si fosse eretto a padrone di Roma e della Chiesa romana, si fosse impadronito di quasi tutta l’Italia, si fosse alleato con i principi di Capua e Benevento, che erano vassalli dell’Impero bizantino, che dopo gli straordinari successi delle sue più recenti imprese in Oriente, era più che mai consapevole della propria potenza.
Il coraggioso messaggero di Ottone il Grande, che a Costantinopoli venne trattato quasi come un prigioniero, si dovette lasciar spiegare che il suo signore non era né imperatore né romano, ma un semplice re barbaro e che di un matrimonio tra un sovrano barbaro e una principessa imperiale porfirogenita non era nemmeno il caso di parlare.
Pag. 254-55
Analogamente a Niceforo Foca, Zimisce, apparteneva all’alta aristocrazia.
Da parte paterna era imparentato con al famiglia dei Curcuas, da parte materna con la stessa famiglia dei Foca, e la sua prima moglie era una Sclerina.
Al contrario diversamente dai suoi predecessori egli non fu accondiscendente nella politica agraria alla nobiltà.
Si conservano due documenti che indicano come Zimisce ordinò ai funzionari dei temi di fare inchiesta nelle proprietà dei chiostri e dei latifondisti e, se ci trovavano antichi stratioti o contadini dipendenti dello Stato, immediatamente li conducessero di nuovo sotto l’amministrazione statale.
Da questo esempio si può chiaramente capire che l’amministrazione centrale bizantina nella lotta contro lo sviluppo del latifondo difendeva i suoi particolari interessi e diritti.
Per non lasciarsi scappare di mano i contadini a sé obbligati e i soldati, il governo imperiale organizzò severe misure di polizia, permise razzie sui beni dei potenti e rispedì alle loro originarie residenze con la forza quegli stratioti e contadini statali che non avessero preso domicilio in quelle terre.
Così mutò facilmente gli antichi piccoli proprietari indipendenti in paroikoi dello Stato, in quanto non solo non concesse loro il diritto della libera disposizione sui loro fondi, ma tolse anche la libertà di domicilio.
Pag. 257
Sebbene i diritti imperiali del rappresentante legittimo della dinastia macedone, come già noto sotto Niceforo Foza, fossero rimasti incontestati anche sotto Giovanni Zimisce, l’idea che il trono spettasse proprio al Porfirogenito, si era andata progressivamente spegnendo nella coscienza dei magnati bizantini.
Ci si era abituati a veder cadere il potere nelle mani di un generale appartenente alle famiglie magnatizie.
Così dopo la morte di Giovanni Zimisce, suo cognato Barda Sclero si fece avanti nella speranza di occupare il posto vacante di co-imperatore.
Sembrava che alla dinastia imperiale macedone fosse riservato il destino di essere vittima, come già i merovingi, di maggiordomi più potenti di loro, oppure, come il califfo di Bagdad rispetto a un sultanato militare strapotente, di continuare a condurre nell’ombra un’esistenza meramente decorativa.
Solo per la straordinaria energia del giovane imperatore Basilio Secondo la sua dinastia riuscì a sfuggire a questo destino.
Pag. 260
Ufficialmente il regno autocratico di Basilio Secondo inizia a partire dal 976 ma il suo regno indipendente cominciò solo dopo la caduta del grande eunuco nel 985.
Quanto assoluta fosse stata l’onnipotenza del parakoimomenos, e quanto forte e resistente sia stato il risentimento dell’imperatore per essere stato tenuto in disparte, si manifestò nel fatto che egli si considerò autorizzato a dichiarare prive di validità le leggi promulgate prima dell’allontanamento del suo prozio, a meno che non contenessero uan nota di conferma retrospettiva scritta di proprio pugno: giacché “nel periodo che va dall’inizio del nostro regno autocratico alla deposizione del parakoimomenos Basilio… molte cose accaddero non secondo il nostro desideri, ma la sua volontà disponeva e decideva tutto”.
Pag. 262
La cristianizzazione dello Stato di Kiev non rappresentava soltanto l’inizio di una nuova era per lo sviluppo della Russia, ma anche uno straordinario successo di Bisanzio.
La sfera di influenza bizantina si allargò così in un modo insperato, e lo Stato slavo più grande e dalle più grandi prospettive per il futuro si poneva sotto la direzione spirituale di Costantinopoli.
La nuova Chiesa russa era subordinata al patriarcato di Costantinopoli e venne diretta all’inizio da metropoliti greci inviati da Bisanzio.
Lo sviluppo culturale della Russia si sarebbe svolto per lungo tempo sotto una forte influenza bizantina.
Pag. 264-65
Prima della sua morte l’instancabile imperatore rivolse la sua attenzione all’Occidente.
La posizione bizantina in Italia meridionale, che sembrava minacciata a partire dai tempi di Ottone il Grande dall’avanzata dell’Impero germanico, si era venuta a trovare rafforzata in seguito allo sfortunato esito della guerra di Ottone Secondo contro gli arabi.
L’idea di una renovatio romana sotto il giovane imperatore Ottone Terzo (il figlio della bizantina Teofano) rappresentava un approfondimento dell’influenza bizantina all’interno dell’Impero occidentale.
Con l’unificazione di tutti i possedimenti bizantini in un catepanato, la posizione bizantina veniva ad avere una più forte base anche dal punto di vista organizzativo.
L’energico catepano Basilio Bioanne aveva conseguito varie vittorie sui nemici dell’Impero bizantino.
Basilio Secondo aveva l’intenzione di portare avanti questi successi e preparò una grande spedizione contro gli arabi in Sicilia.
Ma il 15 dicembre 1025 morì, lasciando un impero che dalle montagne dell’Armenia si estendeva fino all’Adriatico e dall’Eufrate fino al Danubio.
Un grande impero slavo era stato ad esso incorporato e un altro, ancor più grande, era posto sotto la sua influenza spirituale.
Ancora nel Tredicesimo Secolo uno scrittore chiamerà Eraclio e Basilio Secondo i più grandi imperatori di Bisanzio.
In effetti questi nomi, i più grandi della storia bizantina, simbolizzano l’età eroica di Bisanzio, che l’uno dei due inaugurò e l’altro concluse.
Pag. 271
Cap. 5. Il dominio dell’aristocrazia burocratica della capitale, 1025-81
La morte di Basilio Secondo segna una svolta nella storia bizantina.
Essa fu seguita da un’epoca in cui, mentre nella politica estera l’Impero vive del prestigio acquistato nel periodo precedente, all’interno lascia via libera al processo di dissolvimento.
Dopo le grandi gesta degli ultimi tre imperatori Bisanzio sembrava invincibile, ed ebbe inizio un periodo di relativa pace quale l’Impero non aveva quasi mai vissuto.
Questo periodo di pace non fu però per Bisanzio un’epoca di raccoglimento e consolidamento, bensì un’epoca di rilassamento interno.
Ha inizio la dissoluzione del sistema che Eraclio aveva creato e che Basilio Secondo aveva per ultimo mantenuto.
I deboli successori di Basilio Secondo non avevano la capacità di portare avanti la lotta contro i signori feudali.
Lo sgretolamento delle proprietà dei contadini e dei soldati procede a passi da gigante e porta alla decadenza della forza militare e del sistema tributario dello Stato bizantino.
La struttura economica e sociale dell’Impero subisce una trasformazione radicale.
Il potere imperiale di Bisanzio rinuncia non solo alla lotta contro l’aristocrazia feudale, ma diventa esso stesso il rappresentante di questa classe sempre più forte.
L’aristocrazia fondiaria ha vinto la partita e ci si domanda solo quale parte di questo settore conquisterà il predominio: l’aristocrazia burocratica o quella militare.
La storia bizantina dei prossimi decenni, che a prima vista non sembra altro che un susseguirsi di intrighi di palazzo, è determinata dalla lotta tra le potenze concorrenti della nobiltà civile della capitale e dalla nobiltà militare della provincia.
All’inizio è la seconda (che in sé era più forte, ma che era stata indebolita da Basilio Secondo) ad avere la peggio e l’aristocrazia civile della capitale prende il sopravvento.
Il suo dominio caratterizza l’inizio della nuova epoca.
I numerosi intrighi di palazzo non sono che una manifestazione secondaria di questo regime; i suoi effetti più importanti sono da una parte la fioritura culturale della capitale, dall’altra la decadenza della potenza militare dell’Impero.
Pag. 294
Nell’ultimo anno del debole governo di Costantino Nono ha luogo un evento di rilevanza mondiale: lo scisma tra le Chiese.
Dopo gli avvenimenti dei secoli precedenti lo scisma religioso definitivo tra Roma e Costantinopoli era soltanto una questione di tempo.
L’Oriente e l’Occidente si erano sviluppati secondo direttrici troppo divergenti, troppo profonde erano la separazione tra le due metropoli e i contrasti che si accumulavano nei campi più diversi.
La finzione di un’unità spirituale e religiosa non poteva quindi durare molto tempo.
Per la conservazione dell’universalismo della Chiesa mancavano tutte le condizioni: da secoli il mondo cristiano comprendeva nel suo seno forze che tendevano in direzioni opposte sia sul terreno politico che su quello culturale.
Non fu, contrariamente a quanto si è spesso pensato, il “cesaropapismo” bizantino a provocare la rottura.
Al contrario, a Bisanzio era proprio l’Impero il fattore più forte in favore dell’unità.
Per salvare l’universalismo statale bizantino, per potere continuare a sostenere le proprie rivendicazioni sull’Italia, gli imperatori bizantini – si pensi alla politica di Basilio Primo e dei suoi successori – hanno sostenuto, contro la loro propria Chiesa, l’universalismo ecclesiastico romano.
Ma così come l’indipendenza politica dell’Occidente aveva tolto le basi all’universalismo statuale bizantino, così la conquista del mondo slavo da parte della Chiesa di Costantinopoli aveva in Oriente sottratto il terreno all’universalismo ecclesiastico romano.
All’annessione ecclesiastica degli slavi del sud si era aggiunta l’annessione della Russia al patriarcato di Costantinopoli, e non è certo un caso che poco dopo questo avvenimento avesse luogo a Bisanzio un’acutizzazione della tendenza antiromana.
La Chiesa bizantina, che si appoggiava sul forte retroterra slavo, non poteva più piegarsi davanti alla supremazia romana.
Già fin dai tempi di Basilio Secondo, non si potevano più conservare le relazioni amichevoli con Roma, che erano state tradizionali nella politica della dinastia macedone; sotto il patriarca Sergio (999-1019) il nome del papa non compare nei dittici.
Nel 1024 il debole papato accettò un compromesso pacifico, in base al quale la Chiesa di Costantinopoli avrebbe dovuto essere riconosciuta come “universale nella sua sfera”.
Ma questa soluzione di compromesso venne vanificata dal nuovo spirito che emanava dal movimento di riforma di Cluny.
Si giunse così alla divisione delle sfere d’influenza verso cui tendeva lo stesso sviluppo del processo storico, solo che essa avvenne attraverso uan rottura violenta.
Pag. 305-6
Sembrava che l’imperatore avesse vinto. Ma ben presto si vide che il patriarca morto era per lui ancor più pericoloso, come martire che come avversario vivo.
L’eccitazione del popolo, che non si era interrotta da quando il suo pastore era stato esiliato, raggiunse il culmine dopo la sua morte.
All’opposizione dell’aristocrazia burocratica si aggiunse l’inimicizia della Chiesa e il risentimento del popolo.
Le difficoltà diventarono sempre maggiori e alla fine divennero insostenibili per l’imperatore.
Così come l’alleanza della Chiesa con l’aristocrazia militare aveva due anni prima determinato la caduta militare di Michele Sesto, così ora la sua alleanza con l’opposizione dell’aristocrazia burocratica condusse alla caduta di Isacco Comneno.
Nel dicembre del 1059, in un momento di scoraggiamento, mentre era ammalato, seguendo gli insistenti consigli di Psello, depose la porpora e si ritirò a vita monacale nel monastero dello Studita.
Pag. 310
Molto più carica di conseguenze questa invasione delle popolazioni turche del Settentrione fu per la storia dell’Impero l’avanzata dei turchi Selgiuchidi in Oriente.
I residui della potenza araba in Asia vennero eliminati dai Selgiuchidi con una rapidità che fa impallidire al confronto le glorie delle antiche conquista bizantine.
Sottomisero il territorio persiano, attraversarono la Mesopotamia e si impadronirono si Bagdad, la capitale del califfato, cui ora non restava che una supremazia religiosa.
Il califfato cadde sotto il protettorato del potente sultanato militare, che d’ora in avanti domina politicamente il mondo musulmano in Asia.
Ben presto tutto il Vicino Oriente fino ai confini dell’Impero bizantino e del califfato fatimida d’Egitto era caduto nelle mani dei Selgiuchidi, che ora si dirigevano verso Bisanzio.
Come la conquista della Bulgaria aveva eliminato lo Stato cuscinetto tra l’Impero e i popoli nomadi del Settentrione, così con l’annessione dell’Armenia sotto Costantino Nono si era offerto ai Selgiuchidi una nuova base di attacco.
Ma la debolezza interna dell’Impero e il collasso della sua potenza militare aprì loro ben presto anche la via per penetrar nel cuore del territorio dell’Impero.
Sotto Alp Arslan, il secondo dei sultani selgiuchidi, i turchi percorsero l’Armenia e occuparono Ani (1065), saccheggiarono la Cilicia, irruppero in Asia Minore ed espugnarono cesarea (1067).
Con questo la politica dei contemporanei governanti bizantini si era condannata da sé.
Pag. 312
Il crollo avvenne contemporaneamente ai due estremi del mondo bizantino.
Il destino volle che nello stesso anno 1071 in cui ebbe luogo la catastrofe di Mantzikert, Bari cadde nelle mani di Roberto il Guiscardo.
La conquista normanna dei possedimenti bizantini in Italia si era così completata e un grande pericolo incombeva anche da questa parte.
In questa situazione il governo di Michele Settimo si rivolse a Gregorio Settimo alla ricerca di aiuto, favorendo così l’aspirazione del grande papa all’unione ecclesiastica sulla base della supremazia romana.
Pag. 314
Cap. 6. Il dominio dell’aristocrazia militare, 1081-1204
Nel triste periodo che va dalla morte di Basilio Secondo all’ascesa al trono di Alessio Comneno, la politica estera dell’Impero registrava il crollo completo della potenza bizantina in Asia, la perdita definitiva dei possedimenti italiani e un notevole indebolimento dell’autorità bizantina sulla penisola iberica.
La situazione interna era caratterizzata da una grave paralisi del potere centrale, da serie difficoltà economiche, dalla svalutazione della moneta e dalla disgregazione del sistema economico-sociale dell’Impero bizantino del periodo precedente.
Alessio Primo (1081-1118) fu costretto a porre su nuove basi la sua opera restauratrice e nuovi elementi divennero i pilastri dell’edificio statuale da lui costruito.
Ma la sua opera di restaurazione poté avere un successo soltanto apparente e provvisorio.
Già nel primo Medioevo, al tempo di Eraclio e di Leone Terzo, era sembrato che Bisanzio fosse sull’orlo del crollo.
Ma allora l’Impero possedeva forze interne inutilizzate, che resero possibile una lunga politica di ricostruzione, e attraverso tutte le tempeste esso riuscì a conservare l’Asia Minore, il vero cuore dell’Impero.
Così esso riuscì non solo a risorgere, ma anche a riconquistare gradualmente l’egemonia - sia per terra che sul mare – in tutto il bacino orientale del Mediterraneo.
Ora invece l’Impero era internamente esausto: il sistema su cui nei secoli precedenti si era basata la sua forza, era crollato e la base principale della sua potenza, l’Asia Minore, era stata abbandonata quasi senza resistenza proprio per questa ragione.
L’opera restauratrice dei Comneni si limitò qui ai territori costieri, mentre il dominio sul mare venne definitivamente perso da Bisanzio proprio in questo periodo.
Sia dal punto di vista strategico, sia da quello commerciale l’egemonia passò alle repubbliche marinare italiane; questo fatto rappresenta la svolta storicamente più importante di questo periodo e rivela la superiorità delle forze che si sviluppavano nell’Occidente, che avrebbero provocato la catastrofe bizantina del 1204.
La posizione di grande potenza che Bisanzio volle assumere sotto i Comneni mancava di solidità interna, e per questo i sia pur imponenti risultati dell’accorta politica dei Comneni mancarono di un effetto durevole.
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Qui apparve con tutta chiarezza il fattore che d’ora innanzi determinerà la politica militare e diplomatica di Venezia.
La repubblica marinara doveva assicurarsi a qualsiasi prezzo la libertà di movimento sull’Adriatico e, per questo, evitare ad ogni costo l’insediamento di una potenza su ambedue le coste del mare.
Per tale ragione in quel momento Roberto il Guiscardo era il nemico e Bisanzio la naturale alleata di Venezia.
Ma per Bisanzio l’appoggio della potenza marittima di Venezia era particolarmente importante, giacché la flotta bizantina si era indebolita ancor più dell’esercito di terra e sul mare l’Impero appariva praticamente impotente.
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Infatti, durante gli anni difficili della minaccia dei Selgiuchidi e dei Peceneghi come pure in altre occasioni, l’imperatore bizantino aveva cercato di reclutare truppe ausiliarie in Occidente: tra l’altro sembra che egli abbia allora scritto al conte Roberto di Fiandra, che gli aveva fatto visita alla fine del 1089 o all’inizio del 1090 in occasione di un pellegrinaggio e gli aveva prestato giuramento di fedeltà e la promessa id inviare cinquecento cavalieri fiamminghi.
Allo stesso scopo serviva in fondo anche la sua richiesta di aiuto a Roma e le trattative con Urbano Secondo per la riunificazione ecclesiastica.
Non desiderava né si attendeva la svolta che presero gli avvenimenti.
Vide avvicinarsi i crociati in un momento in cui la situazione del suo impero era migliorata in modo decisivo e in cui lo stesso avrebbe potuto intraprendere una crociata.
La sua posizione di protettore della cristianità orientale veniva usurpata dai crociati, il suo impero, che dopo quindici anni di lunga e spossante guerra difensiva era riuscito a liberare dai pericoli più urgenti, veniva ricacciato in nuove e impreviste difficoltà.
Nessuno poteva ancora prevedere che alla lunga la guerra santa dell’Occidente contro gli infedeli si sarebbe convertita in una guerra a morte contro la scismatica Bisanzio, ma fin dall’inizio i fratelli occidentali vennero ricevuti con la più profonda diffidenza.
Già allora si credeva spesso ad una nuova invasione straniera e la comparsa dei crociati sembrò giustificare questa interpretazione.
Il loro arrivo venne preannunciato dal cosiddetto eremita Pietro d’Amiens.
Lo seguiva una torma di gente raccogliticcia e già il loro passaggio per l’Ungheria e le regioni balcaniche queste orde indisciplinate e affamate si erano abbandonate a tali saccheggi che fu necessario più di una volta combatterli a mano armata.
Il Primo Agosto giunsero a Costantinopoli, dove proseguirono i loro saccheggi, per cui l’imperatore li fece trasportare al di là del Bosforo.
Ma in Asia Minore queste orde male armate vennero sconfitte dai turchi e solo una piccola parte riuscì a fuggire a Costantinopoli sulle navi che l’imperatore bizantino aveva posto a loro disposizione.
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Dopo una serie di guerre durata quasi quattro decenni, Alessio Comneno era riuscito a ristabilire in misura notevole la potenza dell’Impero bizantino.
In ogni sua fase questa lotta è una testimonianza della grandezza politica e dell’incomparabile arte diplomatica dei Comneni.
Contro Roberto il Guiscardo aveva saputo servirsi di Venezia, contro Tsacha degli emiri rivali; aveva sconfitto i Pecenighi con l’aiuto dei Cumani, si era servito dei crociati contro i turchi e dei turchi contro i crociati.
Ma oltre a questa accorta utilizzazione di forze straniere, sapeva anche utilizzare in misura maggiore le forze proprie.
Di guerra in guerra e di anno in anno si assiste ad un aumento della forza militare bizantina.
Una potenza marittima bizantina ai tempi della guerra contro Roberto il Guiscardo non esisteva nemmeno; invece nella guerra contro Tsacha e soprattutto in quella contro Boemondo prese parte attiva una flotta bizantina, che conseguì notevoli successi.
Le sconfitte della prima fase vennero compensate dalle vittoriose campagne contro Cumani e Selgiuchidi e il rafforzamento dell’armata bizantini si vede con tutta chiarezza se si confrontano i due scontri con i normanni sulla costa orientale dell’Adriatico.
Alessio Primo non solo allargò i confini, ma rafforzò l’Impero anche internamente e restaurò la sua forza militare.
Ma d’altra parte il sistema statale che costruì era del tutto diverso dal rigido regime statale dei periodo bizantino di mezzo.
I preoccupanti fenomeni apparsi nel Secolo Undicesimo, come l’appalto dell’esazione dei tributi, la concessione di immunità a proprietari terrieri laici ed ecclesiastici, la svalutazione della moneta, continuano a sussistere e acquistano perfino più vaste proporzioni.
Un nuovo fattore che vi si aggiunge è la penetrazione delle repubbliche marinare italiane nel commercio bizantino: a partire dal 1082 Venezia diventa onnipotente nelle acque bizantine, e con un trattato dell’ottobre 1111 Alessio Primo concesse importanti privilegi commerciali anche a Pisa.
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La decadenza dell’esercito e la grave mancanza di denaro sono i due momenti che caratterizzano la situazione interna dell’Impero bizantino a partire dalla metà del Secolo Undicesimo e dai quali è condizionata in primo luogo anche la politica interna di Alessio Primo.
La svalutazione della moneta, che era iniziata alla metà dell’Undicesimo Secolo, si aggravò notevolmente sotto Alessio Comneno, sicché, accanto ai vecchi nomisma d’oro di valore pieno, circolavano nuove monete di lega inferiore e di vario valore.
Questa situazione provocò naturalmente una grande confusione nella vita economica, ma allo stesso tempo diede anche certi vantaggi al fisco, che emetteva denaro di basso conio, ma pretendeva che i tributi venissero pagati in nomisma di pieno valore.
Ma una tale situazione non poteva durare a lungo e ben presto lo Stato fu costretto ad accettare anche monete di basso conio.
All’inizio il valore di scambio delle monete fu soggetto a straordinarie oscillazioni e gli appaltatori dell’esazione dei tributi lo calcolavano secondo i loro interessi, arricchendosi così nel modo più scandaloso; ma poi l’imperatore stabilì che un nomisma venisse scambiato con quattro milaresia, ammettendo così ufficialmente che ormai la moneta aurea bizantina non possedeva più che la terza parte del suo valore originario.
Ma alle tasse principali vennero aggiunte un gran numero di tasse supplementari, chiamate dikeraton, exafollon, synetheia e elatikon, e che, tutte insieme, corrispondevano a circa il 23% dell’importo delle tasse principali.
Nello stabilire la tassa principale, si attribuiva alla moneta aurea un terzo del suo valore originario, ma per quanto riguarda le tasse supplementari, essa veniva calcolata all’inizio secondo il vecchio rapporto di scambio.
Se coloro che pagavano le tasse protestavano, l’imperatore adottava uan soluzione intermedia e autorizzava il dimezzamento delle tasse supplementari.
Questo metodo permise di aumentare del 50% l’importo delle tasse supplementari, ma in pratica il guadagno del fisco era ancora più grande, giacché queste tasse venivano calcolate sulla base di un ammontare fisso delle tasse principali e a causa della svalutazione della moneta aurea l’importo nominale sulle tasse era proporzionalmente aumentato, con la conseguente imposizione del pagamento delle tasse supplementari anche ai ceti più poveri che prima ne erano esentati.
L’imperatore poté così trarre accortamente un notevole vantaggio dalla svalutazione della moneta.
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Non solo l’Impero stesso, ma anche l’autorità dell’imperatore si rafforzò sotto il regno di Alessio Comneno.
Ma per la sua struttura l’Impero si differenzia notevolmente dallo Stato rigidamente centralizzato del periodo bizantino di mezzo.
L’età dei Comneni portò ad un approfondimento del processo di feudalizzazione, e le forze feudali delle province, contro le quali avevano lottato con la massima energia gli imperatori del Secolo Decimo, divennero i veri pilastri della nuova struttura statale.
Alessio diede la preminenza a quei potenti fattori sociali che si erano affermati e avevano continuato a sussistere nonostante l’opposizione del potere centrale dell’età bizantina di mezzo e basò su di loro la costruzione del sistema statale e militare.
In questo sta il segreto del suo successo, ma in questo stanno anche i suoi limiti.
Bisanzio si era definitivamente privata delle sue antiche solide fondamenta, la sua forza militare, economica e finanziaria non era più quella di una volta.
E’ questo che bisogna tener presente per comprendere perché lo splendore dell’epoca dei Comneni non durò a lungo e perché alla fine di questa epoca abbiamo il crollo dello Stato bizantino.
All’approfondimento del processo di feudalizzazione contribuì anche il contatto con l’Occidente.
Il destino volle che Bisanzio entrasse in più stretto contatto con il mondo occidentale quando la comunità ecclesiastica – e in questo periodo comunità ecclesiastica significa comunità spirituale in generale – si era già scissa.
Odio e disprezzo erano i sentimenti che i Bizantini e gli Occidentali provavano gli uni per gli altri, e con la più stretta conoscenza reciproca questi sentimenti non fecero che approfondirsi.
Ciò nonostante a partire da questo periodo l’influenza dell’Occidente su Bisanzio comincia a farsi sentire in diversi modi, sia sul terreno culturale che su quello statale.
La feudalizzazione dello Stato bizantino fu certamente un portato dello sviluppo interno dell’Impero.
Tuttavia non poteva restare senza conseguenze sullo sviluppo ulteriore il fatto che in Asia Minore si era formata tutta una serie di regni latini, in cui il feudalesimo trovava la sua forma più tipica.
Il legame stabilitosi tra i principi crociati e l’imperatore Alessio Primo, modellato sugli esempi occidentali, introdusse un nuovo principio nel mondo politico bizantino.
Ben presto questo rapporto di vassallaggio venne applicato anche nei rapporti con altri principi della sfera d’influenza bizantina e divenne così un elemento permanente statale tardo-bizantino.
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Il piano di una spedizione bizantino-tedesca in Italia fallì per le fortunate manovre diplomatiche di Ruggero Secondo [ma si può parlare di “tedeschi” per quest’epoca?].
Egli concluse un’alleanza con il duce Guelfo e lo appoggiò nella lotta contro il dominio degli Staufen.
Corrado dovette quindi affrettarsi a tornare in Germania, dove per tutto il periodo successivo verrà trattenuto dalle lotte interne.
Contro l’imperatore bizantino Ruggero appoggiò gli ungheresi e i serbi e già nel 1449 Manuele dovette far fronte ad una ribellione dello zupan di Rascia, cui seguì uan guerra contro l’Ungheria, che aprì la lunga serie delle lotte ungaro-bizantine.
Un alleato naturale di Ruggero Secondo era inoltre il re di Francia Luigi Settimo che, pieno di risentimento contro l’imperatore bizantino, preparava una nuova crociata.
Questo piano trovò l’appoggio sia di Bernardo di Chiaravalle che di papa Eugenio Secondo, che cercava di far recedere il re tedesco dall’alleanza con la scismatica Bisanzio.
Si formò così uan forte coalizione antibizantina sotto la direzione di Ruggero Secondo.
Ma il piano della crociata – che questa volta non sarebbe stata che un’aggressione franco-normanna contro Bisanzio – fallì per l’opposizione dei cavalieri francesi, e Corrado restò fedele al suo alleato.
Gli Stati europei erano divisi in due blocchi: da una parte erano Bisanzio, la Germania e Venezia; dall’altra i normanni, i guelfi, al Francia, l’Ungheria e la Serbia e, sullo sfondo, il papato.
Era iniziata la formazione di un vasto sistema di alleanze tra gli Stati europei, che tuttavia nel successivo sviluppo degli avvenimenti sarebbe stato soggetto a nuovi raggruppamenti e avrebbe portato altre potenze nel proprio ambito.
L’inimicizia tra Bisanzio e l’Ungheria ebbe le sue ripercussioni perfino nella lontana Russia: le due potenze intervennero nella lotta tra i principati russi e mentre l’Ungheria si alleava con Izjaslav di Kiev, Bisanzio appoggiava i principi Jurii Dolgorukij di Suzdal’ e Vladimirko di Galic.
Nella direzione opposta la longa manus di Manuele giungeva fino in Inghilterra e negli anni Settanta egli ebbe un intenso carteggio con il re Enrico Secondo.
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Come l’attacco dei bizantini ad Ancona aveva posto fine alla cooperazione con Venezia contro i normanni in Italia, così l’annessione della Dalmazia pose fine anche alla comunione di interessi bizantino-veneziana nei confronti dell’Ungheria.
D’altra parte la posizione privilegiata che i mercanti veneziani avevano nell’Impero rappresentava un onere insostenibile per il commercio bizantino.
Manuele cercava di rafforzare il legame con le altre città marinare italiane e nel 1169 concluse un’alleanza con Genova e nel 1170 con Pisa.
I rapporti con Venezia si fecero quindi sempre più tesi e nel 1171 scoppiò un aspro conflitto.
Il 12 marzo, in un solo giorno – e questo mostra l’accurata preparazione di questa misura e la forza dell’apparato di governo bizantino -, tutti i veneziani, in tutto l’Impero, vennero arrestati, e i loro beni, le loro navi, e le loro merci confiscate.
La risposta di Venezia non si fece attendere a lungo: una forte flotta attaccò la costa bizantina e saccheggiò le isole di Chio e Lesbo.
Dopo ciò si discusse per lungo tempo, ma i negoziati sembravano non dover giungere a fine.
Per ben dieci anni i rapporti tra Bisanzio e Venezia rimasero interrotti.
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L’esercito assorbiva tutte le forze dell’Impero.
La popolazione veniva ridotta in miseria dagli intollerabili gravami.
Le richieste tributarie dello Stato crebbero, e gli abituali soprusi degli esattori, tra i quali ora c’erano – esasperando il risentimento dei contribuenti – stranieri, portarono al colmo la misura della loro miseria.
Perfino nelle città molti vendevano la loro libertà per passare al servizio e sotto la tutela di un gran signore: fenomeno che anche in altre situazioni non era raro a Bisanzio.
Manuele si oppose a questa pratica con una legge che restituiva la libertà a coloro che, nati liberi, si erano venduti come schiavi e cioè pare che l’imperatore li avesse riscattati – almeno nella capitale – con denaro dello Stato.
Ma era in tutto l’insieme dello sviluppo, nella crescita delle grandi proprietà fondiarie da una parte e dell’immiserimento e indebitamento delle classi inferiori dall’altra, che aveva le sue radici il fenomeno della perdita della libertà di settori sempre più ampi che, se non diventavano schiavi, diventavano almeno servi.
Ma il processo di feudalizzazione che avanzava vittoriosamente, portò alla fine all’indebolimento dell’organizzazione statale bizantina e ruppe la capacità di resistenza della terra.
Bisanzio era ancora capace occasionalmente di raggiungere grandi vittorie, a condizione di applicarvi tutte le proprie forze.
Ma gli mancava la forza di sopportare i contraccolpi e le sconfitte.
All’epoca dello splendore apparente sotto Manuele seguì ben presto il crollo interno dello Stato bizantino.
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L’Impero occidentale si era disgregato, l’Italia si era sottratta al dominio tedesco e in Germania a Filippo di Svevia, fratello di Enrico, si era contrapposto un altro pretendente alla corona reale nella persona di Ottone di Brunswick.
L’egemonia dell’imperatore tedesco venne sostituita da quella del grande papa Innocenzo Terzo: la conseguenza di questo fatto fu che nella politica orientale dell’Occidente tornò in primo piano l’idea della crociata.
Secondo il progetto del papa, Bisanzio non avrebbe dovuto essere abbattuta con la forza delle armi: avrebbe dovuto invece essere sottoposta al seggio di San Pietro attraverso l’unione ecclesiastica e partecipare con la cristianità occidentale alla crociata.
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Molte teorie sono state costruite per tentare di spiegare la diversione contro Costantinopoli della quarta crociata; ma in realtà la spiegazione è semplice: la diversione è il risultato quasi inevitabile degli avvenimenti precedenti.
A partire dallo scisma ecclesiastico e soprattutto dopo l’inizio delle crociate, in Occidente era andata costantemente crescendo l’avversione nei confronti di Bisanzio.
La politica aggressiva di Manuele nei confronti dell’Occidente e il provocante atteggiamento antilatino di Andronico contribuirono a che questa avversione diventasse ostilità aperta.
Di fronte all’evidente debolezza e impotenza dell’Impero bizantino sotto gli Angeli, in Occidente l’ostilità nei confronti di Bisanzio assume la forma di un piano di conquista.
L’idea della conquista di Costantinopoli era una vecchia eredità normanna, e già durante la seconda crociata veniva discussa nell’entourage di Luisi Settimo; durante la crociata di Federico Barbarossa la sua realizzazione sembrò imminente; l’erede di Barbarossa e del re normanno, Enrico Sesto, la pose al centro della sua politica.
Ed ora che Venezia gettava sul piatto della bilancia i suoi interessi commerciali e politici, l’idea divenne realtà.
La progressiva secolarizzazione dell’idea di crociata giungeva alla sua conclusione logica: la crociata diventava uno strumento di conquista e si rivolgeva contro l’Impero cristiano d’oriente.
Uan combinazione di circostanze facilitò questo processo e contribuì al fatto che i crociati si mettessero al servizio degli interessi veneziani.
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Dopo la presa di Galata venne infranta la catena che sbarrava l’ingresso del Corno d’Oro, le navi dei crociati entrarono nel porto e allo stesso tempo cominciava l’assedio delle mura della città dalla terraferma.
Nonostante la resistenza disperata opposta dalla guarnigione bizantina, e soprattutto dalla guardia variaga, il 17 luglio del 1203 Costantinopoli cadde nelle mani dei crociati.
L’infingardo imperatore Alessio Terzo era fuggito con il tesoro e i gioielli della corona.
Il cieco Isacco Secondo venne rimesso sul trono e sui figlio Alessio Quarto, il protetto dei crociati, veniva nominato co-imperatore.
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Ancora una volta a Bisanzio trionfava la tendenza antilatina, ma il suo trionfo accelerò l’atto finale della tragedia.
I crociati presero di nuovo le armi contro la capitale bizantina.
Si trattava di assediare nuovamente Costantinopoli, ma questa volta non per insediarvi un governo bizantino, bensì per instaurare un impero proprio sulle rovine di quello bizantino.
Nel marzo, sotto le mura della capitale bizantina, i crociati e i veneziani conclusero un trattato che contemplava ogni minimo dettaglio sulla divisione dell’Impero che bisognava conquistare e sulla fondazione di un impero latino a Costantinopoli.
Poi cominciò l’assalto e accadde quel che doveva accadere: il 13 aprile 1204 la capitale bizantina dovette cedere alle superiori forze degli aggressori.
I conquistatori entrarono a Costantinopoli.
Così la città, che dai tempi di Costantino il Grande era sempre rimasta inespugnata, che aveva resistito ai poderosi assalti dei persiani e degli arabi, degli avari e dei bulgari, era diventata la preda dei crociati e dei veneziani.
Per tre giorni il saccheggio e la strage regnarono in Costantinopoli.
I tesori più preziosi del più grande centro di cultura del mondo di allora vennero distribuiti trai conquistatori e in parte barbaramente distrutti.
“Dalla creazione del mondo non è mai stato fatto un tale bottino in una città”, dice lo storico dei crociati (Villehardouin).
Perfino i musulmani sono “umani e benevoli” in confronto a questa gente “che porta la croce di Cristo sulle spalle”, annota il cronista bizantino.
Alla divisione del bottino seguì la divisione dell’Impero bizantino, che suggellò il crollo e confinò per più di mezzo secolo le forze restauratrici di Bisanzio fuori del centro, nelle province periferiche.
Pag. 374-75
Cap. 7. L’Impero latino e la restaurazione dell’Impero bizantino, 1204-93
Raramente nella storia si è proceduto in modo così pianificato come nella spartizione dell’Impero bizantino.
Bisognava costruire un nuovo sistema statale nell’Oriente greco secondo il trattato concluso dai crociati e dai veneziani nel marzo del 1204 sotto le mura di Costantinopoli.
Il grande doge Enrico Dandolo, che aveva determinato gli avvenimenti degli ultimi anni e che aveva ispirato il trattato di spartizione, fu l’elemento decisivo anche nell’applicazione dell’accordo.
Anzitutto bisognava eleggere un imperatore e a questo scopo – in applicazione al trattato – si riunì una commissione composta da sei franchi e da sei veneziani.
Tutto lasciava prevedere che la scelta sarebbe caduta sul marchese Bonifacio di Monferrato, per il fatto di essere stato capo dell’esercito crociato, per le relazioni che aveva a Bisanzio e per le sue capacità politiche.
Ma il doge preferiva una figura meno in vista, e poiché i francesi erano divisi, mentre la delegazione veneziana era compatta, egli riuscì a imporre che la scelta cadesse sul conte Baldovino di Fiandra, che il 16 maggio venne incoronato in Santa Sofia imperatore dell’Impero latino di Costantinopoli.
Sulla cattedra di Santa Sofia quale primo patriarca latino di Costantinopoli venne nominato il veneziano Tommaso Morosini poiché, sulla base del trattato di marzo, se l’imperatore veniva scelto dalle file della cavalleria, il nuovo patriarca di Costantinopoli avrebbe dovuto essere scelto dai veneziani.
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Poi riprese la lotta contro i latini.
Sembra che già allora Teodosio Lascaris – che già da qualche anno disponeva di una flotta – pensasse ad un attacco contro Costantinopoli.
Ma in realtà ci furono soltanto scontri di scarsa importanza nelle regioni occidentali dell’Asia Minore, in cui la fortuna arrise all’imperatore latino.
Enrico vinse una battaglia sul Rindaco (15 ottobre 1211) e avanzò fino a Pergamo e Ninfeo.
Tuttavia questa piccola guerra, che de ambedue le parti veniva condotta con scarsi effettivi, non poteva portare ad un esito decisivo.
Ambedue le parti erano esaurite c così verso la fine del 1214 a Ninfeo venne concluso un trattato di pace che definì i confini tra l’Impero bizantino e quello latino: i latini conservavano la parte nordoccidentale dell’Asia Minore fino ad Adramittio verso sud,, il resto del territorio fino al confine con i Selgiuchidi restò in mano all’Impero di Nicea.
In questo modo ambedue gli imperi avevano riconosciuto il diritto all’esistenza dell’altro.
Nessuno di loro era abbastanza forte per annientare l’altro.
Si creò una situazione di equilibrio e una certa stabilizzazione dei rapporti.
Pag. 394
Così sull’antico territorio bizantino si erano formati tre imperi: uno latino e due greci, e sullo sfondo ce n’era un quarto – l’Impero degli zar bulgari.
L’ulteriore sviluppo degli avvenimenti nell’area culturale bizantina sarà determinato anzitutto dall’azione di queste quattro potenze.
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Come quasi tutti gli imperatori bizantini degli ultimi secoli, Giovanni Vatatze intavolò trattative con la Chiesa romana per l’unificazione.
Come condizione per l’unione egli pretendeva dal papa l’abbandono dell’Impero latino.
Inizialmente le trattative furono altrettanto sfortunate quanto lo erano stati tutti i precedenti tentativi unionisti, e l’avvicinamento dell’imperatore greco a Federico Secondo rese ancor più difficile il raggiungimento di un accordo.
Ma sotto il pontificato di Innocenzo Quarto e soprattutto dopo la morte di Federico Secondo le trattative presero una piega favorevole.
Innocenzo Quarto era un uomo politico troppo acuto per non avvedersi che la conquista del sempre più potente Impero bizantino di Nicea alla causa romana sarebbe stata più utile che non la conservazione del declinante Impero latino.
Come l’imperatore greco era disposto a sacrificare l’indipendenza della sua Chiesa alla conquista di Costantinopoli, così il papa era disposto a sacrificare l’Impero latino all’unione ecclesiastica con i greci.
Sembrò che le due parti si fossero avvicinate coem mai era avvenuto prima.
Ma anche questa volta l’ultimo passo non venne compiuto.
L’appoggio di Roma che si sarebbe dovuto pagare con gravi concessioni, non era più indispensabile: i giorni dell’Impero latino erano contati comunque grazie alle grandi vittorie di Giovanni Vatatze la restaurazione dell’Impero bizantino sul Bosforo era solo una questione di Tempo.
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Particolare considerazione meritano le misure economiche di Giovanni Vatatze, che introdussero un benessere quale l’Impero bizantino non conosceva più da molto tempo.
L’imperatore dedicò particolare cura allo sviluppo dell’economia agricola e dell’allevamento del bestiame e fu lui stesso a dare l’esempio.
I possedimenti dell’imperatore dovevano servire da modello per dimostrare ai sudditi una coltivazione accurata e intelligente possa procurare grandi guadagni nell’agricoltura, nelle viticoltura e anche nell’allevamento di bestiame.
L’imperatore regalò a sua moglie una corona tempestata di perle e di pietre preziose acquistata con il denaro ricavato dalla vendita delle uova prodotte nelle sue fattorie.
Questa “corona di uova”, come lo stesso imperatore la chiamava, significava per lui tutto un programma.
Infatti il principio fondamentale della sua politica economica era la conquista dell’autosufficienza economica del paese.
Egli cercò di liberare l’Impero dall’importazione di merci straniere e quindi anche dalla sottomissione economica alle città italiane.
Proibì rigorosamente ai suoi sudditi di comprare merci di lusso straniere.
Ognuno avrebbe dovuto accontentarsi di quel “che produce il suolo romano e fabbricano mani romane”.
Anche se aveva un’origine etica, questo protezionismo era diretto contro Venezia.
Misure doganali contro le importazioni veneziane avrebbero portato a gravi complicazioni, giacché avrebbero rappresentato una sconfessione degli accordi commerciali che portavano la firma di tutti gli imperatori bizantini da Alessio Primo Comneno a Teodoro Primo Lescaris; invece nessuno poteva negare all’imperatore di proibire ai suoi sudditi un lusso eccessivo.
Ma grandi quantità di metalli preziosi e di stoffe di lusso venivano esportate nel vicino sultanato di Iconio.
L’invasione mongola, che non aveva toccato l’Impero niceno, ma che aveva gravemente devastato gli Stati vicini, procurò un considerevole vantaggio economico ai bizantini.
I turchi acquistavano viveri nell’Impero niceno e li pagavano ad alto prezzo con oro e merci.
Così, nonostante le numerose guerre, a Nicea non esisteva la minima penuria di denaro.
La situazione finanziaria ed economica dello Stato niceno sotto Giovanni Vatatze era molto più sana che non quella dell’Impero bizantino sotto gli ultimi Comneni e gli Angeli.
Anche lo Stato stesso era molto più sano, il che mostra come le linfe vitali dei bizantini non si fossero ancora esaurite e come la rigenerazione dell’Impero bizantino fosse sempre possibile.
Giovanni Vatatze, che nei suoi ultimi anni soffriva di gravi attacchi epilettici, morì il 3 novembre 1254.
I suoi eccezionali meriti ebbero anche un altissimo riconoscimento: mezzo secolo dopo la sua morte egli venne santificato e fino ai tempi più recenti il santo imperatore Giovanni il Misericordioso veniva commemorato ogni anno nella chiesa di Magnesia, che egli stesso aveva costruito e dove venne seppellito, e nel Ninfeo, la sua residenza favorita.
Pag. 404-5
La fulminea ascesa del Paleologo non si spiega solo con la sua straordinaria abilità, ma anche con l’acutizzazione della situazione internazionale, che esigeva un governo forte.
A differenza di Federico Secondo, suo figlio Manfredi, re di Sicilia, era nemico dell’Impero Niceno.
La crescente potenza dell’Impero bizantino, che a partire dalla metà del secolo marciava a passi di gigante verso la restaurazione e aveva ridotto l’Impero latino ai dintorni di Costantinopoli, indusse Manfredi a riprendere la politica antibizantina di Enrico Sesto e dei normanni siciliani.
Nel 1258 aveva già occupato Corfù e le più importanti città della costa epirota: Durazzo che poco prima era stata conquistata da Teodoro Secondo Lascaris, e Avlona e Butrinto che appartenevano al despota Michele Secondo.
Michele Secondo era disposto a pagare questo prezzo per ottenere l’amicizia del re di Sicilia: gli concesse la mano di sua figlia, gli lasciò, quale dote, le città conquistate, e concluse con lui un’alleanza contro l’Impero niceno.
Anche Guglielmo Secondo di Villehardouin di Acaia sposò una figlia di Michele Secondo e si associò all’alleanza.
La stella del principe di Acaia era allora in ascesa: il vicino ducato di Atene e i tre principi dell’Eubea erano diventati suoi vassalli.
Si formava così una forte coalizione che all’ultimo momento minacciava di far fallire l’opera di restaurazione dei Lascaris.
Le forze separatiste dello Stato rivale della Grecia occidentale, tutte le forze latine della Grecia e il re di Sicilia su univano per distruggere l’Impero di Nicea.
La triplice alleanza trovò un appoggio anche nella nascente potenza del re di Serbia Uros Primo.
Le sue truppe occuparono nel 1258 Skoplje e Kicevo.
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Ormai non esisteva più alcuna potenza continentale in grado di opporsi alla restaurazione bizantina.
La sola potenza che fosse capace di intervenire era la repubblica marinara di Venezia, che era stata la vera creatrice dell’Impero latino a Costantinopoli e che aveva tratto il massimo vantaggio dalla situazione del 1204.
Per far fronte a questo pericolo, Michele Ottavo entrò in trattative con i rivali di Venezia, i genovesi.
Il 13 marzo 1261 venne firmato nel Ninfeo l’importante trattato che poneva i fondamenti della grandezza di Genova, così come a suo tempo il trattato del 1082 aveva segnato l’inizio della potenza veneziana.
I genovesi si impegnarono a dare aiuto militare all’Impero contro Venezia, e in compenso vennero loro concessi ampi privilegi, vennero esentati dalle imposte e dai dazi in tutti i territori dell’Impero, furono loro concessi basi commerciali nei porti più importanti, e, dopo il compimenti della restaurazione, anche a Costantinopoli.
In breve, Genova avrebbe avuto la supremazia commerciale in Oriente, che dalla fine del Secolo Undicesimo era stato un diritto acquisito di Venezia.
Ma in realtà Bisanzio divenne prigioniera di ambedue le repubbliche, che sempre più scalzavano la sua potenza marittima e il suo commercio.
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Inoltre il periodo del dominio latino aveva lasciato tracce profonde, nel corpo dello Stato bizantino erano state inferte ferite che la riconquista della testa non poteva sanare.
La grande testa, Costantinopoli, si appoggiava su un corpo indebolito e attaccato da tutte le parti.
Le repubbliche marinare italiane dominavano i mari bizantini, le loro colonia erano sparse su tutto il territorio dell’Impero, la maggior parte delle isole del Mediterraneo orientale erano loro sottomesse.
La Grecia restava sotto il dominio franco e anche l’Epiro, che era sotto un governo greco, e la Tessaglia, si erano sottratti all’unificazione e conservavano il loro atteggiamento di ostilità nei confronti dell’Impero bizantino.
La parte settentrionale della penisola balcanica restava in mano ai due regni slavi di Bulgaria e Serbia, che si erano ingranditi a spese dell’Impero bizantino.
Nessuna di queste potenze era ancora in grado di intraprendere un assalto in grande stile contro Bisanzio, ma erano pronte ad appoggiare un’impresa antibizantina guidata dall’Occidente.
In Occidente non mancavano certo i nemici del restaurato Impero bizantino: lo erano tutte le potenze che avevano avuto interesse all’esistenza dell’Impero latino.
Ci si poteva quindi aspettare un’aggressione in qualsiasi momento.
L’alleanza tra le potenze avversarie di Bisanzio in Occidente e sui Balcani avrebbe potuto significare un pericolo mortale per l’Impero appena restaurato.
Soltanto le manovra diplomatiche potevano evitare questo pericolo e per fortuna la diplomazia era una delle qualità più spiccate di Michele Ottavo.
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In questa situazione le minacce di Gregorio Decimo acquistarono un peso schiacciante: per l’imperatore l’unica via d’uscita era la sottomissione al volere papale.
Nonostante l’ostinata opposizione del clero bizantino, Michele Ottavo si accordò con il legato papale che nel 1273 soggiornava a Costantinopoli e riuscì alla fine a convincere anche una parte del suo clero ad accettare l’unione.
Lo storico atto venne concluso il 6 luglio 1274 al Concilio di Lione.
Il grande logotete Giorgio Acropolita, in nome dell’imperatore, giurò di accettare non solo il primato romano, ma anche la fede romana e i membri ecclesiastici della delegazione bizantina, l’ex patriarca Germano e il metropolita Teofane di Nicea, apposero le loro firme alla dichiarazione imperiale.
L’unione delle Chiese, che da più di due secoli era uno degli obiettivi principali della politica romana ed oggetto di numerose, ma sempre inutili trattative, era diventata realtà.
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Ma per mantenere in piedi l’unione romano-bizantina non solo l’imperatore, ma anche il papato si trovava in gravi difficoltà.
Dopo la morte di Gregorio Decimo (1276) a Roma si rafforzò l’influenza del re di Sicilia e la collaborazione romano-bizantina si interruppe.
Niccolò Terzo (1277-80) diede nuovo slancio all’universalismo romano e quindi anche alla politica dell’unione delle Chiese.
Tentò di stabilire in Oriente un equilibrio tra gli Angiò e l’imperatore di Bisanzio analogo a quello che aveva stabilito in Occidente tra Rodolfo Primo d’Asburgo e Carlo d’Angiò, per poter porre al di sopra di tutte le potenze temporali la supremazia della potenza universale della Chiesa romana.
Durante il suo pontificato Michele Ottavo si sentiva sicuro dalla parte dell’Occidente ed è infatti proprio in questo periodo che ebbero luogo i più importanti successi bizantini in Morea e nell’arcipelago.
Ma nel conclave seguente l’influenza di Carlo d’Angiò fu determinante e la situazione cambiò completamente.
Il 22 febbraio 1281 salì sul seggio papale il francese Martino Quarto, un cieco strumento del potente re di Sicilia.
La curia rinunciò alla sua posizione di arbitra sovrana e si pose al servizio della politica di conquista dell’angioino.
Sotto il patrocinio del papa, Carlo d’Angiò e l’imperatore titolare latino Filippo, figlio di Baldovino Secondo, conclusero il 3 luglio 1281 ad Orvieto un trattato “per la restaurazione dell’Impero romano usurpato dal Paleologo”.
Non solo: Martino Quarto si era talmente allontanato dalla politica dei suoi predecessori nel suo cieco asservimento a Carlo d’Angiò, che condannò come scismatico l’imperatore bizantino che si era pronunciato per l’unione e che per questo doveva sostenere una difficile lotta contro il suo stesso popolo, lo dichiarò deposto e interdisse ai principi cristiani di tutti i paesi di avere rapporti con lui.
La politica unionista di Michele Ottavo era così completamente fallita.
Lo stesso papato l’aveva abbandonata.
Le potenze occidentali si unirono per la lotta contro Bisanzio.
Venezia prestò agli Angiò la sua flotta e il papa diede il proprio appoggio morale.
I sovrani balcanici si unirono al fronte antibizantino.
Nel 1282, d’intesa con Carlo d’Angiò, Giovanni di Tessaglia e il nuovi re di Serbia, l’energico Stefano Uros Secondo Milutin (1282-1321), irruppero in Macedonia.
Il re di Serbia occupò l’importante città di Skoplje, che i bizantini non riuscirono più a riconquistare.
In Bulgaria il protetto dei bizantini, lo zar Ivan Terzo Asen, aveva perso la corona nel 1280.
Il suo successore, Giorgio Primo Terter (1280-92), discendente da una famiglia cumana, che, a capo dei boiari bulgari gli aveva strappato i poteri, si schierò naturalmente contro Bisanzio e si alleò con gli angioini e con Giovanni di Tessaglia.
Carlo d’Angiò non si era mai trovato così vicino alla sua meta, e mai la situazione di Michele Ottavo era stata più difficile: la caduta dell’Impero bizantino sembrava imminente.
Nel momento più critico la situazione mutò radicalmente: une tremenda catastrofe colpì gli Angiò quando erano già sicuri della loro vittoria, e l’arte diplomatica del Paleologo conseguì il suo più grande trionfo.
Un piano di congiura in grande stile contro il dominio angioino in Sicilia era già da alcuni anni in preparazione ed in esso ricopriva il ruolo di intermediario Giovanni da Procida, il dotto medico emigrato dall’Italia meridionale e più tardi cancelliere di Aragona.
Durante il pontificato di Niccolò Terzo, Michele Ottavo con la sua mediazione aveva stretto alleanza con Pietro Terzo d’Aragona, il genero di Manfredi.
Pietro avrebbe dovuto attaccare l’angioino alle spalle e togliergli il regno, così come nel 1266 Carlo lo aveva tolto al re Manfredi.
L’imperatore bizantino gli avrebbe messo a disposizione i mezzi per costruire la flotta.
Nello stesso tempo agenti bizantini e aragonesi, largamente provvisti di denaro bizantino, provocarono in Sicilia la rivolta contro il dominio straniero degli Angiò.
Un profondo fermento agitava il paese esaurito dai continui preparativi bellici dell’angioino ed esasperato dagli arbitri dei funzionari locali.
Ma solo il denaro bizantino poté far esplodere la crisi latente, così come aveva reso possibile i preparativi del re d’Aragona.
“Se volessi dire, - afferma Michele Ottavo nella sua autobiografia -, che Dio diede loro [ai siciliani] la libertà e che lo fece attraverso le mie mani, direi la verità”.
Nel momento più difficile per il Paleologo, il 31 marzo 1282, a Palermo scoppiò la rivolta, che si estese immediatamente a tutta la Sicilia: il dominio angioino ebbe una fase sanguinosa nei famosi Vespri Siciliani.
Nell’agosto apparve Pietro d’Aragona con la sua flotta.
Si fece incoronare a Palermo con la corona di Manfredi e divenne sovrano della Sicilia, mentre solo con grandi sforzi Carlo d’Angiò riusciva a conservare i suoi possedimenti sull’Italia continentale.
Di una campagna contro Bisanzio non era più nemmeno il caso di parlare: il regno dell’Italia meridionale si era disgregato, Carlo d’Angiò abbandonava la lotta dopo una catastrofe senza precedenti, il papa era stato gravemente coinvolto nella catastrofe, l’imperatore titolare latino Filippo non veniva più preso sul serio da nessuno, mentre Venezia si avvicinava all’Impero bizantino e al re d’Aragona.
La tempesta che da venti anni si andava addensando sul restaurato Impero bizantino, era stata scongiurata dal genio diplomatico del Paleologo.
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Cap. 8. Decadenza e caduta dell’Impero bizantino, 1282-1453
Michele Ottavo uscì vincitore dalla guerra difensiva contro l’aggressione occidentale ma, nonostante tutti gli sforzi, non riuscì che a conseguire successi assai limitati nei suoi tentativi di riprendere l’offensiva e di riconquistare le antiche province bizantine.
La metà settentrionale della penisola balcanica era in mano agli slavi, e anche se Michele Ottavo riuscì a strappare qualche territorio alla Bulgaria indebolita, la crescente potenza serba lo minacciava di ulteriori perdite di territorio.
Sul mare continuavano a dominare le repubbliche marinare italiane.
Con uno sforzo supremo l’Impero bizantino era riuscito a riconquistare una parte del Peloponneso, ma la maggior parte del suo territorio continuava ad appartenere ai franchi.
Sotto il dominio franco restavano anche l’Attica e la Boezia con le isole adiacenti.
La Tessaglia e l’Epiro, l’Etolia e l’Acarnania erano sotto il dominio degli Angeli e si opponevano ostinatamente all’autorità imperiale.
In nessun altra regione i tentativi di rioccupazione del Paleologo avevano meno successo che in questi Stati greci separatisti.
Così come la catastrofe del 1204 era stata preparata da un processo di disgregazione interna dello Stato bizantino, così anche ora proprio le forze greche separatiste si opponevano con la massima energia all’opera unificatrice.
Ed era infatti la Tessaglia, con i suoi potenti latifondi greci, alla testa della lotta contro i tentativi dell’imperatore di riprendere il controllo sulla penisola balcanica.
Intanto le continue guerre sui Balcani e l’estenuante lotta difensiva contro il pericolo angioino avevano completamente esaurito le forze dell’Impero bizantino.
La politica di Michele Ottavo aveva qualcosa in comune con quella di Manuele, soprattutto nei principi e nei metodi, nell’arditezza e nell’ampiezza della loro concezione, nel comune orientamento verso l’Occidente della loro politica estera, sia nelle imprese positive che nelle conseguenze negative.
Era una politica imperiale di grande stile, che influenzava il corso degli avvenimenti mondiali dall’Egitto fino alla Spagna.
Ma essa imponeva gravami intollerabili allo Stato bizantino.
Così come cento anni prima l’ambizione di Manuele Comneno di creare un impero universale aveva privato l’impero delle sue ultime forze, lo stesso avveniva ora come conseguenza del tentativo di Michele Paleologo di fare di Bisanzio una grande potenza.
Come cento anni prima, così anche ora la capacità difensiva dell’Impero bizantino in Asia era stata annientata, e ora questo avrebbe portato a conseguenze ancora più gravi.
Come allora, anche adesso le risorse militari e finanziarie dell’Impero si erano esaurite, e anche ora ciò provocò un violento contraccolpo: ha inizio la decadenza dell’Impero bizantino senza alcuna speranza di ripresa.
C’è una differenza netta tra il superbo impero di Michele Ottavo e il misero Stato del suo successore.
Sotto i successori di Michele Ottavo Bisanzio diventa un piccolo Stato e alla fine null’altro che un obiettivo della politica dei suoi confinanti.
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L’incremento delle entrate avrebbe dovuto servire da una parte a coprire le spese amministrative ordinarie, dall’altra per tributi ai più potenti vicini e infine per il mantenimento di uan flotta di venti triremi e per un esercito permanente di tremila cavalieri; di questi, duemila avrebbero dovuto stazionare in Europa e mille in Asia.
L’imperatore cercò così di correggere l’affrettata riduzione degli effettivi militari che aveva deciso sotto la pressione delle necessità finanziarie.
Ma quanto misero era il programma che si proponeva di realizzare.
Nulla di strano quindi se i tributi delle potenze confinanti diventavano una voce di uscita sempre più importante nel bilancio bizantino.
Si cercò di pagare la pace con denaro risparmiato alla meglio, dal momento che non ci si poteva difendere dai nemici con la forza delle armi.
Niceforo Gregora paragona causticamente questo comportamento con quello di chi “per comprarsi l’amicizia dei lupi, si apre le vene in varie parti del proprio corpo e lascia che i lupi succhino e si sazino del suo sangue”.
Bisanzio è diventato un piccolo Stato, che si nutre di un grande passato e che va in rovina perché non può più rispondere ai compiti che ha ereditato, e perché nella sua posizione geografica non può più difendere la propria esistenza.
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La lotta tra il vecchio ei l giovane Andronico iniziò una lunga serie di guerre civili, che rivelò tutta la sua disgregazione interna dell’Impero bizantino.
Con questa lotta dinastica ebbe inizio un’epoca di gravi lotte interne che tolsero all’Impero ogni residua forza e aprirono le porte all’espansione dei turchi e dei serbi.
Il contrasto tra avo e nipote ebbe inizio per questioni personali.
Andronico Terzo, il maggiore dei figli di Michele Nono, un giovane molto dotato e di aspetto attraente, era stato prima il prediletto del vecchio imperatore; ebbe precocemente la corona di co-imperatore e veniva considerato come il secondo erede presuntivo al trono, dopo suo padre.
Ma col passar del tempo da ambedue le parti nacque un’avversione reciproca: la vita frivola del giovane Andronico, le sue stravaganze e i suoi sperperi significavano una dura prova per la pazienza del vecchio e austero imperatore.
Allo stesso tempo per il giovane principe la tutela del padre e dell’avo diveniva sempre più gravosa.
L’esito sfortunato di una delle sue avventure amorose accelerò la rottura.
Gli uomini di Andronico, avendo teso un agguato al rivale del loro padrone, uccisero, per un tragico equivoco, suo fratello Manuele.
La tremenda notizia accelerò la morte di Michele Nono che risiedeva, gravemente malato, a Tessalonica (12 ottobre 1320), e fece infuriare a tal punto il vecchio imperatore da indurlo a privare Andronico dei suoi diritti alla successione al trono.
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La situazione internazionale era caratterizzata dalla costante avanzata degli ottomani in Asia Minore e dei serbi in Macedonia e inoltre dall’ulteriore indebolimento degli Stati separatisti greci e latini.
Mentre Bisanzio si trova impotente di fronte agli ottomani e ai serbi, nella Grecia settentrionale e nel Mar Egeo l’Impero riesce a conseguire certi successi, anche grazie all’appoggio dei Selgiuchidi.
Quel che soprattutto caratterizza la politica del nuovo governo e gli conferisce un aspetto particolare è la collaborazione di Cantacuzeno con l’emiro selgiuchida che si vedeva minacciato dall’espansione degli ottomani non meno dell’Impero bizantino.
Invece ci si cerca di liberare dall’alleanza con Genova, per poter riconquistare l’indipendenza marittima e commerciale.
Per questo è necessario il rafforzamento della forza navale bizantina: la costruzione di navi diventa quindi uno dei compiti principali dell’imperatore Andronico Terzo e del megas domestikos Giovanni Cantacuzeno.
Non essendo a questo scopo sufficienti le risorse dello Stato, Cantacuzeno e altri magnati contribuirono con i loro mezzi alla costruzione della flotta.
La conseguenza fu che lo Stato e il suo apparato difensivo dipendeva anche finanziariamente dai magnati dell’Impero.
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Intrighi di corte e lotte id funzioni riempivano la vita della capitale bizantina.
Ma intanto i pericoli esterni incombevano: i turchi saccheggiavano la costa tracia, i serbi erano nuovamente avanzati fino a Tessalonica e anche i bulgari minacciavano guerra.
Cantacuzeno mosse contro i nemici con truppe reclutate a proprie spese, e ben presto riuscì a ristabilire la pace.
Non solo, ma gli si offrì anche la possibilità di rafforzare la posizione bizantina in Grecia.
I signori feudali dell’Acaia inviarono un’ambasceria al megas domestikos, per annunciargli che erano disposti a riconoscere la sovranità bizantina; nella regione regnava infatti un forte fermento e i baroni francesi preferivano sottomettersi all’imperatore bizantino piuttosto che ai rappresentanti degli Acciaiuoli, la famiglia di banchieri fiorentini che avevano recentemente preso il potere nel principato come governatori dell’imperatrice titolare Caterina.
Cantacuzeno accarezzava più grandi speranze: “Se, con l’aiuto di Dio, - disse nel consiglio di guerra – riusciamo a sottomettere all’Impero i Latini che abitano il Peloponneso, anche i Catalani che abitano in Attica e Beozia dovranno necessariamente unirsi a noi, sia volontariamente sia attraverso la violenza.
Allora la potenza dei Romei tornerà ad estendersi, come ai tempi antichi, dal Peloponneso fino a Bisanzio ed è chiaro che allora sarà facile ottenere soddisfazione dai serbi e dagli altri popoli barbari confinanti per tutti gli insulti che hanno gettato su di noi nel corso di un così lungo periodo di tempo”.
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Bisanzio si trovava sulla soglia di una delle più gravi crisi della sua storia.
La guerra civile degli anni Venti aveva notevolmente indebolito l’Impero; la guerra civile degli anni Quaranta gli tolse le ultime forze che gli restavano.
Questa volta le potenze straniere intervennero in misura maggiore nelle lotte intestine dei bizantini e la lotta dei partiti politici venne approfondita da contrasti sociali e religiosi.
Bisanzio passò attraverso una grave crisi non solo politica, ma anche sociale.
Con il movimento dei zeloti si affermò una forte tendenza sociale rivoluzionaria e alle lotte politiche e sociali si intrecciò la più importante controversia religiosa del periodo tardo-bizantino: la controversia esicastica.
Esicasti erano definiti a Bisanzio fin dai tempi più antichi i monaci che in santo silenzio (en esychia) conducevano una rigida vita di eremiti.
Nel Secolo Quattordicesimo il movimento esicastico assunse il significato di una particolare tendenza mistico-ascetica che indirettamente risaliva al grande mistico del Secolo Undicesimo, Simeone il Nuovo Teologo, le cui dottrine e la cui prassi hanno molto in comune con quelle degli esicasti.
L’origine di questa tendenza risale direttamente all’opera di Gregorio Sinaita, che nel quarto decennio del Secolo Quattordicesimo viaggiò attraverso i territori dell’Impero.
Le dottrine mistico-ascetiche del Sinaita vennero entusiasticamente accolte nei monasteri bizantini.
Particolarmente grande fu l’entusiasmo sul Monte Athos: l’antica culla dell’ortodossia bizantina divenne il centro del movimento esicastico.
Il fine più alto degli esicasti era la visione della luce divina e la via per giungervi era per essi al prassi ascetica.
In solitudine e ritiro l’esicasta doveva recitare la cosiddetta preghiera di Gesù (“Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me”), e mentre recitava la preghiera doveva trattenere il respiro: in questo modo l’orante avrebbe avvertito gradualmente un senso di beatitudine ineffabile e si sarebbe visto circondato dai raggi di una luce divina ultraterrena, di quella luce increata che i discepoli di Gesù videro sul Monte Tabor.
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Al tempo della sua massima fioritura, l’assolutismo fiorentino aveva costruito, sulle rovine dell’antica amministrazione cittadina municipale, il suo onnipotente apparato burocratico e aveva costretto la cita cittadina sotto il suo centralismo totalitario.
Con l’indebolimento del potere centrale le forze locali avevano cominciato a riprendere vigore anche la vita indipendente delle città sembrò risvegliarsi.
Questo risveglio dell’autogoverno urbano non era però dovuto al sorgere di nuove forze sociali, ma piuttosto all’indebolimento del potere centrale, minato dal feudalesimo; la vita cittadina del tardo Impero non era dominata da una nuova classe di mercanti e di industriali, come in Occidente, bensì dall’aristocrazia terriera locale.
Bisogna tener ben presente questa differenza, anche se è vero che gli avvenimenti che sconvolsero la vita delle città bizantine intorno alla metà del Secolo Quattordicesimo trovano molti paralleli nella storia contemporanea delle città italiane o anche di quelle fiamminghe e vanno situate nel quadro generale delle lotte sociali nelle città europee.
Questa differenza fondamentale spiega perché la potenza economica di Bisanzio, che una volta si trovava in posizione dominante, potesse venir minata e infine sostituita così rapidamente dalle città commerciali italiane.
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Ma il trionfo della dinastia dei Cantacuzeni non durò a lungo.
L’opposizione si faceva sempre più forte.
Del resto lo stesso svolgimento della guerra tra Giovanni Paleologo e Matteo Cantacuzeno era una chiara dimostrazione del cambiamento che era avvenuto nell’opinione pubblica dell’Impero.
Grazie ai turchi, Giovanni Cantacuzeno aveva nuovamente vinto sui suoi avversari, ma l’aiuto dei turchi era un’arma a doppio taglio.
L’epoca delle incursioni turche condotte senza un piano si avvicinava alla fine e aveva inizio l’epoca del definitivo insediamento degli ottomani sul suolo europeo.
Nel 1352 avevano già preso possesso della fortezza di Tzympe, presso Callipolis, e nel marzo del 1354 – dopo un terribile terremoto che indusse i bizantini ad abbandonare la regione – il figlio di Orkhan, Sulaiman, prese possesso della stessa Callipolis (Gallipoli).
Invano Cantacuzeno fece appello all’amicizia di Orkhan offrendogli, nonostante l’immiserimento dello Stato, grandi somme in compenso dell’evacuazione della città occupata.
Gli ottomani non pensavano affatto a restituire la fortezza che offriva loro un’ottima base di operazioni per le ulteriori conquiste in Tracia.
A Costantinopoli la popolazione era presa dal panico, si pensava che la città fosse già direttamente minacciata dai turchi.
La posizione di Cantacuzeno era diventata insostenibile, il terreno era maturo per la sua caduta.
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L’impotenza dell’Impero bizantino era ora ancora più grave che non al tempo in cui Cantacuzeno era salito al trono di Costantinopoli.
Lo spezzettamento del territorio dell’Impero era proceduto ancora oltre e ancor più disperata era la sua situazione economica e finanziaria.
Per l’Impero, che nel corso di una generazione era passato attraverso tre guerre civili, non c’era più salvezza.
I pilastri di quella che era stata la potenza dello Stato bizantino erano stati la sua ricchezza monetaria e il suo eccellente sistema amministrativo.
Ora la cassa dello Stato bizantino era vuota e il sistema amministrativo era in pieno disfacimento.
La moneta era svalutata, le fonti di entrate erano esaurite e anche gli antichi tesori erano stati in gran parte già dissipati.
Dei temi e dei distretti governati dai logoteti, che erano stati la pietra angolare dell’amministrazione provinciale e centrale, non restavano che i nomi.
Le cariche più importanti erano diventate nient’altro che dei vuoti titoli, e si perdette persino il ricordo delle loro antiche funzioni: possiamo infatti vedere in Codino che non si sapeva più cosa fossero state in realtà le cariche di logothetes ghenikou e del logothetes tou dromou.
Se si richiama alla memoria l’importanza che avevano avuto queste cariche e si tiene presente che ancora nel terzo decennio del Quattordicesimo Secolo Teodoro Metochite era stato logothetes ghenikou e poi megas logothetes sotto Andronico Secondo, si può misurare tutta l’ampiezza e anche la rapidità della decadenza dell’ordinamento amministrativo bizantino nei fatali decenni delle guerre civili.
Con il crollo della sua forza finanziaria e la disgregazione dell’apparato amministrativo erano state eliminate le salde basi dell’esistenza dell’Impero bizantino.
Il processo di decadenza durò ancora a lungo, giacché fino alla fine Bisanzio conservò la sua sorprendente tenacia.
Ciò nonostante la storia degli ultimi cento anni di Bisanzio non è che la storia di una decadenza inarrestabile.
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Il 6 agosto 1354, ambasciatore veneziano a Costantinopoli, aveva informato il doge Andrea Dandolo che i bizantini, minacciati dai turchi e dai genovesi, erano pronti a sottomettersi a qualunque potenza: a Venezia, al sovrano serbo, o anche al re d’Ungheria.
E il 4 aprile del 1355 Marino Faliero consigliò che la repubblica annettesse semplicemente l’Impero, altrimenti, data la situazione miserevole in cui si trovava, sarebbe caduto vittima dei turchi.
Non era un segreto che Bisanzio si trovava alla vigilia del crollo e sembrava che l’unico problema consistesse nel decidere se i resti dell’Impero dovessero toccare ai turchi oppure ad una potenza cristiana.
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La guerra veneziano-genovese per Tenedo intanto continuava e da ambedue le parti venne condotta con asprezza crescente, ma non portò ad alcuna soluzione.
Alla fine i due contendenti stanchi conclusero con la mediazione del conte Amedeo di Savoia un trattato di pace a Torino, l’9 agosto 1381.
Si venne ad un compromesso: Tenedo non sarebbe toccata né ai veneziani né ai genovesi, le sue piazzeforti dovevano essere distrutte, gli abitanti trasportati a Creta e nell’Eubea e l’isola demilitarizzata doveva essere affidata a un delegato del conte di Savoia.
In tutto ciò Bisanzio rimase fuori dal gioco, come se l’isola non lo fosse mai appartenuta.
Invece rifiutò la consegna il bailo veneziano di Tenedo, cosicché le dichiarazioni del trattato vennero rese effettive soltanto nell’inverno 1383-84 e anche in seguito i veneziani utilizzarono l’isola ancora per lungo tempo come base navale d’appoggio.
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Non solo la posizione politica di Bisanzio, ma anche la sua autorità spirituale era stata scossa fino alle fondamenta dagli avvenimenti degli ultimi anni.
Perfino il principato di Mosca, che era sempre rimasto fedele alle tradizioni, osò rifiutarsi di riconoscere il vassallo turco come erede di Costantino il Grande e capo spirituale del mondo ortodosso.
Il granduca Basilio Primo, figlio del grande vincitore dei Tatari Demetrio Donskoj, proibì di menzionare il nome dell’imperatore bizantino nelle chiese russe e coniò la frase: “Abbiamo una Chiesa, ma non un imperatore”.
La sovranità della Chiesa greca restava intangibile per il sovrano dello Stato russo – allora in possente sviluppo -, ma pensava che non avrebbe più potuto riconoscere la supremazia ideale del miserando imperatore bizantino.
Qui si manifestava ancora una volta quel che si era visto già spesso negli ultimi decenni della storia bizantina: il prestigio della Chiesa bizantina aveva nei paesi ortodossi basi più solide che non quello dello Stato bizantino.
La protesta bizantina non si fece attendere a lungo, ma non fu l’imperatore a prendere la parola, bensì il patriarca di Costantinopoli.
Mentre una volta era la Chiesa bizantina che nei confronti del mondo esterno si appoggiava all’autorità del potente Stato, ora è il diminuito prestigio dell’Impero bizantino ad essere sostenuto dall’autorità del patriarca di Costantinopoli.
Le parti si erano invertite: non era lo Stato a proteggere la Chiesa ma la Chiesa a sostenere lo Stato.
“Non è affatto una buona cosa, figlio mio, - scrisse il patriarca Antonio al granduca Basilio Primo Dimitrevic, - quel che tu dici: Abbiamo una Chiesa, ma non abbiamo un imperatore”.
E’ assolutamente impossibile per i cristiani avere una Chiesa e non avere un imperatore.
Giacché Impero e Chiesa costituiscono un tutto unico ed è impossibile separarli…
Ascolta il principe degli apostoli Pietro, che dice nella prima epistola: “Temete Dio, onorate l’imperatore”.
Egli non disse “gli imperatori”, perché nessuno pensi ai cosiddetti imperatori dei singoli popoli, ma disse ”l’imperatore”, per indicare che nel mondo esiste un solo imperatore…
Se però anche alcuni altri cristiani si sono appropriati del nome di imperatore, questo è accaduto contro natura e legge, attraverso la tirannia e la violenza.
Quali padri, quali concili, quali leggi canoniche parlano di questi imperatori?
Sempre e dappertutto invece essi parlano dell’unico imperatore naturale, le cui leggi, ordinanze e decreti hanno forza di legge in tutto il mondo; ed è solo questo imperatore e nessun altro che i cristiani sempre menzionano.
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Invece du procurare un aiuto contro il nemico esterno, l’unione gettò Bisanzio in preda a lotte intestine, seminò inimicizie e odio tra la popolazione bizantina e privò l’Impero di quel che gli restava del suo prestigio al di fuori dei suoi confini, nel mondo slavo.
Il principato di Mosca, lontano com’era dai pericoli che minacciavano Bisanzio, e che era stato educato dagli stessi bizantini nell’odio antiromano, vide nella conversione dell’imperatore e del patriarca di Costantinopoli, un inconcepibile tradimento.
Il greco Isidoro, che era stato nominato metropolita di Mosca, ed era un eminente esponente del partito unionista, dopo il suo ritorno da Firenze venne deposto e imprigionato dal granduca Basilio Secondo.
Da allora in poi Mosca nominò essa stessa il suo metropolita e voltò le spalle all’apostata Bisanzio, che, con il suo tradimento della vera fede, aveva perduto il diritto di essere la massima autorità del mondo ortodosso.
SI era così persa la Russia e provocata un’aspra lotta nella stessa Bisanzio, ma non si era ottenuto pressoché nulla da Roma.
La campagna salvatrice che Bisanzio si attendeva non ebbe luogo, così come a Costantinopoli l’unione non venne messa in pratica.
Continuavano a contrapporsi una Chiesa romano-cattolica e una Chiesa greco-ortodossa.
E mentre la popolazione bizantina restava tenacemente fedele alla sua fede, i più importanti sostenitori dell’unione passarono coerentemente del tutto dalla parte di Roma: il capo del partito unionista greco, il dotto Bessarione e Isidoro, che era fuggito dalla prigionia in Russia, diventarono cardinali della Chiesa romana.
Senza aver portato ad un risultato politico positivo, le trattative di Ferrara e di Firenze suscitarono il sospetto di Murad Secondo, e Giovanni Settimo dovette calmare il sultano spiegandogli che queste trattative avevano scopi puramente religiosi.
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Né il coraggio, né l’energia politica dell’ultimo imperatore di Bisanzio poterono salvare l’Impero dall’inevitabile crollo.
Quando, dopo la morte di Murad Secondo (febbraio del 1451), salì sul trono suo figlio Maometto Secondo, per l’Impero bizantino era suonata l’ultima ora.
La Costantinopoli bizantina era situata nel cuore del territorio ottomano, separando i possedimenti asiatici dei turchi da quelli europei.
Il primo obiettivo del giovane sultano fu quello di eliminare questo corpo estraneo e di dare al sempre forte Impero ottomano un forte centro in Costantinopoli.
Con tenace energia e grande circospezione egli preparò la conquista della capitale, per portare così alla sua naturale conclusione l’opera dei suoi predecessori.
La corte bizantina non poteva farsi alcuna illusione sulle intenzioni degli ottomani, soprattutto dopo che il sultano fece costruire uan ben munita fortezza (Rumili Hissar) sul Bosforo nelle immediate vicinanze della capitale.
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Nei primi giorni di aprile del 1453 Maometto Secondo radunò un possente esercito sotto le mura della città.
Dalla parte bizantina, a fargli fronte non c’erano che circa cinquemila difensori greci e forse duemila stranieri: il contingente principale delle forze occidentali era costituito da settecento genovesi che, sotto il comando di Giustiniani, erano giunti su due galee a Costantinopoli poco prima dell’inizio dell’assedio, con grande gioia dei bizantini.
Si può calcolare che le forze degli aggressori superassero di dieci volte quelle dei difensori.
La forza di Costantinopoli non stava nell’eroica, ma numericamente del tutto insufficiente schiera di difensori, bensì nella particolare posizione della città e della saldezza delle sue fortificazioni, che Giovanni Ottavo e anche Costantino Undicesimo avevano fatto del loro meglio per restaurare.
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Maometto Secondo decise di sferrare l’attacco generale il 29 maggio.
La vigilia, mentre il sultano preparava le sue truppe alla battaglia, i cristiani, greci e latini assieme, celebravano in Santa Sofia la loro ultima funzione religiosa.
Dopo la funzione i soldati tornarono ai loro posti e fino a tarda notte l’imperatore ispezionò le fortificazioni.
Alle prime ore dell’alba ebbe inizio la battaglia: la città veniva attaccata da tutti e tre i lati.
Ma gli eroici difensori resistettero a lungo all’assalto e respinsero i nemici.
Allora il sultano ricorse alla sua riserva, le schiere di Giannizzeri, e dopo una dura lotta queste truppe scelte dell’armata ottomana riuscirono a scalare le mura.
Al momento decisivo Giustiniani, che combatteva a fianco dell’imperatore, venne mortalmente ferito e dovette essere portato via.
La sua scomparsa creò confusione nel campo dei difensori e accelerò l’espugnazione da parte dei turchi.
Poco dopo la città era nelle loro mani.
Costantino Undicesimo combatté fino all’ultimo momento e nella battaglia trovò la morte che cercava.
Tre giorni e tre notti durò il saccheggio che il sultano aveva concesso ai suoi soldati mentre li preparava per l’attacco finale, allo scopo di elevare il loro morale che andava cadendo.
Si distrussero beni di inestimabile valore, monumenti d’arte, preziosi manoscritti, immagini sacre e arredi ecclesiastici.
Maometto Secondo entrò solennemente nella città conquistata.
Costantinopoli divenne la capitale dell’Impero ottomano.
L’impero bizantino non esisteva più.
Con la fondazione della capitale sul Bosforo sotto Costantino il Grande era cominciata l’esistenza dell’Impero bizantino, con la sua caduta sotto l’ultimo Costantino, l’Impero moriva.
Tuttavia la Morea meridionale greca e anche l’Impero di Trebisonda sopravvissero per alcuni anni alla caduta di Costantinopoli.
Ma la loro conquista non era più un problema per i turchi.
La conquista di Costantinopoli aveva gettato un ponte tra i possedimenti asiatici e quelli europei degli ottomani, creò l’unità dell’Impero ottomano e diede nuovo slancio alla sua espansione.
L’Impero turco assorbì rapidamente i residui possedimenti greci, come pure latini e slavi nei Balcani.
Nel 1456 Atene cadde nelle mani degli ottomani e il Partenone, che da un millennio era una chiesa dedicata alla Santa Vergine, divenne una moschea turca.
Nel 1460 la bizantina Morea cessava di esistere; Tommaso fuggì in Italia, mentre Demetrio, che era ostile ai latini, si recò alla corte del sultano.
Nel settembre del 1461 cadeva anche l’Impero di Trebisonda e così l’ultimo lembo di territorio greco cadeva sotto il dominio turco.
Il despotato di Serbia era stato conquistato già nel 1459 e nel 1463 la stessa sorte toccò al regno bosniaco e prima della fine del secolo anche gli altri territori slavi e albanesi fino alla costa adriatica caddero in preda ai conquistatori.
Esisteva nuovamente un impero che andava dalla Mesopotamia fino all’Adriatico, e che aveva il suo centro naturale in Costantinopoli: l’Impero turco che, nato sulle rovine dell’Impero bizantino per molti secoli seppe riunire ancora una volta in un unico Stato gli antichi territori bizantini.
Bisanzio cadde nel 1453 ma la tradizione spirituale e politica sopravvisse.
La sua fede, la sua cultura e la sua concezione dello Stato continuarono a vivere, influenzando e fecondando la vita politica e culturale dei popoli europei sia sull’antico territorio bizantino, sia oltre gli antichi confini dell’Impero.
La religione cristiana nella sua specifica forma greca, come manifestazione della spiritualità bizantina e allo stesso tempo come antitesi del cattolicesimo romano, restò la cosa più sacra sia per i greci che per gli slavi meridionali l’espressione della loro individualità spirituale e nazionale; essa preservò i popoli balcanici dall’assorbimento dell’ondata d’immigrazione turca e rese così possibile la loro rinascita nazionale del Secolo Diciannovesimo.
L’ortodossia fu anche la bandiera sotto la quale ebbe luogo l’unificazione delle regioni russe e il patriarcato di Mosca raggiunse la sua posizione di grande potenza.
Poco dopo la caduta di Bisanzio e dei regni slavi meridionali, Mosca si ribellò al giogo tataro e divenne, quale unica potenza indipendente di fede ortodossa, il centro naturale del mondo ortodosso.
Ivan Terzo, il grande unificatore e liberatore delle regioni della Russia, sposò la figlia del despota Tommaso Paleologo, nipote dell’ultimo imperatore di Bisanzio, assunse l’insegna bizantina dell’aquila bicipite, introdusse a Mosca costumi bizantini, e ben presto la Russia svolse nell’Oriente cristiano il ruolo di guida che in passato era stato dell’Impero bizantino.
Se Costantinopoli era stata la nuova Roma, Mosca divenne la “terza Roma”.
L’eredità spirituale di Bisanzio, la sua fede, le sue idee politiche e i suoi ideali spirituali continuarono a vivere per secoli nell’Impero degli zar russi.
Una forza d’irradiazione ancora più grande ebbe la cultura bizantina, che giunse a penetrare di sé l’Oriente e l’Occidente.
Anche se l’influenza bizantina nei paesi neolatini e germanici non fu così ampia come in quelli slavi, ciò nondimeno la cultura bizantina influì e fecondò anche la vita dell’Occidente.
Lo Stato bizantino era stato lo strumento attraverso il quale la cultura dell’antichità greco-romana aveva continuato a vivere attraverso i secoli.
Per questo Bisanzio era la parte che dava, l’Occidente la parte che riceveva.
Soprattutto nell’età del Rinascimento, in cui così forte era la passione per la cultura classica, il mondo occidentale trovò in Bisanzio la fonte attraverso la quale attingere ai tesori culturali dell’antichità.
Bisanzio conservò l’eredità classica e adempì in questo modo ad una missione storica di importanza universale.
Salvò dalla distruzione il diritto romano, la poesia, la filosofia e la scienza greche, per trasmettere questa inestimabile eredità ai popoli dell’Europa occidentale, divenuti maturi per riceverla.
Pag. 508-510
Il potere di Roma: dieci secoli di impero di William V. Harris
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Prefazione
Vorrei che questo libro risultasse accessibile e utile in particolare per coloro che, pur volendo imparare di più sui romani e il loro impero, possiedono delle conoscenze limitate sulla storia romana così come viene recepita oggi.
Avendo in mente questi lettori, ho fornito spiegazioni di termini tecnici e presentazioni di alcuni eprsonaggi storici più di quanto avvenga di norma in un testo dtrettamente accademico, e ho inoltre aggiunto una cronologia; allo stesso tempo, il libro contiene degli aspetti originali (descritti sommariamente nel cap. 1.) che potrebbero attirare l’attenzione di altri studiosi dell’Antichità.
“Così come viene recepita oggi”: con ciò intendo dire che ho tentato di tener conto delle ricerche più recenti e di quelle più datate, nella consapevolezza che, purtroppo, è impossibile per chiunque pretendere di aver letto e consultato tutto ciò che concerne un millennio di storia romana: nel volume vengono citati circa 130 autori dell’antichità (senza contare quelli dei materiali documentati) e ci sono fonti che non ho letto.
Inoltre, la moderna storiografia, nonché gli studi su letteratura e diritto dell’età romana e le indagini archeologiche sono uan vera e propria giungla: ho cercato di tenerne conto per quanto possibile.
Per amor di trasparenza ho inserito il più spesso possibile i riferimenti alle fonti primarie e ai numerosissimi e variegati materiali che uno studioso di storia romana ha a disposizione; nelle note ho fornito delle semplici indicazioni di base sui moderni studi sul potere romano, ponendo in rilievo il materiale più nuovo pur senza escludere opere meno recenti.
Ho deliberatamente evitato di stilare delle bibliografie complete su ciascuna controversia.
Inoltre, essendo stato pensato inizialmente per un pubblico anglofono, il volume privilegia – mio malgrado – le opere in inglese, pur sapendo che lo studioso dovrebbe consultare la produzione accademica in almeno cinque lingue moderne.
Il libro è breve se rapportato all’immensità della materia.
Ho però stabilito di escludere due aspetti, scelta per la quale il lettore ha quindi il diritto a delle spiegazioni: in primo luogo, non mi sono dilungato troppo su motivi, parzialità, interessi, metodi, presupposti o esperienza generale degli uomini (sono praticamente tutti uomini), i cui scritti rappresentano le nostre fonti testuali.
Una discussione completa avrebbe richiesto un volume separato di natura alquanto differenti, seppure i lettori noteranno senza dubbio un certo numero di valutazioni implicite.
Ho anche escluso quasi ogni trattazione dell’ambiente naturale in cui vivevano i romani e i popoli vicini, poiché questo tema costituisce infatti il mio prossimo progetto.
I lettori di questo volume noteranno qualche riferimento alle risorse minerarie e di legname, il cui accesso si rivelò in diverse occasioni fondamentale per il potere romano.
D’altro canto, il motivo per cui non si troveranno qui altre informazioni sull’ambiente è piuttosto semplice: tutt’oggi esistono ancora troppe incertezze sull’argomento.
Per fare due esempi: è già difficile determinare la deforestazione, per non parlare di quantificarla; di certo fu cospicua, ma è possibile che gli abitanti dell’impero abbiano gestito le proprie risorse boschive abbastanza abilmente da non provocare gravi danni ecologici e ambientali (ho discusso la questione in altra sede: Harris, 2011a).
E poi la questione – ad essa collegata – dei cambiamenti climatici: vi è un generale consenso sull’esistenza di un “periodo calmo romano”, ma quando avvenne esattamente e quale influenza poté avere sulle capacità di sopravvivenza dell’impero (per una panoramica, cfr. Hin, 2013; Manning, 2013)?
Per dirla breve, siamo ancora piuttosto lontani dal poter mettere in rapporto convincente la crescita, la sopravvivenza o il declino dell’Impero romano ai fattori ambientali.
E’ stato Walter Scheidel a convincermi in modo sistematico sul tema del potere invitandomi a scrivere un saggio per l’Oxford Handbook of Roman Studies e di ciò lo ringrazio.
Per scrivere questo libro sarebbe occorso ancora più tempo se non fosse stato per un generoso assegno di ricerca da parte della Andrew W. Mellon Foundation, di cui sono profondamente grato, in modo particolare alla funzionaria che si è spesa per questo, l’eminente sociologa Harriet Zuckerman.
Rivolgo la mia gratitudine anche a Emma Dench, Kyle Harper, Evan Jewell, Irene Sanpietro e Caroline Wazer per la loro lettura critica di vari capitoli; sono inoltre grandemente in debito con Emily Cook, una giovane ed emergente storica dell’arte che ha trascorso molte ore aiutandomi a comporre l’apparato bibliografico del volume.
Altri amici e conoscenti generosi hanno stimolato la riflessione e fornito informazioni pertinenti, in particolare Jairus Banaji, Mary Beard, Anne Hunnell Chen, Holger Klein, Myles Lavan, David Leith, Jonathan Prag, e lo stesso Walter Scheidel.
Ringrazio anche una delle mie ex studentesse più dotate, SARA Phang, per aver fornito la bozza della carta diventata la figura 25.
I commenti dei referees anonimi della Cambridge University Press si sono rivelati estremamente costruttivi, e ringrazio il colto ed energico Michael Sharp per averli coinvolti.
Pag. 11-13
Cronologia
393 a. C. ca. Roma conquista e distrugge l’etrusca Veio
390 ca. Roma occupata per qualche tempo dai galli senoni
390-380 Culmine della carriera politica di Marco Furio Camillo
367 Leggi licinie-sestie
356 Primo dittatore plebeo
351 Primo censore plebeo
340-338 Roma in guerra con i latini
338 Fondazione della prima colonia cittadina, ad Antium
334 Fondazione della prima colonia latina, a Cales
327 Inizio delle guerre di Roma fuori del Lazio
321 Battaglia delle Forche Caudine
313 Abolizione della schiavitù per debiti (nexum)
312 Tracciato della via Appia
311 Raddoppio del numero delle legioni
305 ca. Amicizia con Rodi
295 Battaglia del Sentino
287 ca. Secessione della plebe; Lex Hortensia
273 Fondazione delle colonie latine di Cosa e Paestum
272 Taranto soccombe a Roma
264-241 Prima guerra punica
241 Battaglia delle Egadi
218-202 Seconda guerra punica
218-206 Scipioni in Spagna
215 Battaglia di Canne
215-206 Prima guerra macedonica
202 Battaglia di Zama
200-197 Seconda guerra macedonica
190 Battaglie di Mionesso e Magnesia
188 Pace di Apamea con Antioco 3.
186 Soppressione del culto di Bacco
173 Primo anno in cui entrambi i consoli sono plebei
169 Lex Voconia
168 Battaglia di Pidna
167 Schiavitù di massa nell’Epiro
160-130 Polibio scrive la storia dell’espansione romana
146 Distruzione di Cartagine e Corinto
143-171 Epoca di grandi ribellioni schiavili in Italia e in Sicilia
139-130 Leggi elettorali
133 Tribunato di Tiberio Gracco
133-129 Roma governa direttamente
123-121 Tribunati di Gaio Gracco
107 Mario apre l’arruolamento nelle legioni a tutti i cittadini
91-89 Guerra sociale o marsica
90 La Lex Iulia concede la cittadinanza a molti abitanti della penisola
82-80 Dittatura di Silla
73-71 Rivolta di Spartaco
67-62 Guerre orientali di Pompeo
59-58 Culmine del potere popolare a Roma
58-5 Cesare conquista la Gallia
48 Battaglia di Farsalo
44 Cesare “dittatore perpetuo”; suo assassinio
42 Battaglia di Filippi
31 Battaglia di Azio
30 Roma occupa l’Egitto
27 Ottaviano diventa “Augusto”
20 Accordo con la Partia
19 Morte di Virgilio
12 a. C. Primi tentativi di Roma di conquistare territori a est del Reno
14-37 d. C. Regno di Tiberio
16 Tiberio ferma la guerra in Germania
27-37 Tiberio governa da Capri
41-54 Regno di Claudio
43 Invasione della Britannia
54-68 Regno di Nerone
67 Nerone ordina il suicidio del suo miglior generale, Domizio Corbulone
69 Anno dei quattro imperatori
69-79 Regno di Vespasiano
79 Il Vesuvio distrugge Pompei ed Ercolano
81-96 Regno di Domiziano
92 Primo console proveniente dal mondo greco
98-117 Regno di Traiano
101-2, 105-6 Conquista della Dacia
110 Tacito inizia a scrivere gli Annales
115-17 L’Impero romano raggiunge la sua massima estensione
117-38 Ragno di Adriano
131-5 Rivolta di Bar Kolcheba in Giudea
138-61 Regno di Antonino Pio
161-80 Regno di Marco Aurelio
166-75, 178-80 Guerre germani che di Marco Aurelio
167 Inizio della peste antonina
175 Rivolta di Avidio Cassio
180-92 Regno di Commodo
193-211 Regno di Settimio Severo
211-17 Regno di Caracalla
212 Caracalla estende la cittadinanza a quasi tutti gli abitanti liberi dell’Impero romano
217 Regno di Macrino
218-22 Regno di Eliogabalo
222-35 Regno di Alessandro Severo
226-42 Ardashir governa la Persia
244-49 Regno di Filippo l’Arabo
248 Mille anni dalla fondazione di Roma
249-51 Regno di Decio
251 I goti sconfiggono i romani ad Abrittus
253-68 Regno di Gallieno
260 La religione cristiana viene tollerata
270-5 Regno di Aureliano
293-305 Tetrarchia
301 Editto sui prezzi massimi di Diocleziano
312 Battaglia di Saxa Rubra, Costantino al potere a Roma
312-37 Regno di Costantino
324 Costantino riunisce l’Impero, fondazione di Costantinopoli
337-63 Regno della dinastia costantiniana
378 Battaglia di Adrianopoli
378-95 Regno di Teodosio 1.
385 Prime esecuzioni di “eretici”.
391 Chiusura dei templi, divieto di sacrifici animali
394 Battaglia di Frigido
395-408 Regno di Arcadio
395-423 Regno di Onorio
401 Alarico invade l’Italia
406 Radagaiso invade l’Italia
410 Alarico e i visigoti saccheggiano Roma
421-50 Galla Placidia “Augusta”
438 Codex Theodosianus
439 I vandali conquistano Cartagine
451 Concilio di Calcedonia
455 Genserico e i vandali saccheggiano Roma
474-91 Zenone imperatore d’Oriente
476 Romolo “Augustolo” viene deposto
527-65 Regno di Giustiniano
533, 542-49 Riconquista romana dell’Africa settentrionale
535-53 Riconquista romana dell’Italia
541 Inizio della peste di Giustiniano
559 Gli unni kutriguri raggiungono Costantinopoli
565-78 Regno di Giustino 2.
568 I longobardi invadono l’Italia
582-602 Regno di Maurizio
584 Gli avari alle porte di Costantinopoli
590-604 Papa Gregorio governa Roma
602-10 Regno di Foca
610-41 Regno di Eraclio
614 I persiani conquistano Gerusalemme
621 La maggior parte del Medio Oriente romano nelle mani dei persiani
627 Eraclio invade la Persia
632 Morte del profeta Maometto
636 Battaglia dello Yarmuk
638 Battaglia di Qadisiyya
639-41 I musulmani conquistano l’Egitto
641-68 Regno di Costante 2.
654 I musulmani attaccano Costantinopoli
656-61 Guerra civile fra i musulmani
698 I musulmani conquistano Cartagine
Cap. 1. L’evoluzione di lungo periodo del potere di Roma
Le domande alle quali questo libro cerca di dare uan risposta sono le seguenti: innanzitutto perché il potere di Roma si diffuse in modo così ampio, durando tanto a lungo?
Fattori esogeni come la relativa debolezza di molti popoli confinanti ebbero una grande rilevanza, ma nessuno può mettere in dubbio l’importanza fondamentale di quelli endogeni: alcuni di questi furono di natura geografica, demografica o economica, ma anche i rapporti di potere all’interno del mondo romano ebbero un grande impatto; dunque, in che modo è possibile caratterizzare tali rapporti?
Quanto potere – politico, legale, economico, psicologico o di altro genere – esercitavano alcuni individui del mondo romano sugli altri?
Inoltre, porrò la domanda implicita se sia effettivamente utile per gli storici farsi tentare dalla strada dell’analisi, distinguendo cioè il potere politico da quello giuridico, economico e così via, pur sapendo che nelle società premoderne la maggior parte del potere – di qualunque genere fosse – era concentrata nelle mani di un élite e dei suoi collaboratori.
Che cosa finì per andare storto (dal punto di vista dei romani, ovviamente)?
Ancora all’epoca delle riconquiste di Giustiniano (527-65) l’Impero romano si estendeva da un estremo all’altro del Mediterraneo e cessò di essere una potenza imperiale solo sotto Eraclio (610-41): per quale motivo non riuscì a mantenere la sua posizione, e quali furono le strutture interne di potere che ne accompagnarono il declino?
Qualunque analisi del poter nel mondo romano degna di questo nome, per quanto succinta, deve svilupparsi su tre dimensioni diverse.
Deve cogliere innanzitutto la dimensione nazionale del potere, il predominio del gruppo – in graduale espansione – di coloro che si definivano romani sul resto degli abitanti dell’Impero (nonché quale fosse questo potere ai confini nazionali e oltre).
Deve poi comprendere la dimensione della differenziazione sociale o delle classi sociali, senza sottovalutare l’importanza delle istituzioni e delle strutture politiche, o della schiavitù, o del potere di genere, o del potere all’interno della famiglia.
Infine, deve tenere pienamente conto del tempo, delle continuità che si incontrano nel corso del migliaio di anni della storia romana, diciamo da Camillo (il leggendario condottiero degli anni Novanta e Ottanta del quarto secolo a. C.) fino ad Eraclio.
Pag. 24-25
Ma effettivamente una fine vi fu: dopo la battaglia di Yarmuk (636), quando gli arabi musulmani sottrassero all’imperatore bizantino le vitali province siriache, inizia ad avere molto più senso considerare Bisanzio non come un impero nel senso proprio del termine, ma come uno dei tanti Stati dell’Eurasia occidentale e del Mediterraneo.
Antiochia cadde in mano musulmana nel 637 (lo stesso anno di Gerusalemme) e nel volgere del tempo il califfato omayyade divenne più grande di quanto non fosse mai stato l’Impero romano.
Che nel 636 pochi sudditi dell’impero parlassero ancora il latino è una questione di secondaria importanza: i bizantini dei secoli sesto e settimo ritenevano di essere romani e chiamavano il proprio territorio Romania (di qui che Giovanni Lido trovasse naturale iniziare con Romolo il proprio Sulle magistrature di Roma, repubblica di un popolo che riconosceva come proprio, malgrado fosse nato in Asia Minore), e la loro storia ininterrotta giustificava questa convinzione.
Dopo i disastrosi eventi del 636-42 tuttavia la questione è se Bisanzio fosse ancora sufficientemente potente da poter essere definita un impero; di fatto, non avrebbe rispettato di nuovo i criteri imperiali per altri trecento anni, non fino agli inizi dell’undicesimo secolo e agli ultimi anni di regno di Basilio 2.
Il periodo compreso fra il 636 e gli insuccessi di Costante 2. (641-68) deve dunque essere considerato come l’effettiva fine dell’Impero romano.
Pag. 25-27
Che cosa pensarono gli stessi romani, nelle varie fasi della loro storia, riguardo il funzionamento del potere?
Lo si vedrà nel seguito, ma è bene porre subito due questioni.
1. La riflessione romana sul potere fu di tipo straordinariamente legalistico?
La risposta naturale sembrerebbe affermativa: la repubblica espresse molti dei principali cambiamenti storici nel corso della propria evoluzione sotto forma di leggi, e nella sua vita pubblica esisteva una forte corrente di pedanteria giuridica; la presenza di giureconsulti tecnicamente abili e politicamente influenti fu una costante a partire dal primo secolo a. C.
Potrebbe darsi tuttavia che la grande attenzione data alla delimitazione della potestas (il potere stabilito legalmente e costituzionalmente) e dell’imperium (il diritto di alcuni alti funzionari a vedere eseguiti i propri ordini) non fosse semplicemente il risultato di uan speciale mentalità giuridica, ma della particolare natura dello stesso sistema sociopolitico romano.
Sotto la Repubblica tale sistema era ri tipo aristocratico – entrare a far parte dei circoli più ristretti del potere era in effetti assai difficile – e persino sotto il Principato era socialmente esclusivo; ma allo stesso tempo i normali cittadini possedevano dei diritti specifici, custoditi gelosamente per secoli.
Lo status legale era spesso questione della massima importanza, e ciò continuò a valere nel periodo tardoimperiale: delle definizioni precise erano dunque necessarie.
2. Una parte considerevole di ciò che i romani dissero e scrissero sul potere consistette nella costruzione dei miti, e dovremmo quindi identificare quali fossero quelli predominanti.
Il primo – quello di Roma come una democrazia di cittadini – è illustrato da un brano del De Legibus di Cicerone, in cui l’autore parlando del rapporto fra cittadini e magistrati scrive che “è necessario pertanto che chi obbedisce abbia la speranza di poter un giorno comandare (imperaturim)”, un’assoluta chimera per molti romani.
Due secoli più tardi, Elio Aristide (A Roma 90, cfr. anche 60) poteva solennemente – forse non senza un pizzico di privata ironia – spiegare ai romani che il loro sistema politico, sotto la guida di un singolo individuo, era “un’unica democrazia universale”; tracce di questo concetto si ritrovano anche in un periodo più tardo, come si vedrà in seguito (le idee moderne, per inciso, possono essere ugualmente paradossali: il governo di Traiano – assicura uno storico dei nostri giorni – “non era una monarchia”).
Un altro mito romano sosteneva che l’Urbe governava il mondo intero: questa idea venne inizialmente articolata dai romani nel secondo secolo a. C. ed entro gli anni Settanta del primo secolo a. C. era ormai pienamente accettata, come dimostrano ad esempio le monete rappresentanti il globo terrestre.
Il concetto compare di frequente in Cicerone e riecheggia ancora nel quinto secolo (Paolo Orosio, Historiarum adversus paganos, 6, 20, 2).
Per tutto questo tempo l’élite romana, per non parlare dell’esercito, era a un qualche livello perfettamente consapevole di non governare affatto sul mondo intero (anche se esistono prove di una tendenza a sottovalutare l’estensione dei territori che rimanevano al di fuori del dominio romano).
Presumibilmente questi miti – fantasie o illusioni, se si preferisce – avevano una natura funzionale, e possono anzi fornire indicazioni importanti: l’immaginaria democrazia di Roma rifletteva uan qualche duratura fede nei diritti dei cittadini; per quanto riguarda il concetto di potenza globale, occorrerà chiedersi in quale momento l’incrollabile fiducia in sé stessi si sia trasformata in arrogante autosuggestione.
Pag. 31-32
I lettori possono ben chiedersi quale teoria del potere – se una c’è – sia più consona al contenuto di questo libro.
Il mio approccio per quel che riguarda la teoria è selettivo e assai critico: il questo studio cerco semplicemente di scoprire fino a che punto il carattere dei sempre mutevoli rapporti esterni dello Stato romano fosse determinato da quello delle ugualmente cangianti strutture di potere interne, e viceversa.
Questa è la maniera in cui voglio affrontare le dinamiche del potere imperiale e della sua successiva fine, e costituisce il mio principale obiettivo.
Pag. 32-33
Questo per certi versi è vero, e anzi il secondo fattore è uno dei luoghi comuni della storiografia e ne riperlerà in seguito: la “coesione interna” di Roma è invece assai più problematica.
Gli Stati che vincono ripetutamente delle guerre tendono di fatto a dimostrare tale qualità, e viceversa è sertamente possibile affermare che il minor grado di coesione del tardo impero romano fu un fattore importante del suo declino, e che il compito principale dello storico che voglia studiare questo fenomeno è di analizzare per quali ragioni tale coesione si fosse indebolita.
Si tratta tuttavia solo di una condizione necessaria, mentre per la costruzione di un impero serve molto di più: in particolare, una volontà aggressiva di combattere una guerra, un élite politica in grado di pianificare le operazioni belliche e di mobilitare lo Stato a tal fine, nonché la capacità di approntare le tecniche di organizzazione necessarie per mantenere e sfruttare quanto conquistato.
Infine, popoli, collettività e Stati esercitano il potere, così come le astrazioni e i miti; altrettanto fanno le immagini, come va di moda sottolineare da una generazione a questa parte.
Questo tipo di indagine ha sollevato domande fondamentali sulla capacità di chi detiene il potere di controllare e influenzare popolazioni diverse tramite programmi di costruzione architettonica, statue e monumenti pubblici, tipologie di monete e – traccia più evanescente – spettacoli; fonti materiali di questo genere sono già state citate varie volte nel costo di questa breve introduzione.
Ma rimane ancora molto lavoro da fare sugli aspetti sociologici e psicologici – nonché prettamente archeologici – della questione: per dirla in breve, conosciamo la forma data al tempio di Iside o Osiride a Dendur nell’Alto Egitto dai collaboratori di Augusto, che fecero rappresentare il loro princeps come un faraone (e possiamo rinfrescarci la memoria visitando il Metropolitan Museum), ma in che modo gli abitanti della provincia reagirono a tale raffigurazione rimane quanto meno incerto.
Di recente, gli storici dell’arte hanno iniziato a prestare una maggiore attenzione a questo genere di tematiche, trascurando tuttavia un elemento chiave qual è il pubblico delle élite.
L’arco di Costantino, per fare un esempio, destò senza dubbio un generalizzato stupore in molti degli osservatori, ma pochi che ne compresero il programma iconografico erano spesso personaggi influenti.
Pag. 34-35
Cap. 2. Roma contro gli altri, 400 a. C.-16 d. C.
Possiamo iniziare con un periodo di oltre quattro secoli che si estende fino ai primi anni del regno di Tiberio, nello specifico al 16 d. C., giacché uno dei più straordinari aspetti dell’espansione romana in quanto processo più o meno continuo è la sua durata: dal tardo quarto secolo a. C. (che non ne segnò tuttavia l’inizio in assoluto) fino a quando il successore di Augusto non stabilì di interromperla; fu questa uan svolta importante, anche se finì col rappresentare un rallentamento e non certo la fine dell’espansione imperiale.
Verso il 400 a. C. i romani controllavano una parte del territorio circostante la città, ma né l’intero Lazio né la foce del Tevere; non possedevano una flotta, avevano pochi o punti contatti di tipo politico con popoli al di là dei loro vicini immediati ed erano alle prese con un conflitto (vinto poi nel 393 a. C.) con l’etrusca Veio (Veii), distante appena una ventina di chilometri.
Nei primi anni Ottanta del quarto secolo a. C. i galli senoni valicarono gli Appennini saccheggiando e occupando per breve tempo la stessa Roma; quattrocento anni dopo, risultato di un’espansione quasi ininterrotta, i romani controllavano – e tassavano – tutti i territori dal canale della Manica fino all’Eufrate e all’Egitto meridionale, ed erano impegnati nella conquista dei germani.
Come ebbe origine questa incredibile espansione?
Pag. 37
Si trattava già di un grado di espansione considerevole, ma ciò che seguì – due generazioni di guerre (dal 327 al 272 a. C.) che portarono al controllo dell’intera penisola fino alle sponde dell’Arno – fu ancora più notevole.
La prima guerra punica (264-241 a. C.) consegnò a Roma la Sicilia, la Sardegna e la Corsica; la Seconda (218-202 a. C.) la rese la potenza dominante del Mediterraneo occidentale; nel 190 a. C. la vittoria sui Seleucidi (che avevano il proprio centro in Siria) le fruttò il controllo navale sul resto del Mediterraneo e nel 168 a. C. la sconfitta del re macedone a Pidna (Pydna) instaurò stabilmente il dominio di Roma sull’intera regione.
A ragione si poteva affermare – come fece Polibio – che i romani governavano l’intero mondo mediterraneo; sebbene per quell’epoca avessero iniziato a occupare alcuni territori lontani dal litorale (nel Nord della penisola iberica, dal 179 a. C.), il loro era per la maggior parte un impero mediterraneo, consolidatosi progressivamente fino al 30 a. C.
Fu Giulio Cesare, negli anni Cinquanta del primo secolo a. C., a spingersi per primo, e con decisione, verso nord, guidando i romani fino alle rive del Reno; Augusto raggiunse poi quelle del Danubio.
Pag. 39
Il sistema alimentò anche l’opportunistica belligeranza del Senato romano (composto in pratica da coloro che avevano detenuto delle cariche pubbliche, da questore in su, e a nomina vitalizia); fatta eccezione per alcuen rarissime occasioni, per tutta l’età medio repubblicana Roma combatté uan guerra all’anno, il che la rese un caso estremo di entusiasmo guerresco.
Tra il 327 e il 241 a. C. vi furono al massimo quattro anni di pace, spesso conseguenza di un’aspra lotta intestina in corso dell’Urbe; di norma, ogni anno la classe dirigente, sicura di sé (su questo non c’è dubbio) e pressoché sprezzante del pericolo al livello personale, era in gradi di mobilitare un numero sufficiente di soldati (cittadini e alleati italici) nonché tutte le altre risorse necessarie per combattere i nemici del momento.
Ciò fu possibile grazie soprattutto a una peculiare reazione a catena che influiva sul numero dei combattenti: ogni successo bellico forniva infatti degli schiavi che potevano lavorare la terra, il che permetteva quindi ad altri contadini di andare in guerra.
E’ difficile stabilire con esattezza il momento in cui questo fenomeno – che senza dubbio di tanto in tanto contribuì all’espansione anche di altri Stati dell’Antichità, come ad esempio Cartagine – iniziò a incidere significativamente sulla politica romana: al più tardi nel 311 a. C., quando Roma raddoppiò il numero delle proprie legioni, ma forse almeno una generazione prima.
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La pratica di combattere una guerra quasi ogni anno e in territori sempre più lontani prima dall’Urbe, poi dal Lazio e infine dall’Italia non sarebbe potuta durare se non avesse goduto di un ampio sostegno da parte dei cittadini di Roma, degli stessi latini (di fatto, cittadini di seconda classe) e degli alleati italici (di fatto, soldati).
Le fonti di cui disponiamo mostrano che, a lungo, l’intera cittadinanza romana – per la maggior parte composta di contadini e artigiani – accettò volontariamente, anzi con entusiasmo, uan politica di costante belligeranza, ed è piuttosto facile capirne il motivo: è vero che c’era un certo grado di controllo sociale e che esistevano la coscrizione e una rigida disciplina all’interno dell’esercito; ma è altrettanto vero che i potenziali guadagni, di natura sia materiale sia psicologica, erano considerevoli e tutti ne erano consapevoli.
Servire nelle legioni costituiva di fatto una sorta di privilegio, da cui di norma i cittadini più poveri furono esclusi fino al periodo tardorepubblicano.
Naturalmente i romani subirono talvolta delle gravi sconfitte (ad es. nel 321 a. C. alle Forche Caudine, nel 249 a. C. in Sicilia, e nel 171 a. C. a Callinico, Callinicum, in Tessaglia) e quando Annibale invase l’Italia (218-202 a. C.) Roma attraversò uan crisi che mise a rischio la sua stessa libertà infliggendole gravissime perdite.
Tuttavia le milizie cittadine furono capaci di superare anche questa tempesta, non solo perché i loro membri ritenevano che il sistema funzionasse a loro beneficio, ma anche perché i romani riuscirono a mantenere in riga uan proporzione sufficiente dei propri alleati italici.
Nell’intera storia militare dell’età mediorepubblicana conosciamo un unico episodio, di secondaria importanza, in cui i soldati romani si ammutinarono di fronte a delle forze nemiche superiori (Polibio, 1, 21, 260 a. C.).
Alla metà del secondo secolo a. C. la questione si complicò: l’impero era ora in gradi di fornire ai suoi abitanti svariate opportunità economiche e a partire dallo stesso periodo (dal 351 a. C.) si cominciarono a intravedere i segni di una maggiore selettività da parte dei cittadini romani – del tutto o in parte su uan base economica – riguardo a quali guerre convenisse combattere.
Assai più tardi, alla fine della Repubblica e nel periodo augusteo, l’imperatore poteva vantarsi di aver ampliato “il territorio di tutte le province del popolo di Roma con le quali confinavano popolazioni riottose al nostro comando” (Res gestae 26): è dunque evidente che il popolo romano continuava a essere favorevole all’espansione che, a quel punto, non costituiva più un grande onere, dato il maggior numero di cittadini in grado di servire nelle legioni.
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Se i sanniti e gli etruschi avessero unito in tempo le proprie forze avrebbero probabilmente potuto bloccare l’avanzata di Roma, ma ciò non accadde fino alla campagna di Sentinum (presso l’attuale Sassoferrato) e la vittoria dei romani nell’omonima battaglia sembra essere stata decisiva: nel 290 a. C. avevano eliminato quasi ogni resistenza a sud dei fiumi Arno ed Esino.
Le guerre continuarono per tutti gli anni Ottanta: l’offensiva romana subì uan temporanea battuta di arresto quando nel 281 a. C. la fazione democratica di Taranto (Tarentum) chiese aiuto al re Pirro dell’Epiro; ma alla fine degli anni Settanta Taranto era rimasta l’unica città ancora libera e dovette infine soccombere nel 272 a. C.
Durante la generazione precedente, Roma aveva imposto la denominazione di “Italia – applicata in precedenza solo all’attuale Calabria – a tutta la penisola fino all’Arno, probabilmente nel tentativo di diluire le identità dei popoli conquistati: ironicamente, questa nuova identità mise radici e due secoli più tardi, nel 91-89 a. C., divenne la bandiera dell’ultima grande ribellione antiromana nella penisola, la guerra sociale, detta così perché combattuta contro i socii o alleati.
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Altre modalità organizzative furono forse più originali: il tipo di colonizzazione romana di questo periodo era al servizio della potenza strategica dello Stato e perciò Roma – al contrario delle madrepatrie greche e fenicie del passato – mantenne sulle proprie colonie un controllo piuttosto stretto.
La sistematica misurazione delle terre – la “centuriazione”, nella moderna terminologia – ebbe inizio verosimilmente al più tardi nel 273 a. C. (Paestum) e assicurò uan distribuzione precisa, anche se ovviamente non equa, a tutti i coloni; Filippo Coarelli ha di fatto sostenuto in modo convincente che la centuriazione era già in uso lungo il percorso della via Appia ancor prima che questa venisse tracciata, nel 312 a. C.
Soprattutto, le colonie erano assai numerose: fra il 338 e il 263 a. C., a un ritmo più o meno costante, vennero fondate in Italia 5 o 6 colonie cittadine e 19 “latine” (che permisero a Roma di soddisfare e collocare i propri cittadini di seconda classe), a cui prima della fine del secondo secolo a. C. si aggiunsero altre 25 circa di entrambi i tipi.
Le colonie avevano l’ulteriore e prevedibile vantaggio di incrementare la forza militare a disposizione dell’Urbe.
Un’altra tecnica probabilmente originale fu la costruzione di strade di lunga distanza, in questa fase ancora rudimentali ma che costituivano comunque un importante strumento di controllo oltre ad avere una forte valenza simbolica come rappresentazione della potenza romana; così nel 312 a. C. venne iniziata uan strada verso Capua (la via Appia) e nel 307 a. C. un’altra verso est, attraverso gli Appennini.
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Assai più tardi (nella guerra sociale del 91-89 a. C.) molti di loro si ribellarono e Roma reagì saggiamente, benché in modo tardivo, estendendo la cittadinanza a uan vasta popolazione: tutti gli italici a sud del Po.
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L’espansione romana fra il 241 e il 146 a. C. può essere suddivisa grosso modo in sei fasi, elencate di seguito:
1. Un periodo, fra il 238 e il 202 a. C., in cui ne vennero gettate le basi con una serie di conflitti nell’Italia settentrionale, nella penisola iberica, in Illiria e con la guerra contro la Macedonia (non combattuta sul territorio macedone).
Il processo venne interrotto dai lunghi anni dell’invasione di Annibale, che provocò perdite terribili (forse un quarto della popolazione adulta maschile di Roma perse la vita, compresi undici consoli o ex consoli) e terminò con la sconfitta di Cartagine sul proprio territorio (battaglia di Zama, nel 202 a. C.) e con l’effettiva impossibilità grazie al conseguente trattato di pace, di ogni futura possibile resistenza cartaginese.
2. Un nuovo periodo di rapida espansione (ancora in Iberia e Italia settentrionale, contro gli Stati greci e la Macedonia, e poi contro Antioco Terzo in Grecia e Asia Minore) fra il 201 e il 188 a. C., terminato con la dura pace di Apamea imposta al monarca seleucide.
3. Un periodo di costanti ma meno spettacolari successi militari (Iberia e Italia settentrionale, 186-172 a. C.); anche in Oriente non fu un periodo di inattività: sembra ad esempio che nel 179 a. C. Roma abbia instaurato un trattato di “amicizia” sia con Farnace re del Ponto sia con gli abitanti della Tauride.
4. Una successiva campagna che vide la deliberata distruzione del regno macedone (172-168 a. C.), uno dei tre principali Stati del Mediterraneo orientale.
5. Un altro periodo dedicato in gran parte alle guerre in Italia settentrionale, Iberia e Dalmazia (166-150 a. C.)
6. Infine, l’ultima guerra punica così come un decisivo regolamento dei conti in Macedonia e Grecia, che nel 146 a. C. portarono alla distruzione fisica di Cartagine e Corinto.
Polibio aveva ovviamente ragione ad affermare che la battaglia di Pidna – la decisiva vittoria su Perseo, ultimo re della Macedonia, combattuta sul suolo macedone nel 168 a. C. – diede ai romani il dominio dell’intero mondo (mediterraneo), nel senso che in seguito nessuno poté permettersi di disobbedire.
Un celebre episodio avvenuto più avanti nello stesso anno serve a illustrare la nuova realtà (Polibio, 29, 27): Antioco 4. di Siria, dopo aver invaso l’Egitto raggiungendo Pelusio, nella parte orientale del delta del Nilo (e senza dubbio complimentandosi con sé stesso per l’andamento della campagna), si vide venire incontro l’ex console Gaio Popilio Lenate, emissario praticamente disarmato del Senato, che gli consegnò un decreto senatorio in cui gli si ordinava di ritirarsi.
Alla richiesta di Antioco di consultare i propri consiglieri Popilio tracciò un cerchio nella polvere attorno al sovrano e gli impose seccamente di decidere prima di mettervi un piede fuori: Antioco dovette obbedire.
Come è stato spesso fatto osservare, il potere raggiunge tutto un altro livello quando non serve alcuna minaccia per vedere eseguiti i propri ordini e questo ne fu un esempio.
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A trarne benefici era ovviamente anche lo Stato: alla metà del secondo secolo a. C. si trattava ancora di uno Stato per molti versi rudimentale ma in cui esisteva da tempo una res publica, una sfera pubblica.
Certo è difficile sostenere che i senatori che decidevano le politiche belliche scegliessero la guerra sulla base del calcolo dei benefici finanziari che ne sarebbero derivati allo Stato: ma se consideriamo quali vantaggi avesse ai loro occhi l’afflusso di nuove entrate (e la loro probabile reazione di fronte alla prospettiva di tali vantaggi) è inevitabile che fossero condizionati a favorire una politica estera aggressiva.
Quello che vedevano era infatti una profusione di nuovi templi edificati dai generali vittoriosi; una mole sempre più ingente di opere pubbliche finanziate dallo Stato, specie dopo il 184 a. C.; le finanze pubbliche in costante crescita.
E poi, ancora, vedevano la prima adozione della moneta su vasta scala in Italia e, nel 167 a. C., l’abolizione della tassazione diretta per i cittadini romani.
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Non è difficile accorgersi che i cosiddetti “realisti” che si occupano di storia romana cercano di fatto di dare una giustificazione all’odierna politica estera degli Stati Uniti – una politica magari giustificabile, ma preferibilmente non facendo della pseudo storia.
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Ma ciò che più impressionò lo storico fu la combinazione di meticolosa organizzazione di disciplina draconiana; riteneva i metodi di reclutamento e la costruzione degli accampamenti i migliori esempi dell’organizzazione militare romana.
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Nel periodo dell’espansione in Italia, la decisione presa nel 326 a. C. di prolungare l’imperium del console oltre il mandato annuale risolse un notevole ostacolo costituzionale e politico, rendendo possibili campagne militari più ambiziose.
La principale innovazione dopo il 264 a. C. fu invece la creazione di province al di fuori della penisola e di ulteriori magistrature annuali di alto livello (le preture) che ne permisero una supervisione continua.
Il termine provincia denominava originariamente (e continuò a denominare) una sfera di responsabilità, ma acquisì un significato territoriale a partire dal 227 a. C., quando il numero di preture salì da due a quattro e quello delle questure da sei a otto: ai nuovi funzionari venen affidato il compito di governare la Sicilia e la Sardegna.
Nel 197 a. C. la creazione di due province nella penisola iberica portò all’aggiunta di altre due preture e forse di altrettante questure: tutti questi funzionari si avvalevano di un piccolo staff personale, eccetto ovviamente quando dovevano assumere il comando di ingenti forze militari.
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In breve, Roma fu in grado di ideare le tecniche di organizzazione necessarie per lo sviluppo e il mantenimento di quello che potremmo definire un impero “più che mediterraneo”: sarebbe difficile dire in quale altro modo avrebbe potuto raggiungere questo risultato in modo più efficace.
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Quali furono gli effetti del successo di questo imperialismo sugli stessi romani?
Si tratta di un’altra questione complessa, di cui si parlerà nel capitolo seguente.
Il potere fruttò ricchezza allo Stato, alle élite e ad alcuni cittadini comuni; portò anche, certamente entro la fine del secondo secolo a. C., un certo grado di corruzione.
Due altri effetti di grande importanza furono il cambiamento nella struttura della società romana provocato dall’affluenza di schiavi – tanto che Roma divenne più dipendente dalla manodopera schiavile di qualunque altro grande Stato precedente – e il collegamento tra il mondo economico romano e quello ellenistico, con la conseguenza che nel secondo secolo a. C. il commercio mediterraneo visse una fase di sviluppo senza precedenti (si potrebbe dire, semplificando, che i romani fornirono il capitale e i greci raffinate tecniche finanziarie).
La scala e la natura di questa economia schiavile verranno analizzate nel prossimo capitolo: qui basterà notare che l’imponente mobilitazione militare dei cittadini per tutto il terzo e il secondo secolo a. C. fu possibile grazie al fatto che una grandissima parte del lavoro, compreso quello agricolo, veniva svolto da schiavi.
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Con la vittoria di Ottaviano ad Azio (Atium), nel 31 a. C., la natura del processo decisionale politico di Roma cambiò per sempre; ma non fu solo uan “dipendenza del percorso” che spinse Augusto a impegnarsi in quasi quarant’anni di espansione militare: era ciò che ci si aspettava da lui e ne rafforzò l’autorità (cfr. Res gestae, 26-27 e 39) – ed è indubitabile l’intenzione di aumentare i profitti di Roma (cfr. Svetonio, Divus Augustus, 25-61; Strabone 4, 200-201).
E’ possibile seguire passo passo lo stretto legame fra le sue guerre all’estero e le sue necessità politiche all’interno dello Stato romano, ma ciò non significa che Augusto volesse infrangere la tradizione: l’unica vera novità stava nell’enorme menzogna – possibile solo sotto il potere di un solo individuo – riguardo a quella sottomissione dei parti (implicita nei Res gestae 29, 2, in alcune monete e sulla lorica del celebre Augusto di Prima Porta) che era stata nelle intenzioni di Cesare; in realtà i suoi rappresentanti avevano concluso un accordo nel 20 a. C. che permise ad Augusto di concentrare la maggior parte delle proprie forze in Europa.
Che in epoca augustea vi sia stata “un’interruzione delle guerre” è del tutto falso, e anzi i leali sudditi del princeps diedero briglia sciolta alla fantasia: Orazio, ad esempio, attendeva con ansia la conquista della Cina (Odi, 1., 12, 56).
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Le principali attività ufficiali dei governatori, a parte la manifesta repressione di ogni opposizione antiromana, consistevano nel giudicare le cause più importanti (i senatori romani ritenevano che il potere giudiziario fosse fondamentale) e nel garantire la riscossione delle tasse; la loro abilità stava nel bilanciare gli interessi contrastanti dello Stato romano e die locali (i quali potevano aspettarsi di soffrire, ma potevano anche chiedere l’intervento dei potenti patroni romani), riempiendosi nel mentre di tasche – ma non in modo troppo appariscente.
I testi classici sull’argomento sono le requisitorie di Cicerone contro Verre e Pisone, le sue difese di Fonteio e Flacco e le sue lettere dalla Cilicia – testi tutti da leggersi cum grano salis.
Di tanto in tanto si cercò di regolamentare ciò che i governatori potevano e non potevano fare (ad es. con al Lex Porcia, databile al 121 a. C. ca.), ma il controllo da parte dell’amministrazione centrale rimase un obiettivo sguggente, in parte per motivi pratici e in parte perché iL Senato si mostrava spesso indulgente nei confronti delle peraltro ben note colpe dei suoi membri, come Verre.
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E ciò nonostante il fatto che a partire degli anni trenta del secondo secolo a. C., e per oltre cento anni, Roma si trovò spesso in uno stato di profondo dissidio interno, a colte sfociato in vere e proprie guerre civili su larga scala.
E se riuscì a mantenere il controllo sulle province fu in parte grazie a metodi ormai tradizionali: la prontezza nell’uso della forza e l’alleanza con le élite locali.
Augusto poi aumentò senza dubbio l’efficienza del governo grazie alla nomina di procuratores, che agivano anche in quelle province che non amministrava direttamente: gestivano le sue enormi e crescenti proprietà, ma costituivano anche i suoi occhi e le sue orecchie.
Vi furono però due nuovi sviluppi di enorme importanza in questo periodo: il primo fu l’estensione della cittadinanza romana ai sudditi italici e la loro parziale integrazione nello Stato romano, cosa che aumentò progressivamente il coinvolgimento degli italici nell’amministrazione centrale, in un momento in cui le loro identità locali di etruschi o sanniti andavano indebolendosi: un piccolo gruppo di questi italici potrebbe persino aver raggiunto il rango senatorio.
Il secondo sviluppo fu una nuova ondata di colonizzazione, soprattutto in Italia sotto Silla ma estesa poi anche alle province da Cesare a Augusto.
Le colonie create da Silla in Campania – almeno otto – vi consolidarono il potere di Roma, mostrando nel contempo ai soldati quali vantaggi potessero trarre dall’appoggiare un usurpatore di successo.
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La classe politica romana si abituò via via a questo genere di integrazione, e nel periodo sotto esame si dimostrò verosimilmente poco incline a teorizzare sulla questione (giudizio che dipende in parte dalla datazione delle lettere dello Pseudo-Sallustio a Cesare); questa politica peraltro non mancò mai di solide basi pragmatiche e i greci, in particolare, avevano dei buoni contatti a Roma.
Nei territori non ellenici, di contro, i romani dimostrarono uno scarso interesse – almeno al livello di alto funzionariato – a trovare un’intesa con le culture locali.
Augusto diede prova di maggiore flessibilità, ma non troppa, permettendo agli egizi di rappresentarlo coem un faraone e autorizzando l’introduzione di alcuni elementi celtici nelle celebrazioni del culto di Roma e di Augusto nella capitale della Galizia, Ancyra (la moderna Ankara), ma le tradizioni greche e romane mantennero la propria preponderanza; questi sviluppi favorirono il suo dominio personale.
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Virgilio e gli altri grandi poeti dell’età augustea simboleggiano il trionfo culturale di Roma in Italia e nelle province occidentali, sia europee che africane.
All’epoca id Augusto tale trionfo apparteneva per lo più ancora al futuro, ma il potere imperiale romano si era già impegnato nel cooptare gli uomini di talento per gli incarichi locali, e persino nel facilitare la loro ascesa sociale; nel contempo coinvolse a tal punto scrittori come Virgilio, Orazio e Tito Livio – i cui avi dovettero possedere identità culturali piuttosto diverse tra loro – in un cambiamento così profondo da essere riconosciuti come i portavoce più rappresentativi della nazione romana.
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Ma la diffusione del potere di Roma portò anche all’ellenizzazione delle élite romane: se non si sa in che cosa consistesse nel secondo secolo a. C., quando era già in corso, per l’epoca di Silla, Pompeo e Cicerone era divenuta tutt’altro che superficiale; si vedrà nel capitolo seguente quali ne furono le conseguenze in termini di lotte per il potere all’interno dello Stato romano.
La maggior parte degli storici tuttavia respinge la teoria secondo cui le idee greche minarono seriamente il sistema repubblicano, pur ritenendo allo stesso tempo che l’esistenza di un impero abbia in qualche modo disfatto il sistema di governo di chi lo guidava.
La teoria consueta è che un impero di vaste dimensioni avesse id tanto in tanto necessità di mobilitare eserciti enormi, il che poneva armate forti e più o meno fedeli nelle mani di uomini come Silla e Cesare, incapaci di resistere alla tentazione di sfruttarle per dichiararsi dittatori.
L’instaurazione dell’impero indubbiamente ebbe due effetti di enorme significato politico: rese necessario il reclutamento di soldati impoveriti che avevano scarsi motivi per sostenere lo status quo politico e fece nascere una città-capitale immensa (per gli standard dell’Antichità), di ricchezza e lusso incomparabili e altrettanto ben dotata di quartieri poveri: capitale che per gli anni Settanta del primo secolo a. C. (e di fatto da almeno un paio di generazioni prima) non era più disposta a sottostare in silenzio al controllo degli aristocratici conservatori.
Il dominio di un singolo individuo ne fu la logica conseguenza.
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A spiccare chiaramente nel capitolo sono la profonda dedizione a una guerra spietata – una dedizione diffusa in tutta la società romana ma specialmente forte nell’élite (il pieno significato di questo aspetto diverrà chiaro nel cap. 3) -, insieme a una grande creatività nell’imporre un controllo permanente sulle terre e sui popoli sottomessi da Roma.
La combinazione di questi due fattori rese possibile un’incredibile espansione della potenza romana.
A partire dagli anni Settanta del primo secolo a. C., tuttavia, la dedizione bellica romana si evolse in una più normale accettazione imperiale della guerra come attività professionale, meno essenziale per l’identità dei senatori (anche se ancora di vitale importanza per i leader più importanti); fino a che punto questo cambiamento abbia causato la decelerazione dell’espansione imperiale avvenuta dopo il 16 a. C. è un’altra questione da rimandare al capitolo 4.
Esiste ovviamente in questo caso un certo numero di similitudini con quanto avvenuto nelle fasi di espansione degli imperi cinese e britannico, tra gli altri; una di queste è la propensione a creare delle zone di impero “informale”, così come dei territori di impero “formale” sotto controllo diretto.
Ci si potrebbe dunque chiedere se anche Roma – coem molti ritengono sia stato il caso della Gran Bretagna nel diciannovesimo secolo – abbia imposto un controllo informale ovunque fosse possibile e un’autorità formale solo quando necessario; ma le differenze nei due casi tra ciò che costituiva il “controllo” (sfruttamento economico? Limitazione del potere di Stati rivali?) e ciò che costituiva la “necessità” impedisce il paragone di gettare molta luce sulla storia.
Un’altra similitudine è che nel corso dei periodi fondamentali della sua espansione imperiale Roma, come la Gran Bretagna, fu governata da un’oligarchia più o meno aristocratica (dal 400 a. C. al 49 a. C. nel caso romano, dal 1688 al 1902 in quello britannico), ma tale espansione godeva di un ampio grado di sostegno popolare.
Le oligarchie in questione erano assai differenti come struttura, ma è possibile metterle a confronto con l’insuccesso dell’Atene democratica del quinto secolo a. C. di mantenere il proprio potere per un lungo arco di tempo; quella ateniese era una democrazia solo in senso limitato – e venne condotta al disastro dagli aristocratici – ma in ogni caso il paragone non è molto illuminante.
Una classe dirigente compatta, coem quella di Roma, è in grado di stabilire e mantenere il tipo di legami con le élite locali utili ai fini di successi imperiali, ma la maggior parte degli imperi sono stati costruiti da sovrani volitivi, da Dario e Alessandro agli imperatori del diciottesimo secolo.
Ciò che distingue maggiormente i romani di questo periodo è quello che Stanislav Andreski avrebbe chiamato il loro maggiore RPM (Rapporto di Partecipazione Militare), ovvero la proporzione dei cittadini che si trovavano regolarmente sotto le armi; questa era assai più alta sotto la Repubblica romana, fino all’integrazione dei socii del 90 a. C., di quanto non sia mai stato il caso della Gran Bretagna imperiale e della Cina dei Qing.
Gli imperatori Qing non sembrano aver mai mantenuto un esercito altrettanto ingente di quello di Augusto, anche se la popolazione sotto il loro dominio era fra le quattro e le dieci volte maggiore; livelli paragonabili sono probabilmente da ricercare in due popoli che molto più tardi ebbero un effetto letale sul tardo impero romano, i germani degli inizi del quinto e gli arabi del settimo secolo.
Questo elevato livello di partecipazione cittadina alle attività belliche era legato a un altro aspetto distintivo dell’espansione romana: il costante ricorso alla politica di riduzione in schiavitù di un gran numero di prigionieri di guerra, rimasta immutata negli oltre quattro secoli coperti da questo capitolo.
Mentre è possibile dibattere a lungo sui numeri, rimane però ovvio che Roma fu in grado di mobilitare così tanti dei sui cittadini e alleati perché rimpiazzò in gran parte la loro forza lavoro con la manodopera schiavile: questa non fu mai una politica praticata su grande scala in Cina, e se la schiavitù fu un elemento importante della crescita economica britannica del diciottesimo secolo, non fu essenziale ai bisogni dell’esercito di un impero in espansione.
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Cap. 3. Roma contro sé stessa: dalla Repubblica alla Monarchia
Durante l’età medio repubblicana il potere politico, militare, economico e religioso rimase in gran parte nelle mani dell’aristocrazia, anche se, come si vedrà, i cittadini non nobili più facoltosi avevano un peso politico non secondario, che sarà importante valutare.
Nell’ultimo ventennio del secolo scorso alcuni studiosi hanno cercato di dimostrare che Roma, dopo tutto, fu una democrazia.
La loro non era che una distorsione del fatto, ben noto agli storici ottocenteschi come Theodor Mommsen, che il regime romano era un’aristocrazia con alcuni elementi di potere dei cittadini, il che è piuttosto diverso (una prospettiva revisionista che di fatto Henrik Mouritsen ha seppellito).
In particolare, Fergus Millar ha enfatizzato il potere legislativo dei comizi tributi, le assemblee “per tribù”, tuttavia esso divenne uno strumento utilizzabile dai cittadini contro gli interessi dell’aristocrazia solo dopo l’approvazione delle leggi sul voto, nel 139 a. C.; Mouritsen, invece, ha dimostrato che in particolare durante l’età medio repubblicana la partecipazione politica formale dei più poveri tra i cittadini comuni non poteva che essere minima.
Considerando i limiti di tempo e spazio necessari, è infatti assai improbabile che più di 3000/4000 uomini al massimo abbiano potuto partecipare a una singola votazione in questi comizi.
Positivo è, invece, il contributo fornito dagli storici della “scuola della democrazia” nel far emergere l’elemento dei conflitti di classe nelle lotte politiche del periodo tardo repubblicano, quando le circostanze erano radicalmente mutate, evitando di cadere nella trappola di considerare la democrazia solo un modo di “gestire i rapporti di potere per minimizzare il dominio” – uan definizione debole (in tutti i sensi), pensata dal suo autore nella speranza di far rientrare gli Stati Uniti nella medesima categoria.
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Consoli, pretorie, edili e questori – le cariche esecutive dello Stato – rimanevano in carica solo per dodici mesi; a un certo punto, probabilmente fin dalla Lex Genucia del 342 a. C., entrarono in vigore delle norme che stabilivano di fatto l’impossibilità di riassumere il consolato prima di un intervallo di dieci anni.
I censori, normalmente degli ex consoli con importanti funzioni su cui torneremo in seguito, avevano un mandato di appena diciotto mesi.
Tutti questi magistrati poi venivano eletti da assemblee cittadine, sebbene in maniera decisamente non democratica (che verrà descritta a breve); il cosiddetto “dittatore”, un comandante supremo nominato in casi di emergenza dai consoli, rimaneva in carica non più di sei mesi.
Nel suo complesso, l’élite sembrerebbe essere stata concorde sul fatto che per quanto un individui potesse divenire preminente per qualche tempo, tale periodo doveva essere breve.
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Le assemblee incaricate del processo di elezione non erano certo democratiche per i parametri moderni: consoli, censori e pretori venivano eletti dai comizi centuriati, in cui i voti venivano contati non individualmente ma tramite unità elettorali denominate “centurie”, nelle quali le preferenze di pochi uomini facoltosi erano assai più importanti di quelle delle masse, che assai probabilmente non erano né in grado di assistere in grande numero, né abituate a ciò.
Un altro fattore restrittivo, o comunque conservatore, era che il magistrato che presiedeva i comizi, un console, aveva il diritto di decidere chi fosse un candidato appropriato; un altro ancora era che i voti degli anziani (ovvero di età superiore ai 46 anni: si ricordi che nell’Antichità l’aspettativa di vita era breve) avevano un peso maggiore di quelli dei giovani.
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Un altro potere riservato ai comizi centuriati viene talvolta addotto come prova decisiva a favore della democraticità della Roma medio repubblicana, ovvero la facoltà di decidere nelle questioni riguardanti la guerra, la pace e i trattati (cfr. Polibio, 6, 14, 10-11).
I comizi, tuttavia, di norma accoglievano le indicazioni in materia del Senato senza frapporre ostacoli e l’unica occasione in cui il loro intervento si rivelò decisivo – con i senatori divisi su come procedere – fu nel 264 a. C., a favore della guerra contro Cartagine (mentre quando nel 200 a. C. i comizi votarono nel modo “sbagliato”, preferendo la pace, il Senato li costrinse a rettificare: Tito Livio, 31, 6-8).
Dopo il 171 a. C. questo ruolo divenne ancora più marginale e l’unica occasione in cui è noto che i comizi abbiano respinto i termini di un trattato di pace precedentemente accettati da un magistrato fu nel 241 a. C., quando insistettero per imporre misure più severe nei confronti di Cartagine (Polibio, 1, 63).
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Prima di esaminare i rapporti sociali ed economici che facevano funzionare la macchina statale, vale la pena di spendere qualche parola in più riguardo al Senato.
Sembra che la nomina o la riconferma di ciascun membro spettasse ai consoli, e fu una misteriosa Lex Ovinia ad assegnare questa funzione ai censori (Festo 290 Lindsay), forse non molto prima della nomina a censore del non meno misterioso patrizio Appio Claudio Cieco, nel 312-311 a. C.
Questa riforma diede a ogni membro del Senato un mandato minimo di cinque anni e deve aver notevolmente aumentato il potere de facto di questo organismo.
Nell’età medio repubblicana il Senato controllava la politica la politica estera ed esercitava anche grande potere negli affari interni: gestiva le finanze dello Stato e spesso adottava importanti decisioni di carattere religioso.
La crescente complessità delle relazioni esterne di Roma chiaramente rafforzò la posizione senatoria a partire dal quarto secolo a. C., e ancora più quando l’Urbe iniziò a essere coinvolta nel complesso mondo greco e divenne quindi necessaria dell’esperienza in materia.
Durante questo periodo il Senato ebbe sempre l’accortezza di mantenere in gran parte riservate le proprie riunioni (sfortunatamente per noi); costituiva un’élite sociale e non solo politica, i cui membri indossavano toghe bordate di porpora e particolari calzature, i calcei, che li rendevano facilmente riconoscibili in una società (almeno nel caso maschile) in cui si prediligeva invece un abbigliamento austero.
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Nella Roma medio repubblicana il potere legislativo risiedeva nelle assemblee cittadine (sebbene per i moderni criteri la loro attività fosse scarsa, così come quella di amministrazione): i consoli – o, assai occasionalmente, i pretori – presentavano le loro proposte ai comizi centuriati, di carattere conservatore, oppure i tribuni – di norma in accordo con almeno una parte dell’élite senatoria – facevano altrettanto nelle assemblee della plebe; parrebbe dunque che non vi fosse molto spazio per misure di carattere radicale.
Che “a Roma non si ebbe mai la democrazia perché le assemblee popolari non poterono funzionare come istituzioni autonome” è vero fino a un certo punto, ma per la maggior parte del tempo tali assemblee non furono veramente “popolari” e, in ogni caso, una tale spiegazione pecca di eccessiva astrazione.
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Il potere dell’aristocrazia si basava sia sulla competizione sia sul consenso dei cittadini, ma anche con i latini e gli “alleati” italici.
Le rivalità per le cariche politiche – descritte al meglio, seppure in termini assai generici, da Sallustio (Cat. 7-12) -, non portarono mai (o quasi mai) a minare le fondamenta del sistema stesso, anche quando forme più o meno esplicite di corruzione divennero evidenti dopo la guerra contro Annibale.
Naturalmente, la compravendita dei voti tendeva ad apparire ripugnante agli occhi degli aristocratici.
Nello stesso tempo, era di fondamentale importanza creare spazio per i più capaci tra i nuovi venuti (spesso aiutati nella loro ascesa da patrizi influenti): la prima generazione di questi senatori di rado ottenne il consolato (Catone, nel 195 a. C., fu un’eccezione) ma per i loro figli fu meno difficile.
I membri delle gentes più note erano però avvantaggiati, e in occasione dei funerali pubblici queste famiglie non mancavano di esibire le cariche occupate facendo sfilare dei figuranti con indosso delle maschere di cera, accuratamente conservate, di coloro tra i propri defunti che in passato avevano detenuto delle cariche pubbliche: Polibio osserva come queste cerimonie incoraggiassero “i giovani a sopportare qualunque cosa per il bene dello Stato, per conseguire la gloria che accompagna gli uomini di valore” (6, 54, 3).
A partire dal 264 a. C. questi funerali costituirono anche l’occasione per le gentes aristocratiche di organizzare dei combattimenti pubblici fra coppie di gladiatori (un dettaglio che Polibio diplomaticamente tralascia): un secolo più tardi questo genere di spettacolo era ormai divenuto di grande popolarità e si svolgeva nel principale spazio cittadino, il foro (dove le principali famiglie iniziarono a collocare le statue a grandezza naturale dei loro membri più insigni, a quando sembra a partire dal 338 a. C.; Tito Livio 8, 13, 9).
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L’elemento in gran parte mancante nei classici studi sulle strutture del potere nella Roma medio repubblicana è proprio quello strutturale, nel senso che non si specifica in che modo il potere politico fin qui considerato si rapportasse con quello economico.
Il primo punto da sottolineare è che l’economia del periodo medio repubblicano, anche nella sua forma più sviluppata, era di tipo agricolo e militare: gli uomini di potere erano sia proprietari terrieri sia, di tanto in tanto, generali: in quest’ultima veste distribuivano il bottino ai loro soldati al termine delle campagne vittoriose, mentre nella prima condizionavano la vita economica dei contadini, in qualche modo già nel quarto secolo a. C.
Successivamente, con l’affluenza di schiavi avviata nell’ultimo decennio dello stesso quarto secolo e proseguita per i successivi trecento secoli e oltre, Roma si trasformò nel classico Stato schiavista mediterraneo dell’Antichità: anno dopo anno, con brevi pause, gli eserciti romani ridussero in schiavitù decine di migliaia di nemici sconfitti.
Quando, nel 167 a. C., Roma rese schiavi circa 150000 abitanti dell’Epiro, nel nord della Grecia, la sua popolazione ufficiale non superava i 313000 cittadini (maschi in età militare), ma il mercato degli schiavi assorbì i nuovi arrivi, vale a dire li utilizzò a fini produttivi, senza alcuna apparente difficoltà.
Questa nuova forza lavoro coltivava la guerra, soprattutto nelle proprietà dei grandi latifondisti appartenenti agli ordini senatorio ed equestre.
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Sull’onda dell’imperialismo del secondo secolo a. c. Roma e almeno alcune delle città italiane divennero sempre più prospere: affluivano le entrate, l’impero forniva molteplici opportunità di investimento e il costo del lavoro doveva essere basso; ma verso il 140 a. C. – e nonostante l’élite senatoria dovesse apparire allora più potente che mai – un vero e proprio terremoto era ormai sul punto di scatenarsi.
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La natura del terremoto che mise fine alla repubblica, lasciando di nuovo Roma nelle salde mani di un autocrate, è stata assai dibattuta e assai male interpretata.
E’ probabilmente sintomatico che un acuto commentatore come Michael Mann, pur avendo recepito la maggior parte della moderna storiografia, abbia fornito un’analisi in parte sbagliata, non riuscendo a spiegare per quale motivo Silla, Cesare e Ottaviano scelsero di agire in modo non conforme alla tradizione o perché “l’esercito non poté essere tenuto insieme dallo Stato”; in particolare, le opinioni su Cesare degli storici contemporanei sono molto spesso guidate, quando non determinate, dalle loro preferenze politiche, riconosciute o no.
Innanzitutto, va messo in chiaro che tra il 140 a. C. e il regno di Tiberio (14-37 d. C.) si verificarono in effetti dei cambiamenti di vasta portata.
Alla fine di questo periodo l’Impero romano era esteso come mai prima d’allora, e governato ancora in modo parzialmente immutato: la maggior parte delle vecchie istituzioni era sopravvissuta (la “dittatura”, tuttavia, era incompatibile con la nuova monarchia); dagli anni Ottanta del primo secolo a. C. l’esercito, divenuto gradualmente più professionalizzato, si era trasformato nell’arbitro del potere interno e mantenne questo ruolo anche sotto il Principato, nonostante il fatto che per diverse generazioni, come si vedrà, la successione imperiale avvenne spesso senza scontri armati.
Ciò detto, il nuovo sistema:
1. Costruì una monarchia quasi assoluta;
2. Eliminò il potere politico di cui godevano i cittadini comuni, con l’importante eccezione del potere locale
3. Sostituì alla vecchia aristocrazia senatoria un nuovo ordine senatorio più plutocratico e politicamente meno influente
4. Integrò gli abitanti delle province non in casi sporadici, bensì su scala tanto vasta quanto ambiziosa.
Pag. 108-9
Ma a dare fuoco alle polveri a Roma furono i bisogni dei cittadini più poveri, i quali avevano finalmente trovato in alcuni membri dell’ordine senatorio di mentalità riformista i difensori dei loro diritti: quando Tiberio Gracco (figlio e nipote di consoli) usò la prerogativa dei tribuni per proporre una legge al fine di recuperare l’ager publicus, cioè quei terreni di proprietà dello Stato allocati ai ricchi, per ridistribuirli fr ai cittadini (133 a. C.), la maggioranza conservatrice dei senatori, guidata dall’ex console Publio Cornelio Scipione Nasica, non esitò a fare ricorso all’omicidio.
Identica sorte toccò dodici anni dopo al più giovane dei Gracchi e ai suoi sostenitori; questa volta il Senato stabilì che l’uccisione dei riformisti doveva ritenersi legittima, in base a un suo decreto secondo cui “i consoli devono vigilare affinché lo Stato non abbia a soffrire alcun male”, il cosiddetto senatus consultum ultimum (“ultima decisione del Senato”).
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Tuttavia, a cambiare erano le basi stesse della politica: il nuovo esercito creato da Mario, formato da uomini che non possedevano terre o ne avevano in quantità minima, inizialmente non fece nulla per sovvertire l’ordine costituito; ma quando, nell’88 a. C., scoppiò lo scontro politico fra lo stesso Mario e il console Lucio Cornelio Silla (causato dalla disputa su chi dovesse avere il privilegio di condurre la guerra contro il formidabile Mitridate), ciascuno dei due contendenti schierò le proprie legioni contro altri romani, e per la prima volta si formarono attorno a due leader dei nutriti e duraturi gruppi di sostenitori, “mariani” e “sillani”.
Quando Silla riuscì a rovesciare con la forza il governo legittimo (83-82 a. C.), divenendo dittatore di nome e di fatto, ricompensò le proprie truppe con delle terre non conquistate oltremare, ma sottratte in Italia a persone che erano ormai (cavilli legali a parte) cittadini romani.
Pag. 112-13
Dopo aver conquistato il potere, Sila inflisse all’élite romana un numero di morti violente senza precedenti in un periodo di tempo così breve: oltre a coloro che perirono durante la guerra vera e propria, più di quaranta senatori e 1600 cavalieri rimasero vittime delle proscrizioni, che oltre alle esecuzioni capitali comprendevano anche confische di proprietà (Appiano, Guerre civili 1., 95, 442-444); forse un terzo dei membri del Senato perse la vita.
Silla varò anche il cambio di regime più radicalmente reazionario che la repubblica romana avesse mai conosciuto, neutralizzando di fatto il tribunato (i tribuni persero il diritto di proporre delle leggi e fu loro vietato di candidarsi ad altre cariche) e affidando l’amministrazione di gran parte della giustizia penale a sei nuovi “tribunali perpetui”, uno per ogni genere di reato (ne esisteva già uno per l’”estorsione”, in cui le giurie erano formate esclusivamente dai membri dell’élite).
Quest’ultima riforma ebbe effetti maggiori nel lungo periodo, ma sfortunatamente non esistono studi soddisfacenti sull’origine di questi tribunali o sul loro effetto sulla distribuzione del potere, giacché gli storici del diritto si interessano di rado al ceto dei giurati.
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Il nuovo esercito rappresentò il fattore più importante nella fine della repubblica. Syme scrisse che i soldato “andavano perdendo il senso di devozione allo Stato”, ma una formulazione più precisa sarebbe che lo strato sociale chiamato a servire sotto le armi dal 107 a. C. in poi non aveva di fatto mai avuto delle forti ragioni per dimostrare fedeltà alla tradizionale organizzazione dello Stato.
Cesare, generale vittorioso e (grazie ai suoi successi militari) enormemente ricco, poté in ogni caso contare su soldati e ufficiali che avevano combattuto con lui in Gallia anche quando, durante la guerra civile, ebbe problemi di liquidità, in parte perché non poteva ovviamente permettere alle sue truppe di saccheggiare le proprietà degli abitanti delle province.
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Molte delle principali personalità del tempo sostennero Cesare quando, imitando Silla, invase la penisola nel 49 a. C. proclamandosi “dittatore”, o si unirono rapidamente ai suoi ranghi (almeno la metà dei senatori di cui conosciamo lo schieramento nel corso della guerra civile): rapporti personali, opportunismo e un più o meno manifesto desiderio di una leadership forte ebbero tutti una certa importanza.
Cesare combinò uan politica di riconciliazione (clementia) con l’efficienza militare: le forze della repubblica si ritirarono attraverso l’Adriatico in Tessaglia e furono sconfitte nella battaglia di Farsalo (48 a. C.), che segnò la fine di un sistema politico.
Ma, dopo aver trionfato in una lunga e aspra guerra civile (dopo Farsalo i combattimenti durarono ancora per parecchio tempo), Cesare si schierò per lo più dalla parte dei diritti dei proprietari (la cancellazione di un anno di canoni d’affitto fu probabilmente il suo provvedimento più estremo): coloro che premevano per delle misure veramente radicali, come il pretore Marco Celio Rufo nel 48 a. C. e il tribuno Publio Cornelio Dolabella nel 47 a. C., vennero richiamati all’ordine con fermezza e le restrizioni poste suo collegia (Svetonio, Divus Iulius, 42) dovettero rappresentare una delusione per la massa dei suoi sostenitori.
Nell’aprile 46 a. C. Cesare fu proclamato dittatore per un periodo di dieci anni, fatto mai avvenuto, e agli inizi del 44 a. C. divenne “dittatore perpetuo”.
Al diavolo le tradizioni repubblicane!
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Quattro anni dopo la battaglia di Farsalo, nelle idi (ovvero il 15) di marzo del 44 a. C., un gruppo di senatori di inclinazioni repubblicane – molti dei quali avevano beneficiato della clementia di Cesare – assassinarono colui che era ormai un “dittatore perpetuo”; ma probabilmente non è necessario ricorrere al senno di poi per immaginare che la loro fosse una causa senza speranza: pur riuscendo a reclutare delle forze formidabili da opporre ai successori di Cesare, Marco Antonio e Ottaviano, vennero sconfitti in maniera decisiva nella battaglia di Filippi (42 a. C.).
Di recente, uno studioso ha dimostrato coem Sesto Pompeo, il figlio più giovane di Pompeo, avesse continuato a rappresentare una seria minaccia per Ottaviano fino alla sua disfatta nella battaglia di Nauloco (Naulochus), al largo delle coste settentrionali della Sicilia (36 a. C.); ma se anche Sesto, dopo Filippi, avesse creduto nella possibilità di una restaurazione dell’ordine repubblicano – e non esiste alcun indizio in tal senso – non avrebbe fatto altro che inseguire un sogno.
Il potere politico era passato definitivamente nelle mani di coloro che potevano contare sull’incrollabile fedeltà delle legioni.
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La battaglia di Azio (31 a. C.), combattuta tra le forze di Ottaviano e quelle di Antonio, fa apparire inevitabile il governo dell’Impero romano da parte di un singolo uomo (avrebbe forse potuto essere diviso).
Ciascuno dei due contendenti, nei tredici anni precedenti, aveva praticato l’arte di accumulare il potere sia nei modi tradizionali (patrocinio, elargizioni, propaganda delle vittorie sui nemici all’estero) sia in altri meno ortodossi: come già visto, utilizzarono degli opuscoli per influenzare i soldati dell’avversario e nel 32 a. C. Ottaviano si fece giurare fedeltà dall’Italia e dalle province occidentali (Res gestae 25, 2).
Un’altra innovazione fu la “potestà tribunizia” che lo stesso Ottaviano si arrogò probabilmente in due fasi (nel 36 e nel 30 a. C.), un’implicita – e fraudolenta – pretesa di stare dalla parte della plebs.
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Il princeps (“primo cittadino”), come si definiva (Res gestae 13 ss.), permise infatti alle istituzioni politiche della Repubblica di continuare a funzionare, ma solo laddove queste erano compatibili con il governo monocratico: le assemblee eleggevano i magistrati come prima e Augusto distribuì persino delle tangenti perché le elezioni sembrassero autentiche (Svetonio, Divus Augustus, 40); di fatto per le cariche minori, fino alla pretura, esisteva uan qualche reale concorrenza, anche se successivamente Tiberio semplificò le procedure trasferendo al Senato le nomine di consoli e pretori.
I senatori erano ovviamente da sempre grandi proprietari, ma Augusto introdusse dei requisiti finanziari formali (1 o 1,2 milioni di sesterzi, le fonti sono contraddittorie) come forma di garanzia politica.
Per quanto riguarda i governi provinciali, gli ex magistrati continuarono a svolgere il proprio ruolo ma coloro che detenevano il comando delle milizie dovevano rispondere direttamente al princeps: quest’ultimo nominò dei “legati” per governare le province e le legioni sotto il suo diretto controllo, mentre i “proconsoli” incaricati delle province populi Romani venivano estratti a sorte fra gli ex alti magistrati disponibili.
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Che il potere supremo avrebbe assunto una forma dinastica divenne gradatamente sempre più palese, ma sulla questione regnava un certo imbarazzo: la tradizione repubblicana non forniva certo alcuna base per obiettare al fatto che Augusto ricorresse ai suoi familiari per formare delle alleanze politiche, ma la palese designazione di un erede era tutt’altra questione.
L’imperatore ebbe uan sola figlia legittima, Giulia, e a quanto sembra nessun desiderio di proseguire su quella strada: il suo primo potenziale successore, il nipote e genero Marcello, morì nel 23 a. C. prima di compiere 20 anni: il ruolo di genero passò quindi ad Agrippa, il vero vincitore delle battaglie di Nauloco e Azio, ma questi aveva all’incirca la stessa età di Augusto e morì nel 12 a. C.
Fu dunque ai due figli di Agrippa e Giulia, Gaio e Lucio Cesare, che il princeps rivolse la propria attenzione, adottandoli già nel 17 a. C. e riempiendoli di onori; sembra che i loro nomi apparissero nei giuramenti di fedeltà imposti da Augusto a una serie di città delle province fra il 5 e il 2 a. C.
Ma anche questi due eredi morirono in giovane età (nel 4 e nel 2 d. C., rispettivamente), il che lasciò ad Augusto come unico parente stretto e competente il figliastro Tiberio: dal 6 a. C. al 2 d. C. questi rimase in un esilio semivolontario a Rodi, ma dovette essere richiamato per essere designato come futuro princeps, e nel 13 d. C. i suoi poteri nominali equivalevano ormai a quelli di Augusto.
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Infine, come riassumere nel caso romano i reciproci effetti delle relazioni di potere interne ed esterne?
Iniziamo con l’effetto delle relazioni di potere interne sui rapporti esterni dello Stato.
La posizione dell’aristocrazia romana nel quarto o terzo secolo a. C. non era affatto precaria, ma veniva fino a un certo punto messa in discussione: i suoi leader si contendevano il prestigio militare, ma cercavano anche di soddisfare sia le proprie ambizioni sia i bisogni della massa della popolazione, combattendo costantemente contro i popoli confinanti; la schiavitù – agricola e artigianale – rese possibile soddisfare le crescenti necessità di personale militare.
Quando la politica interna di Roma si fece più decisamente competitiva, con un crescendo negli anni tra il 63 e il 31 a. C., ciò ebbe in un certo senso un effetto sorprendentemente limitato sulla capacità dello Stato di mantenere e anzi aumentare notevolmente il proprio potere esterno: in parte perché i nemici temibili erano ormai pochi e lontani, in parte perché le politiche imperiali, espansionistiche e di sfruttamento, servivano gli interessi di tutti coloro che a Roma contavano.
L’atteggiamento nei confronti della guerra – guerra tr ai cittadini, oltre che conflitti all’estero – stava cambiando, ma per lungo tempo ciò ebbe solo scarse conseguenze sui rapporti esterni: le entrate finanziarie dell’impero, nel periodo tardo repubblicano ma anche sotto Augusto, erano sufficienti a mantenere le forze militari necessarie per i bisogni immediati.
La nuova dittatura ebbe invece effetti complessi sui rapporti esterni di Roma: il regime si impegnò infatti in una serie continua di guerre all’estero, con una pausa significativa negli ultimi anni di Augusto; ma che una politica di aggressione fosse nell’interesse del princeps divenne sempre meno ovvio e anche se molti membri dell’ordine senatorio prestarono il proprio servizio militare, traendone dei benefici, i possibili guadagni derivanti da queste attività si assottigliavano sempre più.
Per i senatori, e di fatto per la maggior parte della popolazione, aveva più senso approfittare delle opportunità fornite dall’impero già esistente, mentre gli abitanti delle province, un po’ meno sfruttati di un tempo, poterono acquisire una maggiore influenza.
Per quel che riguarda gli effetti dei rapporti esterni sulle strutture di potere interne, questo capitolo e il precedente hanno già fornito una parte della risposta: semplificando, ma non eccessivamente, si potrebbe dire che per molto tempo le conquiste e il successo imperiali favorirono la stabilità sociale e politica, ma finirono poi col minarne le fondamenta.
La notevole stabilità politica dello Stato romano, durata dagli anni Sessanta del quarto secolo fino agli anni Ottanta del primo secolo c. C., fu dovuta in parte al fatto che i romani di ogni classe sociale potevano sperare di vedere soddisfatte le proprie ambizioni – nonché la propria inclinazione alla violenza – nel mondo esterno.
La teoria romana sul perché ebbe fine questo soddisfacente stato di cose afferma che ciò che aveva tenuto in riga i romani era il loro timore di Cartagine, timore che dev’essere andato scemando dopo la sconfitta di Annibale nel 202 a. C. e infine svanito dopo il 146 a. C.; l’ovvia ipotesi soggiacente era che finché dovevano fare i conti con dei temibili nemici all’estero, non avrebbero rischiato di fare a pezzi il loro stesso Stato.
I conservatori dell’epoca tardo repubblicana inoltre tendevano a dare la colpa all’ambizione dei tribuni populares, mentre altri facevano ricadere la responsabilità sui “signori della guerra” aristocratici e in particolare su Silla.
L’idea che la mancanza di nemici terribili abbia portato a un conflitto incontrollato fra gli stessi romani ha perfettamente senso, ma dev’essere completata facendo riferimento ad altri effetti di un imperialismo di successo, in particolare quelli economici e culturali già notati in precedenza.
Inoltre, come è stato spesso sottolineato, le continue guerre all’estero dell’età tardo repubblicana resero necessaria la creazione sia di ingentissime forze armate al comando di generali come Pompeo e Cesare, sia di un esercito parzialmente rinnovato e disposto, a determinate condizioni, a combattere contro altri romani.
Gli eventi esterni contribuirono alla stabilità politica che sembrò ritornare all’indomani della vittoria di Ottaviano, nel 31 a. C.?
Il nuovo governante cercò di sfruttare al massimo la sua presunta vittoria contro un pericoloso nemico esterno, Cleopatra (Cassio Dione 51, 19, ecc.).
Gli storici moderni tendono a credere che i contemporanei non si siano lasciati affatto ingannare da questa propaganda, ma i sostenitori di Augusto arrivarono quasi a monopolizzare i mezzi di comunicazione, e una parte del consenso che il princeps riuscì a costruire dipese verosimilmente dal suo essere percepito come colui che aveva restaurato l’integrità della fondamentale parte orientale dell’Impero romano.
Pag. 130-32
Cap. 4. Roma contro gli altri, dal 16 al 337.
Ma chi era dentro, e chi fuori dei confini dell’Impero?
I romani ci paiono un po’ confusi quando affermano che il mondo era sotto il loro controllo, nonostante la classe dirigente sapesse bene che non era vero; anzi, non mancava di sottolineare – almeno fino ad una certa data – come esistessero ancora molti popoli stranieri da conquistare.
Tacito, che scrive negli anni Dieci del secondo secolo, critica Tiberio per “non essere [stato] interessato a espandere l’impero” (Ann. 4, 32), un’allusione piuttosto trasparente alla propria epoca.
Inoltre, a lungo gli autori romani furono soliti riferirsi agli abitanti delle province con il nome di externae gentes; La confusione era probabilmente aggravata dal fatto che, come già in precedenza, Roma considerava i “re clienti” parte dell’Impero, nonostante fossero una regolare presenza alla periferia.
Infine, a quest’epoca era abbastanza comune che truppe romane fossero dislocate oltre i confini delle province, coem sarebbe accaduto ancora lungo la frontiera settentrionale sotto i tetrarchi (Diocleziano e i suoi tre colleghi) e poi Costantino.
Pag. 133
Le mie domande iniziali, in ogni caso, riguarderanno l’ideologia della conquista e che cosa ne sia stato, nonché i vincoli finanziari legati all’espansione; passeremo poi a valutare gli interessi dell’imperatore, dell’élite e dell’esercito, nonché dei loro nemici effettivi e potenziali: tutti aspetti che cambiarono nel corso delle generazioni.
Prenderemo poi in considerazione le conoscenze dei romani, il ricorso alla violenza e alla diplomazia con i popoli stranieri, e alcuni dei loro caratteristici modelli di comportamento; e infine, in che modo questa serie di relazioni con il mondo esterno abbia influenzato i rapporti di potere interni dell’Impero.
Pag. 134
A mo’ di introduzione, presento qui un sommario riassunto cronologico dei più importanti eventi militari e politici: i momenti di svolta, per quanto possano essere isolati dal contesto, avvennero sotto Adriano (117-38), alla morte di Filippo l’Arabo (244-49) e, in maniera più controversa, sotto Aureliano (270-75).
Pag. 134-35
L’oro della Dacia risolse i problemi finanziari di Traiano, ma l’imperatore non si riteneva per niente soddisfatto: aspirava alla più grande espansione a Oriente dai tempi di Pompeo, e la morte del sovrano nabateo Rabel 2. portò nel 106 all’annessione del suo regno, incorporato come provincia romana dell’Arabia; già nel 111 i romani erano impegnati nella costruzione di una strada che collegava Bostra, la capitale di Rabel, al Mar Rosso, strada il cui significato strategico non è chiaro, ma che rese assai più facile spostare truppe e rifornimenti dall’Egitto alla frontiera siriaca.
Nel 114 Traiano avviò un’offensiva contro i parti, che inizialmente si rivelò un successo: nella prima campagna depose il monarca dell’Armenia trasformandone il regno in una provincia, e nelle due successive avanzò lungo l’Eufrate fino al Golfo Persico, creando due nuove province, “Mesopotamia” e “Assiria” (a quanto sembra la Mesopotamia meridionale); sul trono partico venne posto un re cliente.
Ma il controllo romano era fragile, e la salute dell’imperatore altrettanto: dopo la morte di Traiano, nel 117, Adriano ritirò le forze romane da tutti i territori oltre l’Eufrate, compresa l’Armenia, e negli ottant’anni successivi nessun imperatore combatté una guerra di uan qualche importanza all’estero.
Pag. 138
La dinastia dei Severi, avendo senza dubbio compreso l’inutilità di una Marcomannia o di una Sarmazia, tornò a concentrare le proprie iniziative militari sulle frontiere orientali: Settimio invase la Mesopotamia nel 195 creandovi la nuova piccola provincia di Osroene, e nel 197 attaccò la Partia riconquistando Ctesifonte.
Anche Settimio, come Traiano, creò una provincia della Mesopotamia, che corrispondeva solo a una minima parte dell’omonimo territorio; ma l’imperatore, la cui città natale era la libica Leptis Magna, decise nel 197-202 di estendere il controllo romano a sud del Sahara, dalla Tripolitania alla Mauretania; il governatore della Numidia posto al comando delle operazioni, Anicio Fausto, viene quasi ignorato dalle fonti letterarie ma le iscrizioni e i resti archeologici rivelano l’esistenza di una nuova e più meridionale linea di fortificazioni.
Pag. 141
Nel 248-9 il suo generale Decio ebbe identico successo, a quanto sembra, nel ricacciare Quadi, Goti e altre popolazioni dalla province del medio e basso corso del Danubio: ma a questo punto a rappresentare la minaccia principale non erano tanto i barbari, quando lo stesso Decio che, proclamato imperatore delle sue truppe – il primo dei tanti imperatori illirici – marciò su Roma sconfiggendo le forze di Filippo nei pressi di Verona.
Filippo divenne così il primo imperatore a morire in battaglia (con al possibile eccezione di Gordiano 3.), e ciò accadde contro un esercito romano.
Pag. 143
Entro l’estate del 285, Diocleziano aveva stabilito la propria autorità su tutte le province dell’Impero, cooptando poco dopo un altro ufficiale dell’esercito, Massimiano, poiché ne condividesse il potere; le frontiere richiedevano un’attività e una vigilanza costante ma i tetrarchi riuscirono a proteggerle in modo efficace.
Il loro successo più notevole fu contro i persiani: la guerra condotta da Diocleziano e dal suo vice Galerio nel 196-8 portò ancora una volta all’occupazione di Ctesifonte ma soprattutto a un trattato con il re Narses (299) che a quanto sembra stabilì il fiume Tigri come frontiera tra i due imperi (Pietro Patrizio fr. 14, am si tratta di un racconto frammentario), almeno nell’immediatezza; seguirono poi delle guerre civili (308-13, 316, 323-4) ma i tetrarchi e Costantino riuscirono a mantenere i confini esistenti.
Costantino riorganizzò l’esercito dislocando un minor numero di truppe lungo le frontiere; lo storico Zosimo, che gli era ostile, afferma nella sua Storia nuova (2, 34) che in tal modo “permise ai barbari un accesso incontrastato nei territori romani”, ma per quanto la lamentela possa essere giustificata, apparentemente l’iniziativa non ebbe alcun effetto negativo durante il suo regno; anzi, le campagne danubiane del 322, 332 e 334 videro soprattutto dei combattimenti oltre i confini e non esiste alcun indizio del fatto che i Sarmati o i Goti pensassero di aver ottenuto, appunto, un “accesso incontrastato”.
Pag. 145
Fino a che punto il rallentamento e la fine delle guerre di conquista romane furono causati da considerazioni di natura amministrativa, finanziaria o economica?
E’ importante qui non equiparare la razionalità degli imperatori o dei loro consiglieri a quella attribuita a volte ai moderni statisti, sebbene le guerre degli ultimi cento anni mostrino ben poco di razionale nelle motivazioni finanziarie o economiche che le hanno mosse.
Entro l’epoca di Tiberio, a ogni modo, chiunque contasse credeva probabilmente che Roma governasse già le zone migliori del mondo abitato, come afferma Strabone (17, 819) descrivendo in modo dettagliato tre continenti.
Tale opinione era diventata un luogo comune, ma un luogo comune abbastanza significativo.
Pag. 150
Diocleziano e Costantino rafforzarono molto la capacità di Roma di riscuotere i tributi, ma secondo alcuni storici aumentarono altrettanto notevolmente le dimensioni dell’esercito: e questo è uno dei maggiori problemi effettivi della storia romana, dal momento che condusse alla catastrofe militare avvenuta due o tre generazioni dopo la morte di Costantino.
Le scarse fonti di cui disponiamo sono in disaccordo e mentre conosciamo più o meno il numero delle legioni sotto il comando dei tetrarchi (almeno 67), non sappiamo quante di esse potessero contare sul tradizionale numero di effettivi (5280 in teoria) e quante disponessero di appena un migliaio di uomini, come è senza dubbio il caso di diverse legioni di Costantino.
Alcune erano gravemente sotto organico già ai tempi di Diocleziano (ad es., 116 effettivi in un’unità che in altri tempi ne avrebbe dovuti avere 500).
E’ comunque assai improbabile, soprattutto per motivi finanziari, che l’organico dell’epoca possa aver superato i 450-475000 effettivi agli ordini di Settimio.
Giovanni Lido, che di solito non è particolarmente affidabile per quel che riguarda le cifre, non dovrebbe però essere lontano dal vero quando afferma che sotto Diocleziano vi erano 389704 soldati (sebbene l’apparente precisione del numero non rappresenti alcuna garanzia di accuratezza).
Pag. 153
Molto dipendeva dunque dal temperamento del singolo imperatore: a Traiano e a Settimio Severo il comando militare sul campo evidentemente piaceva, ad altri meno.
Al momento del suo insediamento, la presa di Adriano sul potere era oggettivamente e soggettivamente tutt’altro che salda: in breve tempo sancì (o secondo alcuni, permise) la condanna a morte di quattro ex consoli con dei solidi precedenti militari.
E’ anche possibile che la pace si confacesse all’indole edonista dell’imperatore, il quale peraltro durante la seconda guerra in Dacia di Traiano era stato al comando di una legione, e non era certo un pacifista.
Le avventure all’estero erano di fatto inutili – i parti sapevano bene quanto Roma potesse essere pericolosa – e mettevano a rischio la posizione stessa dell’imperatore.
E poi, ancora, colui che si ribellò a Marco Aurelio, Avidio Cassio, era un generale di successo; si noti che gli usurpatori cercavano di rovesciare anche imperatori all’apparenza ben saldi sul trono come Antonino Pio (un certo Cornelio Prisciano tentò una rivolta in Spagna nel 145) e appunto Marco Aurelio.
Dal 172 al 175 quest’ultimo combatté ogni anno oltre il Danubio, ma mentre si trovava lì scrisse in greco – presumibilmente a suo uso personale – dei commenti sprezzanti sui successi militari, in cui emerge l’implicito ma chiaro giudizio che la guerra contro i sarmati fosse un atto di semplice banditismo.
Pag. 155-56
I graduali cambiamenti nella natura dell’esercito tra l’epoca di Tiberio e il 235 certamente influenzarono sia la società romana sia le lotte di potere interne.
Si può dire che ebbero altrettanta influenza sulla forza di Roma alla periferia dell’Impero?
I mutamenti veramente importanti furono tre, tutti peraltro avviati prima dell’ascesa al potere di Tiberio: il primo consistente nell’organizzazione regolare delle truppe “ausiliarie” in unità semipermanenti, i cui effettivi servivano normalmente per 25 anni prima di ricevere la cittadinanza romana all’atto di congedo – un sistema creato da Augusto e perfezionato dai suoi successori; come già nei secoli passati, gli ausiliari erano spesso più numerosi dei legionari e la loro efficacia militare era di grande importanza.
Il che porta al secondo aspetto, quello del reclutamento: all’epoca delle guerre civili (dal 49 al 31 a. C.) e sotto Augusto i provinciali avevano avuto accesso in gran numero ai ranghi delle legioni; i coscritti provenivano dalle comunità coloniali o comunque romanizzate, ma non solo: un’iscrizione risalente ai primi anni del Principato (ILS, 2483) mostra come quasi tutti gli effettivi delle die legioni stanziate in Egitto fossero stati reclutati fra le comunità di non cittadini delle province orientali (la cui lingua franca era il greco).
In tutto l’Impero le province maggiormente romanizzate fornirono un numero sempre più alto di legionari, mentre gli italici – che formavano il grosso della meglio retribuita guardia pretoriana – contribuirono sempre meno; in pratica, le autorità erano ora disposte a reclutare dei non cittadini, concedendo loro la cittadinanza all’atto del giuramento.
Questa “provincializzazione” probabilmente rifletteva uan qualche riluttanza romana e italica a prestare servizio (l’Italia era troppo prospera), ma anche una certa intenzione da parte degli imperatori di coinvolgere a pieno titolo gli abitanti delle province.
A partire dal regno di Adriano la prassi normale (a eccezione delle Britannia) fu quella di reclutare i legionari nelle province in cui erano necessari, ma partendo da elementi realmente romanizzati o ellenizzati (e i legionari erano più frequentemente alfabetizzati rispetto agli ausiliari).
Si trattava di una forza nel complesso ben organizzata e disciplinata e che probabilmente non mancava di spirito combattivo, almeno fino all’epoca di Traiano: la scelta dei comandanti sul campo di far sostenere l’urto iniziale del combattimento alle unità ausiliarie mantenendo i legionari in riserva – una prassi attestata per la prima volta in un’importante battaglia a Idistaviso, in Germania, nel 16 (Tacito, Ann. 2, 16, 3) – poteva essere dettata da varie ragioni di indole tattica.
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Il terzo cambiamento militare potenzialmente di grande importanza nel periodo precedente al 235 consistette non tanto nel fatto che con il passare delle generazioni molte unità dell’esercito romano divennero stanziali, venendo coinvolte in compiti essenzialmente amministrativi, quanto nel fatto che molti soldati romani non videro mai il campo di battaglia.
Questo esercito non era mai stato imbattibile, ma il suo disastroso fallimento nel proteggere la frontiera danubiana nel 170-71 sembra indicare un significativo peggioramento.
Forze nemiche raggiunsero l’Italia settentrionale per la prima volta in circa 270 anni mentre altre, come già menzionato in precedenza, saccheggiarono il territorio spingendosi a sud fino all’Attica: le fonti in nostro possesso al riguardo sono scarse, ma si può ipotizzare che una carenza di ufficiali e soldati con esperienza di combattimento abbia influito non poco sull’insuccesso romano, e che ciò fosse a sua volta l’effetto di una politica consapevole.
Sotto altri aspetti, i romani erano normalmente avvantaggiati: per tutto il periodo in questione rimasero superiori ai loro avversari in settori importanti quali l’artiglieria e il genio (“I romani costruiscono ponti sui fiumi senz’alcuna difficoltà, dato che sono abituati a svolgere quest’attività militare”: Cassio Dione 71, 3).
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Già Tiberio sapeva che valeva la pena mantenere due legioni in Dalmazia, in parte a sostegno delle altre schierate sul Danubio (Tacito, Ann. 4, 5); gli imperatori successivi finirono col concludere che l’ormai tradizionale schieramento delle forze romane, con la maggior parte dei soldati dislocata lungo i confini o nelle zone adiacenti, non era adatto a resistere a delle grandi invasioni che potevano provenire da altre direzioni.
Era sempre stato necessario bilanciare le necessità della frontiera danubiana con quelle dell’Eufrate, ma entrambi i confini divennero più pericolosi alla fine dell’epoca dei Severi; una volta poi che Roma ebbe rinunciato all’iniziativa militare le distanze divennero un problema quasi insormontabile: occorrevano più di due mesi, ad esempio, per trasferire delle truppe da Roma a Colonia.
Il meglio che si potesse fare era costituire un esercito di riserva che potesse essere inviato dovunque fosse necessario senza dover indebolire altre guarnigioni di importanza fondamentale: sembra che a creare una forza centrale di cavalleria sia stato Gallieno (cfr. Zosimo, 1, 40; Cedreno, vol. 1, p. 454, Bekker).
E’ impossibile da seguire in dettaglio lo sviluppo di questi distaccamenti, denominati comitatenses, ma a quanto pare Costantino ne ampliò il ruolo (Zosimo, 2,21, 1 potrebbe riferirsi a loro), centralizzando anche la struttura di comando dell’esercito attraverso un comandante generale della fanteria (il magister peditum).
Tuttavia, rimase difficile contrastare un’invasione su vasta scala uan volta che questa avesse superato i confini settentrionali od orientali: un governatore volenteroso avrebbe potuto reclutare una milizia locale (populares: AE, 1993, n. 231b, ci mostra un governatore della Rezia fare proprio questo nel 260), ma si sarebbe trattato di truppe in gran parte non addestrate e prive di qualunque esperienza.
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Nel 232-33, l’epoca in cui il raggruppamento di germani noto sotto la denominazione di alamanni (“tutti uomini”, attestata per la prima volta dalle fonti romane nel 213) inflisse all’impero dei danni piuttosto gravi, avevano ormai avuto luogo dei cambiamenti fondamentali: siamo forse dinnanzi a niente di meno che alla nascita di una nazione.
A fare la differenza in questo caso fu probabilmente un fatto piuttosto semplice: questi nuovi gruppi, come i franchi a partire dal 260 potevano schierare sul campo forze maggiori di qualunque singolo popolo germanico; ma i tetrarchi e Costantino, a quanto sembra, furono sempre in gradi di sconfiggere i popoli del nord in battaglia.
Pag. 164-65
Per certi versi l’Impero romano era piuttosto mal equipaggiato per affrontare i nemici esterni: un numero considerevole di imperatori del periodo precedente alla crisi non aveva quell’esperienza militare che li avrebbe aiutati a valutare le condizioni e le capacità delle proprie forze militari, per non parlare di quelle nemiche.
Ciò vale in particolare per Claudio, Nerone, Antonino Pio, Marco Aurelio, Commodo (che aveva accompagnato il padre durante una campagna ma che al momento dell’ascesa al trono era appena diciottenne), Alessandro Severo e Gordiano 3. (i cui regni coprirono esattamente un arco di cento anni su un periodo di 230); ovviamente alcuni di loro, specialmente Marco Aurelio, dovettero imparare sul campo.
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Le fonti invece forniscono scarse informazioni su quanto bene i romani conoscessero i propri principali nemici: è evidente tuttavia che persino alcuni degli imperatori meno competenti si interessarono al funzionamento dello Stato dei parti e più tardi dei sasanidi (cfr., ad es., Erodiano 6, 7, 1 su Alessandro Severo); dal regno di Claudio fino a quello di Adriano vi sono prove di un serio interesse da parte delle autorità per regioni quali il Sudan, il Sahara e il Mar Nero orientale.
Le fonti di Cassio Dione conoscevano il nome di un certo numero di sovrani transdanubiani sotto Marco Aurelio, e anche qualche dettaglio delle loro politiche interne; non esiste invece alcuna prova che confermi l’affermazione secondo cui Commodo e i suoi consiglieri sottovalutarono “enormemente” la distanza fra il Danubio e il Baltico.
Per quanto riguarda la tattica militare, l’esercito romano durante il Principato sembra in generale essersi mantenuto ben informato (la sconfitta di Varo fu assai atipica), ma potrebbe esservi stato un qualche deterioramento già prima della grande crisi: quando Ardashir sconfisse l’esercito invasore di Alessandro Severo ciò avvenne, a quanto sembra, perché le forze persiane colsero i romani di sorpresa (Erodiano 6, 5, 9); successivamente, al rovina di Decio fu forse causata da una ricognizione inadeguata (Zosimo 1, 23, 3).
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Occorre aggiungere qualcosa di più sulla frontiera imperiale; questa esisteva effettivamente, anche se come già spiegato nella maggior parte dei casi il potere di Roma si estendeva anche oltre.
I confini delimitati dal Reno e dal Danubio erano chiari, e da Domiziano in poi sembrano essere esistite anche delle frontiere terrestri relativamente fisse, almeno in alcune regioni.
Niente di tutto questo implicava l’esistenza di una linea di confine immutabile o di un atteggiamento soprattutto difensivo nei confronti del mondo esterno; il problema storico non dovrebbe quindi essere posto nei termini della semplice dicotomia “o Roma voleva una frontiera difensiva fissa, oppure era ancora una potenza espansionistica”: nessuna di queste due opinioni può essere sostenuta a priori.
Il Reno, il Danubio e l’Eufrate costituirono alcuni dei confini di Roma per un periodo molto lungo, ma non impedirono – né, a quanto pare, scoraggiarono – un’ulteriore espansione; all’inizio del quarto secolo tuttavia quasi nessun romano pensava ancora a un’espansione territoriale e i tetrarchi costruirono un numero sempre maggiore di fortificazioni di frontiera, specie a quanto pare in Oriente.
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Conclusioni
Ci eravamo prefissi di dare una spiegazione alla crescita e alla stabilità dell’Impero.
All’epoca in cui il governo di Tiberio affermò mendacemente di aver conquistato la Germania, i tradizionali incentivi di cui godevano coloro che decidevano la politica dello Stato romano – avevano ormai perso molta della loro forza.
Le classi superiori, almeno fino al tempo di Traiano, conservarono tuttavia parte dell’antico impeto e anche successivamente la grande maggioranza degli imperatori continuò ad attribuirsi con soddisfazione il merito di aver ampliato le frontiere (così Settimio sul suo arco) e di aver sconfitto i nemici stranieri.
Ma sostenere che le grandi guerre all’estero avessero senso dal punto di vista finanziario divenne sempre più difficile, e questo modo di pensare, sebbene non inedito, sembra aver avuto maggior peso che non all’epoca di Augusto.
Gli interessi personali degli imperatori e, talvolta, la loro mancanza di esperienza militare furono poi fattori fondamentali nel limitare le guerre di conquista in tutto il periodo compreso fra il regno di Tiberio e quello di Filippo l’Arabo; e anche dopo il ritorno di una certa stabilità, negli anni Ottanta del terzo secolo, la politica interna ostacolò grandemente ogni tentativo di espansione su grande scala.
L’incredibile stabilità dell’Impero romano in quanto struttura imperiale durante questo periodo era saldamente basata sulla potenza militare e sull’utilizzo intelligente della stessa; ma questi tre secoli e oltre di confini per la maggior parte stabili necessitano di un’ulteriore spiegazione, soprattutto alla luce dei gravi disordini interni del 66-69, 193-96, 235-84 e 305-24.
Le frontiere erano sempre vulnerabili, specialmente quando il potere imperiale, per qualsiasi motivo, cessava di essere intimidatorio; ma l’Impero in sé stesso non era vulnerabile – o almeno non ancora.
Le sue risorse umane e finanziarie erano ancora sufficienti per mantenere il proprio potere sul grosso se non sulla totalità del proprio territorio; l’esercito romano a volte svolgeva i propri compiti di difesa dei confini in modo insoddisfacente persino nel secondo secolo – e come abbiamo visto andava evolvendosi in direzioni diverse -, ma sotto Diocleziano era ancora numerosi, piuttosto ben equipaggiato e diretto e adeguatamente addestrato (se fossero già presenti i semi della futura debolezza – oltre alle difficoltà di reclutamento – verrà analizzato nei capp. 5 e 6).
Ma esisteva un’altra componente della durata dell’Impero, un fattore interno difficile da descrivere con accuratezza ma ciò nonostante di comma importanza: una gran parte della popolazione credeva non solo nei destini, ma anche nell’unità imperiale.
Alla morte di Alessandro Magno i suoi estesi domini si divisero in quattro grandi regioni; anche l’Impero romano era soggetto a tendenze centrifughe e nel terzo secolo nacquero degli effimeri “Stati nello Stato”, uno in Gallia (258-74) e un altro con centro a Palmyra (261-72 ca.).
Un imperatore che si sentisse sufficientemente forte da riprendere il possesso di questi territori non avrebbe ovviamente mancato di farlo: nei fatti se ne incaricò Aureliano, ma ciò che faceva apparire il suo intervento come naturale non era tanto l’ambizione personale, quanto la diffusa identità romana di coloro che per molte generazioni erano stati integrati nei ceti proprietari romani.
Di qui che fosse importante, addirittura un vero e proprio vantaggio, il fatto che tra il regno di Settimio severo e quello di Decio gli ufficiali appartenenti all’ordine equestre avessero rimpiazzato quelli di ordine senatorio, visto che si trattava di un gruppo più numeroso formato da uomini di norma abbienti, che si consideravano romani ed erano leali allo Stato romano.
Questa immensa struttura poteva ovviamente difendersi solo finché era in grado di ottenere entrate sufficienti dai suoi cittadini e dai suoi nemici, ma aveva anche bisogno – e nel 337 possedeva ancora – di un personale amministrativo e militare sufficientemente competente e fedele dislocato più o meno nei posti giusti: costoro dovevano essere devoti, almeno fino a un grado ragionevole, all’idea di Roma.
Quanto profonda fosse questa devozione è un problema su cui torneremo nel prossimo capitolo, ma possiamo anticipare che lo fu abbastanza da mettere l’Impero di Costantino relativamente al sicuro dalle minacce imminenti di tutti i suoi nemici.
Pag. 169-71
Cap. 5. Roma contro sé stessa: da impero a nazione?
L’obiettivo principale di questo capitolo infatti è quello di spiegare in che modo un sistema caratterizzato da un potere implacabile e basato sullo sfruttamento – oltretutto in una situazione di rapida evoluzione fra la metà del terzo e il secondo decennio del quarto secolo – potesse risultare così stabile.
Ma a richiedere uan spiegazione è di fatto un doppio mistero: la durata dell’Impero romano e l’elevato grado di obbedienza che vi vigeva; caratteristiche ancor più sconcertanti se si considera che per gli standard di altre monarchie sia gli imperatori sia le dinastie romane tendevano ad avere vita breve, ed erano quindi intrinsecamente instabili.
Queste domande faranno da cornice a quanto segue, portando in primo luogo a una discussione sul potere politico in tutte le sue principali manifestazioni, poi sul potere sociale ed economico e sugli effetti, in molti aspetti della vita, dell’appartenenza a un ceto e a un genere, e infine sul potere delle convinzioni e delle idee.
Non dobbiamo considerare come scontata la durata dell’Impero romano fino all’epoca della sua prima grande frammentazione, il primo decennio del quinto secolo.
E’ vero che l’Impero riuscì sempre conservare la propria unità, pur attraversando grandi crisi interne, come avvenne durante il secondo triumvirato e di nuovo nel 69, 193-96 e periodicamente fra il 255 e il 284: i nuovi governanti e i loro eserciti, permeati da un profondo senso della maestosità dell’Impero romano nonché dei propri interessi, di solito ritennero naturale che dovesse esistere un singolo organo centrale che governasse in nome di Roma, organo cui civili e militari avrebbero nel complesso obbedito.
Come già visto, le forze armate romane si dimostrarono quasi sempre assai efficaci nel controllare le province più inquiete e nel sorvegliare i confini.
Ma l’aspetto più straordinario dei fallimenti militari del terzo secolo è che i romani riuscirono a recuperare quasi completamente le loro capacità operative.
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In generale, il governo imperiale manifestò la tendenza, sul lungo periodo, a passare gradualmente dai metodi alquanto confusi dell’epoca repubblicana a una serie di procedure di natura più sistematica e regolarizzata; come si vedrà più avanti, queste procedure divennero sempre più competenza di funzionari esperti, almeno fino alle crisi militari del terzo secolo.
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Nel frattempo, le forze armate svolgevano uan tripla funzione: affrontavano le minacce esterne; collaboravano, come vedremo, all’amministrazione delle province meno mature (mature dal punto di vista romano, ovviamente); e grazie al reclutamento su larghissima scala dei non cittadini, trasformati così in soldati di Roma, promuovevano l’identità romana.
Questa tesi è nel complesso convincente, ma occorre corredarla di un’ulteriore dimensione sia storica sia (ed è un aspetto fondamentale) sociologica.
Nel seguito del capitolo fornirò il contesto sociologico: qui accennerò ad alcuni cambiamenti di tipo storico.
Pag. 176-77
Chi erano dunque le persone da integrare e di cui conquistare il sostegno (il che costituisce invece la dimensione sociologica del problema), due processi fino a un certo punto indipendenti?
Flavio Giuseppe ancora una volta mette in luce una verità fondamentale osservando (Guerra giudaica 2, 338) che nella Giudea del 66 le persone agiate desideravano la pace, il che è ovvio: per costoro l’Impero era una garanzia di tranquillità e di rispetto dei diritti di proprietà.
Fin dai tempi della conquista romana dell’Italia, secoli prima, Roma si era sempre mostrata incline a favorire gli abbienti – normalmente proprietari terrieri – in qualsiasi comunità straniera, ricompensandoli con privilegi politici e attirandoli nell’orbita romana: “Non c’è bisogno di guarnigioni che tengano sotto controllo le acropoli, ma ovunque i cittadini più importanti e potenti custodiscono le loro patrie per voi”, scrive Elio Aristide (A Roma 64), e per una volta aveva perfettamente ragione.
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Tornando alla questione dell’integrazione culturale, la plurisecolare diffusione dell’identità romana fece un’immensa differenza nello stabilire chi esercitasse l’autorità nel mondo romano e chi ne fosse suddito; la “provincializzazione” della classe dirigente e dell’esercito condusse al potere persone diverse, ma anche il concetto stesso di “romanità” era andato man mano evolvendosi.
La natura sbilanciata delle fonti in nostro possesso rende piuttosto ipotetica la ricostruzione di una storia culturale complessiva dell’Impero: alcune regioni sono poco conosciute e – dato ancora più importante – il numero delle testimonianze relative alla massa della popolazione, fatta eccezione per l’Egitto, è assai limitato, nonostante la grande quantità di reperti archeologici.
Uno studio sul potere nell’Impero deve infatti poter giudicare quanto i suoi abitanti si sentissero romani, con l’ulteriore complicazione dovuta al fatto che la cultura dominante era anche greca, oltre che romana.
Così, mentre noi possiamo considerare alcuni cambiamenti culturali come segni di romanizzazione (un termine indispensabile, a patto che non venga inteso come un riferimento a una qualche politica complessiva), questi potrebbero non essere stati percepiti all’epoca come specificamente romani.
Ciò può valere, ad esempio, per tutta una serie di fenomeni che vanno dalle forme romane di urbanesimo alla diffusione dei combattimenti fra gladiatori in tutto l’Impero occidentale e in parte di quello orientale; può anche valere per la massiccia diffusione in tutto l’Occidente di manufatti di stile romano – molti dei quali in realtà di origine ellenistica – quali le lampade di terracotta, il vasellame noto come terra sigillata, o il vetro.
Pag. 181
Molte pratiche di governo, fra cui l’abitudine di reclutare un gran numero di soldati in province relativamente poco romanizzate o ellenizzate come la Germania Inferiore, la Tracia o la Cappadocia, contribuirono in parte ai mutamenti linguistici e in generale a una più ampia diffusione della cultura.
Pag. 182-83
La conoscenza di testi romani canonici come l’Eneide si diffuse in tutta l’élite della metà latina dell’Impero; i culti religiosi erano talvolta stati duramente perseguitati nel corso della conquista romana e nella fase immediatamente successiva (Britannia, Giudea), ma di solito le divinità locali sopravvissero, anche se grazie al sincretismo con quelle greco-romane.
Quanto la lingua latina abbia finito per diffondersi possiamo constatarlo, grosso modo, dal fatto che portoghese, spagnolo, francese e romeno devono infinitamente di più al latino che non a qualsiasi altro substrato linguistico.
Con l’allargamento della cittadinanza, prima e ancor di più dopo l’editto di Caracalla (212), si diffuse anche il diritto romano; tuttavia, per la maggior parte dei provinciali le leggi locali rimasero le più importanti, sia nel periodo precedente all’editto sia persino in quello successivo, in cui sembra chiaro (ma la questione è controversa) che in molti territori tali leggi continuassero ancora a far parte del sistema giuridico.
Pag. 183
Coloro che odiavano Roma e lo esprimevano attivamente, come ad esempio l’autore dell’Apocalisse o quelli degli Oracoli sibillini del secondo e terzo secolo (cfr. ad es. Oraculi sibillini 8, 31-42, 91-5, 121-9) costituivano forse non più di una minoranza, e di fatto gli stessi cristiani rimasero una minoranza, e di fatto gli stessi cristiani rimasero una minoranza assai contenuta fino al tardo terzo secolo.
Gli ebrei della giudea si dimostrarono estremamente recalcitranti alla dominazione romana e di conseguenza nella rivolta di Bar Kokheba subirono una rappresaglia prossima al genocidio: a opera dei romani “furono rase al suolo cinquanta delle loro principali fortezze e novecentottantacinque dei loro più rinomati villaggi, mentre vennero uccisi, nelle scorrerie e nei combattimenti, cinquecentottantamila uomini […] cosicché quasi tutta la Giudea rimase spopolata” (Cassio Dione 69, 14; le cifre sono problematiche, ma il massacro fu senza dubbio di proporzioni spaventose).
Colpisce che persino un greco filoromano come Plutarco possa riferirsi all’Impero come a un sistema schiavista, mentre anche Elio Aristide, il quale godeva di una posizione privilegiata e divenne famoso per il panegirico di Roma pronunciato in Senato probabilmente nel 143, risulta a un’attenta analisi aver nutrito un profondo risentimento nei confronti del dominio romano.
Pag. 184
Non possediamo alcuna statistica aggiornata, ma stando alle cifre più recenti quasi la metà dei senatori di cui si conoscono le origini ai tempi di Adriano veniva dalle province, mentre poco dopo quelli provenienti dal mondo greco risultano formare circa il 50% di questo contingente; l’ordine equestre attraversò un’evoluzione simile.
Ma va notato che questi nuovi arrivati erano di cultura latina e greca, e che nel complesso appartenevano alla stessa classe sociale dei loro predecessori: vivevano quasi tutti di rendita.
Fino a che punto gli abitanti liberi dell’Impero costantiniano del quarto secolo si identificassero con Roma è uan questione delicata, sulla quale ritorneremo di nuovo alla fine del capitolo.
Ognuno di loro sapeva di essere cittadino romano, e anche coloro che si areno “alienati” come Tertulliano (apologeta cristiano dell’Africa proconsolare) davano per scontato che tutti (eccetto ovviamente i cristiani) appartenessero allo stesso Stato o comunità (civitas, Apologeticum 1,7), quella romana.
A dire il vero, non esisteva molto spazio per gli “alienati” se non ai margini dell’Impero, e la loro situazione iniziò ad assumere importanza solo quando Decio cercò di eliminare il cristianesimo e, più tardi, quando il numero dei fedeli iniziò a crescere a dismisura.
Per quando riguarda i soldati, la grande maggioranza degli uomini che combatté nelle milizie di Roma nel secondo e terzo secolo era composta di provinciali, e non vi è alcun motivo di dubitare della loro identità romana, né peraltro alcuna prova che tale identità fosse incondizionata; sembrano aver appoggiato assai raramente uan qualche causa antiromana, e quando si ribellavano o disertavano era per motivi assolutamente banali, come il mancato pagamento dei salari.
Pag. 188
Come tutti gli uomini di potere, anche l’imperatore prestava ascolto alle sue conoscenze più fidate, ai suoi “amici”, che in età altoimperiale erano quasi tutti senatori o cavalieri; consultava inoltre coloro che considerava le personalità “principali” di entrambi gli ordini.
Qualsiasi ipotesi di un formale consiglio di collaboratori (consilium) venne archiviata da Tiberio, ma gli sviluppi successivi sono controversi: tutto dipendeva, a quel che sembra, dal tipo di decisioni da adottare.
Se si trattava di una questione giuridica, come accadeva di frequente, veniva esaminata da un apposito consilium, almeno ai tempi di Adriano che vi incluse degli esperti di diritto (Historia Augusta, Adrianus 18).
Quando l’imperatore si occupava di altri problemi, ad esempio fiscali o militari, non vi sono indicazioni in merito alla consultazione di un organo istituzionale (la migliore prova in contrario, Erodiano 7, 13, riguarda l’anomalo regno di Alessandro Severo), ma richiedere il consiglio degli amici poteva comunque essere questione di una certa formalità (altrimenti non avrebbe senso la satira di Giovenale 4, 72-154).
Pag. 190
Con il tramonto del potere del Senato divenne concepibile che un potente generale di ordine equestre giungesse alla porpora imperiale.
Il primo – e dalla vita breve – fu Macrino (217), un ex comandante della guardia pretoriana; da Massimino il Trace (235-38) in poi gli imperatori con alle spalle una lunga esperienza militare divennero sempre più una necessità, e la loro origine non senatoria la norma.
Ma l’eliminazione dell’antica aristocrazia non mise al sicuro la persona dell’imperatore; Walter Scheidel ha dimostrato come i regni degli imperatori romani siano stati più corti fra tutte le trentuno varie monarchie da lui prese in considerazione (anche gli imperatori bizantini ebbero la vita relativamente breve).
Le dinastie romane durarono a lungo: dei settantadue uomini che tra il 16 e il 337 possono ragionevolmente essere classificati come Augusti e non semplicemente come degli usurpatori di secondaria importanza, cinquanta morirono a causa di una qualche azione militare romana;la loro aspettativa di vita fu specialmente limitata fra il 211 e il 284.
Non sorprende certo che le radici militari del sistema monarchico si trasformassero in una minaccia, a meno che un princeps non fosse astuto, vigile e fortunato: tuttavia, l’alto tasso di “fine prematura” (Scheidel) fra gli imperatori romani necessita di qualche spiegazione che vada al di là delle responsabilità dell’esercito o dell’inclinazione dei romani allo spargimento di sangue, per quanto importanti fossero questi fattori.
Le milizie infatti non vennero mai addomesticate; Settimio Severo, sul letto di morte, consigliò come è noto a Caracalla e a suo fratello: “Andate d’accordo tra di voi, arricchite i soldati, non datevi pena di tutti gli altri” (Cassio Dione 76, 15, 2).
E per quanto riguarda l’inclinazione alla violenza, in quale altro paese Caracalla sarebbe stato ampiamente ritenuto colpevole di aver architettato la morte del padre Settimio, che lo aveva nominato coimperatore.
Pag. 192-93
Domande imperiali
- La lealtà delle milizie
- L’ideologia
- L’obbedienza della popolazione civile
Risulta dunque chiaro che se da un lato gli imperatori si sforzavano di guadagnarsi e di conservare il sostegno delle élite provinciali, dall’altro non vi è motivo di pensare che siano anche riusciti a raggiungere un obiettivo così ambizioso come la creazione di un “consenso” di massa della popolazione, in Oriente o in Occidente.
E’ di fatto probabile che vi fosse una grande variabilità non solo fra le province “interne” e quelle “esterne”, ma anche fra città e campagne; proprio alle città spettava sempre più il compito di trasmettere il messaggio imperiale: pare che fin dagli inizi la corte distribuisse dei ritratti dell’imperatore alle principali località.
Tuttavia, la maggior parte della popolazione era ovunque formata da contadini e braccianti, gente che probabilmente non fu molto influenzata dai messaggi che arrivavano dal centro: il massimo che gli imperatori possono aver ottenuto dalla massa dei provinciali era l’acquiescenza e, in una certa misura, un cambiamento di identità.
Per molto tempo fu forse tutto ciò di cui ebbero bisogno: ma in seguito, come ha acutamente osservato Keith Hopkins, il fatto che “l’Impero nel suo complesso non possedesse dei rituali efficaci che conferissero a tutti i suoi abitanti […] una singola identità collettiva” – in netto contrasto con il coeso corpo cittadino di epoca medio repubblicana – contribuì a renderlo vulnerabile ai cristiani prima e ai germani poi.
4. La successione
Per quale motivo gli imperatori non riuscirono mai a istituire un sistema stabile di successione?
SI potrebbe sostenere che ciò non fosse particolarmente insolito, almeno fino a quando il fenomeno non si intensificò a partire dal 235, dato che molte altre monarchie premoderne ebbero gravi problemi a questo riguardo.
Prima del 211 la maggior parte degli imperatori cercò di designare in vita il prossimo princeps e coloro che avevano dei figli naturali, persino dei figli palesemente inadeguati come Commodo, li volevano come successori.
Ma cosa accadeva quando un imperatore rimaneva vittima di morte violenta?
La prima volta in cui la successione apparve poco chiara, dopo l’omicidio di Caligola nel 41, fu la guardia pretoriana a decidere chi dovesse governare, mettendo così fine alle ubbie senatorie di restaurazione della repubblica.
Da allora in mancanza di un successore prestabilito la decisione venne, quasi sempre, demandata alla forza delle armi.
Ma a parte il fatto che fino al terzo secolo nessuno poteva diventare imperatore se fra le altre cose non era un senatore eminente, esistevano delle convenzioni da rispettare che non dovrebbero essere liquidate come una pura e semplice formalità.
In altre parole, l’Impero romano reclutava adesso i suoi dirigenti in un bacino di talenti assai più vasto.
Le difficoltà incontrate dagli imperatori nel sopravvivere e nel trasmettere la propria autorità ai loro eredi personali riflette i limiti del loro potere, questione su cui torneremo.
5. Le donne imperiali
6. I limiti del potere imperiale
I veri limiti del potere imperiale erano di ordine pratico e riguardavano principalmente il denaro, le informazioni e il tempo.
La ricchezza dell’imperatore era in linea di principio immensa, ma altrettanto lo erano le spese: le stravaganze o una guerra inaspettata potevano portare a una drastica mancanza di liquidità (come dovettero scoprire loro malgrado Nerone, Marco Aurelio e Pertinace, fra gli altri).
Ma la maggiore difficoltà riguardava il sapere che cosa stesse succedendo lungo i confini e oltre, fra i pubblicani, nelle milizie e persino nella stessa corte; i procuratori imperiali e i governatori delle province imperiali inviavano lettere in cui la qualità delle informazioni era spesso buona e abbastanza aggiornata, ma senza dubbio per lo più di carattere apologetico.
La corrispondenza fra Plinio e Traiano (Ep. 10) non deve essere considerata tipica: Plinio era stato inviato in Bitinia in seguito a una crisi scoppiata nella provincia.
Ma è anche vero , come già constatato, che gli imperatori mostravano interesse per i dettagli locali.
Sol un uomo dal talento straordinario avrebbe potuto governare l’Impero romano di questo periodo, diventato ormai troppo vasto per essere gestito come nell’Antichità.
In un serto senso i romani avevano vinto troppe guerre, o piuttosto avevano bisogno di un sistema di decentramento più efficace, a cui provvide Diocleziano.
Si potrebbe affermare che un buon terzo degli imperatori da Tiberio ad Alessandro Severo dimostrò di essere abile e capace nel governo; ma va anche detto che per tutto il periodo dei regni brevi e generalmente precari iniziato nel 211, o almeno dopo il 235, il potere imperiali si era notevolmente indebolito.
Le conseguenze più importanti furono probabilmente di natura fiscale, il che ci porta alla questione fondamentale delle finanze.
7. L’imperatore e il denaro
Tale interesse era necessario, perché dal princeps ci si aspettava che fosse munifico: si è già visto come ciò valesse per l’esercito e la plebs urbana, ma la liberalitas era una qualità di importanza assai più generale e dai tempi di Adriano e fino al terzo secolo inoltrato fu la più celebrata sulle monete.
Nella pratica la munificenza iniziò tuttavia ad avere delle conseguenze discutibili: le città che erano riuscite a ottenere un’esenzione fiscale erano poche all’inizio, ma entro l’epoca dei Severi queste concessioni comportavano uan diseguale distribuzione del carico fiscale.
Nell’elencare le città di alcune province cui gli imperatori avevano concesso l’esenzione dalle tasse di proprietà, Ulpiano (D. 50, 15) dà l’impressione che questo privilegio fosse ormai ampiamente diffuso, cosa che è confermata anche da altre fonti e che nel 250 provocò forse una reazione contraria.
A doversi mostrare generosi erano soprattutti gli usurpatori: da questo deriva la reputazione di spendaccione di Costantino (la cui rivendicazione al trono era peraltro legittima quanto quella di tanti altri), il quale se lo poté permettere grazie al fatto che Diocleziano e gli altri tetrarchi avevano reso più efficace il sistema di tassazione.
Pag. 194-208
Diocleziano e Costantino
Diocleziano, Massimiano e Costantino vissero più a lungo della maggior parte dei loro colleghi, in parte grazie al rinnovamento della rete di spionaggio interno: come già accennato, gli imperatori erano soliti impiegare i frumentarii come agenti per la raccolta di informazioni, ma in questo periodo, a quanto sembra, li sostituirono in tale funzione da agents in rebus o agentes rerum (Aurelio Vittore, Epitome 29, 44-5), benché si possa solo ipotizzare quale differenza comportò tale scelta.
Anche le guardie del corpo imperiali erano numerose, ma i metodi con cui Diocleziano riuscì a potenziare il controllo imperiale andavano ben al di là della (peraltro non banale) salvaguardia da possibili assassinii.
Sia lui sia Costantino compresero pienamente come mantenere il sostegno dei soldati.
Diocleziano ripristinò con successo i censimenti nelle province, essenziali per un’efficace riscossione dei tributi; lo stesso sistema di tassazione delle persone fisiche e delle proprietà venne radicalmente riorganizzato e in tutto l’Impero le comunità che avevano goduto di privilegi sembrano aver perduto al propria immunità.
Diocleziano impose anche una riorganizzazione su vasta scala delle province, frazionando le circa cinquanta esistenti in un centinaio (in un caso estremo l’Asia, pur di dimensioni modeste, fu divisa in sette regioni).
L’Impero venne suddiviso poi in “diocesi”, ciascuna composta di otto o nove province (queste diocesi non sono attestate fino al 314, data nella quale tuttavia non costituivano certo una novità); anche in questo caso l’obiettivo era chiaramente quello di facilitare la riscossione delle tasse.
Pag. 210
Qui inizia a porsi il problema della burocrazia, che ricorrerà in tutta la trattazione del potere dello Stato nel tardoantico.
Nel 288 ci imbattiamo infatti per la prima volta in un fenomeno ricorrente nel quarto secolo: un alto magistrato in Egitto che per ragioni finanziarie cerca di mantenere limitato il numero dei propri subordinati (P.Oxy. 1, 58); il controllo centrale, che era stato debole, con l’ascesa di Diocleziano potrebbe essersi nuovamente rafforzato.
Tuttavia è anche probabile che si moltiplicasse il numero dei funzionari, almeno in parte per motivi legittimi: vi sono infatti prove sufficienti per dimostrare come in alcune zone, in cui la tenuta dei registri godeva di grande tradizione, la produzione di documenti fiorì sotto Diocleziano come mai in precedenza.
Pag. 211
Costantino diede due straordinarie dimostrazioni di potere: fondò uan capitale alternativa circa 1400 chilometri più a est, e introdusse niente di meno che una nuova religione di Stato al posto di quella esistente.
La fondazione di una nuova capitale era in parte il riconoscimento di un dato di fatto – ovvero che nel periodo recente gli imperatori raramente avevano avuto bisogno di recarsi a Roma – e inferse il colpo di grazia al potere del Senato; ma soprattutto, diede all’Impero una capitale più vicina ad alcune delle zone più vulnerabili, il basso Danubio e la Mesopotamia, il che costituiva un netto vantaggio (e nel lungo periodo la sua posizione si rivelò meglio difendibile).
L’innalzamento del cristianesimo a uan posizione di privilegio naturalmente ebbe col tempo un enorme effetto sulle strutture di potere interne dell’Impero e anche nel breve periodo diede agli ecclesiastici visibilità e accesso alla munificenza imperiale.
Sarà importante poter valutare quale fosse il potere secolare dei vescovi: nel 318 detenevano già la giurisdizione sulle cause fra i cristiani – un’importantissima deroga dei poteri dello Stato -, e anche se pochi fra di loro erano esperti di diritto; tuttavia, Costantino sembra aver promosso sia cristiani sia appartenenti alla religione tradizionale senza alcun pregiudizio apparente.
Pag. 211-12
Se un cittadino romano ben raccomandato coem Plutarco poteva provare un simile nervosismo, figuriamoci un magistrato locale meno protetto: non meraviglia che verso il 100, in Italia e altrove, alcune città iniziassero a incontrare delle difficoltà a trovare persone disponibili ad assumere un incarico pubblico; in seguito questo divenne un problema diffuso, al quale l’imperatore doveva a volte porre rimedio inviando dei commissari (curatores).
Tuttavia, il potere di queste élite municipali fu per molto tempo una delle due colonne portanti (l’altra era l’esercito) dell’intera struttura imperiale: ad amministrare la giustizia erano i magistrati romani, ma questi tendevano sempre a limitare il loro intervento alle questioni più importanti, riguardo sicurezza e finanza (e protezione dei cittadini romani), lasciando quindi la maggior parte della giurisdizione nelle mani della magistratura locale.
L’utilità delle funzioni delle élite locali andava però ben oltre le questioni strettamente politiche e giuridiche: a loro spettava organizzare i giochi dei gladiatori e se necessario gli approvvigionamenti, e spesso si occupavano della costruzione degli edifici pubblici assumendosene il merito; e pur escludendo i liberti dalle cariche pubbliche, convivevano con i più prosperi fra questi – e accettavano il principio della mobilità sociale concedendo i titoli onorifici locali anche ai figli dei liberti.
In precedenza, abbiamo accennato alla distinzione fra province “interne” e quelle “esterne”: in almeno alcuni territori di queste ultime élite autoctone erano ritenute a quando sembra incapaci di provvedere al governo locale; in questi casi toccava all’esercito colmare il vuoto, normalmente nella persona dei centurioni che in Egitto (esclusa Alessandria) agivano da giudici de facto, coadiuvati, dove necessario, da piccoli distaccamenti di soldati.
In Britannia esistevano dei centurioni regionali, dotati probabilmente di ampi poteri, e quando nel terzo secolo il procuratore imperiale dovette comporre un conflitto fra due piccole comunità della Frigi la persona incaricata di far applicare la sua decisione fu un optio, uan specie di vicecenturione.
Pag. 216-17
Fino a che punto contava il merito nelle carriere funzionariali di alto livello?
Nella sottoclasse sociale veniva dato per scontato un certo grado di competenza: sembra che i suoi membri pensassero che un’adeguata educazione bastasse a garantirla (cfr. Cassio Dione, specialm. 52, 26) e gli imperatori raramente o mai davano la preferenza a un possibile candidato sulla base delle sue conoscenze specifiche; il merito maggiore consisteva nella “buona reputazione”, un’espressione di comodo per definire uan combinazione di lealtà, buone maniere e opinioni convenzionali.
Per tornare al tema della burocrazia, lo Stato romano dovette creare delle strutture pubbliche per venire incontro alle proprie necessità fiscali e militari: doveva gestire un esercito in armi di circa 350000 uomini, e per riscuotere le tasse aveva dovuto ideare dei censimenti provinciali.
Tali questioni amministrative di routine non hanno lasciato molte tracce nelle fonti letterarie, e sappiamo che non erano ovunque le stesse.
E’ probabile che il sistema sia diventato sempre più complesso sotto la dinastia dei Severe.
Pag. 220
I funzionari di cui abbiamo parlato condividevano molti valori e convinzioni: a essere forse più rilevante in questo contesto è la loro palese fiducia nella permanenza e nell’inevitabilità della potenza romana (e non solo del potere).
Non dovremmo considerarli tolleranti, virtù che necessita di un qualche retroterra intellettuale, ma ben disposti ad accettare la diversità nelle questioni non essenziali, mentre nelle altre imponevano un sistema di governo che serviva gli interessi delle classi più elevate della società, offrendo nel contempo ampie opportunità per quelle che potremmo chiamare “classi medie”.
Successivamente tornerò sugli aspetti psicologici e filosofici della loro fiducia in questo sistema di potere, e su cosa accadde quando Costantino rovesciò l’elemento religioso della vecchia ideologia.
Pag. 221
Questi proprietari terrieri del quarto secolo ci portano a un’ulteriore considerazione sul potere sociale, con il quale intendo il potere esercitato da coloro che godevano di una relativa ricchezza e posizione sociale (compreso il vantaggio di essere maschi).
Ovviamente la distinzione fra potere dello Stato e potere sociale è alquanto artificiosa: la maggior parte delle volte erano le stesse persone ad esercitare entrambi.
A fare la differenza era il fatto che mentre il potere statale riguardava tutti ma i suoi effetti sul singolo individuo potevano essere limitati o saltuari (a seconda della cittadinanza, era invece sempre universalmente presente.
Ma in che modo è possibile descrivere strutturalmente questa società?
Il problema essenziale è capire se ci si debba concentrare sulle distinzioni di status utilizzate dagli abitanti dell’Impero romano o parlare invece in termini di classi sociali.
Innanzitutto, va notato che alcune categorie sociali come “senatore” o “cavaliere” riguardavano una percentuale infima della popolazione, e una descrizione dettagliata dovrebbe tener conto non solo di questa distinzione ma anche di un’ampia gamma di status provinciali più o meno conosciuti, come il ceto “ginnasiale” nell’Egitto romano.
In secondo luogo, i greci e i romani – e probabilmente ogni altra popolazione romana – mettevano spesso a confronto ricchi e poveri, senza definire ciò che intendevano più di quanto normalmente non facciamo noi; i termini per “povero”, in particolare, potevano riferirsi ai lavoratori meno abbienti o ai gravemente indigenti.
Ora, lo status influenzava ovviamente i rapporti di potere: soprattutto, molto dipendeva dall’essere di un libero, uno schiavo o una via di mezzo fra i due (il che poteva coler dire un liberto – fino al terzo secolo ve ne furono sempre molti – o un dipendente di altro genere).
Sono stati scritti libri su libri per illustrare come si traducessero queste condizioni di vita, di cui esamineremo gli aspetti più importanti.
Tuttavia, va considerato anche l’aspetto della classe sociale: non occorre fare di questa espressione un feticcio ideologico (potremmo anche parlare, in modo meno agevole, di tre generi di esistenza umana), ma di fatto essa possiede un grande potere esplicativo.
Non è questa la sede per una discussione teorica dettagliata, ma è comunque del tutto privo di logica affermare che la classe sociale non era importante data l’esistenza dei legami verticali del patronato personale, che caratterizzavano praticamente ogni società premoderna di cui si conservi documentazione storica.
Pag. 223-24
La vita degli schiavi era di norma dura e mostrava tutta la spietatezza del potere interno, il corrispettivo della brutalità dei romani nei confronti dei nemici esterni dello Stato: in questo periodo, la legge e le consuetudini romane permettevano ai proprietari di schiavi di metterli a morte a proprio piacimento; dove prevalevano leggi e usi provinciali non era sempre così, ma successivamente come è ovvio il diritto romano finì per esser applicato dappertutto.
Le terribili punizioni corporali erano consuete e là dove la schiavitù era una presenza cospicua nell’economia agricola si usavano le squadre di lavoro forzato.
E’ probabile che fossero pochi gli schiavi ad aver goduto di una vita familiare stabile, mentre lo sfruttamento sessuale era estremamente diffuso.
Pag. 226
A livello individuale, gli schiavi spesso reagivano, ma a parte l’omicidio, le loro armi principali erano l’inadeguato svolgimento del lavoro, la finta malattia e il furto: tutti e tre i metodi erano endemici, ed evidentemente anche il ricorso alla fuga era piuttosto comune.
Pag. 227
Nell’Impero romano le donne erano ovviamente escluse quasi ovunque dal potere politico formale, ma per quanto riguarda il potere sociale e quello economico la questione era piuttosto diversa: a ogni livello sociale le donne erano meno influenti degli uomini, ma a contare di più era precisamente il livello sociale della persona.
Il periodo in esame iniziò e finì con due influenti Augustae, Livia e Elena (di fatto assai meno potente); talvolta l’influenza politica esercitata da alcune donne appartenenti alle classi sociali superiori era tale da indurre un imperatore tirannico a esiliarle (Plinio, E. 3, 2, 3).
Pag. 227-28
Gli svantaggi peraltro iniziavano già alla nascita: alcune popolazioni abbandonavano più di frequente le neonate che non i neonati; poche bambine poi venivano mandate a scuola e il paradosso per cui alcune donne possedevano un’istruzione elevata si doveva soprattutto allo studio privato.
In ogni caso il matrimonio veniva imposto in giovane età: molte si sposavano a 12 anni, la maggioranza probabilmente si era già maritata a 15 o 16 e quasi tutte prima dei 20; le nubili, per quanto ne sappiamo, erano di norma costrette a sposare un uomo scelto dalla propria famiglia.
Pag. 228
Chiunque aspirasse a un autonomo esercizio del potere aveva bisogno di saper leggere e scrivere correntemente: l’amministrazione dello Stato, delle milizie, delle province e delle loro comunità costituenti dipendeva dalla parola scritta.
Le istruzioni (e le relative risposte) potevano essere emanate oralmente, ed esistevano diversi intermediari come i familiari acculturati, i banditori pubblici e gli scribi a pagamento, ma i semialfabeti e gli analfabeti totali si trovavano senza dubbio in una posizione alquanto vulnerabile: in qualunque transazione complessa erano costretti ad affidarsi alla propria memoria e all’onestà degli interlocutori.
La diffusione dell’alfabetismo doveva variare a seconda dell’ambiente sociale, ma nel complesso era elevata per gli standard dell’antico Vicino Oriente, bassa per quelli dell’Europa occidentale ottocentesca: forse un 10% della popolazione adulta, compresi donne e contadini, era in grado di leggere e scrivere almeno a un livello modesto.
La vulnerabilità di un simile sistema educativo non sta tanto nel suo possibile discredito, quanto nel fatto che possa diventare irrilevante: Macrino, Massimiano e i successivi imperatori-soldato del terzo secolo non avevano bisogno di alcuna reputazione di uomini colti.
Nel frattempo, avendo fallito nel tentativo di coinvolgere le masse nell’alta cultura e nei suoi ideali, l’élite rimase scioccata nello scoprire, forse non molto tempo prima delle persecuzioni di Decio, che una religione fanatica che rinnegava quegli ideali stava conquistando un gran numero di fedeli.
Pag. 230
A un primo sguardo si potrebbe dire che la tendenza generale dei governi tetrarchico e costantiniano fu di rendere l’Impero ancor più opprimente; nel contempo, tuttavia, Costantino cercò almeno di sfruttare il suo potere per alleviare la povertà, dichiarando persino – senza dubbio con scarsi effetti – che “le orecchie del giudice presteranno ascolto ai più poveri così come ai ricchi”.
Pag. 231
Quest’ultima osservazione ci porta naturalmente alla questione del potere delle idee, ma gli storici non concordano su alcun modello quantitativo, cosicché si corre il serio pericolo di rimanere sul vago, trappola nella quale sono talvolta caduti quegli studiosi che hanno scritto sul “potere delle immagini” e sul “potere della religione”.
Ciò di cui intendo occuparmi in questa sede, a ogni modo, non è del potere che alcune idee – come quelle degli stoici o di altri filosofi, oppure dei cristiani – possono aver tutto nel cambiare la vita delle persone, per quanto sia certamente uan legittima materia di indagine, bensì del potere delle idee di rafforzare, modificare o sovvertire i rapporti di potere sociali e politici.
Mi concentrerò quindi su quelle idee che possono essere associate a delle effettive pratiche sociali o politiche: ciò significa ad esempio che l’ideale della paideia (cultura), che nel bene e nel male forgiava il modo in cui le famiglie abbienti educavano i propri figli e occasionalmente le proprie figlie, aveva un’importanza notevole, come già visto.
Di contro, è difficile identificare quali siano stati gli effetti della missione civilizzatrice dell’humanitas, che ebbe una qualche diffusione nella seconda metà del primo secolo (Plinio, Nat. Hist. 3, 39): certo fu di conforto alle classi superiori istruite, ma ebbe qualche altro effetto sociale o politico?
Pag. 231
Pochi storici si sono chiesti quale concetto di Roma e dell’Impero avessero in questo periodo gli stessi romani: esisteva un’idea in cui credevano quegli ufficiali dell’esercito che si trascinavano nel fango della Britannia e della Dacia?
Si, con ogni probabilità.
Un impero perfettamente organizzato non era solo un alato ideale retorico di Elio Aristide: tutti i romani che riflettevano sulla questione ritenevano che Roma fosse la grande potenza mondiale, erede di una tradizione gloriosa e destinata a durare per sempre (su quest’ultimo punto cfr. Elio Aristide, A Roma 108, nonché e le monete di Adriano e dei suoi successori con la legenda ROMA AETERNA).
Qualunque viaggiatore rimaneva impressionato dalla città e dalle strade dell’Impero, dalla sua grandezza e dalla sua maestosità.
Nel 248 Roma celebrò il suo presunto millesimo compleanno e senza dubbio il fatto che l’imperatore in carica fosse un siriaco (Filippo) costituisce un segnale di forza; allo stesso modo, il fatto che Costantino sia stato in grado di fondare uan nuova capitale senza alcuna perdita significativa di credito politico dovrebbe essere considerato un segno di coesione nazionale.
A mancare in larga misura nel periodo tetrarchico-costantiniano è però uan qualche nuova espressione del mito nazionale – mito che il cristianesimo era impegnato a minare alle fondamenta.
Pag. 232
Il sistema di idee di carattere più marcatamente filosofico che si ritiene abbia sostenuto l’alto impero è quello di un tardo (e annacquato) stoicismo, ma gli effetti delle idee specificamente stoiche sui rapporti di potere furono probabilmente scarsi.
Il principale risultato ottenuto dall’”opposizione filosofica” di età neroniana e flavia, a parte la sua stessa distruzione, fu il rendere la vita difficile a dei veri filosofi come Epitteto.
Vi sono pochi motivi di pensare che quando i romani al potere trattavano i propri sudditi o i propri schiavi in maniera appena decente lo facessero per ragioni teoriche, piuttosto che per semplice prudenza.
E’ stato sostenuto che gli stoici cercarono di indurre i padroni del mondo a trattare i loro sudditi con un certo grado di umanità; è vero che lo stoicismo era moralistico, ma tendeva anche al fatalismo e poco o niente nel comportamento pubblico, né in quello privato, di Seneca e Marco Aurelio – su cui siamo ben informati per i parametri della storia antica – riflette uno stoicismo distinto dalle norme convenzionali delle classi superiori romane.
E’ vero che Arriano, al quale dobbiamo la nostra dettagliata conoscenza dello stoicismo di Epitteto, era egli stesso un funzionario romano, ma le sue convinzioni ne influenzarono il comportamento?
Peter Brunt ha sostenuto che il cosiddetto cosmopolitismo degli stoici romani non ebbe “conseguenze pratiche”; d’altro canto sembra probabile che il concetto, oramai diffuso nel periodo in esame, che i governanti dovessero controllare la propria ira abbia avuto un qualche effetto: dopo tutto, aveva delle basi prudenziali e non solo teoriche.
Pag. 233-34
Ma in che senso dunque il cristianesimo si dimostrò effettivamente sovversivo?
Come la magia, o un certo numero di altri culti, offriva l’accesso a un universo alternativo in cui l’imperatore e i suoi odiosi agenti venivano sostituiti da ben altre potenze.
Dopo il 312 la nuova religione acquisì importanza principalmente in due modi: portò uan nuova gerarchia, quella ecclesiastica – e in generale indifferente agli interessi dello Stato – a esercitare il potere secolare e creò le condizioni per un’imminente polarizzazione della lealtà religiosa nell’unico gruppo dove la fiducia nel divino aveva un’importanza pratica, l’esercito.
Entrambi questi sviluppi sono già visibilmente in atto, ad esempio, quando nel 335 i cristiani di Alessandria impiegarono i soldati per perseguitare coloro con le cui opinioni teologiche erano in disaccordo (P. Lond. 6, 1914); avremo modo di ritornare sull’ossessione cristiana per l’eresia, e le sue conseguenze, nei capitoli successivi.
Pag. 234-35
Possiamo terminare questo capitolo con alcune osservazioni su coloro che di tanto in tanto esercitarono un potere carismatico nel senso già menzionato in precedenza, ovvero senza un corrispondente potere istituzionale.
Non ho qui in mente Augusto, Traiano o Costantino, ma Gesù di Nazareth, Apollonio di Tiana, Tessalo di Tralle e il greco paflagone del secondo secolo, Alessandro di Abonutico – e pochi altri.
Si tratta innanzitutto di una questione relativa all’acquisizione della fama nel mondo antico, e particolarmente difficile perché nei primi due dei casi in esame mancano le fonti contemporanee; sappiamo a malapena che genere di seguaci ebbe Apollonio, dal momento che la biografia di Filostrato è posteriore di un secolo e infarcita di palesi invenzioni.
Ma il punto centrale è chiaro e ovvio: si trattava di uomini capaci di colpire le sensibilità legate alla religione o alla medicina, o preferibilmente entrambe, e che durante la loro vita si circondarono di un nutrito seguito – Gesù e Apollonio forse soprattutto come artefici di miracoli, Tessalo come guaritore e Alessandro come profeta.
Fu quest’ultimo a guadagnare ascendente su alcuni uomini di potere, tra cui alcuni funzionari dell’ordine senatorio (uan volta convinse Marco Aurelio a far gettare nel Danubio due leoni come gesto augurale per l’imminente campagna militare dell’imperatore: le due belve nuotarono fino all’altra riva dove vennero bastonate a morte dai nemici – Luciano, Alessandro, o il falso profeta 48) e secondo Luciano esercitava uan qualche influenza in tutto l’impero.
Ci si potrebbe chiedere se sia solo un caso legato alle fonti che i capi di gruppi ribelli quali i Boukoloi e i Bagaudi non emergano come figure distinte.
Pag. 236
Potere interno, potere esterno
- L’insicurezza degli imperatori da Caracalla a Carino
- Il potere delle legioni
- Integrazione
- La morte lenta dei diritti e della libertà dei cittadini
In che modo questa distribuzione interna del potere influenzò a sua volta il potere di Roma lungo e oltre le proprie frontiere?
La rinnovata capacità romana di reclutare dei soldati affidabili costituì chiaramente un elemento di grande forza ai confini fino all’età dei Severi, ma di fatto per tutto il periodo in esame.
Da questo punto di vista invece il sistema monarchico, nella forma assunta in pratica, si rivelò alla fine alquanto debilitante, ma è degno di nota che i suoi svantaggi abbiano avuto effetti relativamente trascurabili fino alla morte di Costantino.
Era lecito attendersi che i problemi legati alla successione e ‘assoluta necessità per gli imperatori di evitare di favorire la carriera di generali capaci, che avrebbero provocato danni maggiori di quanto effettivamente accadde: di fatto, impedirono ogni ulteriore espansione dopo le fallite campagne di Traiano in Mesopotamia, ma consentirono agli imperatori di difendere tutte le frontiere a eccezione della Dacia e del limes della Germania sudorientale.
Ovviamente, Roma fu anche fortunata nell’avere in tutto questo periodo un solo formidabile nemico esterno.
L’Impero di Costantino sembrava abbastanza saldo da poter resistere a qualsiasi minaccia esterna: fino a che punto soffrì di debolezze o tensioni interne che più tardi causarono dei problemi è oggetto di interminabile dibattito, ma quattro diversi sviluppi si dimostrarono potenzialmente letali.
In primo luogo, l’infinita serie di putsch militari dal 235 in avanti rese la monarchia fortemente instabile (e né i tetrarchi né Costantino modificarono questa situazione); in secondo luogo, l’estromissione della fascia superiore dell’élite dalle responsabilità militari fece sì che non potesse esservi alcuna leadership quasi-nazionale in caso di minacce esterne (in una società tradizionale la professionalità non è sufficiente).
Terzo, il processo di formazione di una coscienza nazionale sembra esservi interrotto nella generazione successiva all’editto di Caracalla, forse ostacolato ulteriormente dal fatto che l’Impero romano non era più in grado di offrire quella varietà di opportunità economiche caratteristiche dell’età preseveriana; infine, incombeva l’ombra degli aspri conflitti, ormai prossimi.
Pag. 238
Cap. 6. Roma contro gli altri, dal 337 al 641
L’Impero romano non finì nel giro di una notte: il suo declino, come la sua ascesa, fu anzi un processo assai prolungato.
La decisione di Gibbon di continuarne la storia fino alla conquista turca di Costantinopoli, nel 1453, è comprensibile, ma allo stesso tempo è un grave errore: lo Stato romano-bizantino, fra il tardo settimo e gli inizi dell’undicesimo secolo, non si può certo definire un impero.
Tuttavia, a non essere razionale è la scelta di fissare la fine dell’Impero già al sesto o addirittura al quarto secolo.
Vi sono poi coloro che rifiutano il termine “declino” in questo contesto, eppure nessun serio studioso di storia del potere politico potrebbe dubitare del fatto che il potere dello Stato romano si ridimensionò grandemente e sebbene sia un luogo comune dire che tutti gli imperi hanno una fine, questa particolare diminutio merita una spiegazione – o piuttosto, come si vedrà, uan serie di spiegazioni.
Il fenomeno che prenderemo qui in considerazione attraversò due fasi principali, la prima fra gli anni Settanta del quarto e i Trenta del quinto secolo – con un limite estremo rappresentato dal 455 – e la seconda fra gli anni Sessanta del sesto e il 636-41; in entrambi i casi è possibile, nonché necessario, esaminare le cause antecedenti, ma in ogni caso questi furono i decenni decisivi.
Le domande che dobbiamo porci quindi sono le seguenti: in primo luogo, perché lo Stato romano venne indebolito così tanto dalla invasioni germaniche nelle due generazioni fra gli anni Settanta del quarto e gli anni Trenta del quinto secolo, tanto che la sua metà occidentale divenne una sorta di impero fantasma con un potere assai scarso entro i propri precedenti territori?
Questo dibattito iniziò subito dopo le invasioni, anzi ancor prima che finissero, per poi riesplodere di nuovo durante l’Illuminismo.
In secondo luogo: perché il redivivo impero di Giustiniano, che al suo apice comprendeva l’Italia, quasi tutta l’Africa settentrionale e persino una parte della penisola iberica – oltre alla quasi totalità del vecchio impero d’Oriente – iniziò a vacillare dopo la sua morte per poi collassare, in quanto impero, nel secolo successivo?
Un primo problema fondamentale è dunque quello della sconfitta e del ripiegamento militare; un secondo, la natura dei rapporti di potere entro i superstiti domini di Roma.
Che genere di legame esisteva fra questi due problemi?
La mutata natura del potere nel mondo romano ebbe degli importanti effetti sugli insuccessi bellici di Roma nei due periodi summenzionati?
E viceversa, in che modo queste due epoche di sconfitte militari alterarono i rapporti di potere fra i romani?
Pag. 239-40
Iniziamo dunque dal periodo compreso fra gli anni Settanta del quarto e gli anni Trenta del quinto secolo.
Poche questioni della storia tardoantica presentano maggior difficoltà del capire perché, nella metà occidentale dell’Impero, le forze armate e il governo romani fallirono: le fonti documentarie e l’archeologia non ci dicono mai abbastanza, inducendo alcuni storici moderni a inventare racconti improbabili sull’entità dell’esercito romano, ad esempio, e sulla presunta assenza di un conflitto.
Sugli invasori germanici possiamo aggiungere assai poco di utile: sapevano ovviamente combattere in modo molto efficace e possiamo immaginare che avessero imparato alcune lezioni pratiche dai romani – ma quanto di tutto ciò costituisse uno sviluppo recente o decisivo è impossibile da stabilire.
Ovviamente occorre anche capire in che modo gli imperatori d’Oriente, i loro ministri e i loro eserciti riuscirono invece a superare la crisi: furono delle vulnerabilità interne di un qualche tipo a fare la differenza oppure le forze esterne in Occidente erano semplicemente superiori rispetto ai nemici orientali di Roma?
Pag. 240
In che modo valutare le capacità militari romane in questi sessant’anni?
Da qualche decennio alcuni storici contemporanei hanno incredibilmente iniziato a negare che qualcosa di molto grave sia successo, il che sembra una curiosa e distorta eco dell’esplosione di interesse per il tardoantico avvenuta nel mondo accademico dell’ultimo mezzo secolo.
Uno di questi studiosi, ad esempio, scrive che “l’operato dell’esercito nei decenni successivi al 378 non fu affatto un completo disastro”, cosa che suscita tre risposte immediate.
In primo luogo, non si deve scrivere di storia facendo della retorica: se l’esercito romano in questo periodo non fu “un completo disastro”, si ammetta quanto meno l’ovvio fatto che sempre di disastro si tratta; secondo, l’”operato dell’esercito” è un concetto troppo limitato per poter valutare le capacità militari romane: occorre aggiungervi, fra gli altri fattori, la leadership politica e coloro che non combatterono, ma che avrebbero dovuto farlo; e infine, nessuno dubita del fatto che tra i romani vi fossero degli ottimi soldati – ma non abbastanza e troppo spesso impegnati a battersi contro la loro stessa parte.
Questo punto di vista inguaribilmente ottimista è quindi indifendibile, e anzi assurdo: Vegezio, che scrisse probabilmente sotto Teodosio (379-95), sapeva bene come stessero le cose (Epitoma rei militaris 1, 7: così tante sconfitte).
Pag. 241
Dopo il 406 nessuna delle province occidentali dell’Europa poté considerarsi al sicuro: tra il 407 e il 408 vandali, alani e svevi assunsero di fatto il controllo di ampie aree della Germania e della Gallia prima di spostarsi in Spagna; Alarico, coem è noto, conquistò Roma il 24 agosto 410 per poi dirigersi a sud verso la Calabria.
Dopo la sua morte, avvenuta nello stesso anno, il suo successore Ataulfo nel 412 guidò i goti in Gallia, dove nel frattempo i Bagaudi erano di nuovo tornati a causare disordini nelle regioni nord-occidentali.
Per l’Impero d’Occidente le conseguenze di una simile perdita di potere furono gravi, e a minimizzarne la portata possono essere solo storici incapaci di visualizzare gli effetti di queste invasioni.
Con la perdita di territori importanti sotto il profilo fiscale come la Pannonia il governo romano poté permettersi un minor numero di soldati ben equipaggiati, diminuendo quindi la capacità di difendere le vecchie frontiere, il che a sua volta portò a ulteriori perdite territoriali.
In poche parole, un circolo vizioso.
Pag. 243-44
L’Italia, insieme alla Sicilia e alla Sardegna, cadde gradualmente nelle mani dei germani alla metà del secolo: gli imperatori d’Occidente che regnarono nominalmente dal 455 al 476 – Petronio Massimo, Avito, Maggioriano, Libio Severo, Antemio, Olibrio, Glicerio e Romolo “Augustolo” – lo fecero al massimo su alcune parti dell’Italia e della Gallia, con scarse truppe sotto il proprio comando e nessuna prospettiva di vedere rafforzata la propria posizione; quando fu deposto, Romolo non venne considerato nemmeno degno di essere assassinato.
Gli uomini di potere di parte romana, Ezio (435-54) e Ricimero (457-72) – quest’ultimo mezzo Svevo e mezzo Goto – non cercarono di farsi proclamare imperatori né, malgrado le loro evidenti capacità, riuscirono ad arrestare il declino militare di Roma.
Pag. 245
Quali furono dunque le cause di questo fallimento romano?
Innanzitutto, la situazione non era più quella in cui si era trovata Roma alla metà del secondo secolo a. C., e cioè davanti agli sforzi più o meno coordinati di una grande potenza come Cartagine.
D’altro canto, le capacità militari degli invasori erano spesso formidabili, e il loro numero lo era a volte altrettanto se paragonato all’entità delle forze che dovevano opporvisi: sembra che talvolta gli eserciti goti e vandali potessero contare su 25000 o 30000 uomini; nel 408 l’esercito di Alarico potrebbe averne avuti 40000 e un contemporaneo afferma che Radagaiso aveva con sé oltre 200000 effettivi (Orosio, Hist. 7, 37, 4), anche se questa è senza dubbio un’esagerazione.
Le debolezze interne avevano imposto una strategia difensiva ancor prima che le frontiere dell’Italia e del Reno venissero travolte, rispettivamente dopo il 401 e il 406.
Uno Stato imperiale resiliente deve affrontare i propri nemici principali, come fecero Roma nel secondo e terzo secolo a. C. e i musulmani nel settimo secolo d. C.: Giuliano (imperatore unico dal 362 al 3639 indubbiamente se ne rese conto e, se avesse avuto il dono sovrumano della precognizione, avrebbe attaccato i germani invece dei persiani.
Nel tardo quarto secolo, la miglior maniera di adulare la saggezza militare di un imperatore era sostenendo che egli avesse eretto un lungo “muro adamantino” di bastioni difensivi sulle frontiere, un evidente segnale che fu profuso grande sforzo per edificare tali fortificazioni (Temistio, Orazione 10, 36-138; per il suo atteggiamento difensivo, cfr. ivi 16, 208C e 211A).
Pag. 246
Un altro fattore “strategico” che può aver inciso fu la divisione definitiva dell’Impero nelle sue parti occidentale e orientale, avvenuta nel 395 quando a Teodosio successero Onorio e l’altro figlio Arcadio, entrambi ancora bambini.
Questa partizione ebbe anche un aspetto positivo, nel senso che limitò la dimensione dei problemi che un singolo imperatore e i suoi generali dovevano affrontare, tuttavia l’imperatore d’Occidente Onorio, insieme a Stilicone, sprecarono tempo e risorse nel tentativo di subordinare l’Oriente o quanto meno di assumere il controllo della diocesi dell’Illirico.
Pag. 246-47
Imperatori e grandi dignitari si trovavano normalmente di fronte a un ventaglio di scelte assai limitato e a problemi che si erano andati accumulando gradualmente.
Un tempo, ad esempio, l’aver permesso alle popolazioni “barbare” di stanziarsi nelle province romane era stata una politica piuttosto affidabile, i cui precedenti risalivano fino al primo secolo; quando, a partire dalla metà del quarto secolo, i franchi si stabilirono nella Gallia settentrionale, tale circostanza potrebbe aver rappresentato un vantaggio per l’imperatore.
Quando poi, nel 382, Teodosio concluse con i goti un trattato che li autorizzava a vivere in autonomia da Roma all’interno di alcune province romane fra cui la Mesia, la Dacia e la Macedonia, sarebbe difficile obiettare che avrebbe dovuto fare altrimenti: non aveva alternativa (e i goti erano in grado di fornirgli uan milizia); tuttavia la pace del 382 sancì un importantissimo cambiamento nella politica imperiale, giacché i goti mantennero la propria identità di gruppo tribale almeno semi-indipendente.
Temistio (che scriveva non molto lontano, a Costantinopoli) auspicava che i goti si romanizzassero come già avevano gli ex barbari galati (Orazione 16, 211CD), ma tale ottimismo non aveva molte ragioni d’essere: quando, negli anni Novanta del quarto e nel primo decennio del quinto secolo, questi “alleati” germani diedero ripetute prove di non essere né docili né inclini al compromesso era oramai troppo tardi per poterli espellere.
Pag. 247-48
Probabilmente una delle cause principali della debolezza militare era che il bacino fiscale si era ridotto: non veniva più effettuato alcun regolare censimento e id conseguenza i potentiores, anche sotto un imperatore relativamente forte come Costantino, trasferirono uan buona parte del fardello tributario sulla spalle dei ceti inferiori (su questo punto, cfr. CTh 13, 10, 1, relativo all’anno 313), i quali naturalmente non sempre erano in grado di pagare.
Le informazioni di cui disponiamo in merito alla capacità del governo di riscuotere le tasse fra gli anni Settanta del quarto e la crisi degli anni Dieci del quinto secolo sono necessariamente frammentarie, ma registrano segnali assai negativi anche per alcune zone che non avevano ancora subito un’invasione: in una famosa lettera, Ambrogio di Milano descrive lo stato di decadenza di città e campagne fra Bologna e Piacenza (Ep. 39, 3) e gli antecedenti letterari di questo documento non ne inficiano seriamente il valore probante.
Già nel 393 gli imperatori ammettevano che alcune province potevano contribuire assai poco (CTh 7, 4, 19); due anni dopo dovettero essere condonati gli arretrati fiscali di circa il 40% delle terre della Campania, un tempo ricca.
Il declino delle città romane in Occidente, anche se non uniforme, è ben accertato e altamente indicativo; è gravemente fuorviante affermare che le “risorse dell’Impero [non erano] diminuite”.
Pag. 250-51
E’ ragionevole dunque supporre che i soldati romani di questo periodo – quando erano romani – fossero pagati saltuariamente, poco addestrati, insubordinati, inclini alla diserzione e spesso impegnati in attività non militari: ma come si era arrivati a questo punto?
La risposta di MacMullen è “corruzione”, ma una corruzione diffusa dovrebbe essere considerata un sintomo che a sua volta necessita di una spiegazione; un gettito fiscale insufficiente costituisce solo un aspetto della questione e deve talvolta aver messo in situazioni difficili dei comandanti come Romano.
Pag. 254
Dopo il 400 l’equilibrio del potere in seno all’esercito si spostò in modo decisivo in favore dei cristiani e de anche i rituali pagani sopravvissero nei siti militari, hanno lasciato poche tracce; continuarono tuttavia a esservi soldati pagani o eretici e quando il giovane e pio Onorio decretò che “i nemici della fede cattolica” non potevano servire come guardie di palazzo (CTh 16, 5, 42) fu a quanto sembra costretto a revocare il provvedimento (Zosimo 5, 46, 4).
Nei decenni successivi il governo impiegò questi uomini come soldati pur negando loro i diritti religiosi e infine civili (cfr. CTh 16, 5, 65, relativo all’anno 435): a meno di non supporre che questi militari fossero per lo più non religiosi – il che è improbabile -, il loro morale deve averne sofferto e senza dubbio alcuni dei loro commilitoni cattolici avrebbero preferito non dover servire accanto a persone che ritenevano profondamente in errore quanto a fede religiosa.
Pag. 526
Furono le invasioni germaniche a mettere fine all’Impero d’Occidente, ma questo era stato indebolito da cause interne: entro il 410 i segnali di questa debolezza erano vari ma ovvi, e nessuno storico li potrebbe attribuire a un’unica causa.
Possiamo dire che Roma non aveva fatto progressi sufficienti nella trasformazione da impero a nazione, e che era eccessivamente divisa dai conflitti, religiosi e di classe [???], per poter sopravvivere.
Benché esistessero rituali e miti condivisi, non avevano mai funzionato nei confronti della massa della popolazione e il cristianesimo li aveva ulteriormente indeboliti; inoltre, a incidere fu anche il declino fiscale ed economico, associato alle debolezze della struttura politica.
Tutti questi fattori erano già presenti alla metà del quarto secolo, ma si intensificarono a partire dagli anni Settanta: a rendere diverso l’Occidente dall’Oriente durante il periodo in esame non fu quindi un qualche aspetto interno all’Impero, almeno non inizialmente, giacché come abbiamo visto i punti di forza e debolezza delle due parti sembrano essere stati gli stessi (sebbene sarebbe difficile trovare un vescovo orientale altrettanto sovversivo di Paolino di Nola).
Fu piuttosto l’intensità della pressione esterna, esacerbata dai danni economici provocati dalle invasioni, a fare la differenza: la fortuna degli imperatori d’Oriente, invece, fu di dover fronteggiare delle invasioni complessivamente meno gravi (anche se comunque pericolose).
Questa differenza divenne palese nel biennio 421-22: la nuova Roma d’Oriente attaccò la Persia di Bahram 5., non senza provocazione, e ne uscì essenzialmente alla pari (Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica 7, 20 ecc.).
Poi, nel 450, in un modo o nell’altro, il re degli unni Attila venne convinto a lasciare in pace la regione del basso Danubo (Prisco di Panion, fr. 15, 4-5, in Blockley, 1981) e dopo la sua morte, tre anni dopo, il suo regno si disintegrò; la frontiera persiana, infine, rimase per lo più in pace dal 422 fino al regno di Giustino 1. (518-27).
Pag. 257-58
La caduta dell’Impero romano d’Oriente costituisce invece una storia alquanto diversa: negli studi recenti sul periodo tardoantico non vi è nulla di più deplorevole della diffusa tendenza a cumulare indiscriminatamente le diverse condizioni prevalenti dal quarto al settimo secolo (la grande sintesi di A. H. M. Jones ne è in parte responsabile).
Nel 600 l’Impero romano era ancora un impero, sebbene fragile: governava l’antico Vicino Oriente romano, la maggior parte del litorale nordafricano, alcuen parti dell’Italia, persino qualche territorio nella penisola iberica e tutte le grandi isole mediterranee; nei Balcani la sua presenza era debole, e controllava solo le zone attorno a Costantinopoli e all’Egeo.
Così come alcuni storici novecenteschi di varie scuole riducono a un non evento la caduta dell’Impero d’Occidente, alcuni altri ritengono di scarso rilievo quella dell’Impero romano d’Oriente nel settimo secolo.
Questa tesi tuttavia si basa su una pretesa di continuità culturale in gran parte superficiale e che riguarda solo secondariamente la questione del potere (fatto strano, coloro che la difendono, prestano scarsa attenzione all’esistenza materiale dei contadini, che in effetti potrebbe non essere cambiata molto nelle parti di Siria, Egitto e Africa settentrionale non devastate dagli eserciti tra il 600 e il 700).
E’ davvero necessario giustificare l’affermazione secondo cui “la prima ondata di conquiste arabe segnò un importante spartiacque” nella storia del Mediterraneo?
Gli storici dell’Islam sono chiari su questo punto: a dominare ora erano uan nuova lingua (nota a pochissimi studiosi cristiani della tarda antichità) e una nuova religione; le tasse finivano in Arabia e in altri centri musulmani e non a Costantinopoli; un muro culturale divideva il Sud- Est dal Nord-Ovest.
Il mondo veniva riorientato: nel 644 per la prima volta uan flotta trasportò l’eccedenza di grano egiziano non a Bisanzio, ma nell’Hijaz.
In tutto il periodo compreso tra le vittorie romane del secondo secolo a. C. e il collasso dell’Impero ottomano il mondo mediterraneo non venne segnato da nessuno spartiacque più importante di questo, e se tutti e tre questi eventi (o meglio, serie di eventi) rappresentarono politicamente degli tsunami, in termini culturali le conquiste musulmane furono le più significative.
Pag. 259-60
Nella generazione compresa fra le morti di Giustiniano e Maurizio (sul trono dal 582 al 602) l’Impero romano d’Oriente perse la maggior parte dei propri territori in Italia, mentre la sua autorità sui Balcani rimase fragile.
I longobardi invasero l’Italia nel 569, conseguirono una rapida vittoria nel Nord e circa un decennio dopo avevano ormai raggiunto il golfo di Napoli e instaurato un ducato a Benevento.
Per qualche tempo gli imperatori riuscirono a manovrarli contro gli altri invasori, i franchi, ma negli anni Novanta del sesto secolo il potere longobardo si estese ulteriormente nell’Italia centrale e meridionale e nel 602 le poche zone ancora controllate dall’Impero si trovavano sotto pressione quasi dappertutto; Smaragdo, l’esarca bizantino di Ravenna durante gran parte del regno di Foca, dovette cedere ulteriori territori.
Conosciamo molti dettagli politici del periodo coincidente con il papato di Gregorio Magno (590-604), pontefice che si alleò con tutte e tre le parti in conflitto a seconda di quali fossero i propri interessi del momento.
Pag. 261-62
Un nuovo e persino più pericoloso attacco non tardò ad arrivare: il primo scontro fra i bizantini e i seguaci di Maometto ebbe luogo a Mut’a, a sud-est del Mar Morto, nel 619.
Ma una volta che il successore del profeta, Abu Bakr, ebbe consolidato il suo controllo sull’Arabia (Maometto era morto nel 632) iniziarono incursioni molto più serie e la prima grave perdita di territorio non si fece attendere: nel 634-35 i musulmani cacciarono le forze bizantine dalla Palestina.
Le fonti e gli studiosi sono in disaccordo sull’importanza relativa e la topografia delle successive battaglie in Siria, ma lo scontro sul fiume Yarmuk (a sud-est del lago di Tiberiade, e che segna l’odierno confine fra Siria e Giordania), in cui i musulmani misero in rotta l’esercito più numeroso che i bizantini fossero ormai in grado di mettere insieme, viene considerato decisivo (agosto 636).
Un’altra battaglia più a nord, tra Damasco ed Emesa (l’odierna Homs), finì anch’essa con un disastro romano (uno dei principali storici di questo periodo ha di recente contestato il modello della “conquista violenta” di questa fase dell’espansione musulmana, ma sembra essere riuscito solo a stabilire che gli avversari esagerarono talvolta l’entità delle relative distruzioni).
Pag. 265
Queste perdite ridussero a tal punto lo Stato romano d’Oriente da non poterlo più considerare un impero panmediterraneo come quello che i romani avevano tenuto insieme per oltre ottocento anni.
Con la perdita della Siria e dell’Egitto svanirono infatti anche i tre quarti delle entrate statali balcaniche e orientali; le eccedenze di grano egiziano ora venivano spedite in Arabia, coem già detto; le vittorie musulmane poi continuarono, portando nel 652 alla distruzione finale dell’Impero sasanide e nel 654 a un attacco contro la stessa Costantinopoli.
Il governo di Costante 2. (641-48: aveva solo 10 anni al momento della sua ascesa al trono) cercò invano di contrastare il potere longobardo in Italia: alla metà del secolo Bisanzio controllava più o meno una gran parte dell’Asia Minore, la periferia europea della capitale, alcuen zone della Grecia continentale (ma nel Peloponneso vi erano già stanziati gruppi di slavi) e la maggior parte delle principali isole del Mediterraneo e dell’Egeo, oltre a un’area corrispondente grosso modo alle moderne Tunisia e Algeria orientale (ma in costante ridimensionamento), alcune zone di territorio italiano e assai poco altro.
Come ottocento anni prima, molto dipendeva dalla potenza navale; nel 649 e 650 i musulmani invasero Cipro e l’Impero bizantino non trovò né i fondi né forse l’esperienza necessaria per una reazione adeguata: lo stesso Costante andò incontro pochi anni dopo a una fine ignominiosa, assassinato in un bagno pubblico si Siracusa.
Dal 643 in poi i musulmani avanzarono inesorabilmente lungo il litorale africano, raggiungendo l’attuale Tunisia nel 647-48 e imponendovi delle tasse, per arrivare infine in Marocco negli anni Ottanta del Settimo Secolo.
Dopo la battaglia di Yarmuk, in poche parole, il potere di Roma venne enormemente ridimensionato per poi vivere di un ulteriore e costante declino nell’arco delle due generazioni successive.
Pag. 266
Data l’importanza generalmente attribuita alla caduta dell’Impero romano, è sorprendente quanti pochi sforzi siano stati fatti per spiegare gli insuccessi romani nella prima metà del Settimo Secolo: sembra sintomatico che gli ultimi capitoli della grande storia del tardo impero di Jones non abbiano praticamente nulla da dire sull’argomento, concentrandosi sulla precedente caduta dell’Impero d’Occidente, quando la gran parte dell’opera si occupa invece dell’Oriente.
Persino una serie di studi dettagliati sulla guerra in età tardoantica per lo più elude la questione.
Di fatto, gli storici della tarda antichità sembrano in gran parte voler negare l’accaduto: “Nel corso di tutto questo periodo [284-641]”, scrive uno di loro, “le vittorie dell’esercito romano furono ben più numerose delle sconfitte, e le perdite più gravi si possono per lo più misurare in termini di truppe addestrate e di prestigio, , piuttosto che di territori e di città” – con buona pace della caduta dell’Impero d’Occidente, dell’incapacità del governo romano d’Oriente di difendere i Balcani e successivamente l’Anatolia, e dei disastri sotto Maurizio ed Eraclio.
Ancora una volta, siamo davanti a un gioco di prestigio: questi autori hanno evidentemente paura di sussurrare la parola “declino”, non rendendosi conto che in tal modo la storia bellica viene ridotta a una serie di eventi accidentali, una posizione assurda e antistorica (anche se nessuno vuole negare che la guerra ingenera sempre eventi accidentali, grandi e piccoli).
Esiste una riluttanza quasi patologica ad affrontare i decenni cruciali e in particolare le sconfitte romane: in un recente e poderoso volume dedicato all’esercito romano tardoantico in Oriente fino alla conquista araba solo tre dei trentatré saggi – incredibilmente – trattano quanto accaduto alle milizie romane nel regno di Giustiniano o nel periodo successivo.
Un altro libro ancora più recente, War and Warfare in Late Antiquity: Current Perspectives, evita qualsiasi discussione sul mancato successo nel resistere adeguatamente alle offensive musulmane.
Pag. 267
Nei conflitti appena accennati dovremmo in teoria considerare entrambe le parti: è necessario comprendere i principali nemici di Roma della fine del Sesto e del Settimo Secolo – i longobardi, gli avari, i persiani e altri, ma soprattutto gli arabi musulmani – se si vuole stabilirne la pericolosità in quanto nemici; ma le fonti, persino nel caso dei longobardi, sono troppo scarse per poter fornire più di una impressione generale.
Gli invasori erano troppo numerosi?
Erano guidati da motivazioni più forti di quelle dei difensori?
La società in cui vivevano fornivano un base, economica o psicologica, più salda rispetto a quella romana?
Si tratta chiaramente di interrogativi fondamentali.
Pag. 268
Infine, vale la pena di notare che anche se di recente sono stati condotti studi interessanti sui cambiamenti climatici nel tardoantico, non esiste alcun motivo per ritenere che l’Impero romano abbia conosciuto un peggioramento (o un miglioramento) delle proprie condizioni economiche dovuto al clima che non fosse comune anche ai suoi vicini.
Le indicazioni più probanti andrebbero ricercate nella penisola arabica: se si potesse dimostrare che il clima del Settimo Secolo vi fu relativamente benigno, al punto da permettere una significativa crescita demografica, avremmo allora un’informazione storica di valore.
Pag. 271
Va ammesso però che ciò non rappresentava nulla di nuovo: negli anni Trenta del Sesto Secolo l’esercito di Belisario in Italia era poliglotta, come di norma lo erano le armate di Giustiniano e il senso di identità romana dei suoi uomini sarà stato probabilmente limitato o, nel caso degli unni e degli sclaveni (slavi), nullo.
Pag. 274
Conclusioni
Anticipando il prossimo capitolo, possiamo chiederci in che modo le strutture di potere interne all’Impero romano ostacolarono la sua capacità di resistere alle minacce esterne.
Prima del 602 l’Impero d’Oriente era stato per lungo tempo risparmiato da sollevazioni militari vittoriose, e anche di disordini causati dai rovesciamenti di Maurizio e di Foca, dalla cospirazione contro Eraclio del 637 (che indusse l’imperatore a ordinare la mutilazione di alcuni membri della sua stessa famiglia) e dalla lotta di potere seguita alla sua morte nel 641, non avrebbero dovuto avere molta importanza in un impero dai confini sufficientemente sicuri.
In maniera analoga, la capacità del clero e dei monasteri di acquisire risorse per poi impiegarle per cause per lo più irrilevanti, se non dannose, per gli interessi dello Stato è un aspetto che l’Impero di Giustiniano poteva forse permettersi di tollerare, ma non certo gli imperatori del Settimo Secolo (e sotto la voce “risorse” dovremmo includere il coinvolgimento a livello psicologico).
Di solito si ritiene che gli imperatori di questo periodo godessero di un potere eccezionale all’interno delle proprie frontiere, tuttavia le difficoltà finanziarie che si trovarono a dover affrontare suscitano qualche dubbio sulla veridicità di questa tesi.
Nell’ultima fase del suo regno Eraclio perse gradualmente la propria autorità persino nei confronti dei suoi alti dignitari: nel 633 il suo generale in Numidia, Pietro, si rifiutò di inviare rinforzi in Egitto; nel 640 il patriarca di Alessandria e governatore de facto dell’Egitto, Ciro, negoziò un accordo di pace con gli arabi inaccettabile per l’imperatore, e quando venne convocato a Costantinopoli protestò pubblicamente con Eraclio (il che portò alle sue dimissioni e all’esilio; Niceforo, Breve storia, 28-30).
Per riassumere: a impedire all’Impero romano di resistere con successo alle invasioni arabe furono vari fattori, ed è difficile classificarli in ordine gerarchico.
In qualche misura anche in questo caso si verificò un circolo vizioso: le invasioni resero più difficile riscuotere tasse sufficienti, il che provocò un indebolimento dell’esercito, e così via; quello di Giustiniano fu un enorme azzardo che finì molto male.
Atri fattori che non avrebbero forse danneggiato un impero più robusto, in particolare i problemi causati dal cristianesimo dilagante, diedero poi il loro contributo.
Altre domande rimangono inevitabilmente senza risposta: forse le cose sarebbero andate diversamente se la popolazione dello Stato, nel periodo compreso diciamo da Maurizio a Costante 2., fosse stata più sinceramente devota all’Impero romano o ai suoi imperatori?
Pag. 280
Cap. 7. Roma contro sé stessa in due lunghe crisi
Costantino, monarca incontestato, morì nella primavera del 337, il 22 maggio: prima ancora che l’estate finisse non meno di nove dei suoi familiari erano già stati uccisi, per lo più su istigazione del diciannovenne Costanzo, il secondo dei tre figli che gli erano sopravvissuti.
Gli sfortunati parenti furono anche le uniche vittime, giacché l’impero non poteva essere governato da un eterogeneo comitato familiare: aveva bisogno di un’amministrazione centrale forte ed efficace gli spargimenti di sangue intra dinastici non figurano comunque tra le cause principali del declino della potenza di Roma nel tardoantico.
…….
L’Impero romano d’Occidente cadde per mano degli invasori germanici: avrebbe potuto resistere se avesse avuto un governo centrale ragionevolmente stabile e deciso; un’élite dotata del senso di responsabilità riguardo la capacità dello Stato di difendersi dai nemici esterni; un efficiente sistema fiscale in grado di riscuotere tasse sufficienti a mantenere delle forze armate ingenti e ben addestrate; e infine, un esercito dalla lealtà incontestabile e dal morale alto.
In questi decenni decisivi tutte queste risorse vennero a mancare.
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Anche per quel che riguarda l’identità nazionale e l’uso della lingua è possibile percepire alcuni cambiamenti nel corso del Quarto Secolo, ma nessun mutamento radicale, con l’importante eccezione rappresentata dal fatto che la quantità di persone che continuò a identificare i propri interessi con quelli dello Stato romano era diminuita; almeno, questa è la mia tesi.
Di fatto, lo Stato si indebolì notevolmente nel secolo successivo alla morte di Costantino: alcuni storici, in parte abbagliati dall’elaborato cerimoniale di corte, hanno talvolta affermato il contrario, ma tale opinione diventa inaccettabile se consideriamo il grado di potere ceduto dagli imperatori agli ecclesiastici, e in particolare ai vescovi, il venir meno in molte zone della pace sociale e la declinante efficienza del sistema fiscale, per non parlare delle manchevolezze militari analizzate nel capitolo precedente.
Pag. 282
Odoacre depose l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo “Augustolo”, nel 476.
L’unica autorità in grado di sostituire un imperatore con un altro rimase quella delle forze armate: come nelle epoche precedenti, le preferenze dei soldati dipendevano da una combinazione di denaro, lealtà dinastica e prestigio personale.
Pag. 283
Di solito, nella storiografia tradizionale che tratta del potere imperiale in questi anni a dominare sono tre temi: il rafforzamento della centralizzazione, l’ulteriore crescita di quella che è stata definita “una burocrazia sofisticata e ben organizzata” e la corruzione dei funzionari; tutti aspetti che necessitano di essere contestualizzati e definiti.
Pag. 286
Gli imperatori romani continuarono ad essere dei monarchi assoluti, ma il loro desiderio di controllare quanto avveniva nell’esercito e nelle province era per forza di cose limitato da vincoli pratici e di altro genere; fin dai tempi di Tiberio avevano aspirato al controllo totale, e almeno fin da quelli di Traiano erano intervenuti su questioni anche minime relative all’amministrazione provinciale.
Sotto la tetrarchia il moltiplicarsi dei funzionari civili aveva naturalmente creato dei problemi di ordine gerarchico che gli imperatori cercarono talvolta di risolvere (ad es. in CTh 6, 30, 8, relativo all’anno 384), segno che gli uomini al vertice avrebbero preferito avere a che fare con delle catene di comando ben definite.
Pag. 288
Un aspetto interessante di questi funzionari è che a partire probabilmente dai primi anni del regno di Costantino si presentavano in veste quasi militare, con diritto a delle “razioni” e indossando un’uniforme; il loro corpo e i loro incarichi erano definiti come militia.
E’ stato suggerito che ciò avvenisse perché a livello informale si riconosceva ormai il fatto che molti incarichi di natura essenzialmente civile venivano affidati a dei militari, ma una spiegazione più plausibile è che l’imperatore e gli alti funzionari volevano che i loro subordinati fossero (idealmente) altrettanto disciplinati dei soldati.
Un altro frequente oggetto di dibattito storico è la corruzione, in parte perché è arduo definire che cosa fosse considerato eccessivo all’epoca per quel che riguarda il dare e il ricevere dei doni, in parte perché è difficile valutare quanto fossero diffuse determinate pratiche in un’era in cui alcuni erano inevitabilmente più disonesti degli altri.
Eppure, tangenti e corruzione esistono in ogni epoca, il che porta alla problematica domanda su se e quanto dannosa fosse per lo Stato la compravendita delle cariche e dei servizi pubblici nell’Impero d’Occidente di questo periodo.
Gli economisti non sembrano granché interessati alla corruzione, che considerano semplicemente un modo come un altro di fare la coda: la Gran Bretagna acquisì una gran parte del suo impero in un’epoca in cui i seggi parlamentari e i gradi di ufficiale (nonché le successive promozioni) nell’esercito venivano comunemente comprati, di solito da persone più o meno competenti; un paragone con i moderni paesi mediterranei sarebbe superfluo.
Quello che è degno di nota, piuttosto, è rilevare come alla metà del Secondo Secolo a. C. i senatori romani fossero talvolta disposti a svendere gli interessi dello Stato (Diodoro Siculo 31, 27°, ecc.) senza che ciò avesse effetti catastrofici.
Ad ogni modo, molto si è discusso sulla pregnanza della venalità in questo periodo: a mio parere sia i “massimizzatori” (coloro che la considerano un enorme, persino fatale, difetto del sistema di governo) sia i “minimizzatori” sono in errore.
Entrambe le fazioni, infatti, sono solite confondere questioni fra loro diverse: se le promozioni avvenissero per altri motivi rispetto al merito in senso moderno (accadeva assai di frequente, come era sempre stato); se gli incarichi importanti venissero sempre comprati, e se è così, chi fosse esattamente a metterli in vendita; se e quanto questo genere di commercio causasse un pregiudizio effettivo; se la corruzione ostacolasse la messa in pratica di politiche imperiali importanti; e infine se queste difficoltà, se mai esistessero, siano aumentate in modo considerevole neo decenni della crisi.
Pag. 290
Quando però nel 388 Teodosio volle punire un vescovo che a capo di un gruppo di cristiani aveva distrutto la sinagoga di Callinicum (attuale Raqqa) sull’Eufrate, Ambrogio affermò che gli ebrei costituivano un bersaglio legittimo e riuscì a salvare il suo collega; la resa dell’imperatore rappresentò un significativo svilimento del sempre più limitato monopolio della forza dello Stato romano. [alla faccia di Hitler]
Pag. 294
Il mito dell’invincibilità di Roma venne sostituito in modo massiccio – sebbene gradualmente e mai del tutto – da quello dell’importanza fondamentale della fede cristiana, e anzi di una fede caratterizzata da ortodossia e conformismo.
Pag. 295
In quegli anni, l’identità religiosa e le sue implicazioni erano parte di una questione complessa, in cui l’opportunismo, l’adattamento e le lealtà divise erano altrettanto diffusi del fanatismo, ma a ogni modo non è mio compito analizzare in questa sede le origini dell’intolleranza cristiana.
Alan Cameron ha collocato la popolazione romana di quest’epoca in cinque categorie religiose: ai due estremi vi sono cristiani e i tradizionalisti (ovvero i “pagani”) “impegnati” – entrambi, sostiene, “una percentuale relativamente piccola della popolazione”; poi i cristiani e i pagani “moderati”; e infine coloro che sono difficili da classificare nelle altre categorie.
Molto dipende qui da che cosa si intenda con le definizioni di cristiano “impegnato” o “moderato”: ciò che importa in termini pratici non è ad esempio la preparazione teologica, bensì uan solida autoidentificazione, divenuta sempre più forte sotto Teodosio (cfr. la succitata legge del 380), Onorio e Arcadio.
Pag. 296
Queste prove della soppressione violenta di alcune pratiche religiose, e per estensione di alcune fedi, puntano in una direzione chiara: ai lettori cristiani non piacerà, e la storiografia moderna, predominantemente cristiana, ha spesso cercato di adombrarlo, ma il fatto è che tra il Quarto e il Quinto Secolo l’Impero romano visse una fase di grave disintegrazione sociale, di cui daremo ulteriori dimostrazioni più avanti.
Ciò non equivale a dire che il cristianesimo fu la sola causa di questo fenomeno o che non ebbe anche degli effetti sociali positivi, ma lo spezzarsi dei legami sociali nella popolazione e la diffusione dell’odio al suo interno sono fatti storicamente provati.
Pag. 297
Per quanto riguarda gli effetti delle idee cristiane – e delle leggi che cercarono di imporre l’ortodossia cristiana – sui rapporti di potere sociali, vi sono opinioni diverse.
Peter Brown ha descritto questo periodo come di transizione fra una “società aperta” e una chiusa, un giudizio che chiaramente contiene una gran parte di verità; la nuova ideologia dominante era per molti versi profondamente repressiva dal punto di vita intellettuale, sessuale e religioso.
Gli strumenti di questo cambiamento erano delle nuove figure autoritarie: gli artefici di miracoli e gli asceti (categorie che vantavano entrambe dei predecessori di epoca classica, ai quali tuttavia era stato accordato un rispetto assai minore), così come i vescovi e altri membri del clero.
Gli insuccessi militari di Roma durante questi decenni disintegrarono il potere romano in Occidente, sebbene le sue forme esteriori continuassero a persistere; i cambiamenti in seno alle strutture di potere fin qui citate avevano per lo più delle cause interne, ma in che modo influirono sulle capacità militari di Roma?
Alcuni storici ritengono che a fare la differenza fu l’impossibilità per l’imperatore di controllare la corruzione dei funzionari; io invece sostengo che il dissenso religioso – fra gli stessi cristiani, non solo fra i cristiani e i “pagani” – costituì un fattore più importante e l’unica soluzione a questo problema proposta dagli imperatori di questo periodo – ovvero la conformità dell’intera popolazione alla fede cattolica – fu quanto meno poco realistica.
Altri fattori politici, ed economici e psicologici resero di certo più difficili i successi militari: fra quelli menzionati all’inizio di questo capitolo, il più importante – a parte il morale delle forze armate – fu semplicemente l’impossibilità dello Stato di riscuotere tasse sufficienti a finanziare un esercito numeroso ed efficiente.
Pag. 307
Non esistono studi economici che tentino di paragonare l’era di Augusto e Traiano con quella di Eraclio e Costante 2.: questa è probabilmente una delle ragioni per le quali la storiografia esagera il potere dei successori di Giustiniano.
Un’opinione diffusa afferma che “l’imperatore romano di epoca tardoimperiale dominava la propria società come pochi altri monarchi, prima e dopo di allora”: per quanto riguarda il periodo compreso fra il 565 e il 636 ciò equivale a scambiare la pompa e la cerimonia con il potere effettivo, errore peraltro comune fra gli studiosi contemporanei, e a ignorare le fonti.
Tanto per cominciare, gli imperatori in questione non erano personalmente più al sicuro dei loro predecessori: Maurizio Foca e probabilmente Tiberio 2. (574-82) vennero assassinati, malgrado avessero a disposizione un gran numero di spie e informatori, come si evince da Procopio (Storia segreta 1, 2).
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Il potere ecclesiastico solleva interrogativi ancor più complessi (e qui dovremo necessariamente anticipare la questione del potere delle idee religiose).
Gli alti ecclesiastici potevano a volte essere incaricati di missioni politiche o diplomatiche: Gregorio, patriarca di Antiochia fra il 570 e il 593, aiutò a reprimere uan grave ribellione alla frontiera persiana nel 589, rendendo ulteriori servigi politici all’imperatore Maurizio.
Papa Gregorio Magno esercitò un grande potere politico nell’Italia bizantina, mentre a Costantinopoli il patriarca Sergio (610-38) sembra aver avuto una certa influenza politica su Eraclio.
Quest’ultimo arrivò persino ad affidare l’Egitto a un uomo di Chiesa: quel Ciro che successivamente consegnò la provincia ai musulmani dal 631 al 650 fu sia patriarca di Alessandria sia governatore.
In tutto l’impero, fin dal regno di Anastasio (491-518), i vescovi locali – nominati a vita dalla popolazione – avevano progressivamente assunto maggiori poteri nella gestione degli affari civili e quotidiani delle loro comunità, sebbene si trattasse di uno sviluppo ben poco sistematico; Giustino 2., come già visto, concesse ai vescovi la prerogativa – condivisa con alcuni laici influenti – di nominare i governatori provinciali.
Sul piano religioso si pongono dunque due questioni distinte, ma legate tra loro: ovvero, se i conflitti fr ai gruppi di fede all’interno dell’Impero abbiano costituito uan grave fonte di debolezza; e se considerazioni di ordine religioso abbiano ostacolato in qualche modo une ffettivo esercizio del potere da parte degli imperatori o dei loro altri funzionari.
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Potremmo paragonare la posizione di Eraclio negli anni Trenta del Settimo Secolo con quella di Elisabetta Prima di fronte agli attacchi dei cattolici: se gli inglesi fedeli alla Chiesa di Roma fossero stati più numerosi e fosse esistita una frontiera terrestre con una potenza cattolica, il risultato sarebbe forse stato diverso; ma oltre a ciò, il paragone fa emergere anche altri aspetti dell’impero di Eraclio, in particolare la carenza di comandanti militari affidabili.
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Se esiste un consenso su quale sia stato un fattore di debolezza – oltre a quelli esterni e quelli di natura fiscale – per gli imperatori di questo periodo, riguarda i notabili locali, in gran parte proprietari terrieri: ma quanto costituissero effettivamente uan causa dei problemi più gravi dell’Impero e non semplicemente un loro sintomo è ancora oggetto di discussione.
Il caso sempre citato è quello dei ricchissimi (e assai ben introdotti presso le autorità) Apioni, nell’Egitto del Sesto Secolo: sembra ad esempio che i membri di questa famiglia di grandi possidenti fondiari abbiano fatto uso di truppe imperiali per i loro scopi (il che era illegale) e che avessero costruito una prigione privata nelle loro proprietà.
A quanto se ne sa, erano fedeli all’imperatore (spariscono dalla documentazione nel periodo dell’occupazione persiana dell’Egitto, nel 617-29).
Forse ancor più tipica era la famiglia di un certo Abaskiron (il nome ci è giunto per tramite dell’etiopico, e la forma non è accurata), le cui attività illegali nel delta del Nilo e in altre zone durante il regno di Maurizio ci sono note dalla Cronaca di Giovanni di Nikiu (97): il capofamiglia era un uomo ricco, che tuttavia istigò gravi disordini.
Violenze di questo genere potrebbero essere soprattutto indice della carenza di personale militare.
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Le specifiche debolezze interne dell’Impero romano del Settimo Secolo in quanto nazione vanno ricercate altrove: quelle istituzioni che un tempo avevano tenuto insieme l’Impero, in particolare il culto imperiale e le forze armate, si erano completamente trasformate e i dissidi religiosi continuavano a minare l’unità interna, forse ancor più pesantemente di quanto non accadesse ai tempi del primo periodo.
Secondo un autorevole storico marxista fu “la combinazione di un potere economico e di un potere politico illimitato nelle mani delle classi proprietarie, del loro imperatore e della sua amministrazione a portare in ultima analisi alla disintegrazione dell’Impero romano” (si riferiva a entrambi i periodi di crisi discussi in questo capitolo).
Un elemento di questa analisi però non torna, giacché il potere imperiale durante la crisi del Settimo Secolo era tutt’altro che illimitato; ma i ceti proprietari, in base a questa tesi, scaricarono costantemente il peso principale della tassazione sulle spalle dei meno abbienti e una teoria di questo genere può ben sostenere che costoro fossero troppo poveri per fornire un gettito sufficiente e troppo alienati dall’oppressione per avere a cuore la sorte dell’Impero.
L’oppressione die contribuenti poveri non era peraltro un fatto nuovo nel tardoantico, e per poter comprenderne le conseguenze negative dovremmo collegarla al declino complessivo, spasmodico e diseguale dell’economia romana, un fenomeno che una parte della storiografia recente ha fatto del suo meglio per offuscare.
La vera difficoltà per lo storico sta nel fatto che, diciamo nel mezzo secolo precedente alla battaglia dello Yarmuk, siamo lontani come non mai dal poter analizzare la condizione dell’economia o i problemi fiscali dello Stato romano: ciò rende a sua volta più complicato valutare l’importanza relativa dei dissidi e delle preoccupazioni religiose che indebolirono l’unità e la coesione della popolazione dell’Impero, alienandola da un passato pieno di fiducia e generando odi e paure intense.
Il fallimento dell’Impero romano del Settimo Secolo, come quello dell’Impero d’Occidente di due secoli prima, ha fin troppe spiegazioni.
Le eccessive ambizioni militari di Giustiniano (con le relative conseguenze fiscali), i conflitti religiosi interni, la forza e la subitaneità delle offensive islamiche, la debole coscienza nazionale delle élite provinciali furono tutti fattori importanti; contrariamente all’opinione comune, anche la posizione dell’imperatore era piuttosto debole, specie forse sotto Maurizio e Foca.
Quanto pesasse la debolezza economica e demografica è difficile da stabilire, ma la numismatica conferma ciò che appare comunque ovvio: per varie ragioni – in particolare per le guerre rovinose in quelle che avrebbero dovuto essere delle province prospere e fiscalmente importanti -, l’economia non era più in grado di mantenere un esercito di entità e qualità pari a quello che Roma aveva messo in campo per settecento anni, dal Terzo Secolo a. C. al Quarto Secolo d. C.
Se poi di fatto valesse la pena salvare l’Impero di Eraclio è una domanda interessante, ma non di natura storica.
Abbiamo visto diffusamente nella seconda metà di questo capitolo come le ormai fragili strutture di potere interne del sopravvissuto Impero romano resero assai difficile, se non impossibile, una difesa efficace; ma in che modo, per porre la domanda un’ultima volta, il ridimensionamento del potere esterno di Roma fra il 582 e gli anni Quaranta del Settimo Secolo influenzò le strutture di potere in seno all’Impero?
In generale, indebolì l’imperatore regnante; nei periodi di incursioni straniere i governi romani e i loro rappresentanti erano assai meno in grado di mantenere l’ordine interno; la disciplina militare era scarsa, anche se forse migliore sotto Eraclio che non sotto Maurizio.
Proprio nel momento in cui l’imperatore aveva bisogno di maggiori entrate fiscali, tendeva probabilmente a ricavare un minor gettito, specie dopo l’occupazione persiana di molte province romane all’epoca di Eraclio; e proprio nel momento in cui avrebbe avuto bisogno di un più ampio sostegno da tutte le classi sociali, potrebbe averne ricevuto di meno.
Ancora una volta, l’irresponsabilità dell’élite e l’estraniamento dei poveri appaiono entrambi evidenti.
Può esserci stato anche qualche legame tra il declino del mito di Roma e dell’invincibilità dell’imperatore, da una parte, e la crescita del prestigio e del potere degli ecclesiastici, dall’altra; ma tale questione necessita di un’attenta analisi giacché gli imperatori continuarono fino alla fine ad arrogarsi la gloria militare.
Giorgio Piside, contemporaneo di Eraclio, lo paragonò favorevolmente ad Alessandro Magno.
Ad ogni modo, gli attacchi dei popoli stranieri incoraggiarono probabilmente sia i tentativi di imporre l’ortodossia religiosa (allo scopo di soddisfare la divinità) sia una tendenza a cercare di condurre un’esistenza al di fuori del mondo politico-militare (specialmente tramite il monachesimo, in costante proliferazione).
Alla fine del capitolo precedente ho elencato i principali fattori interni che sembrano aver impedito a Roma di difendersi con successo dall’offensiva musulmana, sottolineando il circolo vizioso delle invasioni e delle conseguenti difficoltà fiscali; in questo capitolo, ho cercato di completare il quadro esaminando le manchevolezze delle élite romane e le fratture create da un fervente cristianesimo.
Ad ogni modo, negli anni Trenta o Quaranta del Settimo Secolo sarebbe risultato comunque difficile per l’Impero romano sconfiggere in maniera decisiva gli arabi, dopo l’estenuante e distruttiva, pur se finalmente vittoriosa, guerra contro i persiani durata a tutti gli effetti dal 602 al 628.
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Cap. 8. Retrospettiva e alcune riflessioni
Dal momento che questo libro è già di per sé in buona misura una sintesi, non può essere riassunto senza che vadano perse alcune sfumature e precisazioni essenziali: ma i libri di storia hanno il dovere di stilare le loro conclusioni e dunque questo capitolo intende mettere in luce e sviluppare ulteriormente i temi principali dei sette capitoli precedenti.
Dovrebbe risultare chiaro, innanzitutto, quanto sia utile il confronto fra i romani delle diverse epoche: ma strano a dirsi, quei romani che costruirono un impero e quelli che lo persero si sono incontrati solo di rado nelle pagine di un libro di storia di produzione accademica.
Il contrasto fra queste due popolazioni è estremamente illuminante: anche se appare abbastanza ovvio che i romani del Terzo e Secondo Secolo a. C. fossero bellicisti e molto spesso aggressivi, nessuno che paragoni il loro comportamento con quello, così diverso, dei romani della tarda antichità potrebbe mai dubitarne.
Di contro, nessuno studioso di storia romana mediorepubblicana potrebbe mai esprimere un’opinione favorevole sulle capacità militari dello Stato romano nei due periodo del tardoantico descritti nei capitoli 6 e 7.
Se poi guardiamo allo Stato coeso e disciplinato della media repubblica, il mondo frammentato e intimorito dell’epoca di Teodosio Primo e dei suoi figli appare ancora più palesemente disfunzionale, e ciò vale a maggior ragione per l’Impero di Foca e di Eraclio, e per quelle sue parti che questi riuscirono a trasmettere ai loro successori.
In tutto il libro ho cercato di correlare i meccanismi del potere esterno e di quello interno: ci siamo quindi occupati allo stesso tempo di potere politico, militare, sociale ed economico, ma anche di potere di genere e di quello delle idee, nonché di tutti i canali, specie quelli ideologici, attraverso i quali il potere veniva esercitato; è stato costantemente necessario chiedersi quanto questi processi storici mettano in luce il predominio di una singola classe sociale.
Fin dall’inizio ho posto la domanda sul perché il potere di Roma si sia diffuso così estesamente e sia durato così a lungo.
Nell’età mediorepubblicana a contribuire a produrre una straordinaria ma non ininterrotta sequenza di vittorie militari furono molti fattori, fra cui il contesto geografico e il successo demografico, oltre alla schiavitù dei nemici sconfitti e all’integrazione degli schiavi affrancati.
Quanto all’eccezionale devozione romana per la guerra, appare ben visibile fin dagli albori della loro storia documentata.
Entro l’ultimo decennio del Quarto Secolo a. C., se non prima, le risorse di Roma erano molto superiori a quelle della maggior parte dei suoi nemici prescelti e riuscì a sfruttare con eccezionale abilità anche quelle di altre comunità, dapprima i latini e poi, al più tardi per gli anni Settanta del Terzo Secolo a. C., gli altri popoli italici.
Un’altra caratteristica che emerge con chiarezza già all’epoca della prima guerra punica è la capacità dei romani di impadronirsi della tecnologia bellica di altre nazioni.
La disciplina sociale, tuttavia, era fondamentale, compresa quella che sottendeva la competizione esistente in seno all’aristocrazia assicurando che non finisse fuori controllo.
In tutto questo periodo non esiste alcun indizio di una riluttanza da parte dei cittadini romani a servire sotto le armi; ma a guidare la politica estera dello Stato, e in modo coerente, era un’aristocrazia dotata di grande influenza, seppure non onnipotente.
Molto di quanto sopra rimane ovviamente avvolto nell’incertezza: mancano quasi del tutto dei testi coevi, , né sappiamo se quella violenza patologica e intimidatoria che Polibio e le sue fonti riscontravano nei soldati romani li differenziasse dalle altre popolazioni italiche già, poniamo, nel 300 a. C.
Siamo meglio informati sulle “tecniche di organizzazione” (per ripetere l’espressione di Michael Mann) che permisero a Roma di mantenere il controllo di quanto conquistato nella penisola, e che sono state studiate in modo approfondito: la colonizzazione, la confisca delle terre, la costruzione di strade, la diffusione della cittadinanza romana e dell’identità italiana, insieme a una limitata interferenza culturale e religiosa; Roma tendeva poi a favorire sempre le élite locali se queste erano disposte a cooperare, come di fatto accadeva assai spesso.
Queste tecniche funzionarono, seppure a malapena: Annibale fu sul punto di infrangere il predominio romano nella penisole, e la rabbia degli stessi italici sfociò nella grande rivolta del 91-90 a. C.; in entrambi i casi, tuttavia, un numero sufficiente di “alleati” italici decise invece di sostenere Roma ( quanto meno si dimostrò poco incline a prendere le armi per ribellarsi), permettendole così di avere la meglio.
Spiegare i successi militari romani nei conflitti con le altre grandi potenze mediterranee, fino alla distruzione di Cartagine nel 146 a. C., è un altro compito difficile.
Cartagine e la Macedonia cessarono di esistere come Stati indipendenti, e dopo la battaglia di Pidna, nel 168 a. C., un Impero seleucide assai indebolito dovette riconoscere il proprio ruolo subordinato.
La potenza navale ebbe un ruolo fondamentale: tra il 160 a. C. (con la battaglia di Milazzo) e il 190 a. C. (battaglia di Mionesso) Roma si appropriò del Mediterraneo, riuscendo ancora una volta a sfruttare alcuni vantaggi – in particolare, le risorse economiche necessarie per la costruzione e il rinnovamento di grandi flotte, e la più o meno volontaria cooperazione delle città greche dotate di esperienza navale.
Ma nel corso di questi 120 anni i romani condussero per lo più delle campagne terrestri, contro molti e diversi nemici: si trattò spesso di lotte impari ma, almeno inizialmente, non nel caso delle grandi potenze mediterranee; e anzi, non era per nulla scontato che Roma riuscisse a conquistare una gran parte della penisola iberica.
Gli eserciti romani riuscirono sempre a prevalere per motivi che risultano in buona parte insondabili: la disciplina, sia sociale che militare, si confermò ancora una volta un fattore molto importante; di fatto, costituì l’elemento centrale dell’analisi di Polibio – il quale scrisse anche di come la ferocia dei soldati romani avesse indebolito i loro avversari macedoni, che all’epoca erano probabilmente altrettanto risoluti di qualsiasi altra forza combattente del mondo mediterraneo.
Come già in Italia, negli altri territori che Roma arrivò a controllare fino al 146 a. C. i vincitori idearono diverse tecniche di organizzazione del tutti sufficienti a garantire un dominio di lungo periodo: da una parte, la creazione di province e di nuove magistrature, uan diplomazia molto più ambiziosa accompagnata da slogan appropriati, e ancora una volta il sostegno ai proprietari locali disponibili a cooperare; dall’altra, un brutale ricorso alla deportazione quando era considerata necessaria, culminato nella distruzione di Cartagine e Corinto e nella distribuzione delle rispettive terre ai colon romani e italici.
Nei successivi 130 anni di inarrestabile espansione, Roma dovette subire anche delle spettacolari sconfitte militari, in particolare ad Arausio (105 a. C.), Carre (53 a. C.) e nella foresta di Teutoburgo (9 d. C.) – conseguenze inevitabili, potremmo dire, di un atteggiamento nei confronti del mondo esterno altamente aggressivo e talvolta troppo sicuro di sé.
Ma il bilancio complessivo fu di nuovo trionfale, giacché le risorse e la dedizione di Roma erano tali da poter affrontare con successo qualsiasi avversario nell’area mediterranea o in Europa settentrionale – con una singola eccezione, l’Impero dei parti.
Nel Nord tuttavia la determinazione di Roma venne meno in un momento cruciale (dal 9 d. C. in avanti), per motivi peraltro del tutto validi e razionali, e le regioni a est del Reno e a nord del Danubio non furono quindi conquistate.
Durante tutto il periodo di espansione repubblicana e augustea è possibile stabilire un legame fra i rapporti di potere esterni e interni di Roma, i cui contorni sono chiari: la competizione fra aristocratici in una società guerriera – in cui oltretutto il potere dei cittadini non produsse alcuna seria aspirazione democratica fino all’epoca dei Gracchi – richiedeva un costante impegno bellico.
Il prestigio militare rimase indispensabile per chiunque pretendesse di governare, almeno fino all’epoca di Tiberio: alla fine l’espansione divenne meno attraente in gran parte perché al monarca non conveniva affidare il comando di grandi unità militari a dei potenziali rivali, né cercare di ottenere il necessario gettito fiscale.
La crescita del potere esterno, nel frattempo, aveva rivoluzionato la società romana, inondandola di schiavi e aumentando sempre di più il divario fra i ricchi e la gente comune: mai una democrazia, la Roma di età mediorepubblicana delegava alcune importanti prerogative ai cittadini ma a dominare era l’aristocrazia – assistita da diverse pratiche sociali e religiose che trascendevano i confini di classe, ma pur sempre un’aristocrazia.
La famiglia romana diede il proprio contributo a un’eccezionale disciplina civica, disciplina che valori dominanti come la fides e la virtus tendevano a rafforzare; l’ideale della libertas, d’altra parte, aveva effetti più complessi.
Ad ogni modo il Senato, piuttosto ampio rispetto all’entità della popolazione, dominava la politica e – malgrado alcuni segnali di allarme nel Secondo Secolo a. C. – fino al 140 a. C. circa l’ordine senatorio e i suoi alleati sembrarono tenere saldamente in mano le redini del potere: si erano arricchiti e avevano saggiamente condiviso i frutti di un imperialismo vittorioso.
Tuttavia, avevano anche lasciato che molti bisogni e aspirazioni dei romani comuni rimanessero insoddisfatti; nel contempo, la loro cultura stava cambiando, allontanandosi dal militarismo – sebbene questa tendenza non vada esagerata – e orientandosi verso la competizione e il piacere in altri aspetti della vita (qui si faceva sentire l’influenza greca).
I motivi di malcontento nella tarda repubblica erano di almeno quattro diversi tipi: il più semplice da soddisfare era legato alle aspirazioni dei ceti emergenti di cittadini moderatamente abbienti, alla base delle leggi elettorali degli anni Trenta del Secondo Secolo A. C.; assai più problematica – e mai risolta – era la tendenza alla ribellione degli schiavi, al suo culmine fra il 140 e il 71 a. C.
I non cittadini italici furono all’origine di gravissime difficoltà, cui venne infine data soluzione grazie alla più radicale inversione politica dell’intera storia di Roma, per lo più delineata in quella Lex Iulia che nel 90 a. C. concesse alla maggior parte di loro la cittadinanza romana.
Il quarto genere di conflitto, forse non più grave della ribellione degli schiavi o del malcontento degli italici, ma non suscettibile di soluzione senza una guerra civile, riguardava i bisogni della parte più povera della popolazione di tutta la penisola italiana.
Tali bisogni poterono venire soddisfatti, ma solo canalizzandoli nei ranghi di eserciti semi rivoluzionari al servizio delle ambizioni di quegli aristocratici che nell’arco di due generazioni, da Silla a Ottaviano, lottarono per il dominio personale: il risultato fu un mezzo secolo di disordini e insicurezza.
Non è certo sorprendente che l’ordine senatorio non fosse in grado di controllare l’ascesa di potenti dinasti in seno ai propri ranghi: assunse infatti molte iniziative discutibili perdendo infine la propria supremazia politica, sebbene non in modo decisivo fino all’epoca di Tiberio; e anche allora la classe sociale dei grandi proprietari fondiari, sopravvissuta alle proscrizioni e agli altri pericoli della tarda repubblica e dei periodi di triumvirato – quando molte famiglie aristocratiche sparirono o si avviarono al declino – continuò la propria esistenza, sostanzialmente impermeabile al malcontento popolare.
Augusto, dopo aver versato uan grande quantità di sangue, romano e altrui, ed essersi insediato come unico governante, riportò un livello di stabilità sconosciuto almeno dall’inizio della guerra sociale, sessant’anni prima della battaglia di Azio; con astuzia straordinaria e con un vasto arsenale di armi istituzionali e ideologiche si rese invulnerabile, trasmettendo infine il potere al suo successore prescelto.
Questi, Tiberio, operò un cambiamento nei rapporti di Roma con il mondo esterno che si rivelò di lunga durata: mentre Augusto aveva sfidato i popoli germanici ma non i parti, il suo successore lasciò entrambi per lo più indisturbati.
Nel corso dei due secoli successivi l’espansione romana rallentò bruscamente, per diverse ragioni: il fattore più significativo fu probabilmente la necessità dell’imperatore di proteggersi dagli usurpatori, giacché era ovvio che un generale eccezionalmente vittorioso costituiva una minaccia per l’uomo al vertice, mentre pochi imperatori desideravano, come Traiano, assumersi il compito di condurre di persona delle ardue campagne di conquista.
Un impero con una frontiera estesa e molti sudditi irrequieti si trovò poi inevitabilmente e assai spesso alle prese con dei conflitti secondari.
Un limite importante era rappresentato dall’onere finanziario che il mantenimento delle forze armate di Roma comportava, specie dopo la grande epidemia comparsa al tempo di Marco Aurelio (la peste antonina, che causò una contrazione del bacino fiscale) e dopo la decisione di Settimio Severo di aumentare il numero delle legioni.
Né va tralasciato il fatto che molti romani fossero convinti che al di fuori dell’Impero non esistesse nulla di cui valesse la pena impadronirsi, o che in una monarchia assoluta l’imperatore potesse proclamarsi un conquistatore senza avere di fatto mai conquistato alcunché; è inoltre evidente che praticamente l’intera classe dirigente aveva ormai perduto la passione repubblicana per la gloria militare.
Roma si assestò dunque dietro a frontiere che rimasero in gran parte immutate, e difese anche terrorizzando periodicamente i popoli vicini.
L’Impero di Costantino era più grande di quello di Tiberio e i suoi confini sembravano ragionevolmente sicuri: ma doveva fare i conti con delle manchevolezze militari e con dei problemi interni potenzialmente seri.
Che avesse speso troppo, in termini umani e finanziari, nelle guerre civili seguite alla crisi della tetrarchia potrebbe non aver avuto importanza, se non fosse stato per la certezza che la guerra civile sarebbe presto scoppiata di nuovo non appena Costantino fosse uscito di scena.
E’ facile lasciarsi andare alla tentazione di vedere negli eserciti tetrarchici e costantiniani i semi dei problemi futuri: spese enormi e un’imperfetta identificazione delle truppe “barbare” con Roma.
Nell’età mediorepubblicana un’alta percentuale dei cittadini maschi abili prestò un qualche tipo di servizio militare: Possiamo stimare che alla metà del Secondo Secolo a. C. almeno la metà di loro si fosse ritrovata sotto le armi in un periodo o nell’altro.
Dopo la scomparsa dei veterani delle campagne di Azio, sotto Tiberio, la quota di popolazione maschile ad aver svolto direttamente il servizio militare andò declinando e per la metà del Secondo Secolo a. C. possiamo stimare che appena il 4% dei cittadini maschi allora in vita si trovavano o erano stati sotto le rami, una percentuale ancora minore se si considera l’intera popolazione maschile.
Di coloro che indossavano l’uniforme in quel periodo, poi, pochi vissero vere esperienze in battaglia contro dei nemici temibili: dunque vi furono assai meno veterani con vecchie ferite di guerra, assai meno giovani vedove – e assai meno cittadini temprati dal combattimento.
Lo Stato romano era divenuto meno belligerante, e meno preparato ad affrontare un grande conflitto.
La durata dell’Impero romano dipese ovviamente in gran parte dalle sue strutture di potere interne, e grazie a un’abbondante documentazione e a numerose fonti letterarie tali strutture sono meglio conosciute fra il Primo e il Quarto Secolo che non negli altri periodi, precedenti o successivi: sulla corte imperiale rimane sempre un velo di segretezza, ma i sistemi principali sono ben discernibili.
Gli imperatori romani, da Tiberio in poi, erano monarchi assoluti e fino a un certo punto sacralizzati, che operavano all’interno di una corte e nel quadro di rapporti spesso non facili sia con l’ordine senatorio che con le forze armate (e men che meno un’invulnerabilità) né a ideare un sistema di successione efficace, ma la struttura politica centrale sopravvisse comunque.
Uno dei motivi fu che gli imperatori riuscirono invece a integrare uan notevole proporzione delle élite delle province, nonché un numero sufficiente di provinciali più modesti disposti a servire nell’esercito: un successo non sorprendente, dal momento che l’Impero romano rappresentava gli interessi economici di molti dei suoi abitanti, almeno finché riusciva a mantenere l’ordine.
Tuttavia, vi era anche qualcosa di più: una diffusa lealtà nei confronti dell’idea di Roma, lealtà che andava da poco più della semplice accettazione della potenza romana a una più articolata fede che dev’essere stata più forte fra coloro – una minoranza della popolazione, ma una minoranza numerosa e in costante crescita – cui era stato concesso l’onore della cittadinanza.
Questi fattori traghettarono l’Impero attraverso la crisi del Terzo Secolo, anche se non senza gravi difficoltà; il che non significa negare che molti altri sudditi romani si sentissero estranei e inclini invece alla ribellione.
Com’era distribuito il potere all’interno del mondo imperiale romano?
Fino al regno di Marco Aurelio, o forse persino alla dinastia dei Severi, la tendenza di lungo corso fu probabilmente quella di un ruolo più attivo del governo centrale, ma il potere era inevitabilmente diffuso fra le forze armate, i proprietari terrieri e i funzionari di ogni livello.
Non esisteva alcuna burocrazia in senso moderno, ma una rete assai ampia di persone preparate per gestire le procedure amministrative regolarizzate; quanto all’efficienza (un criterio in gran parte di epoca moderna), i risultati erano contrastanti, migliori in alcune province rispetto ad altre; l’ordine pubblico era lasciato in gran parte all’autogestione e i processi penali dipendevano in primo luogo dal ceto di appartenenza.
Ricostruire i vari generi di potere sociale è possibile solo in modo parziale, cosicché appare indispensabile un modello sufficientemente chiaro della struttura sociale dell’Impero.
Il predominio della classe dei proprietari terrieri risulta a ogni modo evidente: ma mentre le principali vittime del potere sociale erano, com’è ovvio, gli schiavi (è quasi superfluo dover precisare che la schiavitù definiva una condizione giuridica, non economica), a subire una maggior oppressione erano per lo più i semplici indigenti.
Il potere o la subordinazione di una donna, se si escludono fattori di natura personale, corrispondevano alla sua classe sociale, con l’ulteriore e principale complicazione della grande influenza delle consuetudini locali (sembrerebbe facile supporre che, a parità di altre condizioni, per una donna fosse meglio trovarsi il più lontano possibile dalle zone di influenza greca: ma la semigreca Alessandria era assai diversa dalla semigreca Tarso).
Gli schemi educativi altoimperiali, che servivano principalmente per fornire delle abilità linguistiche di vario tipo, crearono un mondo raffinato ed esclusivo riservato alle élite e in cui le allusioni ai classici della letteratura erano essenziali, mentre la grande massa della popolazione rimaneva al di fuori di qualsiasi tipo di apparato scolastico.
Questo sistema però funzionava solo perché esistevano delle condizioni intermedie, e perché era possibile acquisire un’alfabetizzazione (e, a un altro livello, un’istruzione ricercata) se si possedevano denaro a volontà sufficienti.
Ancora una volta molto dipendeva dal contesto geografico: sotto questo aspetto le città offrivano condizioni ben più favorevoli delle campagne, così come in generale le zone maggiormente ellenizzate e romanizzate (e fra auqete ultime quelle di cultura greca continuarono a favorire di più l’istruzione rispetto a quelle latine).
Il problema forse più difficile è quello di una valutazione del potere sociale e politico delle idee.
La mia descrizione tende a minimizzare gli effetti di alcune idee romane predominanti, mentre è senza dubbio vero che le dottrine che trattano dell’etica e dell’organizzazione della società tendono a perdere la loro purezza nella vita reale.
Ma credo che l’idea di Roma non possa essere paragonata a un moderno ideale nazionale: esercitava una forte attrattiva su persone di origini eterogenee, senza troppe pretese di essere democratica; l’integrazione costituì certamente un fenomeno limitato, ma almeno dall’epoca dei Flavi in poi un gran numero di persone – non solo le élite dell’Urbe ma anche quelle locali, così come la maggior parte dei militari – diede per scontato che Roma fosse degna della loro devozione.
Le idee sovversive sono più facili da isolare e valutare, grazie soprattutto al trionfo del cristianesimo: il rifiuto dello Stato romano da parte di molti cristiani e fedeli di altri culti costituì probabilmente un fenomeno di importanza trascurabile dal punto di vista del potere, ma tutto iniziò a cambiare quando Costantino concesse ai cristiani i primi privilegi; gli effetti più importanti degli ideali del cristianesimo si fecero sentire più tardi.
Il ridimensionamento tardoantico dell’Impero romano avvenne in due fasi completamente distinte: in Occidente nei decenni a cavallo del 410, in Oriente nella prima metà del Settimo Secolo; va ribadito che si trattò di due catene di eventi diverse, con delle similitudini ma che non saranno mai correttamente comprese se non analizzandole singolarmente.
La natura del cambiamento avvenuto durante la prima di queste due fasi è stata assai dibattuta: è chiaro però che l’area su cui lo Stato romano esercitava il proprio potere si vide bruscamente ridimensionata, ed entro il 476 l’Impero d’Occidente aveva cessato di esistere.
L’interrogativo che qui occorre porsi è se le vittorie degli invasori e i fallimenti politici e militari di Roma fossero dovuti ad alcuni fattori recenti o relativamente tali, da una parte o dall’altra (o da entrambe).
Forse perché avevano identificato delle debolezze nel sistema difensivo imperiale, gli invasori furono abbastanza numerosi; le milizie a disposizione di Roma non erano sufficienti né dal punto di vista quantitativo – nonostante alcune affermazioni in senso contrario – né qualitativo: rispetto all’epoca altoimperiale erano armate e addestrate in modo peggiore (la testimonianza di Vegezio si rivela in questo senso illuminante).
In termini materiali, l’Impero romano era ancora abbastanza ricco da attirare dei saccheggiatori ma a quanto sembra non era in grado di permettersi una difesa adeguata, e a ogni nuova offensiva lo diventò sempre meno; per quel che riguarda il morale, le forze armate romane erano eccessivamente in conflitto fra di loro dal punti di vista etnico e religioso, e quest’ultimo aspetto ebbe la sua importanza.
La diffusione del cristianesimo avrebbe potuto rappresentare una differenza marginale pe r le capacità difensive dell’Impero, se non avesse portato con sé l’intolleranza dei cristiani, intolleranza che spesso assunse la forma della ripugnanza e del disprezzo nei confronti degli ebrei, dei “pagani” e di quei cristiani che avevano opinioni differenti sul soprannaturale.
Per quel che riguarda la popolazione civile, non fu all’altezza della crisi: anche se l’élite sociale superiore di epoca repubblicana e altoimperiale era guidata da ambizioni e interessi personali, come la maggior parte degli esseri umani, dimostrò tuttavia un patriottico senso di responsabilità che ora era diventato merce rara.
La massa della popolazione non era per lo più interessata a difendere lo status quo, quando non se ne sentiva estranea; le nostre fonti fanno solo vaghi riferimenti ai motivi di questa situazione, che possono verosimilmente essere riassunti con il termine di “oppressione sociale”.
Fino all’alba del Quinto Secolo l’Impero d’Oriente fu probabilmente altrettanto a rischio di invasioni di quello d’Occidente, ma fu la scala di queste invasioni a far collassare il governo occidentale.
Entrambe le parti erano già state indebolite dall’interno (possiamo soprassedere all’ordine dell’esposizione seguito nei capitoli 6 e 7 per riprendere qui l’argomento), ma toccò all’Occidente essere messo alla prova.
A quest’epoca il governo centrale era in grado di offrire assai poco ai suoi sudditi, anche per gli standard dell’Antichità; il suo potere effettivo è stato spesso mal compreso, in parte perché in alcuni settori ben delimitati rimaneva ancora saldo (nessun imperatore venne assassinato fra il 383 ei l 455, il che era abbastanza insolito per Roma), ma per il resto era debole; non era in grado di mantenere neanche il modesto livello di ordine pubblico dei secoli precedenti più di quanto non riuscisse a tenere fuori i barbari.
Gli imperatori cercarono di imporre la propria autorità, ma fino a che punto vi siano riusciti è fonte di dibattito interminabile: in teoria le strutture formali del funzionariato fornivano loro la possibilità di esercitare un controllo minuzioso, ma a frapporsi erano due ostacoli (oltre alla sempre più frequente perdita del controllo militare a livello locale e le alterazioni dell’ordine pubblico): i vescovi e la corruzione.
Entro gli anni Settanta del Quarto Secolo i vescovi e le altre autorità cristiane si erano già ritagliati un ambito di potere semi-indipendente all’interno della comunità romana, ma anche se tale ambito comprendeva un crescente numero di persone e ricchezze sempre maggiori, i suoi effetti sullo Stato rimanevano ancora per lo più indiretti.
Anche la corruzione – sebbene non costituisse il problema fondamentale del governo romano, come è stato talvolta affermato – era diventata d’intralcio; di fatto, l’assai rapido ricambio nelle cariche al vertice può essersi rivelato un ostacolo altrettanto grave all’efficienza dell’amministrazione: in queste circostanze né il gettito fiscale né il reclutamento dell’esercito riuscirono a tenere il passo delle necessità dell’Impero.
Nulla poi potrebbe essere meno sorprendente, in questi decenni decisivi, della mancanza di entusiasmo della massa della popolazione per lo Stato romano: la delegittimazione delle antiche pratiche e credenze religiose e l’oppressione di cui erano vittime i coloni e altre categorie sociali facevano sì che fossero in molti ad avere motivi per sentirsi degli estranei.
L’intera popolazione visse un certo grado di disintegrazione sociale: le Chiese cristiane offrivano solidarietà ai propri membri, ma erano impegnate nel contempo in aspri e spesso violenti conflitti con i propri rivali.
Lungi dall’essere un forte Stato centralizzato, in questi anni l’Impero romano – seppure ancora un’immensa struttura che poteva ben paragonarsi al suo principale avversario in Oriente, la Persia sasanide – divenne incapace di mobilitare risorse sufficienti per resistere alle invasioni germaniche.
Esistono dei parallelismi fra la crisi militare in Occidente e quella successiva in Oriente: anche in questo caso è infatti possibile affermare che all’inizio del Settimo Secolo l’Impero romano d’Oriente era ancora abbastanza ricco da attirare dei saccheggiatori, ma non più in grado di difendere le sue eccessive pretese territoriali (la “follia di Giustiniano”); come già in Italia nel 410, non poteva neppure garantire l’inviolabilità del proprio nucleo geografico, per non parlare dei propri cespiti fiscali e men che meno della propria periferia più esterna.
Ma è ancor più difficile stabilire quali altri fattori si siano rivelati più importanti, data la scarsità di documenti a nostra disposizione – anche se l’incapacità dei generali e la mancanza di disciplina delle truppe senza dubbio diedero il loro contributo.
Ma fra le due crisi esistono anche delle profonde differenze: l’Impero di Giustiniano era insostenibile a lungo termine, mentre quello di Costantino probabilmente no (non fosse che qualsiasi impero diventa insostenibile nel lunghissimo periodo).
Altri fattori che possono aver contribuito all’impatto fatale degli arabi sull’Impero di Eraclio e dei suoi successori sono ancora più difficili da definire, ma includono un grado di militarizzazione da parte islamica che ricorda la società romana dell’età mediorepubblicana; anche la profonda divisione in seno all’Impero romano fra cristiani calcedoniani e monofisiti si rivelò assai pregiudiziale.
La devozione peraltro può essere stata altrettanto profonda fra i musulmani che fra i cristiani, e dunque se lo Stato romani di questi anni abbia sofferto delle conseguenze negative dal dedicare una così larga parte delle proprie risorse umane ed economiche alla religione deve rimanere una domanda senza risposta.
I successori di Giustiniano furono monarchi assoluti, ma il loro potere interno era nella pratica limitato o quanto meno fragile: la delega del potere di nomina dei governatori provinciali da parte di Giustino Secondo ne è un sintomo eclatante, così come lo è il potere indipendente delle fazioni del Circo; ma ve ne sono anche altri, in particolare il potere degli ecclesiastici e quello dei grandi proprietari terrieri.
Eraclio non riuscì a trovare entro i confini del suo regno dei comandanti militari capaci e fidati in grado di guidare il suo esercito, né riuscì a sfruttare a sufficienza l’energia dei propri sudditi se non per conservare solo uan piccola parte di quello che per secoli era stato un impero vasto e temuto.
La tensione tra i fattori materiali e psicologici è uno dei motivi conduttori di questo studio.
Da una parte ho insistito sull’importanza per il potere esterno di Roma delle sue risorse umane e finanziarie, che resero possibile la costruzione di u impero durevole; ho parimenti insistito sulla dannosa carenza di tali risorse in alcuni periodi decisivi della tarda antichità – uan carenza che, va detto, è spesso più presunta che provata.
Nel mezzo vi sono lunghi secoli in cui le occasionali disavventure imperiali sui campi di battaglia – se anche possono aver aiutato a definire i limiti dell’espansione romana – non rappresentarono un rischio significativo per la stabilità dello Stato.
Se si dovessero avanzare delle ipotesi – come uno storico dovrebbe fare di tanto in tanto – su altri fattori materiali importanti, ve ne sono alcuni che possono essere ritenuti alquanto plausibili: l’instaurazione del dominio navale nel Mediterraneo, ad esempio, può essere stata resa possibile da un più facile accesso al legname da costruzione rispetto ai regni ellenistici (e a Cartagine)?
Possiamo anche chiederci se alla fine del Quarto Secolo i vicini germanici di Roma non avessero acquisito armi migliori o non avessero imparato dei nuovi metodi di organizzazione delle loro forze combattenti rispetto ai periodi precedenti.
I fattori materiali erano ovviamente di importanza fondamentale nello strutturare il potere interno: sarebbe possibile scrivere una storia del Mediterraneo nell’Antichità a partire dall’ambiente fisico e dall’istituzione della schiavitù, che presumibilmente precorse di alcuni millenni qualsiasi tentativo di codificarla giuridicamente; si aggiungano i diritti di proprietà, e la scena è pronta per la comparsa della competizione per la terra e per ogni altra risorsa economica.
Un altro motivo ricorrente in queste pagine è stata la continua vittoria dei grandi proprietari terrieri, un dominio che raggiunse il suo culmine nell’età mediorepubblicana per vedersi poi minacciato – ma solo in modo marginale – all’epoca delle leggi agrarie (dal 133 al 69 a. C.); in epoca altoimperiale i princeps protessero i diritti di proprietà, anche se come abbiamo visto in precedenza il prezzo da pagare poteva essere elevato, mentre nel tardoantico i grandi proprietari rimasero per lo più incontrastati.
Anche i fattori psicologici sono comparsi spesso e in maniera importante nelle pagine di questo libro: le peculiarità psicologiche dei soldati romani – un’obbedienza disciplinata, una profonda tendenza a una violenza sanguinosa e presumibilmente un forte senso dell’onore – furono parte delle fondamenta principali dell’Impero di età mediorepubblicana; emersero con chiarezza anche la mancanza di scrupoli, l’ambizione e il coraggio di molti membri del ceto senatorio.
La professionalità die soldati di epoca altoimperiale, legionari o ausiliari che fossero, costituiva anch’essa un aspetto psicologico oltre che una tradizione instillata in loro da generazioni di ufficiali.
In questo stesso periodo, diciamo da Tiberio e Godiano Terzo (14-244), le caratteristiche psicologiche dei principali dirigenti dello Stato – gli imperatori e i funzionari più importanti, sia civili che militari – mostrarono uan maggiore varietà, ma possiamo osservare che una buona parte di costoro esibì un marcato, seppur comprensibile, autocompiacimento nei confronti del mondo esterno.
Che l’intolleranza religiosa fosse uan caratteristica di entrambi i periodi di crisi tardoantica che abbiamo esaminato non necessita di ulteriori discussioni: ho suggerito anche che tali periodi fossero caratterizzati da una coscienza nazionale relativamente debole fra la popolazione in generale, e anche questa è una caratteristica psicologica; sembra inoltre probabile, ad esempio, che l’aumentata ferocia delle punizioni tardoantiche abbia una base sociopsicologica.
Tutto ciò è parte essenziale di una storia del potere.
Questo non è un libro sul potere americano, ma nessuno storico che risieda da lungo tempo negli Stati Uniti può scrivere del potere di Roma senza riflettere sul modo in cui – fin dall’inizio della Guerra Fredda – gli scrittori e i registi occidentali, soprattutto ma non solo americani, hanno fatto uso della storia romana per giustificare questa o quella linea o iniziativa politica.
Negli ultimi anni un’enorme mole di letteratura più o meno popolare si è sviluppata attorno alla domanda se gli Stati Uniti siano in qualche senso Roma, la cui risposta è ovviamente “no” – a meno che non si voglia trattare quello romano come l’impero archetipico (senza dimenticare l’interessante parallelo che ciò che passa per impero americano, come quello romano, nacque in un periodo di governo ostensibilmente e parzialmente democratico, al contrario della maggior parte degli imperi).
Questo genere di letteratura tende a suscitare il disprezzo degli storici universitari, il che non sorprende, eppure può contribuire molto alla comprensione della storia degli imperi: quando ad esempio uno studioso – prostituendo la verità storica – afferma che i romani furono degli imperialisti riluttanti, proprio come noi, possiamo vedere all’opera la propaganda.
Lo studio degli imperi moderni è anzi indispensabile per uno storico del potere.
Sono stato accusato una volta da un critico di destra di soffrire della “sindrome del Vietnam dell’intellettuale americano”; a parte il fatto che non sono americano, ritengo che l’aver vissuto nel periodo della guerra in Vietnam come individuo politicamente impegnato mi sia stato assai di aiuto come storico: mi ha insegnato soprattutto quanto poco le parole di un governo imperialista possano corrispondere alle sue azioni, e quanto ampio sia il ventaglio di percezioni, moventi e atteggiamenti che, almeno a volte, è possibile trovare in una nazione imperiale; mi ha insegnato anche come gli abitanti dei paesi in guerra si disumanizzino reciprocamente.
Un apprendimento peraltro continuato a lungo: ancora nel 2001 un ufficiale gravemente coinvolto in un crimine di guerra in Vietnam e successivamente eletto al Senato degli Stati Uniti mi disse, dopo aver saputo che avevo partecipato ad alcune manifestazioni per la pace durante il conflitto, che non aveva importanza poiché eravamo “entrambi giovani e sciocchi”.
Il motivo evidente per cui di questi tempi esiste una così estesa pubblicistica americana sugli imperi ha poco a che fare con l’indagine storica; deriva in parte dall’ansiosa domanda, a cui non è possibile dare uan risposta, su quanto durerà il predominio militare degli Stati Uniti.
Aspetto più interessante, deriva anche dalle questioni morali e politiche che si trovano ad affrontare i cittadini riflessivi di una repubblica imperiale: con quale diritto, con quali giustificazioni possono gli Stati Uniti o chi per loro uccidere afghani, iracheni, somali, siriani o chiunque altro?
Ma non è più sicuro, non è meglio in un qualche senso del termine, vivere in un mondo in cui il potere imperiale e i suoi alleati garantiscono che le guerre saranno sempre periferiche?
A meno che, ovviamente, non capiti di vivere nella “periferia”.
Uno storico può avere molto da dire su tali questioni (compresa l’osservazione che le condizioni attuali sono radicalmente senza precedenti), questioni che però non sono di natura storica, quanto di carattere pratico e morale.
Il tardo romano impero / A. Cameron
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Introduzione: lo sfondo del terzo secolo
E’ un segno del profondo cambiamento intervenuto nel nostro modo di concepire il mondo antico il fatto che, quando fu avviata la realizzazione di questa serie di storia antica, non fosse previsto un volume dedicato al tardo impero o, come ora si preferisce dire, alla tarda antichità; oggi, invece, una sua esclusione potrebbe apparire alquanto inopportuna.
A produrre questo cambiamento, almeno per quanto riguarda gli studiosi di lingua inglese, hanno contribuito in modo particolare due lavori di natura molto diversa tra loro, vale a dire la monumentale opera di A. H. M. Jones Il tardo impero romano, 284-602 d. C., del 1964 e la breve ma affascinante sintesi di Peter Brown Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto, del 1971.
Naturalmente, quest’epoca non è stata trascurata da altri autorevoli studiosi, né è stata trascurata dalla storiografia del continente europeo; tuttavia, solo con la generazione successiva alla pubblicazione dell’opera di Jones si è manifestato per essa un così ampio interesse.
Anzi, proprio a partire da allora è diventato uno dei periodi in cui sono stati conseguiti i progressi più significativi nell’ambito dell’insegnamento e della ricerca.
L’arco di tempo ricoperto in questo volume è esattamente quello che intercorre tra l’avvento di Diocleziano nel 284 d. C. (la data con cui convenzionalmente si fissa l’inizio del tardo impero) e la fine del quarto secolo, quando la morte di Teodosio 1. nel 395 d. C. l’Impero fu diviso tra i suoi due figli, Onorio in Occidente e Arcadio in Oriente.
Si tratta, perciò, non tanto di un volume sulla tarda antichità in generale, un periodo che si può con buone ragioni comprendere tra il quarto e il settimo secolo e considerare concluso con le invasioni arabe, quanto piuttosto di un volume sul quarto secolo.
Fu questo il secolo di Costantino, il primo imperatore che aderì al cristianesimo e lo sostenne, e che fondò Costantinopoli, la città che doveva diventare la capitale dell’impero bizantino e rimanere tale fino alla conquista da parte dei Turchi Ottomani nel 1453 d. C.
La grande opera di Edward Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, spinge la narrazione fino a tale data, considerando questa e non il 476 d. C., quando fu deposto l’ultimo imperatore in Occidente, come la cera fine dell’Impero romano.
Pochi sarebbero oggi d’accordo con Gibbon, ma gli storici discutono ancora sul momento in cui collocare la fine di Roma e l’inizio di Bisanzio; su tale dibattito pesa ancora fortemente l’esagerata percezione del declino morale che egli pensava avesse avuto inizio una volta che era stato superato il punto più alto dello sviluppo della civiltà romana sotto gli imperatori Antonini nel secondo secolo d. C.
Tutti coloro che scrivono sul quarto secolo devono farsi un’opinione su quelle che si rivelano, in effetti, questioni estremamente soggettive: il regime del tardo impero fu un sistema repressivo che si sviluppò per porre termine al caos determinatosi nel terzo secolo?
Vi possiamo vedere i segni della decadenza che portò al crollo e alla frammentazione dell’Impero romano in Occidente nel quinto secolo?
L’adesione di Costantino al cristianesimo favorì un processo di declino con il definitivo abbandono dei valori romani più antichi, come pensava Gibbon?
Tutte queste valutazioni sono state fornite dagli storici e sono ancora ampiamente diffuse, caratterizzando la maggior parte delle opere su questo periodo.
Sarà presto evidente che questo volume adotta un diverso approccio.
Posizioni preconcette e, soprattutto, giudizi di valore non si possono completamente evitare in un’opera storica, ma certamente non aiutano né lo storico né lo studente.
Inoltre, proprio per la sfida lanciata dalla nostra società contro i valori tradizionali, oggi siamo meno portati a vedere il Principato come depositario dell’ideale classico e a ritenere che un qualsiasi allontanamento da esso dovesse necessariamente rappresentare una forma di declino.
Infine, rispetto alla precedente generazione di storici, siamo forse più consapevoli del potere e dei pericoli che comporta la retorica e meno propensi a prendere per buona l’immagine che viene dalla retorica imperiale della tarda antichità.
Il periodo che comincia con Diocleziano viene talvolta definito “dominato”, in quanto l’imperatore veniva denominato come dominus (”signore”), mentre nell’alto impero (il cosiddetto “Principato”) gli era stato assegnato, in origine, un appellativo molto diverso, quello di princeps (“primo cittadino”) semplicemente.
Ma bisogno considerare che il termine dominus non era affatto nuovo; e, oltretutto, una cosa era ciò che gli imperatori del quarto secolo volevano, o ciò che volevano apparire, una cosa alquanto diversa, invece, ara quale di tipo di società l’impero rappresentasse nel suo insieme.
Per cogliere la differenza, non bisogna partire da Diocleziano o dal sistema “tetrarchico” da lui istituito nel tentativo di ripristinare la stabilità politica – secondo il progetto di Diocleziano, il potere doveva essere diviso tra due imperatori (Augusti), ciascuno affiancato da un Cesare che ne avrebbe preso il posto al momento della successione.
Dobbiamo partire, invece, dal terzo secolo che costituisce un’evidente linea di demarcazione tra due sistemi contrapposti e che gli storici hanno tradizionalmente descritto come un’epoca di crisi (la cosiddetta “crisi del terzo secolo”), rappresentata da un continuo e rapido susseguirsi di imperatori tra il 235 e il 284 d. C., da uno stato di guerra, interna ed esterna, quasi permanente, accompagnato dal tracollo della moneta d’argento e dal ricorso da parte dello Stato ad esazioni in natura.
Una tale drammatica situazione fu riportata sotto controllo, almeno in parte, da Diocleziano, le cui riforme furono poi continuate da Costantino (306-337 d. C.), di modo che si posero le basi per la ripresa del quarto secolo.
Si è tentati di credere che in tali circostanze, sufficientemente documentate da fonti contemporanee, la gente fosse più facilmente portata a cercare un rifugio o una fuga nella religione e che lì si trovino le premesse perché il mondo della tarda antichità acquistasse quel carattere più intimamente spirituale con cui ai nostri occhi sembra presentarsi.
Ma anche questa visione è frutto, in gran parte, di giudizi soggettivi e di una lettura delle fonti troppo superficiale.
Quanto si può ricavare dalle fonti rabbiniche della Palestina e dai papiri egiziani contenenti lamentele sugli esattori fiscali è qualcosa di abbastanza scontato, in quanto è ovvio che la gente non fosse contenta di pagare le tasse; ma tali fonti non ci dicono se il peso fiscale fosse effettivamente cresciuto in misura così rilevante come potrebbe a prima vista sembrare.
Senza certamente negare l’esistenza di gravi problemi nel terzo secolo, specialmente per quanto riguarda la stabilità politica e il controllo delle emissioni monetarie, in questi ultimi anni il concetto di “crisi del terzo secolo” è stato messo in discussione sotto ogni suo singolo aspetto.
E se la crisi fu meno grave di quanto si sia finora creduto, allora è possibile che anche la portata dei cambiamenti tra il secondo e il quarto secolo sua stato dato un peso esagerato.
“Crisi del terzo secolo”, “età di transizione”, “età degli imperatori soldati”, “età di anarchia”, “monarchia militare” – comunque si voglia chiamare, gli storici sono concordi nel ritenere che il periodo critico nel terzo secolo sia cominciato con l’assassinio di Alessandro Severo nel 235 d. C. e che sia durato sino all’ascesa al trono di Diocleziano nel 284 d. C.
Il primo e più evidente sintomo con cui la crisi si manifestò fu la rapida successione di imperatori dopo Severo – in maggior parte durarono solo pochi mesi e andarono incontro ad una morte violenta, spesso per mano delle loro stesse truppe o in seguito ad un altro colpo di stato.
Il regno più lungo fu quello di Gallieno (253-275), che riuscì a reprimere il regime indipendente instaurato dalla regina Zenobia a Palmira in Siria dopo la morte del marito Odenato.
Valeriano (253-260), però, fu fatto prigioniero da Shahpur 1., re della potente dinastia dei Sassanidi, succeduta ai Parti nel 224 d. C. nel governo della Persia, mentre dal 258 al 274 la Gallia (il cosiddetto “impero gallico”) fu retta da Postumo e dai suoi successori in una forma di quasi totale indipendenza.
Con questo continuo avvicendamento di imperatori (la differenza tra imperatore e usurpatore diventava sempre più difficile da cogliere) è strettamente connesso il secondo sintomo della crisi, uan situazione di guerra permanente che permetteva all’esercito, o agli eserciti, di svolgere un ruolo ancora più importante rispetto all’epoca dei Severi.
I Sassanidi rappresentavano uan grande e inedita minaccia per l’Oriente che era destinata a durare per tre secoli, fino a quando le vittorie di Eraclio nel 628 segnarono la fine dell’Impero.
Il conflitto con i Sassanidi costò un elevato prezzo ai romani in termini demografici e di risorse.
Il loro più grande imperatore del terzo secolo, Shahpur 1. 8242-272 d. C.), creò un modello, invadendo la Mesopotamia, la Siria e l’Asia Minore nel 235 e 260 d. C., con la presa di Antiochia e la deportazione in Persia di migliaia dei suoi abitanti; le sue vittorie furono immortalate da una grandiosa iscrizione a Naqsh-i-Rustam, i cui rilievi raffiguravano l’umiliazione subita dall’imperatore Valeriano.
Le tribù germaniche continuavano ad esercitare sui confini settentrionali e occidentali la stessa pressione che aveva causato grosse difficoltà a Marco Aurelio; e, prima ancora che Valeriano fosse fatto prigioniero da Shahpur, Decio era già stato sconfitto dai Gori (251 d. C.)
Le motivazioni sottese alle continue incursioni barbariche e gli scopi reali degli invasori non sono stati ancora del tutto chiariti.
E’ certamente lontana dal vero ogni visione apocalittica di orde formate da migliaia e migliaia di barbari che dilagavano nell’Impero, dal momento che il numero effettivo degli invasori è sempre stato molto basso.
Tuttavia, non c’è dubbio che le incursioni del terzo secolo preannunciassero un problema che avrebbe assunto grandi proporzioni nel tardo impero e che è stato considerato da molti storici come la causa principale della caduta dell’Impero romano d’Occidente.
Presto o tardi furono invasi dai barbari più o meno tutte le province settentrionali e meridionali, come avvenne per la Cappadocia, l’Acaia, l’Egitto e la Siria, e neppure l’Italia fu risparmiata sotto Aureliano.
Si può quindi giustificare l’errore dei contemporanei che videro allora l’inizio della fine dell’Impero.
Le riforme di Settimio Severo avevano già assegnato all’esercito un’importanza maggiore rispetto al passato, ma la situazione critica del terzo secolo fece sì che la sua preponderanza divenisse ancora più pericolosa.
Non c’è da stupirsi che ogni esercito provinciale avesse un candidato da proporre come imperatore e che, con la stessa facilità con cui lo avesse designato, potesse poi eliminarlo.
Non c’era nessun mezzo per fermare il ripetersi di questo corso di eventi: il Senato non aveva mai controllato direttamente gli eserciti e, in tale confusione, anche se c’era un imperatore a Roma, erano scarse le possibilità che egli potesse controllare quanto avveniva nelle regioni più distanti dell’impero.
L’instabilità interna non era tanto determinata dalla minaccia di attacchi esterni (per quanto anche questi certamente vi contribuissero): il fatto è che l’impero era già fortemente instabile quando la minaccia si presentò, come dimostra chiaramente lo scoppio delle guerre civili da Marco Aurelio in poi.
Nel terzo secolo, però, vi furono altre conseguenze: l’esercito, com’era inevitabile, aumentò il proprio organico e perciò vi furono investite maggiori risorse; inoltre, mentre nelle condizioni pacifiche dell’alto impero i soldati venivano tenuti del tutto lontani dalle province interne, ora invece si trovavano dappertutto, nelle città come nelle campagne, senza la minima garanzia che potessero essere sempre tenuti sotto controllo.
Quando Diocleziano e Costantino ripristinarono un sistema militare più stabile, questa situazione fu riconosciuta in parte come definitiva e l’esercito del tardo impero, invece di essere dislocato in larga misura lungo le frontiere, fu diviso in piccole unità e disperso all’interno delle province e nelle città.
Non ci si deve sorprendere se in tali circostanze lo stipendio dell’esercito e il sistema di approvvigionamento avessero subito un crollo.
Il soldo dell’esercito era stato pagato principalmente in denarii d’argento, provenienti dagli introiti fiscali riscossi nella stessa moneta.
Il contenuto d’argento del denarius era stato ridotto già all’epoca di Nerone, ma da Marco Aurelio in poi la moneta era stata svalutata sempre più, mentre la paga militare era stata aumentata nel tentativo di mantenere l’esercito efficiente e fedele.
Il processo era ormai talmente avanzato che intorno al 260 il denarius aveva quasi completamente perduto il suo contenuto d’argento ed era praticamente composto di metallo vile.
Può sembrare strano che i prezzi non fossero saliti vertiginosamente non appena gli svilimenti avevano cominciato ad essere drastici.
Ma non si può paragonare l’Impero romano ad uno Stato moderno, dove tali misure sono annunciate ufficialmente e messe in atto con tempestività.
Le comunicazioni erano lente e il governo, se è lecito usare questo termine, anche nelle migliori condizioni aveva pochi strumenti per controllare le monete e i tassi di cambio a livello locale; ancora meno lo poteva fare in una situazione talmente confusa.
I vari svilimenti della moneta succedutisi nel corso del tempo, che avrebbero avuto così gravi conseguenze, furono assai più dei provvedimenti ad hoc, volti a garantire il pagamento alle truppe senza interruzioni, che la manifestazione di una politica di ampio respiro.
Ma, naturalmente, ci fu un rapido aumento dei prezzi, che causò reali difficoltà agli scambi ed alla circolazione dei beni.
Non si trattava di inflazione in senso moderno, quanto piuttosto del risultato della produzione di enormi quantità di monete di metallo vile da parte degli effimeri imperatori del terzo secolo per i loro scopi e della consapevolezza, che intanto la popolazione gradualmente acquisiva, che il valore effettivi dei denarii che circolavano non corrispondeva più al loro valore nominale.
Come inevitabile conseguenza vennero sottratte dalla circolazione le monete più vecchie e più pure, tanto è vero che le monete romane a noi pervenute derivano, in gran parte, da tesoretti interrati apparentemente nel terzo secolo.
Oro e argento scomparvero dalla circolazione con tale rapidità che Diocleziano e Costantino si videro costretti a introdurre particolari imposte pagabili solo in oro e argento allo scopo di recuperare questi preziosi metalli per le casse dello Stato.
Una volta che la spirale si avviò, fu ancora più difficile frenarla, per cui i prezzi, malgrado gli sforzi di Diocleziano per bloccarli, continuarono a salire vorticosamente sotto Costantino, come sappiamo dai papiri.
E’ questo il retroterra in cui si realizzò il ritorno allo scambio in natura che da molti storici è considerato come una regressione verso una forma di economia primitiva e, perciò, un sintomo cruciale di crisi.
Non erano solo le truppe ad essere pagate parzialmente in natura invece che in denaro; anche le tasse erano riscosse in natura, visto che la quota più rilevante delle entrare fiscali era stata sempre era stata sempre principalmente finalizzata al mantenimento dell’esercito.
Se proprio si volesse fare un confronto con l’esperienza del mondo contemporaneo, non dovremmo rimanere colpiti tanto dall’arretramento dell’economia monetaria, quanto dal successo con cui fu progettato e realizzato un complesso sistema di requisizioni a livello locale, che permise il raggiungimento di un equilibrio tra bisogni e risorse.
E’ anche importante notare che i romani avevano sempre fatto ricorso alla pratica delle riscossioni dirette per provvedere all’annona militaris, il rifornimento di grano per l’esercito, e all’angareia, il trasporto militare; il fenomeno in sé non era nuovo, ma lo erano le sue proporzioni.
A causa delle condizioni estremamente instabili, in particolar modo intorno alla metà del secolo, le popolazioni locali erano chiamate a soddisfare improvvise richieste e la mancanza di preavviso procurava effettivi disagi; spettò a Diocleziano il compito di rendere istituzionale la scadenza di queste riscossioni.
Dal fatto che l’esercito venisse pagato in natura (anche se solo in parte, poiché i pagamenti in denaro non furono mai eliminati del tutto) derivavano altre conseguenze, ad esempio la necessità di ricorrere agli approvvigionamenti in aree il più vicino possibile alle truppe, per le ovvie difficoltà causate dai trasporti su lunghe distanze.
Vediamo, allora, che nel quarto secolo l’esercito era diviso in unità più piccole situate in prossimità dei centri di rifornimento.
E vi furono anche dei cambiamenti nei posti di comando: i prefetti del pretorio, che inizialmente erano comandanti di rango equestre della guardia imperiale, avevano assunto gradualmente funzioni di comando più generali nell’esercito; con questi cambiamenti nell’annona e nelle requisizioni in genere, essi di fatto acquisirono il controllo del sistema dell’amministrazione provinciale e divennero subalterni solo all’imperatore.
In modo analogo i membri dell’ordine equestre acquisirono, in generale, un ruolo di gran lunga più importante nell’amministrazione, ad esempio come governatori delle province, una carica assegnata tradizionalmente ai senatori.
Fonti di età successiva attribuiscono a Gallieno l’esclusione per editto dei senatori da tali posti (Aur. Vitt., Caes. 33, 34), ma è chiaro che questa esclusione non fu mai ufficiale e assoluta ed alcuni senatori continuarono a ricoprirli; è più verosimile che il cambiamento fosse il naturale risultato del decentramento dei poteri e della rottura di quei rapporti di patronato tra l’imperatore e Roma e la classe senatoria sulla cui base avvenivano le designazioni.
Era più pratico, e può essere apparso più logico, per un imperatore cresciuto nelle province e proveniente dai ranghi dell’esercito, com’era nella maggior parte dei casi, nominare dei governatori estratti dalla classe che conosceva e con cui doveva trattare.
L’indubbia eclissi del Senato nel terzo secolo si può in parte attribuire al fatto che gli imperatori non risiedevano più né venivano designati a Roma; perciò lo stretto legame tra imperatore e Senato si ruppe e solo pochi imperatori videro la propria nomina ratificata dal Senato secondo l’antica tradizione.
Intanto, il Senato perdeva gran parte del suo ruolo politico, sebbene i suoi membri continuassero a godere di un certo prestigio e di considerevoli esenzioni fiscali.
In questo periodo, dunque, gli imperatori non dovevano la loro elezione al Senato, ma venivano innalzati al trono sul campo, circondati dalle loro truppe.
Si possono ancora riconoscere gli effetti di questa dispersione dell’autorità imperiale sotto Diocleziano e la tetrarchia, quando gli Augusti, invece di tenere la corte a Roma, passavano il loro tempo viaggiando e soggiornando in centri diversi come Serdica e Nicomedia, alcuni dei quali, in particolare Treviri e Antiochia, già nel terzo secolo avevano acquisito una funzione semiufficiale di sedi imperiali.
Roma non sarebbe diventata mai più una residenza imperiale di rilievo.
Inoltre, mentre in precedenza Roma e il Senato erano sempre stati associati, ora Costantino allargò ampiamente le basi di reclutamento dell’ordine senatorio, di modo che l’appartenenza ad esso non presupponeva più la residenza e lo svolgimento delle proprie funzioni a Roma, ma si diffondeva in tutto l’impero.
In effetti, intorno alla metà del terzo secolo non vi fu una crisi drammatica, ma la naturale prosecuzione di processi già avviati che, a loro volta, portarono alle misure adottate da Diocleziano e da Costantino che vengono comunemente indicate come le fondamenta del sistema tardoromano.
Come va valutata, allora, in questo momento la testimonianza offerta dal dissesto finanziario?
Questa è una delle questioni più difficili per la comprensione del processo in corso.
Dobbiamo chiederci in che misura il rialzo dei prezzi fosse dovuto a una crisi economica generale o se non fosse invece il risultato di un collasso monetario causato da ragioni alquanto particolari.
A sostegno della prima ipotesi viene spesso ricordata la fine pressoché completa della costruzione di edifici pubblici nelle città.
I maggiorenti locali che con tanto impegno avevano adornato le loro città di splendide costruzioni nel momento di massima prosperità nel corso del secondo secolo non sembravano avere più le risorse e la volontà per andare avanti.
Ora si era praticamente dissolta quella sorta di patronato civico che va spesso sotto il nome di “evergetismo” (dalla parola greca per “benefattore”), che era stata una delle caratteristiche più prominenti dell’alto impero.
Nelle fonti relative al periodo che va dal quarto secolo in poi, le difficoltà economiche delle amministrazioni cittadine diventano uno dei temi più ricorrenti.
Ma i disagi finanziari delle classi elevate rappresentano solo una delle possibili spiegazioni della crisi edilizia; la manutenzione degli edifici pubblici già esistenti, che era a carico dei governi locali, costituiva un problema già verso la fine del secondo secolo.
L’aggiunta di nuovi edifici, piuttosto che ispirare gratitudine, sarebbe stata vista come causa di maggiori problemi.
Anche l’incertezza della situazione verso la metà del terzo secolo avrebbe fatto sentire la costruzione di edifici come uan forma di beneficienza inadeguata; nelle città che correvano il rischio di invasioni o di guerre civili, la maggiore preoccupazione degli amministratori era la difesa degli edifici o il loro restauro.
Alcune città mostrarono notevoli capacità di recupero anche dopo aver subito gravi attacchi.
Antiochia ed Atene furono fortemente danneggiate, dai Sassanidi e dagli Eruli rispettivamente, eppure furono in grado di riprendersi.
Al contrario, le città della Gallia, sottoposte ad invasioni durante il terzo secolo, erano più vulnerabili di quelle dell’Oriente, più prospero e più densamente popolato, e, quando venivano ricostruite o fortificate, normalmente avveniva una contrazione del loro spazio urbano, come ad Amiens e a Parigi.
Mentre nell’alto impero non c’era stato bisogno di salde difese, ora le città cominciavano ad essere circondate da cinte murarie e il loro aspetto di trasformò in quello delle tipiche città fortificate della tarda antichità.
Nella stessa Atene l’area a Nord dell’Acropoli venne fortificata.
Ma la situazione era ancora diversa nell’Africa settentrionale, dove nel terzo secolo si continuavano a costruire edifici e le aree urbane si espandevano.
Essendo esposta al pericolo in misura minore che altrove, l’Africa settentrionale conobbe una crescita della propria economia grazie all’aumento della produzione di olio e le sue città nel quarto secolo erano tra le più sicure e prospere dell’impero.
Dato il rapido alternarsi degli imperatori, è evidente che le relazioni tra centro e periferia, che fino ad allora avevano funzionato in materia armoniosa, furono seriamente compromesse.
Fin dall’inizio l’impero si era sforzato di mantenere un saldo equilibrio interno, che veniva ora messo in pericolo.
Precedentemente, interesse imperiale e interessi locali si erano bilanciati e questa equità di rapporti aveva raggiunto la sua massima espressione nell’età degli Antonini.
Nel terzo secolo le culture locali ebbero possibilità molto maggiori di emergere.
Dalla Gallia alla Siria e all’Egitto, gli stili locali divennero più evidenti nelle arti visive e gli interessi locali ebbero l’opportunità di farsi sentire, specialmente – com’è ovvio – nel cosiddetto “impero gallico” e nella lotta di Zenobia per l’indipendenza a Palmira.
Un altro importante avvenimento del terzo secolo fu l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero sotto Caracalla attraverso la cosiddetta Constitutio Antoniniana del 212 d. C.; sebbene Caracalla potesse essere stato ispirato dall’intenzione di procurare maggiori entrate fiscali allo Stato, piuttosto che da idealismo o generosità, questo provvedimento fece si che la nozione di ciò che si considerava “romano” si estendesse fino a ricoprire una moltitudine di culture etniche e locali tra loro divergenti.
Sebbene si ritornasse verso una certa centralizzazione del potere sotto Diocleziano e la tetrarchia (284-305 d. C.), la frammentazione politica e militare verificatasi dalla metà sino alla fine del terzo secolo ebbe a lungo andare delle ripercussioni anche sui modelli culturali della tarda antichità.
In questa nuova fase sia il siriaco che il copto si affermarono come importanti lingue letterarie usate da un elevato numero di cristiani in Siria, Mesopotamia ed Egitto.
Anche la Chiesa cristiana trasse dei benefici: malgrado le persecuzioni subite sotto Decio (249-251) e Diocleziano (303-311), era riuscita a sviluppare una valida struttura istituzionale che si rivelò di grandissimo aiuto quando essa ottenne il favore di Costantino.
Certamente il terzo secolo fu un periodo difficile e non tutti i problemi sono da attribuire alla volontà degli uomini.
L’epidemia che si diffuse nell’impero sotto il regno di Marco Aurelio fu molto meno grave degli attacchi di peste bubbonica che colpirono l’impero d’Oriente nel sesto secolo e l’Europa occidentale nel quattordicesimo; e, senza dubbio, epidemie e malattie infettive furono endemiche in tutte le fasi del mondo antico.
Tuttavia, essa potrebbe aver costituito uno dei fattori, insieme agli effetti delle invasioni e delle guerre, che portò ad una riduzione della popolazione e, di conseguenza (dal momento che la terra richiede manodopera per produrre ricchezza), ad una riduzione della base economica.
La questione è estremamente controversa; sebbene la carenza di manodopera sia stata addotta come una delle cause del presunto declino dell’impero, vi sono scarsi elementi per provarlo.
Tuttavia, considerazioni generali, insieme alla testimonianza di città dove avviene una contrazione delle aree abitate, specialmente nelle province occidentali, autorizzano a parlare, se pur con cautela, di un calo della popolazione.
Ma è essenziale vedere il fenomeno nella lunga durata; in ogni caso l’impero d’Oriente fu capace di una buona ripresa e vi sono buone testimonianze del fatto che vi fu addirittura un aumento della popolazione a partire dalla fine del quarto e, certamente, nel corso del quinto secolo.
Per varie ragioni, gli storici moderni hanno messo l’accento, senza troppe discussioni, sugli aspetti negativi di questo periodo, ma il giudizio dei contemporanei non era così scontato.
La distinzione sociale e giuridica tra honestiores (“classi superiori”) e humiliores (“classi inferiori”) appare ai nostri occhi coem una caratteristica peculiare del tardo impero; questa distinzione, tuttavia, si era avviata molto tempo prima del periodo della “crisi del terzo secolo”.
E ancora, l’idea che gli imperatori gallici formassero un regime separatista è probabilmente una concezione moderna, perché, come aveva osservato tacito, già da molto tempo il fatto che i legittimi imperatori potessero essere creati lontano da Roma era considerato come uno degli “arcani dell’impero”.
Inoltre, le opinioni negative espresse dai contemporanei, a cui si affidano molte ricostruzioni moderne, di solito hanno una spiegazione specifica.
E’ certamente naturale che i mali dell’epoca venissero messi in risalto da Ciriano, vescovo di Cartagine, che subì il martirio nel 258 d. C. durante la persecuzione di Valeriano.
D’altro canto, però, vi era una fioritura dell’attività letteraria.
Le conferenze di Plotino a Roma sul platonismo continuavano ad essere di moda attirando una folla di persone che andavano a sentirlo, senza contare gli allievi che giungevano da molto lontano.
P. Erennio Dexippo, che aveva guidato la resistenza dei cittadini ateniesi contro gli Eruli, scrisse una storia delle invasioni dei Goti e degli Sciti, di cui purtroppo rimangono solo dei frammenti.
Siamo portati a dare un giudizio distorto di questi avvenimenti in quanto non ci è pervenuto alcun resoconto contemporaneo attendibile dei difficili cinquant’anni centrali del terzo secolo, così che siamo spesso costretti a ricorrere alla narrazione ricca di fantasie e banalità della Historia Augusta che suona quasi come quegli articoli pini di pettegolezzi che si leggono in un giornaletto popolare, e che una volta letti, non si dimenticano facilmente.
Soprattutto se riesaminiamo la questione dal punto di vista privilegiato del moderno razionalismo, siamo portati ad accettare la tesi di E. R. Dodds e altri secondo cui l’”epoca della spiritualità” (come è stata definita la tarda antichità) ebbe la sua genesi nell’incertezza dominante nel terzo secolo; e, in altre parole, che la gente si rivolse alla religione, e forse in modo particolare al cristianesimo, nel tentativo di sfuggire alle disgrazie presenti o per farsene una ragione.
Gli imperatori responsabili di persecuzioni, come Decio, Valeriano e Diocleziano, certamente credevano chela sicurezza dell’impero fosse messa in pericolo perché si trascuravano gli dèi e, perciò, fosse necessario richiamare alla disciplina quei gruppi, come i cristiani, che avevano deviato dalle regole.
Nello stesso modo, Costantino credette di aver ricevuto personalmente da Dio l’incarico di garantire la corretta applicazione delle norme divine.
Ma una cosa è supporre un generale collegamento tra la religione e il desiderio della gente di trovare conforto, rassicurazione e una spiegazione delle proprie sofferenze; un’altra cosa è invece immaginare che le epoche di difficoltà producano sempre dei movimenti religiosi o, capovolgendo il concetto, che lo sviluppo della religione possa essere sempre spiegato in connessione con un quadro sociale negativo.
Che la tarda antichità fosse un’epoca di maggiore spiritualità rispetto alle epoche che l’avevano preceduta è attualmente messo in questione; si tratta di un’ipotesi che tende ad essere formulata insieme all’idea che il paganesimo avesse perduto credibilità o subito un certo declino e che il cristianesimo prendesse piede per colmare questo vuoto.
Ma questo modo di vedere che è influenzato dalla prospettiva cristiana non si accorda con gli studi recenti che documentano per l ‘alto impero una vita religiosa molto intensa e composta da fedi diverse.
Solo attraverso un’analisi di ampio respiro si possono individuare le ragioni della crescita della Chiesa cristiana e della diffusione del cristianesimo, non con il semplice ricorso ad un presunto declino del paganesimo.
La cristianizzazione, e le profonde ripercussioni provocate dall’adesione di Costantino al cristianesimo sull’impero e sulla società, costituiscono uno degli elementi che differenziano la tarda antichità dall’alto impero.
Ma ve ne sono molti altri, tra i quali meritano un posto particolare la serie di riforme e i cambiamenti amministrativi, economici e militari che si verificarono nel corso dei circa cinquant’anni (284-337 d. C.) in cui ragnarono Diocleziano e Costantino.
Sebbene vi fossero, naturalmente, notevoli differenze tra i regni dei due imperatori, che sono vividamente riflesse nella documentazione a nostra disposizione, dovremmo tentare di inserirli anche in un’ampia visione d’insieme in modo da considerare il loro cinquantennio come un periodo du ripresa e di consolidamento in contrapposizione con il precedente cinquantennio, che fu definito da Rostovzev come un’”età di anarchia”.
Tuttavia, contrariamente all’enfasi posta tradizionalmente dagli studiosi sul ruolo svolto da Diocleziano e Costantino, il successo nel normalizzare la situazione non fu dovuto tanto alla loro personalità quanto piuttosto ad una combinazione e convergenza di fattori da cui, un po’ alla volta e in risposta a specifiche convergenze, scaturirono molte delle loro “riforme”.
Visti in questa luce, gli anni intorno alla metà del terzo secolo somigliano meno a un periodo di crisi da cui l’impero fu strappato a forza grazie agli sforzi di un imperatore forte e perfino solitario 8Diocleziano è spesso definito come “despota orientale” per aver adottato un complicato cerimoniale di corte di stile persiano) e sembrano più simili ad una fase temporanea di un sistema imperiale in evoluzione
Cap. 1. Le fonti
Non tento nemmeno, a questo punto, di descrivere o di fornire una valutazione delle fonti archeologiche e della documentazione visiva di quest’epoca.
Ciò è in parte dovuto al fatto che sono talmente vaste che non si potrebbero neppure riassumere suddividendole per argomenti.
Ma l’altra ragione è che oggi sarebbe semplicemente impossibile scrivere una storia di questo periodo senza fare costante riferimento alla documentazione archeologica e figurativa.
Mentre Jones poteva basarsi su una conoscenza esaustiva delle fonti letterarie e documentarie, negli ultimi venticinque anni il campo di indagine sul tema si è enormemente ampliato.
Gli archeologi si sono occupati di questo periodo in misura sempre crescente, specialmente dopo i progressi del sistema di datazione della ceramica tardoromana; l’interesse generale per la storia urbana di tutte le epoche ha spostato l’attenzione prevalentemente sull’abbondante materiale disponibile per le città tardoromane; e, infine, in seguito al calo di interesse per la storia politica e narrativa, la maggior parte degli storici sono diventati sempre più consapevoli della necessità di usare la documentazione materiale oltre che le fonti letterarie.
Per quanto riguarda le arti visive, due fattori hanno favorito una loro più stretta connessione con i dati delle fonti letterarie e documentarie; in primo luogo, una più accentuata volontà di utilizzare le fonti cristiane, ivi compresa l’arte cristiana e, in secondo luogo, gli effetti di una tendenza riscontrabile per altri periodi della storia antica, forse sviluppatasi grazie ai confronti con l’epoca moderna, a dare rilievo al contesto visivo e al potere delle immagini in quanto strumenti di comunicazione.
Per ricapitolare, se i principali autori sono ovviamente ancora gli stessi, e tuttavia in molti casi sono stati riesaminati sotto un’ottica diversa, è l’ambito della ricerca ad essersi, viceversa, enormemente ampliato.
Pag. 43-44
Cap. 2. Il nuovo impero: Diocleziano
Nel periodo che intercorre tra l’ascesa al potere di Diocleziano nel 284 d. C. e la morte di Costantino nel 337 d. C. la situazione confusa determinatasi intorno alla metà del terzo secolo fu ripresa sotto controllo e l’impero attraversò una fase di recupero e di consolidamento, in cui si verificarono importanti cambiamenti sociali e amministrativi.
In pratica, fu messo a punto quel sistema di governo che si sarebbe affermato in Oriente fino agli inizi del settimo secolo e, sebbene con minore successo, in Occidente fino alla caduta di questa parte dell’impero nel 476 d. C.
E’ naturale che i meriti di questi risultati vengano attribuiti principalmente ai due forti imperatori che regnarono nei cinquantatré anni che formano questo periodo, soprattutto perché anche le fonti antiche seguivano questa tendenza; ma bisogna ricordare che questo processo fu assai meno il risultato di un preciso piano programmatico e assai più un susseguirsi frammentato di eventi di quanto non ci possa far pensare, a posteriori, il suo esito.
Occorre soprattutto prudenza di fronte alla tendenza delle fonti e dare una distinzione troppo netta tra Diocleziano e Costantino a causa delle loro differenze religiose e di fronte ai condizionamenti che tale distinzione ha provocato nella valutazione della politica anche non religiosa dei due imperatori.
Pag. 45
Qualsiasi giudizio sulla natura delle riforme di Diocleziano è reso difficile da due fattori: lo stato insoddisfacente delle fonti letterarie a nostra disposizione relative al suo regno e il fatto che molti singoli cambiamenti si manifestarono in un secondo momento o ci sono attestati solo più tardi.
Un altro problema è causato dall’esagerato contrasto tra Diocleziano e Costantino messo in rilievo dalle fonti; la tendenza della politica non religiosa di Costantino, e perfino alcuni aspetti di quella religiosa, dovrebbero essere visti piuttosto come quelli che portarono avanti le linee generali della politica dioclezianea.
Pag. 48
Non c’era solo questo: in teoria, anche la somma da pagare doveva essere messa in rapporto con quanto si produceva a livello locale.
Tutti questi dati venivano calcolati attraverso un censimento regolare, organizzato per periodi quinquennali, noti come indizioni, a partire dal 287 d. C.
Pag. 53
Così come fallì il tentativo di Diocleziano di introdurre un controllo dei prezzi, fallirono anche le misure ad esso collegate volte a riformare il sistema monetario.
Entrambi i tentativi abortirono perché erano imposti dall’alto, senza un’adeguata comprensione ed una verifica delle condizioni generali che di fatto causavano tali difficoltà.
La terminologia adoperata da Lattanzio rivela una diffusa incomprensione dei fatti economici (della “razionalità economica”), che condizionava pesantemente la capacità degli imperatori del quarto secolo di gestire in una qualche maniera effettiva l’economia.
I provvedimenti di Diocleziano furono di gran lunga più aderenti alle necessità del momento di quanto lo fossero stati quelli dei suoi predecessori e, in qualche misura, furono portati avanti da Costantino, ma per descriverli non possiamo fare ricorso a concetti moderni come “economia diretta” o “Stato totalitario”, altrimenti rischiamo di confondere le intenzioni con la realtà.
Piuttosto, sarebbe il caso di interpretare le minacce rivolte dai governatori le minacce rivolte dai governatori provinciali contro gli esattori delle imposte che mancavano di assolvere al proprio compito come il sintomo di una concreta debolezza del potere centrale.
Pag. 55
Vi sono molti problemi che limitano la nostra comprensione del sistema amministrativo tardoromano, che mantenne un difficile equilibrio tra burocrazia e patronato; in particolare, il numero di coloro che ne facevano parte e che, di fatto, erano sottratti alla base produttiva e dovevano, invece, essere mantenuti (“le bocche da sfamare”, per usare l’espressione di Jones) è stato spesso visto come il principale fattore del declino economico.
Tali questioni sono discusse più avanti nel capitolo quarto; intanto, possiamo notare che il sistema – così coem noi lo conosciamo nella sua forma più tarda – non si formò completamente sotto Diocleziano, sebbene a questo imperatore venga rimproverato di aver creato una burocrazia troppo numerosa, nello stesso modo in cui egli è criticato per aver accresciuto talmente l’esercito da renderne impossibile per l’impero il mantenimento.
Pag. 58
Diocleziano rispettò fedelmente il suo progetto: il primo maggio del 305 d. C. abdicò con il suo collega Massimiano, si ritirò nel suo palazzo di Spalato e, da quel momento, rifiutò di ritornare alla vita politica.
Lattanzio, che intendeva trovare per lui una morte esemplare a causa della sua persecuzione, sostiene che si lasciò morire di fame nel 311 o 312 d. C. (De mortibus persecutorum, 42), ma secondo altre fonti visse più a lungo.
Diocleziano non aveva eredi diretti e la tetrarchia sopravvisse per poco tempo dopo il suo ritiro.
Costantino successe a suo padre Costanzo nel 306 d. C., si assicurò la posizione di Augusto attraverso l’alleanza con Massimiano nel 307 d. C. e si mise subito all’opera per eliminare i suoi rivali.
Una delle vittime fu lo stesso Massimiano (310 d. C.) e successivamente sconfisse il figlio di Massimiano, Massenzio, nel 312 d. C.
Una volta divenuto unico imperatore, Costantino diede avvio a grandi cambiamenti che hanno spinto sia gli osservatori del tempo sia gli storici moderni a sottolineare un forte contrasto tra lui e Diocleziano; ma fu egli stesso un prodotto della tetrarchia e, per molti versi, un erede di Diocleziano – molti dei progressi in campo sociale, amministrativo ed economico verificatisi sotto il suo regno rappresentano semplicemente la logica conclusione delle innovazioni introdotte da Diocleziano.
Pag. 64
Cap. 3. Il nuovo impero: Costantino
Il giudizio sulla figura di Costantino risente, più ancora di quello su Diocleziano, dei pregiudizi che hanno condizionato i commentatori sia antichi che moderni.
Il problema è incentrato sul suo riconoscimento del cristianesimo, che ha cambiato radicalmente le sorti della Chiesa cristiana e, con buone probabilità, ne ha determinato gli sviluppi della sua storia futura come religione universale.
Eusebio di Cesarea, che è la nostra principale fonte contemporanea, fu l’autore di una Storia ecclesiastica – che finì per diventare un’esaltazione della gloria di Costantino – e più tardi divenne il panegirista dell’imperatore nella sua Vita di Costantino.
Anche Lattanzio traccia una netta distinzione tra il virtuoso Costantino e il perverso Diocleziano, sebbene almeno nel suo caso – siccome la data del trattatello De mortibus persecutorum precede comunque la vittoria di Costantino su Licinio nel 324 d. C. – sia almeno riservato a Licinio un trattamento pari a quello di Costantino.
I Panegirici Latini relativi a Costantino naturalmente gli attribuiscono grandi meriti e il materiale storico è presentato con questa funzione.
Per gli aspetti non religiosi del suo regno, dipendiamo purtroppo in buona parte dalla Storia nuova di Zosimo, la quale non solo soffre dei medesimi pregiudizi (sebbene di segno opposto), ma contiene anche ingenue forzature.
Per quanto riguarda le testimonianze di tipo documentario, gran parte delle informazioni sono contenute solo nella Vita di Costantino di Eusebio e sono, quindi, da usare con molta cautela (cfr. cap. 1).
Infine, nonostante oggi generalmente si creda all’autenticità delle lettere imperiali conservate nell’Appendice alla storia della controversia donatista di Ottato (e, in questo caso, sarebbero molto utili per rivelare la mentalità stessa di Costantino), bisogna pur sempre ricordare che esse sono state preservate in un ambiente cattolico e presentano il punti di vista di una sola delle due parti del conflitto.
Pag. 65-66
Prima però di passare a parlare del rapporto tra Costantino e il cristianesimo, è necessario mettere in risalto quali e quanti furono gli aspetti di continuità tra questo periodo e il precedente.
Sulle scelte di Costantino in materia di politica non religiosa siamo male informati; anche in questo campo abbiamo a disposizione un maggior numero di fonti per il periodo che va dal 234 al 337 d. C.
Come si è visto, per quanto riguarda l’aspetto militare Costantino fu oggetto di rimproveri da parte degli autori pagani, in particolare da Zosimo (2., 34), per aver indebolito la difesa delle frontiere con il trasferimento di alcune truppe da utilizzare nell’esercito mobile.
Chiaramente le necessità militari degli anni 306-324 d. C. richiedevano un consolidamento delle forze di manovra mobili, ma in realtà non si trattava di una innovazione.
Anche per altri versi, ad esempio riguardo all’idea di una campagna persiana che egli carezzò negli ultimi anni della sua vita, Costantino aveva dei precedenti.
Continuò e poi consolidò il riordinamento delle province e quello amministrativo intrapresi da Diocleziano, con l’importante novità che ai prefetti del pretorio furono tolte le funzioni militari.
Si è molto discusso sulle ragioni – e sui particolari – di questa decisione, che fu presa solo verso la fine del suo regno; essa probabilmente è dovuta all’assegnazione di parti di territorio ai rimanenti figli di Costantino e ai due figli dei fratellastri nel 335 d. C., ma in ogni caso è perfettamente in linea con le riforme di Diocleziano.
Similmente, il nuovo ministro responsabile del tesoro, il comes sacrarum largitionum (letteralmente “conte delle sacre largizioni”), è attestato per la prima volta solo nell’ultima parte del regno e, probabilmente, la sua creazione è legata analogamente a motivi di opportunità.
L’inflazione andò avanti sotto Costantino esattamente come accadeva prima.
Egli riuscì ad emettere una nuova moneta d’oro, il solidus, che non fu più svalutata e rimase inalterata fino al periodo bizantino inoltrato; tuttavia, ciò non è indicativo di una politica economica sostanzialmente nuova, quanto del fatto che aveva a sua disposizione l’oro necessario.
In parte esso proveniva dai tesori dei templi pagani, che – come riferisce Eusebio – furono confiscati, ma derivava anche dalla nuove tasse in oro e in argento che furono imposte ai senatori (il follis) e ai mercanti (il chrysarfyron, “tassa in oro e in argento”).
Pag. 71-72
Il Concilio di Nicea del 325 d. C. fu nel complesso un evento molto significativo e venne in seguito registrato come il primo dei sette Concili ecumenici riconosciuti dalla Chiesa (il settimo ed ultimo si tenne anch’esso a Nicea nel 787 d. C.).
Il concilio non si occupò di uno scisma locale, ma di un importante problema dottrinale, la definizione del rapporto tra Dio Padre e il Figlio.
Molti vescovi, compreso Eusebio di Cesarea, si schierarono dalla parte di Ario, un prete di Alessandria, secondo il quale il Figlio doveva essere secondario al Padre, ma la discussione fu molto accesa; contrasti restarono anche sulla data corretta per la celebrazione della Pasqua, per la quale vi era discordanza tra la Chiesa di Antiochia e quella di Alessandria.
Costantino si era ormai reso conto che l’unità della Chiesa era un presupposto essenziale dell’impero cristiano che il suo panegirista Eusebio esalta come un ideale nell’Orazione dei Tricennalia e nella Vita di Costantino; negli anni successivi si prodigò per tentare di realizzarla.
In realtà i problemi erano troppo complicati per potersi prestare ad una rapida soluzione.
La conclusione apparentemente trionfale del Concilio di Nicea, dove Eusebio aveva rinnegato i propri principi e aveva firmato il documento, mentre altri – compreso Ario – che ancora si rifiutavano di farlo furono mandati in esilio, produsse un credo che da allora è rimasto sostanzialmente immutato all’interno della Chiesa; non molto tempo dopo, però, Ario venne riabilitato e i vincitori stessi di Nicea si sentirono in pericolo.
Il capo di questi era Atanasio, che era diventato vescovo di Alessandria solo nel 328 d. C., ma aveva partecipato a Nicea come Diacono.
Esiliato nel 335 d. C., dovette subire questo destino varie volte durante la generazione successiva in quanto principale oppositore dell’arianesimo, dal momenti che gli stessi figli di Costantino erano simpatizzanti per le idee di Ario.
Gli scritti polemici di Atanasio sono una fonte importante, sebbene difficile, per la ricostruzione di questa controversia.
Pag. 79-80
Si sostiene comunemente, ma a torto, che con la fondazione di Costantinopoli Costantino avesse stabilito di spostare la capitale in Oriente ed, effettivamente, questa città diventò più tardi la capitale dell’Impero bizantino.
Ma, nonostante mantenesse ancora il suo prestigio, Roma aveva da tempo cominciato a perdere la sua prerogativa di residenza imperiale ed era stata sostituita in questa funzione da centri come Treviri e Milano; la città fondata da Costantino, con il suo palazzo e l’annesso ippodromo, aveva tutte le caratteristiche di un’altra capitale tetrarchica.
Solo verso la fase conclusiva del quarto secolo, Costantinopoli iniziò quel processo di trasformazione che l’avrebbe condotta a diventare, alla fine del sesto secolo, una città di mezzo milione di abitanti.
Certamente Costantino volle darle un buon avvio, adornandola di opere famose di scultura come Zeus Olimpio, la colonna a forma di serpente di Delfi e la statua di Atena Promachos; c’era anche una grande strada principale (la Mese) e un foro di forma ovale dove si trovava uan statua dell’imperatore collocata in cima ad una colonna di porfido.
Assegnò alla città onori particolari, come il titolo di “Nuova Roma” e un proprio Senato, anche se i suoi senatori dovevano essere designati come clari, invece che con il normale appellativo di clarissimi (Anon. Vales. 6, 30).
I suoi detrattori, come Zosimo, lo accusarono di avere costruito edifici poco solidi e di aver sperperato tutte le sostanze dell’impero per la nuova città.
Eusebio, da parte sua, sostiene che al suo interno non si lasciò spazio ad alcuna parvenza di paganesimo, ma non si trattava certamente di quella città cristiana che egli vuol far credere o che anche i moderni spesso immaginano: il suo principale monumento cristiano era il mausoleo dello stesso Costantino.
E’ possibile che la prima chiesa di Santa Sofia sia stata cominciata da Costantino, coem vuole una più tarda tradizione, ma non troviamo la notizia in Eusebio; sorpresa desta anche il fatto che nella città restino poche tracce di chiese di epoca costantiniana – Zosimo addirittura sostiene che furono dedicati due nuovi templi a Rea e alla Fortuna.
Ma, nonostante la tendenziosità delle fonti più antiche e il groviglio delle tradizioni più tarde su Costantinopoli rendano estremamente difficile la comprensione dell’intera questione relativa alla fondazione da parte di Costantino, non ci sono dubbi sull’importanza dei suoi effetti sulla lunga durata o sul fatto che alla città Costantino fosse particolarmente affezionato; dopo la sua dedicatio, l’11 maggio 330 d. C., fino alla sua morte nel 337 d. C., vi trascorse la maggior parte del proprio tempo.
Roma non fu degradata – coem si è visto, senatori romani continuano ad essere attestati come titolari di alti uffici in questi anni, ed appaiono desiderosi di essere considerati parte del potere centrale, malgrado esso fosse ormai cristiano -, ma non era più il centro in cui l’imperatore risiedeva con la sua corte, e ciò avrebbe profondamente influenzato la sua evoluzione nel corso del quarto secolo.
Pag. 83-84
Cap. 4. Chiesa e Stato: l’eredità di Costantino
E’ incerto se Costantino sia stato cosciente delle conseguenze che a lungo termine avrebbero provocato i provvedimenti da lui presi nei confronti della Chiesa cristiana nell’inverno tra il 312 ed il 313 d. C.
La dispensa per il clero dai doveri curiali deve essere sembrata perfettamente in armonia con la tradizione dei favori imperiali nei riguardi di gruppi privilegiati, compresi i sacerdoti pagani; Costantino non doveva sapere che i cristiani stessi erano divisi in merito alla legittimità di una parte del loro clero o che i seguaci di Donato sarebbero stato così ostinati nella loro resistenza alle opinioni da lui tanto chiaramente espresse.
La sua corrispondenza sulla controversia donatista nell’arco di quasi un decennio ce lo mostra a partire dalla sorpresa ed ansietà iniziali per arrivare, attraverso l’indignazione e l’incredulità, ad una dolorosa rassegnazione; l’ultima sua lettera nella raccolta di Ottato, che si data al 330 d. C., costituisce un tentativo artificioso e poco convincente di persuadere gli insoddisfatti cattolici del Nord Africa ad essere pazienti e contiene l’invito a non attendere una soluzione imperiale e a rimettere la questione al giudizio divino.
Lo scisma donatista nel Nord Arica continuò per tutto il quarto secolo e costituiva una seria divisione nella Chiesa africana ancora ai tempi di Agostino, quando furono adottate severe misure repressive dal Concilio di Cartagine del 411 d. C.
La tattica di Costantino di mescolare la diplomazia alle minacce non aveva ottenuto nulla ed egli aveva provato l’amarezza causata dalle difficoltà che avrebbero incontrato anche i suoi successori nel tentativo di superare le divisioni all’interno della comunità cristiana.
Pag. 87
Il rapporto tra imperatore e Chiesa, pur destinato ad assumere cruciale importanza, non è di facile definizione.
Il termine “cesaropapismo” è spesso usato per definire il controllo imperiale sulla Chiesa, che alcuni studiosi moderni fanno risalire a Costantino.
In realtà, i fatti erano molto più complessi: la situazione dipendeva tanto dalla personalità dell’imperatore in questione, quanto dall’identità dei capi della Chiesa di quel dato momento.
L’imperatore non controllava la Chiesa in alcuna forma giuridica o costituzionale e tanto meno ne era il capo.
Perfino nel periodo bizantino l’imperatore, di norma, non nominava il patriarca di Costantinopoli e gli imperatori bizantini che assumevano un comportamento impopolare su specifiche questioni facilmente trovavano forti resistenze da parte della gerarchia ecclesiastica.
Nel quarto secolo, inoltre, mentre veniva riconosciuto il diritto di Roma a rivendicare la sua maggiore antichità come centro cristiano, la Chiesa era divisa in diocesi che per tradizione erano tra loro rivali.
Il Papato, come lo conosciamo per l’epoca successiva, è stata una creazione solo del primo Medioevo – e del tempo di Gregorio magno (590-604 d. C.) in particolare -, mentre in Oriente i vescovati di Costantinopoli e Gerusalemme giunsero a rivaleggiare con quelli di Antiochia ed Alessandria solo in conseguenza del patronato di Costantino su entrambe le città.
La superiorità dei vescovi di Gerusalemme, anzi, non fu subito accettata a Cesarea, la diocesi metropolitana che già c’era in Palestina, e la loro rivalità è evidentissima sotto la reggenza del potente vescovo Cirillo di Gerusalemme (349-386 circa).
Il Concilio di Nicea del 325 d. C. rappresentò un vero e proprio spartiacque.
Per la prima volta ci si sforzò di riunire insieme tutti i vescovi e si chiarì che i risultati del consilio andavano considerati universalmente vincolanti.
Il ruolo di Costantino fu ambiguo: egli partecipò a tutte le sedute e la sua apparizione nelle vesti di imperatore dovette grandemente impressionare la maggior parte dei vescovi, ma fu molto attento a rimettersi al loro giudizio.
Sebbene egli avesse manifestato chiaramente quale fosse la formula da lui preferita, voleva, evidentemente, che la decisione finale fosse presa a maggioranza e preferibilmente all’unanimità.
Ma questo non gli riuscì completamente: i pochi che ancora resistevano vennero esiliati, una sentenza imperiale più che ecclesiastica.
Ma la posizione adottata da Costantino prestava il fianco, e lo stessi fu per i suoi successori, alla pressione di vescovi influenti – come poteva l’imperatore scegliere la propria strada nel groviglio delle opinioni?
Inoltre, sebbene non vi sia alcun dubbio sulla consapevolezza della propria missione da parte di Costantino, il ritratto che abbiamo di lui lo dobbiamo in larga parte ad Eusebio di Cesarea, che era, da parte sua, estremamente desideroso di portare avanti l’idea di stretti rapporti tra impero e Chiesa.
Nella sua Orazione dei Tricennalia (336 d. C.) egli pone le fondamenta di buona parte della teoria politica cristiana successiva, dando un’interpretazione cristiana delle concezioni ellenistiche e romane sui rapporti tra il sovrano terreno e Dio .
Secondo Eusebio, l’imperatore cristiano rappresentava Dio sulla terra ed il regno terreno era un microcosmo, o un’imitazione, di quello celeste.
Tali opinioni ebbero un’enorme influenza e formarono la base della teoria politica per tutto il periodo bizantino; ma esse suggerivano anche l’idea che il Regno di Dio fosse già stato realizzato, cosicché da allora si poteva per sempre sperare in una felicità ininterrotta – un’idea ovviamente errata, di cui in seguito Agostino dové spiegare la fallacia.
Esse, inoltre, comportavano una pericolosa conseguenza, e cioè che essendo il primo dovere dell’imperatore individuato nella “pietà”, egli doveva cercare di metterla in atto nel suo regno con ogni mezzo, una potenziale giustificazione della persecuzione religiosa che anche Agostino raccolse e difese.
I pagani non erano stati, finora, oggetto di un’effettiva persecuzione – dopo tutto, essi costituivano le grande maggioranza della popolazione -, ma quei cristiani le cui opinioni religiose erano giudicate in contrasto con la linea ufficiale (sempre definita come “ortodossia”) furono ben presto soggetti a severe misure.
Il donatismo, almeno, era limitato geograficamente e, in teoria, controllabile.
Non altrettanto si può dire dell’arianesimo, un termine che maschera un fenomeno ben più complesso e difficile, destinato a causare grossi problemi per molto più lungo tempo.
Diversamente dal donatismo, che è più propriamente uno “scisma”, implicando una divisione ma non una differenza dottrinale, l’”arianesimo” era classificato come “eresia”, una dottrina errata.
Paradossalmente, il Concilio di Nicea, con il quale Costantino cercò di risolvere quelle che forse gli erano sembrate differenze di poco conto, in pratica dette il via ad un processo di ricerca di una definizione da dare alla giusta dottrina; processo che fu causa di infiniti problemi e costituì per secoli la preoccupazione della Chiesa e dello Stato.
Il termine greco hairesis (“scelta”) era, in origine, del tutto neutro, indicando semplicemente una serie di dottrine o pratiche.
Ora, tuttavia, le “eresie”, le dottrine devianti, furono catalogate e demonizzate, man mano che la Chiesa andò assumendo un ruolo sempre più autoritario nel definire che cosa dovesse essere considerato giusto e meno.
Coinvolti in prima persona, gli imperatori avevano il compito di cercare di riconciliare gli individui ed i gruppi di opposizione.
Pag. 88-91
Tutti gli imperatori del quarto secolo sostennero il cristianesimo, con la sola eccezione di Giuliano, il quale cercò di dar vita ad un’alternativa pagana (361-363 d. C., cfr. cap. 5), e la loro protezione costituì senza dubbio il fattore più importante nella crescita dell’importanza della Chiesa.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, i tentativi di bandire o di perseguitare il paganesimo furono l’eccezione e non la regola.
Eusebio dice che lo stesso Costantino promulgò una legge che proibiva i sacrifici e, mentre la legge stessa non ci è pervenuta, una legge simile di Costanzo fa ad essa riferimento.
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I sussidi per i sacerdoti ed il culto pagani furono ritirati e gli anni successivi videro la distruzione dei templi e violenti scontri tra pagani e cristiani in numerose province.
Alcuni vescovi cristiani, tra i quali Giovanni Crisostomo ed Agostino, trassero grande vantaggio dalla situazione per sollecitare, o almeno per raccomandare, le violenze dei cristiani; l’imperatore d’Oriente, Arcadio, che con suo fratello Onorio era successo al padre Teodosio nel 395 d. C., cercò di limitare questi casi di azione di massa.
Bande di monaci (cfr. cap. 7.) erano in prima linea tra i cristiani che attaccavano templi o statue pagane, e l’ostilità mostrata nei loro confronti da un certo numero di autori pagani, tra i quali Libanio e Eunapio, non ci sorprende affatto.
Nello stesso periodo vediamo anche segni di una crescente ostilità cristiana verso gli ebrei, espressa non solo nelle prediche cristiane, soprattutto quelle di Giovanni Crisostomo, ma anche nella legislazione.
Il giudaismo non era proibito in quanto tale; al contrario, gli imperatori cristiani legiferarono per frenare gli attacchi alle sinagoghe da parte dei cristiani del luogo (CTh. 16., 8, 9, 393 d. C.; 16., 8,2,423 d. C.).
Ma i cristiani che si convertivano al giudaismo perdevano le loro proprietà, mentre gli stessi ebrei furono banditi dal servizio imperiale, dalla pratica dell’avvocatura e, nel 438 d. C., da tutti gli honores e dignitates.
La grande comunità ebraica in Giudea, con base in Galilea, era guidata dal patriarca ebraico e ci è rimasta una cospicua corrispondenza tra Libanio e il preposto a quell’ufficio in quel periodo.
Prospere e importanti comunità ebraiche esistettero anche in molte città dell’Impero, delle quali Antiochia ed Apamea in Siria sono buoni esempi.
Misure come quelle prescritte nella legislazione della fine del quarto secolo non si possono definire come persecuzioni su vasta scala.
Le omelie di Giovanni Crisostomo contro gli ebrei rivelano, per la verità, una situazione in cui molti cristiani sembrano effettivamente essere stati attratti dal culto ebraico.
Ma gli stessi sermoni, insieme ad altri accenni presenti nella letteratura cristiana, testimoniano la crescente intolleranza della Chiesa e il suo desiderio di porre fine ad una tale promiscuità tra le comunità.
Pag. 98-99
A livello intellettuale, come vedremo nel prossimo capitolo, l’alternativa più seria al cristianesimo era il neoplatonismo.
Questa versione tardoantica e più spiritualizzata della filosofia platonica era associata, in particolare, con il filosofo del terzo secolo Plotino e con il suo discepolo Porfirio (autore di un attacco al cristianesimo che fu ufficialmente distrutto); questo sistema attrasse profondamente Agostino.
Come i manichei, seguaci di mani, il maestro del terzo secolo, i neoplatonici erano asceti; essi citavano Pitagora, il filosofo greco del sesto secolo a. C., il quale insegnava che la saggezza si otteneva con l’astinenza.
Pag. 102-3
L’altro capolavoro di Agostino, La Città di Dio, scritta verso la fine della sua vita, tra il sacco di Roma da parte del Visigoti Alarico nel 410 d. C. e la sua morte nel 430 d. C., costituisce un’impegnata discussione sui rapporti tra affari religiosi e secolari e, in particolare, tra Chiesa e Stato.
Non a caso la prima metà della lunga opera è una trattazione del pensiero di alcuni autori classici latini, Sallustio e Cicerone in particolare.
Essi erano, dopo tutto, gli scrittori sulle cui opere Agostino stesso si era formato come maestro di retorica; ai fini del proprio progetto per Agostino era essenziale poter dimostrare l’inadeguatezza del loro pensiero a paragone dell’insegnamento cristiano.
Ciò che mancava, secondo lui, nella precedente storia di Roma, e soprattutto nella Repubblica, nonostante i successi militari, era la giustizia, che comportava il giusto riconoscimento del divino; al contrario, lo Stato romano era basato soltanto sulla ricerca della gloria (Civ. Dei, 19., 21-4)
I pagani dell’epoca potevano replicare che il sacco di Roma dimostrava che il Dio cristiano, dopotutto, non proteggeva il suo regno, come sostenevano i cristiani; e tuttavia la loro storia, egli rispondeva, non era stata quasi altro che una serie di disastri, mentre il regno cristiano non doveva ancora essere eguagliato al Regno dei Cieli ed era ancora nel suo periodo di prova.
Questa era una visione meni ottimistica di quella di Eusebio di Cesarea, con il suo entusiasmo per Costantino; si aggiunge una maggiore asprezza per il fatto che Agostino compose la sua grande opera alla vigilia dell’invasione e della riuscita conquista della propria provincia del Nord Africa da parte dei vandali ariani.
Laggiù, il periodo di prova per i cattolici come lui doveva durare un secolo e doveva essere seguito, quando Costantinopoli la riconquistò nel 533-534 d. C., da un ulteriore divisione dottrinale, questa volta imposta da un imperatore d’Oriente nel nome dell’unità della Chiesa.
Pag. 106-7
Cap. 5. Il regno di Giuliano
Giuliano (361-363 d. C.) era il figlio più giovane di Giulio Costanzo, uno dei fratellastri di Costantino assassinati dall’esercito a favore dei figli di Costantino nei mesi successivi alla sua morte nel maggio del 337 d. C.
Soltanto Giuliano e suo fratello maggiore Gallo scamparono al massacri e furono lasciati in vita; a quel tempo Giuliano aveva soltanto sei anni circa.
Dei tre figli di Costantino che si divisero l’impero quando diventarono Augusti il 9 novembre 337, Costantino 2. fu ucciso nel 340, mentre cercava di invadere il territorio del fratello Costante nel Nord Italia, e Costante stesso, lasciato a capo dell’Occidente, fu ucciso da uan congiura di palazzo nel 350.
Così Costanzo 2. rimase unico imperatore e senza un erede.
Quando partì per vendicare l’assassinio di suo fratello contro Magnenzio, l’ufficiale dell’esercito che era stato responsabile delle morte di Costante, e che ora si rifiutava di venire a patti, Costanzo fece Gallo Cesare e gli affidò l’Oriente.
Magnenzio venne infine sconfitto in Gallia nel 353 d. C., lasciando Costanzo unico ed incontrastato imperatore.
Pag. 109
Le caratteristiche ed il vigore di storico che Ammiano e, in particolare, la sua ammirazione per Giuliano, nel cui esercito servì come ufficiale, influenzano inevitabilmente la nostra percezione dell’intero racconto delle vicende che seguono, ma per fortuna, pur essendo di gran lunga lo scrittore più importante, non è la nostra unica fonte e può spesso essere integrato con opinioni differenti.
Abbiamo, per esempio, gli scritti dello stesso Giuliano, che ci mostrano un aspetto dell’imperatore su cui Ammiano non insiste, e quelli degli scrittori cristiani i quali, anche se pervenuti contro Giuliano, sono particolarmente importanti.
Pur essendo pagano, Ammiano non riteneva che la religione dovesse occupare il ruolo centrale nella sua opera, riconoscendo la priorità degli altri aspetti.
La sua più tradizionale attenzione per gli eventi politici e militari significa, peraltro, che la sua storia ci offre il quadro di gran lunga migliore dell’esercito tardoromano in azione.
I libri successivi sono alquanto diversi; a differenza della precedente narrazione, essi si concentrano si Roma e sono estremamente importanti per comprendere la classe senatoria tardoromana (cfr. cap. 9.).
Infine, la sua storia è piena di istruttive digressioni su tutti gli argomenti, che, oltre a fornire certi dettagli curiosi, alcuni relativi ai lunghi viaggi di Ammiano, ci consentono di individuare qualcosa del suo modo di ragionare.
Pag. 110
Giuliano era un idealista con opinioni e aspirazioni molto condivise e che molto oltre a lui stesso sentivano con passione.
Egli sembra aver avuto, inoltre, una personalità magnetica che attirava alcuni così come respingeva altri.
Se avesse avuto senso politico come imperatore in misura tale da corrispondere alla fiducia suscitata dalla sua carriera come Cesare, le cose sarebbero apparse molto diverse.
Il quadro del carattere dell’imperatore che ci offre Ammiano dopo la sua morte (25., 4) è ricco di lodi e risparmia le critiche; egli arriva a discolpare Giuliano dell’insuccesso militare imputando le responsabilità della ripresa della guerra contro la Persia a Costantino.
Ma questa interpretazione è in contrasto con la testimonianza del suo dettagliato resoconto e le critiche di Ammiano sulla superstizione di Giuliano e sulla sua passione per i sacrifici, sebbene suonino come una sostanziale condanna, tralasciano il fatto innegabile che egli si era alienato anche la propria funzione.
Inoltre, il ritegno di Ammiano quando vengono affrontati i problemi religiosi lascia totalmente in ombra la violenza della reazione cristiana contro Giuliano, espressa da contemporanei come Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo ed Efrem Siro, il quali avevano tutte le ragioni di temere durante il suo regno che la sua politica avesse successo e di manifestare tutta la loro soddisfazione quando non ebbe buon esito.
Pochi contemporanei poterono permettersi di essere neutrali riguardo a Giuliano.
Ciò spiega perché le fonti a nostra disposizione su di lui sono in modo sproporzionato abbondanti, vista la breve durata del suo regno, e nella maggior parte dei casi estremamente tendenziose, una situazione che di per sé ha favorito lo sviluppo di romantiche opinioni moderne.
Pag. 117-18
Il mito di Giuliano aveva cominciato a formarsi quando l’imperatore era ancora vivo ed il suo breve regno lasciò un’impressione indelebile sia sui pagani che sui cristiani.
Ciò che aumenta l’intensità della sua storia non è tanto il suo interesse o la sua importanza intrinseca, quanto i sentimenti che egli ispirò negli scrittori contemporanei e in quelli successivi e la quantità di scritti che essi hanno prodotto.
Come ispiratore di Ammiano e soggetto della più drammatica e ampia sezione di quella parte della sua storia che è sopravvissuta, Giuliano acquista anche una statura maggiore di quella che effettivamente ebbe.
Con uno di quegli interrogativi impossibili della storia, ci chiediamo se sarebbe riuscito a restaurare il paganesimo qualora fosse vissuto più a lungo.
L’ironia sta nel fatto che non furono tanto le cause che egli aveva sposato, né la situazione storica contemporanea a provocare le difficoltà, quanto piuttosto il suo carattere e, in particolare, la sua indimenticabile e irritante combinazione di nobiltà d’animo ed arroganza.
Pag. 124
Cap. 6. Lo Stato romano tardoantico: da Costanzo a Teodosio
Sebbene in vari momenti diversi Augusti si siano trovati nello stesso tempo al potere, l’impero in sé non subì alcuna divisione formale nel periodo che va dalla morte di Costantino nel 337 a quella di Teodosio 1. nel 395 d. C.
Alla morte di quest’ultimo i suoi due figli, Onorio e Arcadio, ancora in giovane età, assunsero rispettivamente il controllo dell’Occidente e dell’Oriente.
Anche in questo caso, dal punto di vista costituzionale, non vi fu alcuna divisione ed il periodo tetrarchico forniva un precedente per una tale sistemazione.
La differenza principale fu che la divisione venne ora mantenuta senza interruzioni dal 395 d. C. fino a quella che è convenzionalmente considerata la fine dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d. C.
Singoli imperatori potevano subire l’autorità di un vescovo influente, come nel caso di Graziano e Teodosio con Ambrogio.
Infine, questo periodo è caratterizzato sia dalla crescente pressione delle invasioni barbariche, sia dall’uso sempre più massiccio di personale barbarico perfino nei ranghi più elevati dell’esercito romano (cfr. cap. 8.); dalla fine del quarto secolo in poi i generali di origine barbarica, tra cui uno dei primi fu il vandalo Stilicone, magister militum dotto Teodosio 1. e futuro reggente per i suoi due figli, giunsero ad avere un ruolo determinante nella politica imperiale che, nella parte occidentale dell’impero, finì per essere addirittura superiore a quello degli stessi imperatori.
Un importante fattore per spiegare la sopravvivenza dell’impero d’Oriente dopo il 476 d. C. consiste nel fatto che nella parte orientale, durante il quinto secolo, si riuscì nel complesso ad evitare una simile situazione, con gli imperatori d’Oriente che fecero affidamento su funzionari civili piuttosto che su generali.
Pag. 129
Vi era insomma un esercito di funzionari: il sistema tardoromano sembra, ad un primo sguardo, corruzione sfrenata.
Ogni cosa era in vendita, incluso l’esercizio stesso del potere.
La ricerca dei codici e le colorite storie delle fonti letterarie, non ultimo Ammiano, gettano una luce fosca sul periodo che ancora costituisce, per molti storici moderni, soltanto il preludio del declino e della caduta dell’Impero d’Occidente.
Nel secondo secolo d. C., tuttavia, il principe nordafricano Giugurta aveva rivolto la medesima critica alla società romana e, a un più attento esame, viene da chiedersi se la situazione fosse veramente così negativa come sembra.
Molti degli organi propri di uno Stato moderno erano semplicemente inesistenti: per esempio, non vi erano forze di polizia per la caccia ai criminali o per far rispettare la legge, così come non vi era un sistema organizzato per l’assistenza legale o la rappresentanza delle parti nei processi (nonostante fossero innumerevoli le leggi da osservare).
Non vi era un sistema bancario in quanto tale e la protezione della salute era affidata ai personaggi che si trovavano sulla piazza: dai medici per i pochi, ai maghi e i guaritori per la massa; nonostante lo Stato avesse maggiore riguardo per l’istruzione, i suoi benefici erano riservati ad una stretta cerchia.
Alto era il numero degli impiegati statali nel tardo impero romano: se però il loro numero viene confrontato con la percentuale di cittadini impiegati direttamente dallo Stato nelle moderne società sviluppate, esso si rivela insignificante.
Una larga fetta della popolazione non aveva alcun genere di rapporto diretto di “impiego” (lavoro salariato): o si apparteneva al gruppo dei patroni, soprattutto in qualità di ricchi proprietari terrieri, o a quello dei dipendenti (schiavi, affittuari, coloni); quest’ultimo gruppo comprendeva anche i diseredati delle città, la cui sussistenza era garantita dalle pubbliche distribuzioni o dalla carità religiosa.
L’Impero romano non differiva molto, eccetto che per la sua estensione, da altre società da altre società premoderne: le masse ricorrevano allo stesso tipo di espedienti, per lo più forme di patronato e di dipendenza, per riuscire ad aggirare i più elementari problemi di sussistenza.
Nella pratica questo sistema era accettato da tutte le componenti della società, ma alcune procedure messe in atto finirono per modificare il modello prestabilito, provocando la condanna degli imperatori.
L’orazione di Libanio, Sui sistemi di protezione, probabilmente del 301-392, si rivolge all’imperatore Teodosio affinché siano adottate da parte sua delle misure contro quegli ufficiali dell’esercito che riescono ad ottenere dai coloni di grandi villaggi denaro o pagamenti in natura in cambio di protezione, i quali, in seguito, fanno uso della protezione dei militari, da loro acquistata, per terrorizzare e sfruttare i loro vicini.
Secondo il punto di vista di Libanio, il rapporto di protezione tra il proprietario terriero e l’affittuario era da considerarsi scontato, ma una simile ingerenza da parte dell’esercito turbava lo status quo in misura intollerabile.
Nelle società con caratteristiche simili all’Impero romano tardoantico lo Stato viene considerato come un’entità distante e ostile ed è del tutto naturale che i suoi funzionari si servano di organizzazioni che estorcono denaro per la protezione, al fine di incrementare i propri guadagni.
Mutando prospettiva, però, abbiamo anche modo di notare come, nel tardo Impero romano, i ceti ricchi facessero a gara nell’esercitare il patronato diminuendo, o perché gli organi del governo non funzionavano in maniera adeguata, sembra infatti che fossero in crescita in questo periodo il bisogno di protezione, subordinazione e patronato e, con esso, le opportunità per i protettori.
Pag. 134-35
Se perfino gli Stati moderni hanno grandi difficoltà nell’escogitare sistemi di governo realmente efficienti, sarebbe anacronistico ipotizzare che gli imperatori tardoantichi o i loro ministri fossero in grado di concettualizzare i problemi del loro tempo, e assurdo supporre che essi avessero la capacità di dar corso a cambiamenti della portata che una tale concettualizzazione implicherebbe.
Il governo tardoromano tentava di gestire un vasto impero, in condizioni economiche e militari difficili, ma senza poter contare su nessuno degli strumenti che sarebbero stati necessari.
Gli imperatori avevano un ruolo religioso, morale e simbolico; rivolgevano molta attenzione alla sicurezza militare e cercavano di mantenere l’ordine: per ciascuno di questi scopi essi avevano bisogno di incamerare proventi.
Questo era quanto uno avrebbe potuto aspettarsi e fu, in molte occasioni, più di quanto si potesse veramente conseguire.
Considerate le precedenti consuetudini del mondo antico, la crescente complessità dei problemi che gli imperatori tardoantichi dovettero affrontare e la permanente carenza di un organismo governativo efficiente, ne consegue necessariamente la crescita del sistema delle protezioni con i molteplici riferimenti a forme di corruzione che noi troviamo nelle fonti: questi fenomeni, tuttavia, non sono estranei nemmeno agli Stati moderni che si ritengono sviluppati.
E’ stato perfino ipotizzato che il peggioramento delle condizioni economiche abbia provocato l’estendersi del fenomeno del patronato nel momenti in cui le classi più ricche entrarono in competizione per procurarsi ricchezza e prestigio, e i poveri ebbero un più forte bisogno di protezione.
Ma ciò vuol dire, ancora una volta, dare per scontata la “decadenza”.
Gli storici moderni, poiché sanno a posteriori che la “decadenza” incombeva, tendono a concentrare il loro interesse sulle testimonianze negative.
“Decadenza”, però, può avere parecchi significati diversi; già solo i problemi organizzativi affrontati dall’amministrazione tardoantica erano enormi: qualsiasi lettore di Ammiano può avvertire si ala radicalità della contrapposizione tra gli estremi nella società, sia la consapevolezza dei rapidi mutamenti.
Tuttavia, mentre vi può essere stata uan qualche contrazione economica (cfr. cap. 7.), nessuno potrebbe figurarsi, attraverso Ammiano, che questa fosse una società in grave decadenza.
Pag. 136-37
Ad un primo sguardo, l’immagine della situazione che, in termini di libertà individuale, sembrano offrire le leggi che limitano la libertà di movimento è fosca.
Ancora una volta, comunque, viene da chiedersi se le cose fossero nei fatti veramente molto diverse da come lo erano state nel periodo imperiale precedente.
Infatti, immaginare l’esistenza di una sensibilità verso principi moderni quali i diritti umani sarebbe qualcosa di assolutamente anacronistico.
Né si può parlare di qualcosa che si avvicini vagamente alla nostra idea di democrazia: G. E. M. de Ste Croix, infatti, ha pienamente ragione a considerare la storia dell’Impero romano in termini di progressivo autoritarismo.
Per un altro verso, invece, i pasticci e l’inettitudine del governo e della legislazione tardoantica lasciavano aperte molte scappatoie: la massa delle fonti non giuridiche sembra indicare che l’esistenza di leggi, nei fatti, non facesse molta differenza.
Il problema, pertanto, può darsi che stia più nell’interpretazione della legislazione tardoromana, che non in ciò che di fatto poi avveniva.
Come anche per ciò che attiene le questioni relative alle leggi sul matrimonio, la dote e l’eredità (cfr. cap. 7.), sapere come si debbano valutare gli effetti pratici e la rispondenza alle situazioni reali di tale massa di provvedimenti legislativi spesso in conflitto tra loro e, di certo, frequentemente modificati, è uno dei problemi più difficili che gli studiosi di questo periodo storico sono costretti ad affrontare.
La politica degli imperatori del tardo quarto secolo rappresenta, in sostanza, la continuazione ed elaborazione del sistema creato da Diocleziano e Costantino.
Lo Stato romano della fine del quarto secolo differiva da quello del periodo precedente per quanto riguarda la sua spontanea evoluzione o il mutamento di fattori esterni, piuttosto che in conseguenza di un qualche importante mutamento di indirizzo.
Tra le trasformazioni più ovvie che un conservatore avrebbe notato ve ne sono due di cui abbiamo già parlato: l’accresciuto ruolo della Chiesa come istituzione e l’aumento di importanza dei vescovi, sia a livello centrale che nelle comunità di cui erano a capo.
Altre trasformazioni riguardano lo sviluppo della città di Roma nel quarto secolo, l’ascesa di Costantinopoli come capitale e, in particolare, l’impatto crescente delle invasioni barbariche nonché le difficoltà emerse nel tentativo di arginarle, il qual problema ingenerò in molti l’idea che si fossero indebolite le possibilità difensive di Roma o dell’esercito romano in generale.
Di ciò si discuterà nei prossimi capitoli, mentre il successivo affronterà alcune delle questioni di interpretazione emerse nel corso di questa discussione: ci si domanderà in quale modo possa valutarsi l’economia romana tardoantica nel suo insieme e si concentrerà l’attenzione su alcuni aspetti specifici dell’economia e della società del quarto secolo.
Pag. 140-41
Cap. 7. L’economia e la società romane tardoantiche
Durante il regno di Costantino l’inflazione continuò a crescere ad un ritmo vertiginoso a dispetto degli sforzi fatti da Diocleziano per ottenere il controllo dei prezzi e riformare il sistema monetario.
Il pilastro centrale dell’economia era ancora rappresentato dall’agricoltura per cui, sebbene Costantino imponesse nuove tasse a senatori e commercianti, v’era ben poco da fare per determinare un globale mutamento.
Né delle considerazioni di carattere generale, né gli indicatori esistenti sembrano suggerire che l’effettiva contrazione della base economica, che probabilmente ebbe luogo nella metà del terzo secolo, abbia subito una significativa inversione di tendenza.
Se anche si nutre dello scetticismo circa le elevatissime cifre relative all’ammontare delle forze armate nelle fonti letterarie (cfr. capp. 2 e 8), resta comunque il fatto che si trattava di uno Stato fortemente oberato dalle spese militari.
Non sembra verosimile, inoltre, che l’imposizione fiscale potesse effettivamente portarsi ad un livello significativamente più elevato per il semplice fatto che la maggior parte dei contribuenti non avevano alcun modo efficace di incrementare il proprio surplus.
Né, comunque si sostenga spesso il contrario, la confisca dei beni dei templi operata da Costantino può davvero essere stata responsabile di una ripresa economica di vasta portata.
Si può osservare, infine, che, se è vero che, come un aspetto della sua manovra fiscale, Diocleziano introdusse le “fabbriche statali” (fabricae) che sono menzionate nella Notitia Dignitatum, e di cui quelle a Carnutum e a Ticinum erano specializzate, rispettivamente, nella costruzione di scudi e di archi, è anche vero che tali fabbriche furono istituite per far fronte alla necessità militari, piuttosto che per ragioni economiche di carattere più generale.
Se, dunque, si verificò un certo miglioramento economico nella prima metà del quarto storico, il merito va attribuito in larga misura al miglioramento dei sistemi di esazione in concomitanza con il ritorno a delle condizioni di relativa stabilità.
Pag. 143-44
L’effetto della svalutazione della moneta d’argento nel terzo secolo e delle varie misure fiscali di Diocleziano e Costantino fu quello di lasciare l’impero, nel quarto secolo, con un sistema basato essenzialmente su due tipi di monete: una in oro (solidus) ed una in rame.
La moneta d’argento, che pur continuava ad essere coniata, fu progressivamente soppiantata, come principale unità di conto, dal solidus.
A differenza dei denarii argentei del periodo più antico, il solidus non venne mai svilito e continuò ad essere adoperato fino all’epoca bizantina avanzata.
Ciò, comunque, dipendeva dalla disponibilità di regolari approvvigionamenti di oro che in un primo momento furono favoriti dalla combinazione di particolare circostanze e da misure allora prese, tra cui l’acquisizione, da parte di Costantino, delle ricchezze dei rivali sconfitti, la confisca dei tesori d’oro e d’argento appartenenti ai templi pagani nonché l’esazione di nuove tasse da pagare in oro ed il forzoso acquisto dell’oro dei ceti abbienti da parte dello Stato.
Ma un siffatto sistema monetario era ancora lontano dall’acquisire stabilità: un papiro del 300 d. C., per esempio, fissa il prezzo di una libbra d’oro a sessantamila denarii; il suo valore, però, salì poco dopo a centomila denarii e raggiunse i duecentosettantacinquemila alla fine del regno di Costantino.
Eppure una tale situazione, che sembrerebbe essere sostenibile, era di per sé in gran parte artefatta e non rappresentava le condizioni reali degli scambi di mercato.
Il problema consisteva nel fatto che circolavano troppe cattive monete, i nummi o folles (i denarii erano in questo periodo una semplice unità di conto teorica); inoltre, la responsabilità effettiva era, in gran parte, del governo centrale dato che alle regolari coniazioni di rame esso non faceva corrispondere una manovra di prelievo fiscale nello stesso tipo di moneta.
Anzi, ne furono poste in circolazione ancor di più quando lo Stato decise di acquistare oro, in cambio di rame, dai cambiavalute.
Risulta per noi difficile concepire un sistema in cui monete dalle differenti denominazioni non erano, a rigor di termini, scambiabili fra loro; il fatto è, però, che gli imperatori tardoantichi erano ancora interessati alla circolazione monetaria in larga misura per scopi che li riguardavano direttamente: l’esazione di tasse, alcuni tipi di pagamenti, l’accantonamento di ricchezze nonché il prestigio.
La moneta d’oro e quelle di metallo cattivo non facevano parte di un sistema unificato e, finché la situazione non sfuggiva al suo controllo, l’autorità centrale non era troppo preoccupata di ciò.
In ogni caso, le soluzioni da seguire erano limitate; Valentiniano ricorse al comune espediente di emanare delle norme in questo campo (CJ 9., 11, 1, 371 d. C.), ma tale misura non equivaleva a mettere in pratica il controllo dello Stato in materia.
Pag. 146-47
L’istituzione della schiavitù (ci riferiamo in particolare all’uso della manodopera servile nella produzione agricola) ha assunto un posto di primaria importanza in ogni discussione relativa all’economia tardoromana.
In particolare, il ruolo della schiavitù nei sistemi economici del mondo antico ha rappresentato un punto di riflessione assai importante per la storiografia marxista, che ha sempre ritenuto che esista un’interdipendenza tra l’esistenza della schiavitù e il fatto che l’antichità classica finì per tramontare.
Recenti contributi hanno portato il dibattito ad un livello di maggiore complessità, per cui non solo il concetto di un tipico “modo di produzione schiavistico” è stato sottoposto ad una critica radicale, ma si è fatto osservare come l’uso di schiavi nei latifondi privati non sia mai stato la regola al di fuori dell’Italia, e perfino qui lo è stato solo per un breve periodo e con molte limitazioni.
Allo stesso tempo, contrariamente a quanto si sosteneva in passato, è oggi assodato che nel tardo impero gli schiavi non furono sostituiti con lavoratori liberi, ma il loro numero continuò a mantenersi alto.
Tuttavia, dal momento che tra gli storici circola con persistenza da tempo (malgrado gli argomenti desumibili, comparativamente, da altri periodi storici) l’ipotesi che le grandi proprietà a conduzione schiavile debbano necessariamente esser state più produttive, è necessario domandarsi non soltanto se nei latifondi erano ancora impiegati gli schiavi, ma anche come questi fossero impiegati e in che cosa le loro condizioni differissero da quelle dei liberi.
Pag. 149-50
Molti aspetti riguardanti la schiavitù nel tardo impero restano incerti e la loro importanza non dovrebbe essere sopravvalutata né sminuita.
Dobbiamo ricordare che, in questo periodo, il numero degli schiavi poteva divenire elevato in alcune occasioni a seguito di conquiste (anche se i barbari prigionieri di guerra potevano anche essere utilizzati come coloni) e che, nel solco delle premesse gettate da Roma, la schiavitù continuò ad essere un’istituzione ben salda nell’Occidente medievale.
Però, come abbiamo osservato (cfr. cap. 6), la condizione degli schiavi impiegati nell’agricoltura e quella dei liberi coloni andò via via assimilandosi.
Per quanto attiene la conduzione delle grandi tenute nel tardo impero, non v’è dubbio che questa variò notevolmente.
Se per un verso la schiavitù, in questo periodo, non va vista secondo l’agghiacciante prospettiva di torme di uomini incatenati, non dobbiamo nemmeno abbandonare l’idea che l’azienda agricola basata su una conduzione centralizzata (domanial farming) abbia continuato ad esistere.
Pag. 152-53
Fu inevitabile che la Chiesa, quando il suo patrimonio prese ad includere proprietà terriere, facesse proprio lo stesso tipo di regole e comportamenti: in fin dei conti, la gran parte dei vescovi proveniva proprio dalla classe cui appartenevano i ricchi latifondisti.
E’ dunque possibile vedere come, in questo periodo, la Chiesa di Alessandria sia impegnata in operazioni commerciali, proprio come si trova notizia nelle fonti di proprietari terrieri che registrano lauti guadagni grazie alla vendita di prodotti agricoli.
Infine, il modello di scambio non mercantile caratterizzava anche il sistema statale delle forniture ed elargizioni in natura.
Lo Stato aveva addirittura intrapreso la realizzazione di proprie strutture per la produzione di oggetti d’uso indispensabili, come le armi: anche se non possiamo assolutamente definirle come delle fabbriche in uan qualsiasi accezione moderna, trattandosi piuttosto di artigiani che lavoravano insieme, non di meno furono in grado di aggirare gli assai limitati processi di scambio di mercato effettivamente esistenti.
Pag. 153-54
Fu dunque la combinazione di molti fattori, in aggiunta a quanto osservato in generale circa il carattere rurale della società romana dell’impero e sulla natura delle città antiche, ad avere come effetto la diminuzione del livello degli scambi commerciali su vasta scala.
Gli storici che si interessano degli aspetti economici del mondo antico vanno, in questi ultimi tempi, dedicando sempre più attenzione agli scambi commerciali, come risulta chiaro dalla seconda edizione del libro di Finley The Ancient Economy, pubblicata nel 1985: in essa è stato dedicato al commercio uno spazio maggiore di quanto fosse nella prima e molto autorevole, edizione.
Pag. 155-56
Gli studi relativi a questo settore vanno evolvendosi con rapidità, per cui le generalizzazioni circa l’economia romana tardoantica sono necessariamente grossolane.
E’ tuttavia possibile, oggi, dare almeno inizio ad un più sicuro raffronto tra i dati oggettivi forniti dall’indagine archeologica ed il gran numero di indicazioni, che in taluni casi risultano fuorvianti, presenti nelle raccolte di leggi: in tal modo possiamo giungere ad avere un quadro della situazione più preciso di quanto non fosse possibile solo qualche tempo addietro.
Pag. 156-57
Anche i padri della Chiesa ebbero, per lo più, un giudizio negativo della donna, per quanto potessero coltivare singole ricche nobildonne; le donne erano viste come fonte della tentazione degli uomini, e molti scrittori cristiani erano dell’idea che non solo i rapporti sessuali, ma anche il matrimonio fosse di per sé un peccato.
Un vivace dibattito accesosi alla fine del quarto secolo concerneva la questione se Adamo ed Eva fossero stati esseri con pulsioni sessuali nell’Eden; molti sostenevano di no e che la sessualità, negli uomini, era stato il risultato del peccato originale.
Appassionata era anche la discussione circa gli esatti dettagli della nascita di Cristo, dato che erano in molti ad affermare che Maria aveva mantenuto la sua verginità durante e dopo il parto.
Per quanto inutili o assurdi possano sembrare, questi erano i fondamentali argomenti di discussione nell’interpretazione che la scienza teologica del tempo tentava dell’Incarnazione; questi argomenti, pertanto, avevano una parte rilevante nella controversia sulla natura di Cristo; la condizione della Vergine Maria fu il punto centrale della discussione al Concilio di Efeso del 431 d. C.
Tuttavia, sebbene sia vero che celibato e verginità venivano imposti agli uomini altrettanto che alle donne, si può facilmente notare come in genere fossero le donne ad avere il ruolo delle seduttrici e ad essere incolpate, coem Eva, per la debolezza sessuale degli uomini, non da ultimo per il fatto che gli autori di molti dei trattati sulla verginità ed il matrimonio erano, invariabilmente, degli uomini.
E’ di gran lunga più difficile stabilire quale fosse mai l’effetto che una simile campagna di predicazione e moralizzazione ebbe sulle abitudini sessuali dei singoli individui e delle coppie: sembra molto improbabile che idee tanto austere fossero messe in pratica già allora da una cerchia poco più ampia di una sparuta minoranza.
Ma anche nel caso in cui se ne sminuisca di parecchio l’importanza, è certo che le idee prevalenti di un élite che sia pronta a far sentire la propria voce alla fine influiscono, come è noto sulla base dell’esperienza moderna, sulle idee e sull’agire stesso dei singoli.
Pag. 164
I fattori chiave individuati sono l’accresciuta presenza di fattori coercitivi e la supposta alienazione dallo Stato di gran parte della popolazione: si afferma che fu questo l’elemento che, con altri, spinse la gente a fuggire in massa verso le popolazioni barbariche e ridurre lo Stato all’incapacità di trovare una soluzione ai problemi di carattere militare: “ci si abituò a considerare i barbari un male minore rispetto all’ordinamento statale romano”.
Il prossimo capitolo avrà come argomento di discussione le relazioni tra lo Stato romano tardoantico ed i barbari.
Per quanto riguarda le questioni generali, tali considerazioni di carattere storico dipendono non soltanto dalla prospettiva del singolo, ma anche da ciò che si va a guardare.
Pag. 167
Cap. 8. Le vicende militari, i barbari e l’esercito romano tardoantico
I mutamenti economici e sociali che si verificarono nel quarto secolo si successero su uno sfondo di continui conflitti militari di un tipo o di un altro.
Per quanto il regno di Diocleziano e la tetrarchia siano riusciti a dare un certo sollievo dalle difficoltà del terzo secolo, è difficile trovare un momento, all’interno del periodo preso in considerazione, in cui l’impero poté godere di una pace in qualche modo duratura; le inverosimili affermazioni dei panegiristi tendono più ad esprimere dei pii desideri che la realtà dei fatti.
Pag. 169
Le campagne di Gallia, sebbene presentate da Ammiano in maniera da accrescere il credito di Giuliano come militare, hanno comunque il merito di farci comprendere i problemi che Roma affrontava, causati dalle tribù barbare nella Gallia e nelle Germania.
Anzitutto, per Giuliano le cose non furono facili: le armi ci cui disponevano i romani non erano, di per sé, superiori a quelle dei barbari; gli alamanni si erano spinti assai all’interno del territorio gallico e si erano sparpagliati di un così vasto numero di aree, che i romani potevano verisimilmente trovarsi accerchiati; infine, questi ultimi non potevano sempre contare su una benevola accoglienza da parte delle comunità locali, i cui abitanti non avevano imparato ad essere pronti ad aspettarsi qualsiasi cosa.
Nel suo racconto, Ammiano adombra la tesi che i barbari erano incapaci di condurre a termine un assedio con successo (16., 4): eppure è indubbio che molti centri, compresa Colonia, furono presi e distrutti o danneggiati.
Se anche i romani potevano conseguire un successo, come a Strasburgo, in grado di scardinare una pericolosa alleanza di tribù, il problema era di quelli a lungo termine, e già comportava la necessità di una difficile commistione di azione militare, iniziative diplomatiche e concessioni.
Pag. 170-71
Ma il più grave disastro di questo periodo nella parte occidentale dell’Impero, proprio quello che Ammiano considerò come sufficientemente importante da usarlo come il punto conclusivo del suo racconto storico, fu la sconfitta e la morte dell’imperatore Valente ad Adrianopoli nel 378 d. C. (31., 12-13), uno shock che diede un aspetto diverso alla situazione generale e che era stato causato da un certo numero di fattori diversi.
Apparsi per la prima volta intorno agli anni cinquanta del terzo secolo, al tempo in cui il racconto di Ammiano prende avvio, nel 354 d. C., i franchi ed altre popolazioni della Germania occidentale come gli alamanni sono un elemento con cui dover fare i conti: alcuni franchi, individualmente, hanno perfino trovato la via d’accesso ai quadri superiori dell’esercito romano.
Una cosa diversa fu lo spostamento verso Occidente, nel quarto secolo, dei tervingi, quelli che sarebbero divenuti i visigoti, degli ostrogoti ed altre genti germaniche provenienti da Oriente.
Già durante il terzo secolo queste genti avevano portato attacchi nel territorio romano dalle loro sei situate nella parte nord del Mar Nero, in specie durante gli anni cinquanta del terzo secolo, quando esse attraversarono proprio il Mar Nero e fecero incursioni nel Ponto, sulla costa turca del Mar Nero (Zosimo 1., 27, 31-6).
Nel quarto secolo, essi certamente controllavano ormai vaste aree a nord del Mar Nero tra il Danubio e il Don (la provincia romana di Dacia era già stata abbandonata da tempo); anche questi popoli servivano nell’esercito romano, per esempio durante la spedizione persiana di Giuliano (indicati come “sciti”).
Il vescovo ariano Ulfila, con il beneplacito di Costanzo 2., trascorse sette anni della sua vita a convertire i goti, fino a che non fu costretto ad abbandonare il loro territorio alla fine degli anni quaranta del quarto secolo: a lui viene attribuita la creazione di un alfabeto gotico e la traduzione della Bibbia in questa lingua (Filostorgio HE, 2., 5).
In breve, questo gruppo di goti venne ora spinto a mutare le proprie sedi dagli spostamenti verso sud e verso Ovest di un diverso popolo nomade, gli unni: essi provenivano dalle steppe dell’Asia centrale ed il loro aspetto era così insolito che i romani ne avevano un terribile e profondo terrore.
Ciò risulta evidente dalle osservazioni di Girolamo così come dalla famosa descrizione di Ammiano, in cui essi appaiono come esseri che hanno ben poco di umano, che si cibano di radici e carne cruda messa a frollare durante le loro marce, tra il dorso del cavallo e le cosce del cavaliere (31., 2).
Pag. 173
Lo stesso Valente rimase ucciso sul campo (31., 13; Zosimo 4., 20-24).
Alcuni autori hanno di recente sostenuto che per lo Stato romano la battaglia di Adrianopoli non fu, di per se stessa, un momento così cruciale o una tale catastrofe come si è spesso sostenuto, in primo luogo proprio da quegli scrittori delle generazioni successive al fatto, inclini a ricavarne uan morale religiosa o politica.
Così Ruffino, nella sua opera che è la prosecuzione in latino della Storia ecclesiastica di Eusebio, definisce questa sconfitta come “l’inizio delle calamità che ci furono in quel tempo e delle successive” (11., 13), mentre Zosimo la attribuisce all’opera del fato (4., 24).
Pag. 174
L’orazione di Temistio è però assai tendenziosa e se mai il tributo ai barbari subì una qualche interruzione, esso venne ristabilito dopo poco.
La politica di Teodosio non era altro che un palliativo che poco riusciva a fare per allontanare il pericolo o trovare una soluzione ai problemi basilari; questi problemi si complicarono durante gli anni tra la morte di questo imperatore nel 395 ed il 410 d. C., quando salì alla ribalta Alarico come condottiero dei visigoti.
Vi era ormai, in questa fase, la separazione tra l’amministrazione imperiale occidentale e quella orientale, la qual cosa rese più semplice per i capi barbari metterle l’una contro l’altra; durante questi anni, Alarico domandò coerentemente un pagamento annuale in denaro e vettovaglie, nonché per se stesso il grado di magister militum.
Stilicone cercò, in un primo tempo, di servirsi di lui, ma fu poi costretto a venire a battaglia con Alarico in Italia presso Pollenza (402 d. C.).
Cinque anni più tardi, nel 407 d. C., Stilicone stipulò un accordo con Alarico, di cui accettò le richieste in cambio della fedeltà; ma tali concessioni finirono per costare a Stilicone l’imputazione di “nemico pubblico” da parte dell’Impero orientale (Zosimo 5., 29; Olimpiodoro fr. 5).
Il governo orientale si volse ad osteggiare l’uso di generali barbarici e la guarnigione del goto Gainas fu massacrata a Costantinopoli.
Pag. 175-76
Quando però egli stesso cominciò a perdere il sostegno di altri goti, il suo esercito si abbandonò al saccheggio della città per tre giorni, verso la fine dell’agosto del 410 d. C.
Pag. 176
Dobbiamo anche tener presente il fatto che i contemporanea consideravano le invasioni in termini di scorrerie di singole genti, piuttosto che alla stregua di un processo a lungo termine (effettivamente, i motivi che hanno determinato le invasioni sono, ai nostri giorni, lungi dall’essere chiari).
Il vecchio concetto delle orde barbariche “spinte” contro le frontiere dell’impero si è dimostrato completamente falso: anzitutto, l’effettiva consistenza di questi popoli doveva probabilmente essere alquanto ridotta; in secondo luogo, questo modello interpretativo non spiega perché gli unni stessi abbiano abbandonato le loro sedi nell’Asia centrale.
Allo stesso modo, l’”impero unni” di Attila (morto nel 453 d. C.) è un fenomeno appartenente al quinto secolo che si data a epoca successiva rispetto alle migrazioni e non ne fu la causa.
Un diverso tipo di spiegazione vorrebbe vedere lo spostamento degli ostrogoti in termini di mutamenti di condizioni economiche nell’area tra il Don e il Dniester, e vorrebbe situare l’intero fenomeno nel contesto del apporto tra comunità stanziali e comunità nomadi.
Gli uomini del tempo erano più inclini ad indicare, quale giustificazione alle incursioni barbariche, l’indebolimento della frontiera romana.
In pratica, gli imperatori del quarto secolo fino all’età di Teodosio 1. Furono, per lo più, in grado di tenere testa alla situazione creatasi, quantunque ciò richiedesse molto tempo e spesa; solo nel quinto secolo gli invasori riuscirono ad insinuarsi così profondamente entro il territorio romano da esigere di potervisi stanziare e da minacciare l’unità delle province occidentali.
E tuttavia, una volta che il processo ebbe inizio, proseguì con una facilità e velocità sorprendenti, considerato che una masnada di ottomila vandali era riuscita ad impadronirsi dell’intero Nord Africa romano nel 439 d. C.
In quel periodo, l’esercito romano occidentale era in serie difficoltà: su quest’argomento torneremo a breve.
Pag. 177-78
L’impegno romano nei territori della frontiera con l’Oriente, che era andato costantemente aumentando sin dal periodo della dinastia dei Severi, durante il quale essi riuscirono ad annettere la Mesopotamia settentrionale, area in cui si svolsero anche tutte le operazioni di guerra promosse da Costanzo 2., fu in questa fase estremamente intenso.
Non esisteva una frontiera naturale: nel quarto secolo, dopo la riorganizzazione ad opera di Diocleziano, le truppe romane vennero acquartierate in forti situati lungo la cosiddetta strata Diocletiana, una strada militare che andava dall’Arabia nord-orientale e Damasco fino a Palmira e l’Eufrate, e lungo un’altra strada da Damasco a Palmira.
Pag. 179
Quali che ne fossero le ragioni, concentrare l’attenzione sulle zone orientali di frontiera aveva implicazioni culturali oltre che militari: se ne discuterà nel capitolo 10.
Quanto alla presenza militare romana in Oriente nel periodo preso in considerazione, Isaac pone l’accento su tre importanti elementi distintivi.
Si tratta, anzitutto, di un’accresciuta attenzione verso la regione nordorientale dell’impero, a partire dalla fine del quarto secolo; questo interesse è connesso con la comparsa sulla scena degli unni, che già durante la metà del quarto secolo erano entrati in territorio persiano, e dopo il 394 avevano invaso Persia, Melitene, Siria e Cilicia.
L’Armenia era stata il centro di operazioni militari già sotto Diocleziano e nel 335 d. C. fu nuovamente invasa dai persiani; poiché era cristiana, dal 314 d. C., come lo era l’Iberia caucasica fin dal periodo subito dopo il 324 d. C., i fattori religiosi avevano reso queste regioni oggetto di disputa tra Roma e la Persia, e ciò era ancora un punto di controversia nel sesto secolo.
La stessa popolazione cristiana della Persia compariva nelle relazioni diplomatiche tra le due potenze sin dal regno di Costantino, la cui lettera a Shahpur 2. su questo argomento è conservata da Eusebio (VC 4., 8-13).
Pag. 181
Malgrado ciò, comunque vadano valutati i suoi scopi, l’intervento militare romano in Oriente continuò fino al sesto secolo; nel settimo secolo, l’imperatore Eraclio fu addirittura in grado (benché con grande difficoltà) di invertire gli effetti negativi della recente e disastrosa invasione persiana guidata da Cosroe 2.
Questa situazione è in netto contrasto con quanto avveniva in Occidente dove, già all’inizio del quinto secolo, le forze armate romane cominciavano a disgregarsi.
Le truppe di Roma furono ritirate dalla Britannia e da gran parte della Spagna; la facilità della conquista del Nord Africa da parte dei vandali può spiegarsi solo con l’assenza di una reazione romana: invero, non molto tempo prima, i soldati erano stati fatti affluire vi amare in Italia per essere impiegati nella guerra civile che qui si svolgeva.
Nella Gallia il progressivo stanziamento di gruppi di barbari, a partire dai visigoti in Aquitania nel 418 d. C., ridusse l’area geografica di competenza propria dell’esercito romano, i cui effettivi erano anche scesi.
la complessa situazione di questi anni, per i quali dobbiamo basarci su delle cronache galli che e spagnole, mostra chiaramente che il governo di Ravenna non era in grado di far altro che utilizzare un gruppo di barbari contro l’altro e, infine, stare a guardare la Gallia andare gradualmente in pezzi.
Un tratto distintivo di questo periodo fu l’avvenuto utilizzo, come mercenari, degli unni; un altro fu la rapida crescita dell’importanza di potenti generali come Flavio Aezio, colui che in pratica guidò l’impero d’Occidente dal 433 al 454 d. C.
Gli unni riuscirono ad estorcere un pagamento annuale anche dagli imperatori d’Oriente e quando l’imperatore Marciano (450-457 d. C.) mise fine ad esso, gli unni mossero verso Occidente ed invasero l’Italia nel 452; malgrado ciò, a seguito di uno straordinario colpo di fortuna per Roma, Attila, il re di questo popolo, morì improvvisamente l’anno seguente, dopo di che l’impero unno si sfaldò.
Cap. 183-84
Più volte gli studiosi hanno pensato (e Ferrill ha argomentato la questione come se si trattasse di una novità) che l’esercito romano fosse anche inefficiente dal punto di vista delle capacità di combattimento, ma ciò è difficile da provarsi.
Il declino delle capacità di combattimento dell’esercito romano viene ipotizzato in base a varie argomentazioni: anzitutto l’argomentazione, a priori, che i mercenari barbarici dovevano essere meno efficienti di un esercito formato da cittadini, specie se usato contro altri barbari; in secondo luogo, in ragione del fatto che la gran massa della popolazione che include, per definizione, la truppa, era malcontenta ed estraniata; in terzo luogo, in ragione del fatto che i cosiddetti limitanei posti alle frontiere erano dei contadini-soldati part time, che non ci si poteva aspettare che fossero di molta utilità in periodi di guerra aperta; infine, in ragione del fatto che, in sostanza, l’esercito romano tardoantico era spesso sconfitto.
Molte di queste argomentazioni sono altamente soggettive, sebbene scaturiscano da punti di vista diversi; tipica è l’affermazione che “il fatto che nel quinto secolo l’Impero romano d’Occidente non si trovò più in grado di tenere testa alle popolazioni barbare … fu soprattutto la conseguenza dell’allontanamento tra Stato e società (G. Alfoldy, Storia sociale dell’antica Roma, p. 297).
Per quanto riguarda i limitanei, siano essi stati dei buoni o dei cattivi soldati, il termine stesso non compare, a indicare le truppe di frontiera, prima della fine del quarto secolo e anche allora non denota una “milizia contadina”, ma solo “le truppe in una zona di frontiera”.
Questi soldati, pertanto, non possono avere la responsabilità, che è stata spesso loro addossata, del declino.
Pag. 187
Come J. H. W. G. Liebesschuetz ha fatto notare, la differenza stava nel fatto che nella parte orientale l’episodio di Gainas produsse una duratura avversione a dipendere da estesi reclutamenti di barbari; quando Uldin invase la Tracia nel 408 e venne sconfitto, i suoi uomini piuttosto che essere arruolati come federati, furono sistemati qua e là come coloni (CTh. 5., 6,3).
Il contrasto con la parte occidentale non poteva essere maggiore: alla caduta di Stilicone fecero seguito, nello stesso anno, la marcia di Alarico su Roma ed ulteriori anni di minacciosa ostilità ad opera dei vari capi barbarici e dei loro eserciti.
Ma la differenza va imputata anche a fattori strutturali più basilari, sia politici che economici; durante il quinto secolo, mentre l’Impero d’Occidente si andava frammentando e i suoi imperatori andavano divenendo più deboli e sempre più a corto di mezzi, la parte orientale vennero facendosi uniformemente sempre più prospera,. In grado di tenere a freno col denaro i barbari, se ve ne fosse stato bisogno.
Infine, la classe senatoria orientale, meno pomposa ma più integrata, permise che si sviluppasse un più stabile sistema di governo, basato essenzialmente su personale civile, coem possiamo osservare durante il regno di Teodosio 2. E il periodo successivo.
Pag. 189-90
Cap. 9. La cultura nel tardo quarto secolo
Per semplicità, questo volume separa nettamente i vasi aspetti sotto cui osservare la struttura sociale tardoromana: l’economico, il militare, il religioso, il politico senza entrare nel merito della questione se questo tipo di classificazione è effettivamente il modo migliore di studiare il processo storico.
Con il termine “cultura” intendiamo quel nesso di idee e conoscenze da cui ogni società dipende per conseguire la propria identità di comunità e che vengono trasmesse attraverso il processo di apprendimento e di istruzione.
Questo, in pratica, comprende gran parte del materiale di cui ci siamo occupati nei capitoli precedenti: per esempio, la conoscenza del modo in cui la propria società è organizzata politicamente viene acquisita con l’apprendimento, non è innata, ed il consenso generale circa la struttura politica costituisce l’elemento che tiene insieme una società.
La religione appartiene certo al regno della cultura e presuppone un certo punto di vista riguardo al modo in cui l’organizzazione del mondo è, o dovrebbe essere, strutturata.
Ma il termine “cultura” è anche generalmente adoperato in un senso più limitato, per indicare i campi del sapere, dell’educazione, dei costumi e dei gusti.
Ci si è abituati, nel mondo attuale, all’idea di una pluralità di culture e a considerare una società multiculturale come un auspicabile obiettivo; può riuscire difficile, tuttavia, che questo concetto (“i terrori della molteplicità”, secondo le recenti parole di uno scrittore) vada bene sia ai singoli individui che a gruppi sociali.
Al contrario, le società tradizionali sono, in genere, dominate da una sola cultura.
Sebbene fosse uan società tradizionale, tuttavia l’Impero romano, assai esteso geograficamente, comprendeva un gran numero di culture diverse.
Per di più, proprio la società tardoimperiale era in rapida mutazione sotto vari aspetti importanti: i barbari (stranieri) acquistavano un’importanza via via maggiore, servendo nell’esercito o insediandosi entro l’impero; la diffusione del cristianesimo comportava dei cambiamenti sociali ma anche religiosi; il divario tra ricchi e poveri si andava facendo, per certi aspetti, più consistente.
Tutto questo conduceva ad una realtà molteplice, ma talvolta allo scontro.
Pag. 191-92
Il travaglio afflisse a livello individuale: Girolamo si sentiva colpevole per il fatto che prediligeva Cicerone, mentre Agostino provò per tutta la vita questa lacerazione tra la cultura classica di cui si era imbevuto e che aveva lui stesso insegnato, e la sua più tarda convinzione che la conoscenza non poteva provenire dall’istruzione laica, ma solo da Dio.
Egli discusse direttamente di questo problema in due importanti opere, il De Doctrina Christiana (“Sull’istruzione cristiana”) e il De Magistro (“Sulla figura del docente”).
Un ulteriore motivo di tensione fu il fatto che il cristianesimo, di per sé, si rivolgeva ad uomini e donne di tutte le classi.
Questo non era certo il caso dell’istruzione classica e, per l’appunto, provavano disagio per la “semplicità” della letteratura cristiana che si ritiene si fosse sviluppata da ciò che essi chiamavano il sermo piscatorius (“la lingua dei pescatori”).
Arrivare da farsi capire anche da quei membri della congregazione non forniti di istruzione era visto come un importante dovere; vescovi come Ambrogio si preoccupavano dei mezzi per effettuare la conversione dei rustici (la popolazione rurale), Agostino possedeva una vivida consapevolezza di come giungere fino a loro in un sermone.
Si è giustamente fatto notare, però, che ciò non condusse ad un qualche programma di istruzione cristiano in quanto tale.
Gli uomini di Chiesa volevano operare delle conversioni, ma pensare di farlo nel contesto delle scuole o dell’innalzamento del livello di alfabetizzazione è un’idea moderna.
Per l’appunto, il livello generale dell’alfabetizzazione non crebbe in questo periodo: è più probabile che scendesse con il disgregarsi dell’impero d’Occidente.
Pag. 194
La cultura classica era una cultura elevata, limitata alle classi più ricche.
I libri, come l’istruzione, avevano un costo elevato e si potevano reperire con difficoltà; un’altra percentuale della popolazione più povera sarà stata analfabeta o quasi.
La limitatezza della cultura d’élite fu anche l’elemento che maggiormente ostacolò ogni possibile processo di amalgamazione tra romani e barbari.
Con l’affermarsi del cristianesimo i poveri e le classi inferiori furono oggetto di maggiore attenzione.
Pur stando così le cose, le tensioni culturali tra pagani e cristiani di questo periodo che ci vengono illustrate dalle fonti letterarie sono, in gran parte, quelle tra membri diversi della stessa classe.
Su costoro siamo ben informati, laddove scarsi sono i dati circa i molti cristiani delle classi inferiori facenti parte delle congregazioni cittadine, o quelli relativi all’estrazione sociale dei gruppi monastici che provocarono un tale stato di turbamento verso la fine del quarto secolo.
In maniera analoga, ad esempio, il paganesimo di Giuliano fu un fatto fortemente intellettualistico e, laddove abbiamo molteplici informazioni su problematiche come il neoplatonismo, sappiamo assai meno, a livello personale, sulla figura del pagano medio.
Pag. 197
La principale alternativa, sul piano intellettuale, al cristianesimo era il neoplatonismo, che possedeva anch’esso una sua particolare sfumatura distintamente religiosa e superstiziosa, specie in virtù delle pratiche teurgiche, una tecnica per invocare gli dèi con mezzi magici ed occulti; la teurgia si associò in particolare ad un filosofo degli inizi del quarto secolo, originario di Apamea di Siria, Giamblico, e fu trasmessa a Giuliano da Massimo di Efeso.
Scopo ultimo della teurgia, così come del neoplatonismo in generale, era l’unione dell’anima con Dio; le pratiche magiche ed i miracoli quotidiani erano semplicemente il primo gradino della scala che portava l’adepto alla sua unione mistica, dato che l’abilità del teurgo gli dava la conoscenza e la capacità di controllo del mondo fisico.
Nella sua opera Le vite dei sofisti, scritta intorno al 399 d. C., Eunapio ci descrive come Massimo poteva dar camminare le statue e come Giamblico poteva evocare le divinità.
Quest’ultimo scrisse un ampio commentario sui cosiddetti Oracoli caldaici, un insieme di scritti ritenuti rivelazioni oracolari in versi, concernenti Dio e la natura dell’universo, che egli presentò anche nell’opera Sui misteri, quale chiave ultima di comprensione della filosofia di Platone.
Ed invero in tal maniera le opere di Platone finirono per trovarsi nella condizione di libro sacro, una serie cioè di scritture filosofiche.
Pag. 207-8
Tra le opere di Platone, quelle che riuscivano più delle altre interessanti per i cristiani erano, dunque, il Simposio e il Fedro, che trattano il tema dell’ascesa dell’anima a Dio.
Altro tratto comune al cristianesimo e al neoplatonismo era l’enfasi posta sull’ascetismo ed il controllo delle passioni; Porfirio compose un’opera intitolata De Abstinentia ed una Lettera a Marcella (sua moglie), consigliandole l’astinenza sessuale.
Il De Abstinentia, come l’opera di Giamblico La vita pitagorica, propugnava il vegetarianismo, sul modello degli insegnamenti di Pitagora, predecessore di Platone.
Pag. 208
Nel secondo secolo, il periodo di maggiore floridezza dell’Impero romano, la cultura dell’élite fu straordinariamente omogenea per un’entità politica così vasta.
L’ideale di un’istruzione retorica era condivisa in tutte le province; ovviamente i suoi contenuti potevano cambiare a seconda che si fosse acquisita in latino o in greco ma, nel complesso, tra un’area ed un’altra c’era poca differenza di stili e concezioni.
Col tardo quarto secolo, anche se la retorica continuava ad avere il posto d’onore, vari fattori avevano cominciato ad avviare una diversificazione culturale di livello più ampio.
Uno di questi elementi fu il cristianesimo: da un aparte, con esso si prospettarono dei valori diversi e stili di vita alternativi; dall’altra, esso fornì nuove opportunità per mantenere in funzione l’istruzione retorica.
Altro fattore che mise in crisi le tendenze tradizionali fu la pressione esercitata dai barbari, sia a livello individuale che collettivo; a lungo andare, ciò avrebbe impedito la conservazione del vecchio sistema.
Un terzo fattore fu l’insorgere delle culture locali, che era stato un tratto caratteristico degli sconvolgimenti del terzo secolo.
Pag. 210
Se consideriamo il grado di mutamenti sociali e politici nell’Impero d’Occidente, risulta sorprendente la decisa continuità della cultura latina; ovviamente, nella parte orientale dell’Impero, dove esisteva una continuità di governo e di amministrazione e non vi erano insediamenti barbarici paragonabili a quelli dell’altra parte, esistevano condizioni più favorevoli perché continuasse ad esistere una letteratura classicheggiante in greco, sebbene anche in quest’area i mutamenti nella lingua parlata siano evidenti già nel sesto secolo.
Anche nel quarto secolo vi furono importanti mutamenti di ordine culturale che, per esempio, arrivarono a toccare il pur lieve aumento di importanza riconosciuto alle donne (cfr. cap. 7).
Non si trattò certo di rinascita o rivoluzione; nella società romana tardoantica non si stava attuando alcun fondamentale movimento economico o politico che possa paragonarsi a quelli che si verificarono in periodi successivi della storia europea.
E tuttavia, neppure il modello interpretativo convenzionale del declino corrisponde esattamente a ciò che si stava verificando.
Di certo, la gran massa di leggi nei codici sembra suggerirci che il governo, o gli imperatori, avevano la spiacevole consapevolezza che accadevano fatti i quali sfuggivano al loro controllo.
Le iperboliche espressioni retoriche cui essi facevano ricorso rappresentano il tentativo da loro messo in atto di arrestare i mutamenti di cui non riuscivano a scorgere le cause profonde.
Ma ciò, più che a totalitarismo, equivale ad una non invidiabile condizione di impotenza.
Volgersi ad altri testi e ad altre testimonianze può fornire un’immagine alquanto diversa di che cosa significasse vivere nel quarto secolo d. C.
Pag. 212-13
Cap. 10. Costantinopoli e l’Oriente
Sorprende il grado di mistero che circonda gli inizi della storia di Costantinopoli, dai motivi personali che Costantino aveva per fondare la città col suo nome all’aspetto fisico di questa (cfr. cap. 3).
Ciò è dovuto in gran parte al comprensibile desiderio degli abitanti di epoche successive, i quali vivevano in un mondo diverso, di scrivere o riscrivere la storia delle proprie origini.
Poiché l’esatta conoscenza storica del periodo di Costantino era andata perduta a partire dal settimo secolo, se non da prima e Costantino stesso era divenuto una figura del mito e della leggenda, gli sforzi di costoro potevano ben condurre a risultati bizzarri.
Già nel sesto secolo la gente riteneva che la battaglia prima della quale si diceva che Costantino avesse avuto quella sua visione premonitrice fosse uno scontro con i “barbari”; ben presto i suoi antagonisti divennero i mitici giganti Byzas e Antes da cui, secondo l’opinione comune, l’esistente Bisanzio derivava il suo nome.
Possiamo vedere che gran parte delle motivazioni che stanno alla base di queste storie derivano dal fatto che con gli inizi del sesto secolo il ruolo e le funzioni di Costantinopoli avevano sostituito quelle di Roma, ormai sotto la dominazione ostrogota; gli abitanti di Costantinopoli, pertanto, avevano bisogno di credere che la loro città fosse stata destinata da sempre a tale ruolo.
Allo stesso modo si riteneva che anche l’antico Palladio di Roma, che, secondo la tradizione, Enea aveva portato lì da Troia, fosse stato trasportato a Costantinopoli, dove giaceva sepolto sotto la colonna costantiniana di porfido quale portafortuna della città.
Pag. 215
Abbiamo, ora, testimonianze di un’incipiente prosperità in alcune aree, che divenne così impressionante in Oriente nel corso del quinto secolo, proseguendo nel sesto.
Anzitutto, la Terrasanta stessa trasse dei benefici, durante il quarto secolo, dai viaggi dei pellegrini e da quei ricchi personaggi che vi fondarono monasteri e li dotarono di beni; a parte le proprie fondazioni, la stessa Melania inviò quindicimila solidi d’oro alla Palestina.
La Chiesa di Gerusalemme ricevette donazioni assai ricche già alla metà del quarto secolo, e la città stessa divenne un affollato centro cosmopolita, il cui trambusto fu successivamente criticato da Girolamo (Ep. 58., 4, 4, diretta da Paolino da Nola).
Egeria rileva che a Gerusalemme le funzioni si svolgevano in greco, ma con interpreti per la popolazione del luogo, di lingua aramaica, e traduzioni latine fornite da monaci e suore bilingui; la stessa cosa accadeva a Betlemme.
Gerusalemme e i luoghi sacri raggiunsero l’apice della loro prosperità nel quinto secolo, con il regno dell’imperatore Teodosio 2. e la protezione dell’imperatrice Eudossia.
Pag. 225
Tutte le valutazioni circa l’ampiezza della popolazione nell’antichità sono penalizzate dalla mancanza di dadi di carattere statistico e dalla fragilità delle argomentazioni basate sulle fonti letterarie, sull’archeologia degli insediamenti e sul numero e l’ampiezza delle chiese; le tendenze sottostanti della dinamica della popolazione sono solo imperfettamente comprese.
A partire dal tardo sesto secolo devono aver cominciato a farsi sentire gli effetti della grande pestilenza che colpì l’Oriente nel 451 d. C.
Ma per il periodo precedente al verificarsi di essa, ci sono testimonianze abbastanza solide id un consistente numero di insediamenti nell’Oriente in questo periodo, tali da dimostrare che le tesi espresse in passato di un universale declino demografico quale fattore responsabile del declino dell’antichità semplicemente non stanno in piedi.
Arrischiando una ipergeneralizzazione, si può dunque contrapporre Oriente ed Occidente non solo in termini di stabilità di governo e di debolezza di fronte alle incursioni barbariche, ma anche in termini di organizzazione economica.
Laddove in Occidente vi è una concentrazione delle grandi tenute con le loro economie basate sulla villa (cfr. cap. 7), nelle provincie orientali esiste un maggior numero di testimonianze sull’esistenza, in questo periodo, di piccoli contadini e di un’economia di villaggio, con paesi di una certa estensione, più piccoli di una “città”, e privi dello status di comunità cittadina (sebbene alcune “città” fossero molto piccole secondo i parametri moderni), ma che mostrano tracce di organizzazione e diversificazione sociale.
Anche all’interno delle categorie di “villaggi”, vi era grande diversità di dimensioni, dai ricchi villaggi nei pressi di Antiochia agli insediamenti molto più piccoli nell’Asia Minore ed in altre aree.
Inoltre, un villaggio poteva anche trovarsi all’interno di una tenuta assai estesa.
Queste comunità avevano degli “uomini eminenti”, attestati su iscrizioni e in fonti letterarie, e potevano fare offerte presso i santuari locali o costruire chiese o sinagoghe loro proprie.
Una semplice chiesa di villaggio di questo tipo, della metà del quarto secolo, è quella di Qirk Bizze, ad est di Antiochia, costruita secondo uno stile locale non diverso da quelli delle abitazioni appartenenti allo stesso periodo.
Alla fine del quarto secolo questo tipo di edificazioni cominciavano a farsi più ampie e più elaborate, un segno, di per sé, che il villaggi andavano prosperando.
Una preziosa serie di papiri da Nessana, nel Negev, dove c’era anche una guarnigione, ci permettono di intravvedere le complicazioni della proprietà fondiaria in queste comunità in un periodo appena più tardo.
Sebbene molti siano ancora i problemi che devono essere risolti, la continuità di tali insediamenti fino al sesto ed al settimo secolo e, in molti casi, il loro declino dopo questa data, resta uno dei tratti più singolari delle province orientali nella tarda antichità.
Fu questo fenomeno, più che l’esistenza delle grandi città, che rese possibile all’Impero d’Oriente di evitare la frammentazione che ebbe a soffrire l’Impero d’Occidente; per di più, quando cominciarono a mostrarsi i segni di un declino appare avere alla sua base tanto fattori esterni quali la pestilenza ed un riaccendersi delle operazioni belliche, quanto ragioni specifiche ed esclusive delle province orientali.
Pag. 226-27
La condanna dell’arianesimo nel Concilio di Nicea del 325 d. C. non aveva risolto il problema dell’unità dei cristiani; al contrario, nel corso del quarto secolo, questo fatto portò ad una serie continua di dispute sulla natura di Cristo (“dispute cristologiche”) all’interno delle quali si svilupparono due correnti note come monofisismo e nestorianismo: entrambe furono condannate al Concilio di Calcedonia nel 451 d. C.
La prima corrente di pensiero sosteneva che Cristo aveva una sola natura, quella divina, mentre la seconda, che si identificava in Nestorio (eletto vescovo di Costantinopoli nel 428 d. C. e deposto dal Concilio di Efeso nel 431 d. C.), insisteva sulla separazione esistente tra le due nature, quella umana e quella divina.
Il problema stava nel fornire adeguate giustificazioni alla dottrina cristiana ortodossa secondo la quale la natura di Cristo era una e indivisibile, umana e divina allo stesso tempo, la qual cosa poneva grandi problemi di definizione.
Queste dispute, che si svolsero a partire dalla fine del quarto secolo, coinvolgevano un buon numero di questioni personali e locali, non ultima la supremazia di un seggio episcopale sull’altro.
Una delle prime fu la controversia intorno alla figura di Origene, un pensatore cristiano del terzo secolo di Cesarea di Palestina, cui si attribuiva, nei circoli antiocheni, di aver portato all’eccesso l’interpretazione allegorica alessandrina delle scritture, nonché di avere opinioni errate su altre questioni dottrinali.
Uno dei protagonisti principali delle controversie del quinto secolo fu Cirillo d’Alessandria, un abile uomo politico che era già vescovo quando Ipazia, filosofa pagana maestra di Sinesio, fu linciata nel 415 ad Alessandria da un gruppo di fanatici cristiani.
Non è un caso che, nel momento in cui molti personaggi contemporanei, da Giovanni Crisostomo a Girolamo, si trovavano impegnati nella questione origeniana, i due maggiori concili del quinto secolo, relativi alla natura di Cristo, abbiano avuto luogo in Oriente; essi furono e sono considerati dalla Chiesa come vincolanti: è comunque significativo il fatto che le controversie da cui essi furono determinati abbiano avuto origine nell’Impero d’Oriente.
Pag. 229-30
La caduta dell’Impero di Roma si colloca, convenzionalmente, nel 476 d. C.; dopo questa data in Occidente non vi furono più imperatori romani.
In maniera altrettanto convenzionale, viene in genere messo in evidenza il fatto che la linea di successione legittima continuò ad esistere nell’Impero d’Oriente, col suo centro in Costantinopoli, fino alla conquista delle città, nel 1453, da parte die turchi guidati da Maometto il conquistatore.
Il 476 d. C. risulta essere, più che altro, una data comoda per gli storici dato che, come si è già osservato, la debolezza degli imperatori del quinto secolo si era manifestata ben prima: in molti casi essi non furono che degli strumenti nelle mani dei generali che ricoprivano la potente carica di magister militum.
Fu l’ultimo di questi, Odoacre, a deporre il giovane Romolo Augustolo, imperatore per meno di un anno, e si autonominò rex (re) , titolo che a Roma per tradizione si detestava fin dalla cacciata dei re e la fondazione della Repubblica nel 510 a. C.
Già agli inizi del sesto secolo si erano venuti a formare parecchi regni barbarici che, in alcuni casi, furono i definitivi precursori degli Stati d’età medievale in Occidente.
Tra i regni più importanti ci fu quello degli ostrogoti in Italia, sotto il comando di re Teodorico (493-526 d. C.); dei franchi (detti anche merovingi), che venne a formarsi dopo la vittoria di Clodoveo nella battaglia di Vouillé del 507 d. C. e dei visigoti che, nonostante la sconfitta in quella battaglia e le successive disfatte ad opera dei franchi, riuscirono a fondare un regno unitario in Spagna alla metà del sesto secolo.
Perfino dopo che questi regni si furono costituiti continuò ad esistere un tale numero di tradizioni ed istituzioni romane che talvolta li si definisce società “subromane”.
In particolare, dalle famiglie romane di possidenti terrieri, con la loro forte tradizione culturale, vennero molti degli energici vescovi di questo periodo, ed il latino continuò ad essere adoperato come lingua amministrativa e della cultura.
Nell’ultimo capitolo abbiamo visto come in Oriente vi fossero già, alla fine del quarto e certamente nel quinto secolo, segni della prosperità e della crescita demografica che sono una caratteristica così marcata delle province orientali agli inizi del sesto secolo; il divario tra Oriente e Occidente, infatti, si andò allargando in maniera tale che l’imperatore Giustiniano (527-565 d. c.) fu perfino in gradi di porre in atto una serie di campagne militari finalizzate a ristabilire il controllo imperiale sull’Occidente.
La “riconquista” ebbe successo per un certo periodo, anche se Giustiniano aveva dovuto schierare le sue truppe pure contro la Persia lungo la frontiera orientale; tuttavia, c’erano stati troppi cambiamenti per un periodo eccessivamente lungo per permettere uan duratura restaurazione dell’impero ed i successori di Giustiniano ebbero addirittura difficoltà a mantenere un numero di forze adeguate sul fronte orientale.
Dopo le invasioni persiane agli inizi del settimo secolo e le conquiste arabe che ebbero luogo subito dopo, Oriente ed Occidente furono separati in maniera ancor più netta.
Agostino trascorse un periodo di 35 anni come vescovo di Ippona, sulla costa oggi algerina del Nord Africa, quasi al confine tra l’Algeria e la Tunisia: egli morì proprio quando i vandali erano passati dalla Spagna nel Nord Africa ed avevano iniziato la loro conquista della provincia.
La città di Dio è una delle sue ultime opere, scritta in arco di tempo di circa 14 anni e conclusa nel 427 d. C.
Alcuni degli aristocratici cristiani erano fuggiti da Roma nel Nord Africa quando Roma era stata saccheggiata da Alarico nel 410 d. C.; essi necessitavano di una risposta per le sarcastiche osservazioni dei pagani, secondo cui Dio aveva permesso che un tale disastro accadesse nonostante Roma fosse una città cristiana.
La risposta di Agostino si articolò si articolò in 32 libri di lunghe e spesso difficili argomentazioni.
Egli cercò sia di mostrare che la cultura pagana era manchevole e basata sull’errore, sia di convincere i cristiani dotti che costituivano il suo pubblico per quest’opera che anch’essi erano in errore se pensavano che il solo essere cristiani avrebbe loro garantito la felicità e la prosperità sulla terra.
Anzi, la città celeste, Gerusalemme contrapposta ad Atene, era un concetto spirituale che esiste in noi stessi e nella vita futura.
L’ultimo libro analizza in dettaglio il tipo di vita che le persone virtuose possono attendersi in paradiso dopo il giudizio che separerà i credenti dai non credenti.
Ma La città di Dio è anche una grande opera di teoria politica che passa in rassegna ed interpreta la storia di Roma dal suo anno di fondazione secondo la tradizione, il 753 a. C., fino all’epoca cui viveva Agostino.
Egli intendeva dimostrare che il mondo era governato secondo un modello provvidenziale cristiano; pertanto, Agostino doveva dare una spiegazione del passato pagano di Roma agli occhi dei cristiani e rigettare le argomentazioni dei pagani, ossia che il sacco di Roma del 410 d. C. invalidasse la dottrina della provvidenza cristiana.
Così Agostino, egli stesso imbevuto di cultura classica, sostenne che la Roma pagana era basata sull’errore; non solo: neppure la Roma di Cicerone e di Livio era stata in grado di realizzare il modello di Stato che Cicerone teorizza nel De repubblica; ciò accadde, secondo l’opinione di Agostino, perché lo Stato romano non era basato sulla giustizia, il che vuol dire dare a Dio il dovuto come pure agli uomini.
Un’ampia sezione de La città di Dio è, in effetti, dedicata ai grandi scrittori latini classici, in specie Cicerone e Virgilio, dato che Agostino stesso conosceva la forza di attrazione che la loro opera esercitava sulle persone colte.
I lunghi passi relativi a Platone ed i suoi recenti seguaci, i neoplatonici, sono anche un riflesso delle simpatie intellettuali di Agostino, mentre si indirizzano alla principale alternativa di pensiero al cristianesimo.
Nondimeno, la posizione di Agostino non mostra cedimenti: Platone ed il platonismo possono rappresentare la forma più raffinata di pensiero filosofico, ma hanno torto, per il fatto che non hanno avuto la capacità di riconoscere il vero Dio.
Nel passato, insomma, i pagani erano stati indotti in errore, laddove l’Impero cristiano rientra nei progetti che Dio ha nei confronti del genere umano.
I cristiani, però, non possono aspettarsi automaticamente felicità e successo sulla terra.
Dio continuerà a metterli alla prova e a saggiare le loro qualità; per di più, gli esseri umani sono innatamente inclini al peccato, quindi devono lottar per agire rettamente con l’aiuto della grazia divina: i giusti riceveranno solo in cielo la ricompensa che meritano.
La città di Dio è insieme opera di storia, di filosofia, di teoria della politica e di teologia: queste varie componenti sono combinate in un unico, vasto disegno.
Ma, così come essa respinge in ultima analisi la validità di quella cultura classica nell’insegnamento della quale Agostino aveva speso la prima fase della sua vita, così essa rigetta il valore del passato di Roma e della sua storia a paragone del presente cristiano, e rifiuta ogni genere di indagine critica sostenendo fermamente che sia la provvidenza divina a dirigere la storia.
Secondo tale concezione, il primo dovere di un governante cristiano è quello di imporre la vera fede.
Agostino giustifica, espressamente, le persecuzioni cristiane.
La città di Dio venne scritta perché Roma fu saccheggiata: il suo punto focale è Roma, il passato di Roma e gli scrittori di Roma.
Coloro che risiedevano in Oriente non lessero Agostino, sia durante la sua vita che successivamente: anche se il greco che egli conosceva era di un livello migliore di quello che alcuni studiosi vogliono riconoscergli, egli non si sentiva a proprio agio con questa lingua.
Un aspetto molto importante dell’eredità di Agostino è rappresentato dalla sua dottrina del peccato, destinata ad essere fondamentale per le idee della cristianità occidentale nel Medioevo e nelle età successive.
Egli riteneva che gli uomini e le donne fossero intrinsecamente peccaminosi e necessitassero della grazia divina per la remissione dei peccati; e contestò appassionatamente l’accentuazione posta dal monaco Pelagio, originario della Britannia, sul libero arbitrio.
La psicologia di Agostino può essere di una modernità sorprendente, così come la sua comprensione filosofica del linguaggio: le sue Confessioni sono uan pietra miliare nella storia del genere autobiografico.
Fu però la sua insistenza sulla fragilità umana e sulla subordinazione della storia al volere di Dio che ebbe un’influenza tanto straordinaria sull’Occidente medievale.
Tanto grande è la statura di questo personaggio che si tende a trascurare il fatto che la Chiesa orientale si sottrasse alla sua influenza per questo particolare aspetto, così come per altri e ancora rifiuta l’insistenza agostiniana sul peccato originale.
L’aspetto amaro della sua personale situazione di Agostino fu che, come anche il suo biografo Possidio sottolinea, dopo aver formulato la propria interpretazione cristiana della storia ne La città di Dio, la sua esistenza continuò fini a vedere addirittura la sua provincia invasa, le chiese profanate ed i fedeli uccisi o imprigionati.
Alcuni vescovi erano inclini ad abbandonare le proprie sedi vescovili per motivi di sicurezza, ma Agostino asserì con fermezza che il dovere di un vescovo era quello di stare con i suoi fedeli.
Gli venne, comunque, risparmiata la distruzione di Ippona: egli morì verso la fine del 430, un anno prima che la città fosse evacuata e parzialmente incendiata.
L’esercito romano in Nord Africa era diventato debole al punto da non poter offrire nessun tipo di difesa reale nei confronti dei vandali; per quella che era stata una delle più floride e tranquille province iniziò il periodo della dominazione dei vandali ariani, che durò finché Belisario, generale di Giustiniano, non vi giunse con l’esercito bizantino nel 533 d. C.
Il Nord Africa ci fornisce una vivida immagine del crollo del sistema imperiale in Occidente; in pratica i vandali entrarono in questa provincia, con le proprie mogli, i propri bagagli e i propri dipendenti – non si trattava proprio, globalmente, di forze molto numerose – ed incontrarono una scarsa, o addirittura nessuna forma di resistenza sia da parte delle truppe romane che da parte della popolazione locale.
Recenti ricerche hanno dimostrato che i motivi di quanto accadde sono da ricollegarsi più al progressivo indebolimento del governo centrale ed ai problemi generali che affliggevano l’esercito romano che non al declino economico a livello locale, dato che le città nordafricane e la stessa economia nordafricana erano fiorenti alla fine del quarto secolo.
Questo fatto ci riporta inevitabilmente a considerare il problema del perché l’Impero romano d’Occidente “decadde” o “cadde” nel quinto secolo.
Sono ormai inaccettabili quelle antiquate spiegazioni di carattere moraleggiante (sebbene ve ne siano ancora molte in circolazione), così come risulta troppo semplicistico attribuire la colpa alle invasioni barbariche (quantunque sia intrigante l’ipotetica questione di che cosa sarebbe potuto accadere se non ci fossero state le invasioni barbariche).
Una teoria più recente raffronta la caduta dell’Impero romano con quella di altre importanti culture della storia mondiale e cerca di darne una spiegazione in termini di crollo delle società complesse.
In breve, secondo questa teoria, a mano a mano che una società cresce, diviene sempre più differenziata da un punto di vista sociale e più complessa: solo perché questa possa stare in piedi si verifica un aumento proporzionale delle sue necessità.
Viene però un momento in cui il profitto marginale delle strategie di massimizzazione come la conquista o la tassazione, diminuisce sotto la pressione di “sollecitazioni continue, impreviste sfide e del prezzo eccessivo dell’integrazione sociopolitica”.
Segue, caratteristicamente, un periodo di difficoltà (stagnazione economica, declino politico, riduzione del territorio), cui succederà il vero e proprio crollo, a meno che non intervengano nuovi fattori.
Nel caso dell’Impero romano, delle sfide impreviste facevano parte la pressione permanente che proveniva da effettivi e da potenziali invasori, problema che l’impero non riuscì a risolvere o a contenere.
Molto, in questa analisi, ci è familiare, anche se essa poggia sulla discutibile ipotesi che lo sviluppo storico delle società sia di per sé in un certo senso storicamente determinato.
Tale teoria, perlomeno, permette agli storici romani di avere un atteggiamento più obiettivo nei confronti del proprio campo di indagine, nonché di vedere che i problemi affrontati dallo Stato tardoromano non erano unici nel loro genere e che nemmeno lo erano i tentativi, spesso inefficaci, di trovare delle soluzioni ad essi.
In questo caso particolare, bisognerebbe aggiungere a questa equazione la relativa mancanza sia di comprensione dei fatti economici che di strutture economiche, nonché l’incapacità del governo centrale, perfino dopo Diocleziano, di assicurare il benessere all’impero nella sua interezza.
L’Impero romano era da sempre in una situazione di equilibrio precario tra centro e periferia: la sua sopravvivenza era dipesa non solo dalla pace esterna, ma anche da un elevato grado di buona volontà all’interno.
Tra la fine del quarto secolo ed il quinto secolo tutti questi fattori furono messi a repentaglio.
Considerazioni come quelle svolte incitano a compiere dei confronti con il mondo moderno: questa operazione può aiutarci a capire il mondo antico solo a condizione che badiamo a stabilire paragoni tra gli elementi che si somigliano.
Nelle pagine di questo libri abbiamo notato che dietro le generalizzazioni usuali sulla società romana tardoantica si cela una grande varietà e diversità di fenomeni.
La tarda antichità fu un’epoca di rapidi cambiamenti che si manifestarono in aree diverse secondo modalità diverse.
Questa è anche una componente di rilievo per riuscire a spiegare la sopravvivenza dell’Impero d’Oriente dopo la caduta di quello d’Occidente.
Certo, nella parte orientale la ricchezza era distribuita in maniera più equilibrata e du maggiore il successo nell’allontanare la minaccia portata dai barbari del nord (a detrimento della parte occidentale).
A questo dobbiamo aggiungere il fatto che in questo periodo si impose un certo equilibrio delle forze tra l’Impero d’Oriente ed il suo maggiore rivale, la Persia sassanide; per quanto penoso od oneroso possa essere stato un singolo episodio, nessuna delle due parti cercò seriamente di distruggere l’altra.
Erano però le infinite piccole variabili locali che determinavano il quadro d’insieme.
Inoltre, sebbene ciò esuli dall’argomento di questo libro, nessuna di queste argomentazioni è in grado di dar conto della persistente capacità di sopravvivenza di Bisanzio alle disastrose catastrofi che ebbe a soffrire nel settimo secolo e nelle epoche seguenti, quando l’equilibro si infranse, sino al costituirsi dell’Impero ottomano.
Il senso del fluire ampio – ossia la longue durée – della storia si trova anch’esso celato dietro un tipo di approccio in qualche misura diverso da questo tipo di questioni.
Piuttosto che porre l’accento sulle divisioni e fratture sia l’Impero d’Oriente che quello d’Occidente possono essere considerati come qualcosa che appartiene alla più lunga storia dell’Europa e del Mediterraneo.
Questo particolare modo di affrontare i problemi ha anche il vantaggio di allontanare per un po’ le nostre menti dal problema dibattuto fino all’eccesso della fine del mondo antico, fornendoci invece la possibilità di volgere lo sguardo a particolari argomenti di discussione quali gli insediamenti, il clima, gli scambi e l’organizzazione politica all’interno di un periodo molto più lungo.
Le ricostruzioni degli storici moderni hanno anche molto a che fare con il tipo di dati che essi hanno adoperato: le fonti letterarie portano a concentrare l’attenzione su una serie limitata di questioni, tra cui quella, rilevante, del rapporto che esiste con il passato classico, mentre uno studio più ampio, basato maggiormente sulle testimonianze archeologiche e soprattutto quelle delle indagini di superficie, riesce a far sì che emergano tipi di problematiche alquanto diversi.
Visti da questa prospettiva molto più ampia, sebbene debbano certo essersi verificati dei sostanziali mutamenti politici in determinati momenti (la “crisi del terzo secolo”, seguita dalle riforme di Diocleziano, la frammentazione del governo romano in Occidente, l’invasione araba in Oriente), nessuno di questi fatti in sé modificò fondamentalmente lo status quo.
Invero, in alcune regioni dell’Impero d’Oriente si era raggiunta un’assai elevata densità di insediamenti al tempo dell’invasione araba, mentre l’effetto che quest’ultima ebbe fu all’inizio molto più limitato di quanto non si supponga di solito.
Piuttosto, questi momenti politici di svolta rappresentano delle fasi si un’evoluzione molto più lunga, alla fine della quale il baricentro si spostò verso il Nord Europa, mentre si stavano sviluppando le condizioni che portarono all’espansione ed alla crescita economica dell’età altomedievale.
In Oriente il trasferimento della capitale islamica da Damasco a Baghdad alla metà dell’ottavo secolo fu non solo di portata cruciale nel determinare il carattere del dominio islamico d’ora in avanti, ma pose anche fine agli effetti benefici dell’investimento effettuato per lungo tempo dall’Impero tardoromano nel Vicino Oriente.
In Occidente il governo imperiale romano fu sostituito da regni che gli successero, nei quali molti dei tratti peculiari del primo vennero mantenuti.
Ugualmente, in Oriente, la vita nelle regioni conquistate non fu immediatamente o totalmente cambiata dall’invasione araba.
In qualsivoglia momento la si collochi cronologicamente, la “caduta” dell’Impero romano non fu un singolo, drammatico evento che mutò l’aspetto dell’Europa e del Mediterraneo.
Il tema di questo volume è stato soprattutto il quarto secolo.
In questo periodo possiamo vedere tanto la capacità di ricupero del sistema imperiale romano, quanto l’inerzia tipica di una società premoderna.
La “crisi del terzo secolo” non sfociò in una rivoluzione, ma neppure, alla fine, gli imperatori del quarto secolo furono in grado di superare gli ostacoli che si frapponevano all’esercizio di un efficace potere.
Nello stesso periodo il cristianesimo ottenne il sostegno degli ambienti ufficiali, mentre il suo potente sistema istituzionale venne rafforzato da vantaggi legali ed economici.
Costantino aveva inconsciamente creato una Chiesa che per secoli avrebbe rivaleggiato col potere statale.
Durante il tardo impero non ebbe luogo alcuna fondamentale trasformazione economica: certo, ora la Chiesa assorbiva buona parte del surplus produttivo, proprio nel momento in cui le difficoltà di mantenere un esercito adeguato crebbero, per effetto delle pressioni esterne, ad un livello tale che il governo della parte occidentale finì per arrendersi.
I problemi politici, economici e militari che si conobbero in quest’ultima fase del sistema imperiale romano erano senz’altro, perciò, molo grandi e le fonti letterarie conservano un’eco di essi.
Da un punto di vista culturale, tuttavia, la tarda antichità fu molto diversa da ciò che questo modello suggerisce.
Diverso, mutevole, innovativo, contraddittorio: tutti questi aggettivi possono legittimamente attribuirsi al tumultuoso mondo di Ammiano Marcellino.
Per alcuni versi, si tratta di un mondo come il nostro, con i suoi rapidi cambiamenti ed il senso di trovarsi fuori posto che ad essi si accompagna.
Non è il mondo classico a noi familiare, ma è proprio questo che ne costituisce il fascino.
Bibliografia
Il tardo impero romano / A. H. M. Jones. – Il Saggiatore, 1973. – 3 v.
Il tramonto del mondo antico / A. H. M. Jones. – Laterza, 1982
Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto / P. Brown. – Einaudi, 1974
Storia sociale dell’antica Roma G. Alfoldy, . Il Mulino, 1987
Storia del mondo antico: evoluzione e declino dell’Impero romano. – Il Saggiatore/Garzanti, 1982
Storia del mondo medievale, vol. 1.: La fine del mondo antico. – Garzanti, 1983
Società romana e impero tardoantico / a cura di A. Giardina. – Laterza, 1986. – 4 v.
Storia di Roma / a cura di A. Carandini … et al. – Einaudi, 1993
Introduzione
L’Impero romano e i popoli limitrofi / a cura di F. Millar. – Feltrinelli, 1968
Storia economica e sociale dell’Impero romano / M. I. Rostovzev. – La Nuova Italia, 1976
Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel terzo secolo d. C. / M. Mazza. – Laterza, 1973
Pagani e cristiani in un’epoca d’angoscia / E. R. Dodds. – La Nuova Italia, 1970
Pagani e cristiani / R. Lane Fox. – Laterza, 1991
I cristiani e l’Impero romano / M. Sordi. – Mondadori, 1990
Cap. 1. Le fonti
Lo spazio letterario di Roma antica. – Salerno, 1989-1991. – 5 v.
Storia dell’educazione nell’antichità / H. I. Marrou. – Studium, 1966
Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo quarto / a cura di A. Momigliano. – Einaudi, 1968
Il pensiero storico classico / S. Mazzarino. – Laterza, 1965-66
Cap. 2. Il nuovo impero: Diocleziano
La corruzione e il declino di Roma / R. MacMullen. – Il Mulino, 1991
Cap. 3. Il nuovo impero: Costantino
Roma: profilo di una città / R. Krauthheimer. – Edizioni dell’Elefante, 1981
Cap. 4.: Chiesa e Stato: l’eredità di Costantino
Religione e società nell’età di Sant’Agostino / P. Brown. – Einaudi, 1975
Cap. 6. Lo Stato romano tardoantico: da Costanzo a Teodosio
L’economia romana / A. H. M. Jones. – Einaudi, 1984
La schiavitù nel mondo antico /a cura di M. I. Finley. – Laterza, 1990
Egitto e storia antica dall’ellenismo all’età araba / a cura di L. Criscuolo e G. Geraci. – Il Mulino, 1989
Cap. 7. L’economia e la società romane tardoantiche
L’inflazione nel quarto secolo d. C. – Istituto italiano di numismatica, 1993
L’economia degli antichi e dei moderni / M. I. Finley. – Laterza, 1977
Nuove questioni di Roma antica. – Marzorati
Povertà ed emarginazione a Bisanzio / E. Parlagean. – Laterza, 1986
Pellegrinaggio in terra santa / J. Wilkinson. – Nardini, 1989
Cap. 8. Le vicende militare, i barbari e l’esercito romano tardoantico
Una cultura barbarica: i germani / E. A. Thompson. – Laterza, 1976
Storia di Attila e degli unni / E. A. Thompson. – Sansoni, 1978
La grande strategia dell’Impero romano / E. Luttwak. – Rizzoli, 1987
Per la storia dell’esercito romano in età imperiale / E. Gabba. – Patron, 1974
Cap. 9. La cultura nel tardo quarto secolo
Lettura e istruzione nel mondo antico / W. V. Harris. – Laterza, 1991
Cristianesimo primitivo e paideia greca / W. Jaeger. – La Nuova Italia, 1974
La fine dell’arte antica / R. Bianchi. – Rizzoli, 1976
Cap. 10. Costantinopoli e l’Oriente
Studi sulla città imperiale romana nell’Oriente tardoantico / A. Lewin. – New Press, 1991
La società e il sacri nella tarda antichità / P. Brown. – Einaudi, 1988
Cronologia
Anni |
Occidente |
Oriente |
|||
224 |
|
Comincia la dinastia sassanide |
|||
241-272 |
|
Shahpur 1. |
|||
253-260 |
Valeriano |
|
|||
253-268 |
Gallieno |
|
|||
259-274 |
Impero gallico |
|
|||
272 |
Aureliano prende Palmira |
|
|||
284-305 |
|
Diocleziano |
|||
301 |
|
Editto dei prezzi |
|||
306 |
Costantino proclamato imperatore a York |
|
|||
312 |
Battaglia di Ponte Milvio |
|
|||
313 |
|
Editto di Milano |
|||
314 |
Concilio di Arles |
|
|||
324 |
|
Costantino sconfigge Licinio |
|
||
325 |
|
Concilio di Nicea |
|
||
330 |
|
Dedicatio di Costantinopoli |
|
||
337 |
|
Morte di Costantino |
|
||
350-353 |
|
Gallo Cesare |
|
||
350-353 |
Magnenzio in Britannia |
|
|
||
357-359 |
Giuliano Cesare in Gallia |
|
|
||
359 |
|
Shapur 2. Cattura Amida |
|
||
361-363 |
|
Regno di Giuliano |
|
||
362-363 |
|
Spedizione di Giuliano contro la Persia |
|
||
364 |
|
Gioviano cede Nisibi |
|
||
364-375 |
Valentiniano 1. |
|
|
||
364-378 |
|
Valente |
|
||
378 |
|
Battaglia di Adrianopoli |
|
||
379-395 |
|
Teodosio 1. |
|
||
381 |
|
Concilio di Costantinopoli |
|
||
382 |
Teodosio insedia i goti come federati |
|
|
||
384 |
Graziano fa rimuovere l’altare della vittoria dal senato |
|
|
||
387 |
|
Sommossa di Antiochia |
|
||
392 |
Rivolta di Eugenio |
|
|
||
394 |
Battaglia del fiume Frigido; suicidio di Nicomado Flaviano |
|
|
||
395 |
Onorio regna in Occidente |
Arcadio regna in Oriente |
|
||
395-430 |
Agostino vescovo di Ippona |
|
|
||
398 |
|
Giovanni Crisostomo vescovo di Costantinopoli |
|
||
403 |
|
Primo esilio di Crisostomo |
|
||
404 |
|
Crisostomo viene deposto |
|
||
408 |
Caduta e morte di Stilicone |
|
|
||
410 |
Alarico e i visigoti prendono Roma |
|
|
||
429 |
I vandali si spostano in Africa |
|
|
||
430 |
Morte di Agostino |
|
|
||
Imperatori da Gordiano 1. a Teodosio 2.
I nomi in parentesi quadre sono quelli degli usurpatori, cioè degli imperatori non ritenuti legittimi; non tutti sono stati inclusi.
Le dare che si sovrappongono indicano regni congiunti
238 |
Gordiano 1. |
238 |
Gordiano 2. |
238 |
Balbino |
238 |
Pupieno |
238-244 |
Gordiano 3. |
244-249 |
Filippo l’Arabo |
249-251 |
Decio |
251-253 |
Treboniano Gallo |
251-253 |
Volusiano |
253-260 |
Valeriano |
253-268 |
Gallieno |
259-268 |
[Postumo] |
267-268 |
[Vittorino] |
270-274 |
[Tetrico] |
268-270 |
Claudio 2. Gotico |
270 |
Quintillo |
270-275 |
Aureliano |
275-276 |
Tacito |
276 |
Floriano |
276-282 |
Probo |
282-283 |
Caro |
283-285 |
Cario |
283-284 |
Numeriamo |
284-285 |
Diocleziano |
286-305, 307-310 |
Massimiano |
286-293 |
[Carausio] |
293-296 |
[Alletto] |
305-306 |
Costanzo 1. Cloro |
305-311 |
Galerio |
306-307 |
Severo |
306-337 |
Costantino 1., f. di Costanzo 1. |
308-324 |
Licinio |
308-313 |
Massimino, nipote di Galerio |
337-340 |
Costantino 2., f. di Costantino 1. |
337-350 |
Costante., f. di Costantino 1. |
337-361 |
Costanzo 2. ., f. di Costantino 1. |
350-353 |
[Magnenzio] |
350 |
[Vetranione] |
350 |
[Nepoziano] |
361-363 |
Giuliano |
363-364 |
Gioviano |
364-375 |
Valentiniano 1. |
364-378 |
Valente, fratello di Valentiniano 1. |
365-366 |
[Procopio] |
367-383 |
Graziano, f. di Valentiniano 1. |
379-395 |
Teodosio 1. |
383-387 |
[Magno Massimo] |
392-394 |
[Eugenio] |
383-408 |
Arcadio, f. di Teodosio 1. |
393-423 |
Onorio, f. di Teodosio 1. |
408-450 |
Teodosio 2., f. di Arcadio |
Storia romana di Marcel Le Glay, Jean-Louis Voisin, Yann Le Bohec
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Introduzione
Il sito, lo sviluppo e tutta la storia di Roma sono stati condizionati, in larga parte, dalla posizione geografica.
Delle tre grandi penisole mediterranee, l’Italia è la più favorita grazie alla posizione centrale tra la penisola iberica e quella greca; è anche la meno grande e quella maggiormente protesa nel mare, pur risultando ben saldata al continente europeo attraverso la ricca pianura del Po.
Da ciò il suo ruolo di cerniera tra le correnti di scambio e le correnti culturali provenienti dai due bacini del Mediterraneo come anche tra i popoli provenienti dal nord e quelli del mare.
Il bacino orientale è da millenni il cuore di grandi civiltà e spesso di imperi che si sono contesi il controllo delle sue acque e dei suoi circuiti commerciali: a sud l’Imperi egiziano dei faraoni; a est le città fenicie che dominano la zona costiera; a nord i micenei i quali, eredi della civiltà cretese, a partire dalla seconda metà del secondo millennio a. C. si sono avventurati lungo le coste della Sicilia, dell’Italia meridionale, dell’Etruria e del mare Adriatico.
Da queste loro esplorazione derivano le descrizioni spesso precise delle coste italiche presenti nell’Odissea.
A loro volta, a partire dall11. secolo a. C., i fenici – abili commercianti – devono essere penetrati nel bacino occidentale del Mediterraneo.
In ogni caso, nell’8. secolo costoro hanno fondato basi commerciali in Sicilia, in Sardegna, nell’Africa settentrionale (Utica, Cartagine) e nella penisola iberica (Cadice).
Nella stessa Roma, una colonia di Tirii ha potuto stabilirsi nell’8.-7. secolo nel Foro Boario.
I greci li seguono facendo loro concorrenza non solo in Sicilia e nell’Italia meridionale: il loro movimento colonizzatore raggiunge anche la Gallia meridionale (Marsiglia è fondata dai focei dell’Asia Minore intorno al 600 a. C.) e quindi la penisola iberica.
Il bacino occidentale, invece, risulta circondato da genti molto diverse, che vivono per lo più raccolte in tribù o in popoli, legate ad un’economia sostanzialmente agricola, con una cultura ed una religione strettamente connesse alle loro preoccupazioni quotidiane e guerriere, ciò che non vuol dire “primitive” nel senso peggiorativo del termine.
Nelle regioni litoranee del Maghreb, i popoli berberi (libii, numidi, mauri), sedentari consumatori di cereali, non vivono, come si è creduto, completamente “ai margini della storia”; costoro hanno potuto avere, da un lato – a est – contatti con la Sicilia, dall’altro – a ovest – contatti con la penisola iberica e, in ogni caso, certamente hanno avuto contatti con i fenici: la civiltà punica (o dei fenici dell’ovest) s’impose nella Tunisia orientale con la ricca Cartagine, altrove sotto forma di basi commerciali disseminare lungo le coste da un lato fino ai confini della Cirenaica, dall’altro almeno fino all’attuale Marocco meridionale.
La penisola iberica, dove un contrasto impressionante oppone le fertili pianure costiere agli altipiani dell’entroterra, è occupata da popoli con culture assai diversificate.
Iberi e celtiberi, popolazioni del nord, raggruppate intorno ai loro castros, non hanno in comune quasi altro che l’attaccamento ai loro capi (militari) e il carattere religioso.
A partire dall’8. secolo i grandi centri minerari sono in attività, soprattutto nella valle del Guadalquivir (regno di Tartesso); sono proprio questi centri minerari che hanno attirato i fenici e poi i greci.
Nella Gallia meridionale, i popoli liguri e celto-liguri a est ed i popoli iberici e celtiberici dell’ovest, talora riuniti in confederazioni, spesso animati da un’aristocrazia di capi riconosciuti dalla collettività, a partire dal 7. Secolo sono stati messi in contatto con il mondo greco dai commercianti rodii e soprattutto dai coloni focei fondatori di Massilia, che si spingono in seguito ad ovest fino ad Ampurias (emporion = base commerciale), ad est fino a Nizza (Nikaia) e Antibes (Antipolis).
Come mostrano i rinvenimenti archeologici, relazioni commerciali furono strette da questi popoli anche con i greci della Magna Grecia e con gli etruschi.
Non va trascurato l’entroterra, per le grandi migrazioni che ne hanno spesso rivoluzionato la storia e trasformato il popolamento.
Per limitarsi agli ultimi millenni prima della nostra era e alle migrazioni di popoli che hanno interessato i territori toccati più tardi da Roma e dalla sua cultura, si ricorderanno:
- a sud l’azione die popoli del mare e del deserto
- a nord le invasioni indoeuropee e soprattutto celtiche
I “popoli del mare” sono già stati ricordati a proposito dei fenici e dei greci.
Senza dire delle tradizioni leggendarie, che spesso oscurano la storia, i testi letterari e l’archeologia evidenziano, durante l’età del bronzo, l’arrivo degli ibero-liguri e, per esempio, in Sicilia l’arrivo di sicani e siculi (forse un unico popoli di conquistatori).
Per alcuni, i siculi darebbero le popolazioni primitive dell’Italia.
Per quanto riguarda i popoli del deserto, a partire dalla seconda metà del secondo millennio si affermano gli “equidi”, allevatori di cavalli e conduttori di carri, che divenuti brillanti cavalieri (getuli e garamanti), sono gli avi dei tuareg.
La loro presenza nel Sahara e la loro attività militare e commerciale, con il controllo sovente delle relazioni tra popolazioni nomadi e popolazioni sedentarie, influiranno profondamente sulla storia del Maghreb.
A nord, sempre nel secondo millennio, le invasioni indoeuropee portano ugualmente verso i paesi mediterranei popoli incineranti che utilizzano cavalli e carri.
E’ difficile ricostruire e datare i loro movimenti.
Si constata l’esistenza di estesi campi d’urne i Slesia e in Pannonia (l’attuale Ungheria) intorno al 1300-1200 a. C.
Dopo il 1000, questa civiltà dei campi d’urne declina lentamente fino all’ottavo secolo.
Trionfa allora la civiltà di Halstatt (in Stiria) nella prima età del ferro.
In Italia, i latini sono probabilmente i più antichi popoli indoeuropei giunti nella penisola.
Solo una parte di costoro si installa nel Lazio, mentre un’altra parte si dirige in Sicilia.
Sedentarizzandosi, praticheranno d’ora in avanti l’inumazione.
All’inizio del quinto secolo a. C., quando la cultura di Halstatt è al suo epilogo, emerge una nuova cultura, detta di La Tène (dal nome di un sito archeologico svizzero), corrispondente alla seconda età del ferro.
E’ questo il momento della Dama di Vix e della formazione della “nazione” gallica, caratterizzata da una produzione artistica originale, da un artigianato evoluto e da una religione peculiare in cui si mescolano forze naturali e animali divinizzate con divinità antropomorfe, e dove i miti e i riti si conservano all’insegnamento orale dei druidi.
L’arrivo dei popoli indoeuropei, in ondate che non si arrestano nel 5.-4. secolo, è uno degli avvenimenti maggiori della storia dell’Occidente.
Esso avrà profonde ripercussioni sul popolamento dell’Italia.
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Parte prima. Dalle origini all’Impero
I conseguimenti di Roma, spesso definiti come “il miracolo romano”, consistono in questo: un semplice villaggio del Lazio inizia con il dominare gli altri villaggi latini, poi stabilisce la sua autorità sulla penisola italiana per poi imporsi all’universo conosciuto per almeno otto secoli.
Tra tutte le domande che pone il destino storico di Roma risalta immediatamente quella delle origini, problema interessante ma difficile.
Tanto più difficile in quanto contornato da numerose leggende (quella di Romè, figlia di Telefo, a sua volta figlio di Eracle, che avrebbe fatto di Roma una città etrusca; quella di Romos, figlio di Ulisse, secondo cui la città sarebbe stata greca!), l’origine del villaggio latino non è ricordata che da un numero assai ridotto di documenti certi.
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Cap. 1. L’Italia nell’8. secolo a. C., ovvero l’Italia prima di Roma
Alla metà dell’ottavo secolo, nel momento in cui la tradizione fissa la fondazione di Roma, l’Italia presenta un mosaico di popoli, di cui alcuni sono ormai da tempo stabilmente stanziati, mentre altri sono ancora in movimento.
Tra costoro si installano due popoli e due civiltà che vanno rapidamente a dominare il nord ed il sud della penisola: gli etruschi e i greci, che assai presto hanno iniziato ad esercitare una profonda influenza sul nascente villaggio che sta per diventare Roma.
Con i fenici che impiantano le loro basi commerciali e i greci che fondano le loro colonie, è l’Oriente che si assicura il predominio nel bacino mediterraneo occidentale.
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Le culture dell’Italia primitiva
Esse sono meno diversificate di quanto lo siano i popoli stessi.
Sarebbe tuttavia sbagliato opporre senza mezzi termini le culture dei popoli autoctoni o quanto meno appartenenti al sostrato mediterraneo a quelle dei popoli di origine indoeuropea.
Non si può più mantenere la divisione, ammessa ancora di recente, tra coloro che praticavano esclusivamente l’inumazione (i primi) e coloro che facevano ricorso solo alla cremazione (i secondi).
Al più, si può parlare di costume dominante; assai presto si sono avute delle fusioni.
Si trova una necropoli villanoviana a incinerazione – i villanoviani utilizzavano per le ceneri dei loro morti delle urne biconiche – a Fermo.
Ma se ne trovano anche nella Campania meridionale, nella provincia di Salerno.
Presso un popolo, la cremazione e l’inumazione talora si praticano contemporaneamente, talora si succedono nel tempo.
I riti funerari non costituiscono sempre, dunque, un criterio per definire l’appartenenza etnica.
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Regna, invece, una assai grande varietà di lingue anche se alcune mostrano affinità.
Appartengono, per la maggioranza, alla famiglia delle lingue indoeuropee.
E l’esistenza in Italia di una lingua indoeuropea molto arcaica è stata confermata dai linguisti.
Si tratta di un elemento culturale essenziale per il presente ed il futuro.
E’ in effetti significativo che il latino abbia conservato le parole indoeuropee che designano le forme più antiche della vita religiosa, della vita costituzionale e della vita familiare: è il caso di rex, flamen, credo, pater, mater, ecc.
Oltre al latino, era parlato il falisco, il veneto – noto anche per le iscrizioni delle stele votive di Este -, l’umbro delle tavole di Gubbio e, ad esso apparentato, l’osco utilizzato da tutti i popoli del sud-ovest.
Sabini, marsi, volsci e piceni avevano ugualmente loro specifici dialetti.
A queste lingue indoeuropee sono estranei il ligure (anche se permeato da elementi presi in prestito da esse) nonché il messapico e lo iapigio di cui si sono viste le affinità con l’illirico.
A parte è infine l’etrusco di cui si tornerà a parlare.
Tra queste culture diversificate ma vicine, una se ne distacca nettamente per il suo carattere avanzato e il suo splendore, ed è la cultura etrusca.
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La cultura etrusca
Questa civiltà originale nell’ambito della penisola è caratterizzata da tre elementi principali.
Innanzitutto è una civiltà urbana.
In un’Italia di villaggi, solo l’Etruria conosce la città, fondata ritualmente, dotata di uan cinta muraria, di porte, di templi in pietra (tutto questo sarà trasmesso all’urbanistica romana); essa è addirittura una federazione di dodici città-stato che hanno propri magistrati che, in caso di difficoltà, si sottomettono a un dittatore (macstrna = mastarna): è ciò che si è prodotto a Roma alla fine del regno dei primi tarquini con l’arrivo al potere di Mastarna = Servio Tullio (?).
Una struttura urbana implica naturalmente delle istituzioni politiche e sociali.
Governati all’inizio da re (lucumoni), circondati dai fasci, simboli del loro potere, e dotati di insegne ben note (la corona d’oro e lo scettro sormontato dall’aquila), i popoli etruschi sostituiscono loro, nel corso del quinto secolo, magistrati annuali o zilath (in latino praetores); ciò fa pensare naturalmente ad una successione politica monarchia-repubblica come quella che proprio agli inizi del quinto secolo ha luogo a Roma.
Quanto alla società etrusca, essa è patrizia e quasi feudale: da una parte vi è una classe id nobili che costituisce l’oligarchia dei principes, dei notabili, che detengono il potere nelle città fin quando la plebe rurale non vi si introduce con la forza, dall’altra un’immensa classe servile, con la possibilità per gli schiavi di diventare liberti e, una volta tali, di legarsi alla clientela dei grandi.
In secondo luogo, in una Italia rurale primitiva, costituisce uan civiltà materialmente e tecnicamente evoluta: gli etruschi praticano il drenaggio dei suoli e l’irrigazione grazie ad una avanzata scienza idraulica.
Inoltre, un artigianato di qualità, che non ignora le tecniche greche, permette loro di sfruttare – attraverso pozzi e gallerie – i giacimenti di stagno, di rame e di ferro dell’isola d’Elba e id utilizzarli poi a fini commerciali.
Tra i prodotti più notevoli vi sono le armi, gli utensili e gli oggetti domestici in bronzo e in ferro (soprattutto gli specchi e le ciste), ma anche la ceramica (in particolare l’impasto e il bucchero).
La loro cultura, infine, nel contempo nazionale ed eclettica, assicura loro un primato incontestabile in tre ambiti.
Innanzitutto quello religioso. Si tratta dell’ambito meglio conosciuto ma anche più enigmatico.
Per gli etruschi la religione è rivelata; e lo è stata tramite i profeti, il principale dei quali è Tagete.
Si tratta, dunque, di una religione dei libri (e non “del” libro come la Bibbia degli ebrei): dei libri sacri che trasmettono una volta per tutte la religione fissando le prescrizioni relative al rituale e fissando la vita delle città e degli uomini (libri rituales), l’arte e il modo di analizzare i visceri delle vittime sacrificali (libri haruspicinalis), le conoscenze necessarie per la discesa dell’uomo nell’aldilà (libri acheruntici), costituendo tutto ciò una scienza, la disciplina etrusca.
Si tratta, dunque, di una religione molto ritualista: il celebre fegato in bronzo di Piacenza, immagine del cielo suddiviso in caselle, ciascuna delle quali segnata con il nome di una divinità, serviva come riferimento nell’epatoscopia, nell’esame – cioè – del fegato degli animali offerti agli dèi.
Era, infine, una religione ben organizzata: al di sotto di una triade (Tinia = Giove; Uni = Giunone; Menrva = Minerva), venerata in templi della cella tripartita (come sarà il tempio di Giove Capitolino a Roma), vi era tutto un pantheon di divinità assimilate alle divinità greche: Voltumna / Vertumnus, “la prima divinità dell’Etruria” secondo Varrone, Turan = Afrodite, Fufluns = Dionisio, Turms = Ermes, Sethlaus = Efesto, Hercle = Eracle, Maris = Marte, Nethuns = Nettuno ecc.
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La lingua etrusca non è più considerata oggi una lingua indoeuropea; si cercano affinità con il basco, il caucasico e con i dialetti preellenici soprattutto.
Certo essa rivela tracce di imprestiti anche dai dialetti greci e italici.
Ci è nota da circa 10000 iscrizioni: purtroppo, si tratta soprattutto di brevi epitaffi, di età tarda, che non permettono grandi progressi nella conoscenza della lingua.
L’ultima scoperta (le iscrizioni bilingui – in etrusco e punico – rinvenute a Parigi) è stata per tale aspetto deludente.
Gli etruschi avevano tuttavia un alfabeto che hanno diffuso in Italia, regione che da loro ha imparato a leggere.
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L’Oriente conquista l’Occidente
Mentre gli etruschi si stabilivano a nord del Tevere e rapidamente estendevano il loro controllo fino alla pianura Padana verso nord e fino in Campania verso sud, due altri popoli prendevano piede in Italia: i fenici e i greci.
I loro insediamenti testimoniano la vitalità dell’Oriente e la sua forza di espansione nel bacino occidentale del Mediterraneo.
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L’insediamento e l’influenza fenicia
Si è più di una volta insistito su uno specifico apporti dei fenici alla civiltà occidentale: l’alfabeto che era in uso a Biblo alla fine del secondo millennio è all’origine sia dell’alfabeto greco che dell’alfabeto etrusco da cui deriva quello latino.
I fenici hanno dunque insegnato a scrivere agli etruschi che, a loro volta, l’hanno insegnato ai romani.
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I greci in Italia e in Sicilia
L’arrivo dei greci in Occidente e, in particolare, nell’Italia meridionale e in Sicilia, assai meglio cnosciuto grazie alle testimonianze letterarie ed alle vestigia archeologiche, costituisce uno degli avvenimenti principali nella storia del Mediterraneo nel primo millennio a. C.
La colonizzazione greca ha avuto inizio nel corso dell’ottavo secolo nel mar Tirreno come nel mare Egeo e lungo le coste del mar Nero.
Cuma sembra essere stata, nel contempo, assieme a Ischia, la più settentrionale e la più antica delle fondazioni coloniali (intorno al 770).
Altre colonie, prima di origine calcidese, poi megarese, corinzia, achea, spartana, e quindi rodia, cretese e ionica (dell’Asia Minore), saranno fondate tra Cuma e Rhegion (Reggio Calabria) da un lato, fino oltre Taranto dall’altro così come lungo le coste della Sicilia, con una tale densità di insediamenti che Polibio, per definire questa parte dell’Italia meridionale ellenizzata, ha usato l’espressione di Magna Grecia, ripresa poi da Cicerone che ricorderà “questa antica Grecia d’Italia, che in passato fu chiamata la Grande”; ed infatti il nome deve risalire al sesto secolo.
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Il processo di ellenizzazione non ha interessato che le zone costiere e, ad un grado inferiore, il retroterra dove i calcidesi, ad esempio nell’Italia centrale, devono avere introdotto la coltura dell’olivo.
Questo processo ha riguardato anche Roma.
Si è osservato che la data tradizionale della fondazione di Roma (754/ 753 a. C.) corrisponde più o meno con la data della fondazione dell’achea Sibari (750 a, C.) e che la dine dell’età regia coincide, sempre secondo la tradizione, con la caduta di Sibari (510 a. C.).
E’ un caso?
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Cap. 2. La formazione di Roma: da Romolo ai tarquini
Sul piano storico è ancora molto difficile pronunciarsi sugli inizi, zeppi di leggende, di Roma.
Pure, su questo fondo di leggende, le scoperte archeologiche forniscono alcuni punti di riferimento cronologico.
Ed anche se non si possono considerare sicuri i nomi dei primi re, risulta molto chiaro che a dei re di origine latina e sabina, agli inizi del sesto secolo si sono sostituiti dei sovrani di origine etrusca ai quali si deve l’organizzazione urbana di ciò che fino ad allora non era che un insieme di villaggi.
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Alla svolta epocale del sesto secolo si collegano le straordinarie scoperte archeologiche effettuate di recente nel Lazio, a Pratica di Mare, sul sito di Lavinio: quattordici altari monumentali, di una sepoltura sacra (che si è chiamato l’heroon di Enea), iscrizioni votive tra cui la dedica arcaica in greco a Castore e Polluce ed un abbondante serie di statue e statuette di Minerva, il tutto databile al quarto-quinto secolo a. C.
A quest’epoca l’influenza greca ed il ricordo di Enea erano manifesti nel Lazio, dove Lavinio appare come un importante centro religioso che molto ha dato alla religione arcaica romana.
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Tra le ipotesi interpretative delle origini di Roma, ha rilievo quella elaborata da G. Dumézil, tanto brillante quanto criticata.
Per il Dumézil la storia dei re è pura mitologia.
E’ l’espressione storicizzata della tripartizione funzionale che si trova alla base di ogni sistema politico, sociale e religioso dei popoli indoeuropei.
Secondo lo studioso, questi popoli hanno in comune tre organismo gerarchizzati, imposti da una struttura ideologica comune: questi tre organismi rappresentano e assicurano le tre funzioni essenziali della sovranità religiosa, della potestà militare e della forza produttiva.
Da ciò deriverebbe una società costituita da coloro che detengono il potere politico-religioso (re, magistrati, sacerdoti) la cui divinità è Giove, dio della sovranità, da coloro che assicurano la difesa militare, con Marte, dio della guerra, e da coloro che assicurano la produzione (agricoltori, pastori, artigiani) che hanno in Quirino la divinità che presiede a tale funzione.
Da questo stato di cose risalente nel tempo deriva, a Roma, il collegio dei tre flamini maggiori: di Giove, di Marte e di Quirino.
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Il grande momento della storia delle origini di Roma corrisponde al momento dell’acquisizione del controllo da parte degli etruschi nel sesto secolo, momento in cui Roma nasce come città
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La Roma etrusca
La nascita di Roma come città e come centro urbano organizzato è legata all’insediamento etrusco nell’Italia centro-meridionale e all’avvento di una dinastia proveniente dall’Etruria.
Sallustio ne ha reso conto agli inizi della sua Congiura di Catilina (6), dove contrappone l’epoca regia all’”orgogliosa tirannia” straniera che le aveva fatto seguito.
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La nascita della città
Ma il principale apporto della dominazione etrusca è stato urbano; al sesto secolo risale la “fondazione” della città di Roma
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La formazione della città
La vera rivoluzione, avvenuta nel corso della dominazione etrusca, più che nella “fondazione” di una Urbs (la parola sembra essere di origine etrusca), risiede nell’organizzazione di una città con i suoi quadri amministrativi e le sue istituzioni politiche e sociali.
La parte essenziale di questa opera è attribuita alle riforme serviane, di cui Livio (1., 43) e Dionigi di Alicarnasso (4., 16 e ss.) hanno tramandato un quadro preciso.
Così preciso che dei tre sovrani etruschi Servio Tullio è quello che si conosce meglio.
Per alcuni, Servio è uno straniero, un ex schiavo (servus) divenuto genero di Tarquinio grazie alla moglie di costui, Tanaquilla, una donna energica, che in seguito aiuterà la sua scalata al potere.
Per altri, in particolare per l’imperatore etruscologo Claudio, specialista di storia etrusca, costui era un condottiero, forse etrusco, chiamato Mastarna (= il dittatore), amico dei principi di Vulci, il quale sarebbe reso signore di Roma dopo aver eliminato il partito dei Tarquini.
In ogni caso, è a Servio Tullio che viene attribuita l’organizzazione di Roma in città, avvenimento che costituisce il fenomeno più importante della storia del sesto secolo.
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In questo modo trionfa un sistema censitario, che richiama la riforma di Clistene ad Atene.
Questo sistema si esprime politicamente nell’istituzione dei comizi centuriati (sui quali torneremo dopo) e, anche, in una nuova organizzazione militare.
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Già la salita al potere facendo uso della forza, contro la volontà dei patres e facendo leva sul popolo aveva avvicinato Tarquinio alla figura del “tiranno” greco.
Impedendo la sepoltura di Servio Tullio, Tarquinio aveva commesso, come nota Tito Livio, una grave offesa ed un sacrilegio.
In seguito il suo comportamento aveva ulteriormente accentuato l’accostamento al tyrannos, che gli autori antichi non hanno mancato di forzare (i Pisistratidi di Atene sono suoi contemporanei!).
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Malgrado Tacito, si deve ammettere che L. Bruto è un personaggio costruito che non ha nulla a che vedere con l’espulsione dei Tarquini.
Questa è il risultato di un declino della potenza etrusca, di un risveglio dei popoli italici e di movimenti interni nelle colonie della Magna Grecia (la distruzione di Sibari è contemporanea).
La partenza di Tarquinio è infatti dovuta all’intervento del re di Chiusi Porsenna, probabilmente nel 509-508.
Rifugiatosi in un primo momento a Tusculum, l’ultimo re etrusco dovette morire a Cuma nel 495.
Quanto alla nascita della Repubblica, essa è la conseguenza di un sussulto dell’aristocrazia (diciamo anzi del patriziato) di Roma contro uan dominazione straniera e tirannica e non ebbe luogo, forse, prima del 504 secondo alcuni, prima del 480-475 secondo altri.
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La religione di Roma arcaica
Da tutto ciò si ricaverà che già in epoca così risalente era organizzato un culto pubblico, quasi ufficiale, operante in diversi punti della città e che il re era, come si è detto, “molto presente nel campo del sacro” (J. Scheid).
Su questo punto l’archeologia conferma le fonti letterarie.
Detto questo, è possibile riconoscere le diverse componenti di una religione già organizzata nel settimo-sesto secolo, periodo prima del quale dobbiamo riconoscere che si ignora tutto o quasi.
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A partire dal 509 (tempio di Giove capitolino), Roma si riempie di templi: di Saturno nel 496, di Mercurio nel 495, di Cerere, Libero e Libera nel 493, dei Dioscuri nel 484.
Si è così formata una religione “nazionale” che fa di Roma una città sacra, ben cosciente della sua superiorità religiosa che utilizzerà come lievito della propria potenza.
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Cap. 3. Due secoli oscuri (e reinventati?): il quinto e il quarto secolo a. C., ovvero la giovinezza di Roma
La fortuna di Roma è stata di raggiungere la condizione urbana e lo stato di città che la misero in grado di beneficiare delle influenze della civiltà greca, poi di conoscere un primo sviluppo, nel momento in cui iniziava a declinare la potenza etrusca e scoppiavano rivalità tra le colonie greche.
Roma è stata senz’altro aiutata dalle circostanze.
Nondimeno, i due secoli che fanno seguito alla cacciata dei tarquini sono nella sua storia “secoli oscuri”.
Essi ci sono noti solo per grandi linee.
Ciò dipende non solo dalla povertà delle fonti letterarie e archeologiche ma anche dall’”orgoglio nobiliare” (J. Heurgon) delle gentes che hanno voluto riscrivere la storia per darsi antenati famosi.
Per questo motivo esse hanno interpolato dei nomi, inserendo nei Fasti, tra i generali trionfatori e i consoli, antenati fittizi.
Nonostante queste difficoltà, si può seguire la nascita, talora tumultuosa, della Repubblica segnata soprattutto dall’istituzione del consolato e dalle prime lotte contro i popoli del Lazio.
Ciò non accade senza difficoltà interne e nelle relazioni con i suoi vicini.
Anzi, tra il 450 e il 390, Roma è su entrambi i piani alla ricerca di un equilibrio.
Equilibrio che ha trovato non senza affanni nell’organizzazione delel sue istituzioni politiche e nell’organizzazione sociale attraverso la formazione di una nuova “nobiltà”.
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La nascita della Repubblica
Scoperte archeologiche recenti avvenute nel Lazio, a Lanuvio, a Satrico (40 km a sud di Roma), a Faleri (Civita Castellana) mostrano che fino agli anni 480-475 lì come nell’area etrusca (Veio, Tarquinia) operano delle officine etrusco-greche che producono statue cultuali e terrecotte architettoniche di qualità.
Si è potuto parlare di una “febbre architettonica e religiosa” di ispirazione etrusca e greca, che prova come – nonostante i conflitti – l’influenza di questi due mondi rimanesse predominante.
Questi conflitti sono legati a questioni di frontiera.
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Difendendosi contro i suoi potenti vicini Roma ha iniziato a stabilire la sua autorità sul Lazio.
E ciò nonostante i conflitti interni talora acuti.
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Sembra che effettivamente il periodo dal 509 al 486 sia stato segnato da una forte agitazione politica: soprattutto la secessione della plebe sul monte Sacri, al di là dell’Aniene, secondo altri sull’Aventino, datata generalmente al 494.
Secessione pericolosa per il patriziato privato delle braccia dei lavoratori manuali, come per lo Stato, minacciato dalla creazione di uno Stato rivale, in grado di allearsi con i nemici di Roma visto che molti plebei erano di origine straniera.
La secessione sarebbe stata seguita dalla nomina dei primi tribuni della plebe, inizialmente due, poi quattro nel 471 secondo Diodoro che sembra considerare questi ultimi come i più antichi.
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I Decemviri e la loro opera: la legge delle 12 tavole
La metà del quinto secolo, con la creazione del Decemvirato, segna un momento decisivo nella storia delle istituzioni e della civiltà romana.
Per ottenere una legislazione scritta ed uno statuto che mettessero fine all’arbitrio dei consoli e ai privilegi del patriziato, i plebei iniziarono una lunga lotta.
Secondo la tradizione, a partire dal 471, la plebe si sarebbe organizzata con una assemblea popolare strutturata sulle tribù territoriali (all’epoca 4 urbane e 21 rustiche); queste assemblee della plebe (concilia plebis), convocate dai tribuni, avrebbero iniziato a prendere decisioni.
Sempre secondo la tradizione, a partire dal 462, il tribuno Terentilio Arsa avrebbe agito per ottenere “leggi scritte che fissino l’imperium”, vale a dire i limiti del potere consolare.
Il patriziato finì con il cedere.
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Lo scopo dei legislatori era stato quello di far trionfare l’uguaglianza dei diritti tra tutti i cittadini.
Come si ricava dal loro titolo (decemviri legibus scribundis) si trattava anche di sostituire il diritto consuetudinario con un diritto scritto.
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La restaurazione della Repubblica nel 449 portò al potere due consoli, L. Valerio e M. Orazio che, secondo la tradizione, fecero votare tre leggi mediante le quali la costituzione romana diventò patrizio-plebea.
………………
A partire da questo momento, in pratica, si assiste a due importantissime innovazioni:
- l’introduzione della collegialità consolare
- il riconoscimento ufficiale dell’intercessione tribunizia:
i tribuni, se sono unanimi, possono ormai bloccare una decisione dei consoli se la giudicano contraria agli interessi della plebe.
Solo il dittatore, durante il suo breve imperium, sfugge all’intercessio dei tribuni.
Le tre leggi Valeriae Horatiae riconoscono ufficialmente le conquiste della plebe.
La Roma patrizia rinunciava alla sovranità dell’imperium consolare.
Si comprende che Polibio abbia datato a questo momenti la seconda fondazione della costituzione romana.
Ma un punto essenziale continuava a non essere regolato: l’accesso della plebe al consolato, la magistratura suprema.
Nulla l’impedisce, nulla lo autorizza.
Fondandosi sulla tradizione (il mos maiorum o diritto atavico), il patriziato vuole mantenere il suo monopolio.
Da parte sua, la plebe si mobilita per spezzare tale monopolio.
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Alla ricerca di un equilibrio, 449-312
L’esame dei Fasti è rivelatore dei conflitti che sul problema dell’accesso della plebe al consolato hanno opposto i plebei al patriziato fino al 367, data del compromesso licinio-sesto.
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Questa nuova nobiltà riesce a dare alla Repubblica l’equilibrio tanto ammirato da Polibio e che le doveva permettere di lanciarsi alla conquista del mondo.
Ricerche relativamente recenti hanno in effetti messo l’accento su un certo declino dell’antico patriziato e sull’apparizione di famiglie patrizie più aperte, coem quella dei Fabii, che non disdegnavano più di allearsi con le famiglie plebee (C. Licinio sarebbe diventato lui stesso genero di un Fabio!).
Contemporaneamente emergevano alcune famiglie plebee per ricchezze e considerazione.
Si costituirono in questo modo un “partito di centro” e, nella società, una nuova nobilitas composta da coloro che – patrizi e plebei – avevano un avo che avesse rivestito una magistratura curule (edilità, pretura e, soprattutto, consolato).
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Dopo le riforme decemvirali e le conquiste democratiche che le hanno seguite, le istituzioni della Repubblica romana restano quelle di una repubblica aristocratica, governata da un Senato, affiancato da magistrati che dirigono lo Stato, mentre le assemblee del popolo intervengono nell’elezione dei magistrati e nella votazione delle leggi.
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I due consoli sono per certi versi i presidenti della Repubblica.
Hanno l’imperium domi militiaeque, e cioè un potere sovrano, politico, giudiziario e coercitivo all’interno del pomerium (il confine sacro di Roma) – l’imperium domi – al quale si aggiunge un potere sovrano, militare e giurisdizionale nell’ambito extra-urbano – l’imperium militiae.
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Cap. 4. La crescita di Roma repubblicana
Agli inizi del terzo secolo a. C., dopo la terza guerra sannitica, non c’è che uno Stato che si estende dal Tevere fino a Cuma e dal mar Tirreno fino al lago Fucino.
Roma appare adesso come una città che è riuscita a dominare i conflitti politici interni e che possiede istituzioni equilibrate.
Se nell’ambito sociale non tutto è stato risolto, al sua espansione territoriale le permette già uno sviluppo economico che crescerà ancora ed un rafforzamento in termini militari via via che nuove conquiste le si aprono davanti.
Il fatto è che Roma si trova sempre più coinvolta nella politica italica, soprattutto nell’Italia meridionale.
Ciò comporta che si moltiplichino i contratti con il mondo greco, determinando sia una ellenizzazione nell’ambito artistico e religioso, in piena trasformazione, sia un coinvolgimento sempre più attivo nella politica mediterranea.
Qui gli interessi romani vanno ad incontrarsi e a scontrarsi con gli interessi cartaginesi che predominano largamente nel bacino mediterraneo occidentale.
Da ciò nasce un conflitto tra Roma e Cartagine che per la sua durata, la sua violenza, i mezzi messi in campo e il successivo coinvolgimento di quasi tutte le genti che si affacciavano sul Mediterraneo, ha assunto le dimensioni di una crisi di cambiamento decisiva per l’Occidente.
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Gli anni 348-338 hanno segnato un momento cruciale nella marcia di Roma verso il controllo della penisola e l’impegno sui mari.
Sono probabilmente le sue buone relazioni con Cere, allora la più grande città d’Italia, che l’hanno spinta ad allargare il suo orizzonte.
Dopo il 291 (fine della terza guerra sannita) i nuovi mezzi di cui dispone Roma la incitano ad estendere la sua potenza.
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Nonostante fosse impegnata nell’Italia centrale e centro-settentrionale, nel primo quarto del terzo secolo Roma si è trovata impegnata nelle complesse questioni dell’Italia meridionale.
Ciò avvenne a seguito delle rivalità tra le colonie greche e delle loro difficoltà con le popolazioni indigene.
E’ questo, in particolare, il caso di Turi, rivale di Taranto, che per resistere ai lucani, fece appello, nel 284, a Roma.
Un console, inviato sul posto, stabilì una guarnigione nella città; ciò spinse anche Crotone, Locri e Reggio ad unirsi ai romani, ma non impedì alle fazioni locali di continuare a sbranarsi tra loro, con gli aristocratici filoromani che si opponevano ai democratici antiromani.
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La presa di Taranto costituisce una conquista che ha permesso a Roma di completare la conquista dell’Italia del sud.
La Lucania si era già sottomessa e una colonia era stata dedotta a Paestum nel 273 ca.
Ma è Taranto che eccitò maggiormente la bramosia dei romani, che vi inviarono una flotta.
Le ricchezze della città e la sua posizione strategica giustificavano tali ambizioni.
Nel 272 il comandante della guarnigione epirota, Milone, consegnò la cittadella ai romani a patto di aver via libera assieme ai suoi.
Taranto ricevette la “libertà”, vale a dire lo statuto di città libera, anche se una guarnigione romana rimase acquartierata nella cittadella (!).
Dovette pagare una pesante indennità di guerra e durante il trionfo dei due consoli sfilarono le statue, i quadri e tutti i tesori strappati alla città.
Roma aveva così sottomesso l’unica città in grado di contrastarla in Italia meridionale.
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Contrariamente a quanto si è talvolta affermato, nel settimo secolo a. C. non vi fu un’ellenizzazione ma solo rapporti di scambio che hanno portato alla presenza, nelle tombe arcaiche, di ceramica protocorinzia prima, corinzia poi.
Essa fu il risultato dei contatti stretti con il greci della Magna Grecia e con gli etruschi, anch’essi influenzati dalla cultura greca.
Tutta l’Italia centrale e Roma in particolare ne hanno beneficiato, mentre “nel corso del quarto secolo l’orizzonte di Roma era rimasto limitato all’Italia centrale “ (R. Bianchi Bandinelli).
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Coem nacque il conflitto?
Essenzialmente per gli interessi economico opposti, legati da un lato, per Cartagine, al carattere marittimo e commerciale della sua potenza, dall’altro, per Roma, all’adozione di una nuova politica aperta verso l’esterno.
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Innanzitutto il possesso romano della Sicilia.
I cartaginesi dovettero abbandonare l’isola, le Lipari e le isole comprese tra la Sicilia e l’Italia.
La Sicilia divenne provincia romana.
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Dopo ventitré anni di pace armata da ambo i lati, la guerra riprende per iniziativa di Annibale, erede della grande famiglia aristocratica di Barcidi, che, divenuto stratego di Cartagine, ha ereditato le ambizioni della sua famiglia.
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La pace non fu conseguita che nella primavera del 201.
Cartagine consegnò tutte le sue navi da guerra, tranne dieci, e tutti i suoi elefanti; si impegnò a pagare in cinquant’anni un’indennità di 10000 talenti e a non intraprendere guerre senza l’autorizzazione preventiva di Roma.
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La prima guerra di Macedonia (215-205) fu ugualmente un contraccolpo della prima guerra punica.
Il giovane sovrano Filippo 5. volle approfittare delle difficoltà di Roma per prendersi l’Illiria dove Roma aveva stabilito un protettorato.
Nel 215 Filippo si accordò con Annibale per ottenere che Roma rinunciasse al suo protettorato illirico.
Roma, impegnata in Italia, rispose con un’alleanza con gli etoli, nemici in Grecia della Macedonia.
Alla fine nel 205 fu negoziata la pace di Fenice che permetteva a Roma di mantenere le sue teste di ponte in Illiria e che consisteva, in fin dei conti, in un patto generale di non aggressione.
Roma, tuttavia, si veniva a trovare coinvolta negli affari balcanici mentre aveva ora interessi importanti in Spagna e nel Mediterraneo occidentale.
Si apre così una nuova fase della sua storia all’interno della quale troverà posto la terza guerra punica.
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Cap. 5. Le conquiste e le loro conseguenze
Per il futuro dell’Occidente, il fenomeno storico più importante dopo la morte di Alessandro magno (323 a. C.) è stato, in Italia, il passaggio progressivo di Roma-città a Roma-capitale di un impero territoriale mediterraneo.
Da un punto di vista evemenziale, è dunque la conquista da parte delle legioni romane (e talvolta mediante la diplomazia) dei paesi dell’Occidente considerato barbaro e dell’Oriente ellenistico.
Conquiste che portarono tra la fine della seconda guerra punica (201) e l’annessione dell’Egitto (31-30) alla formazione sotto l’egida dell’Urbs, dell’impero territoriale più potente e durevole della storia.
Tuttavia, e questo è un altro fenomeno storico essenziale, mentre l’Occidente metteva le mani per la prima volta sull’Oriente, era la civiltà greco-occidentale (ellenistica) a penetrare profondamente nell’Occidente per dar vita ad una koiné culturale, ad una comunità di cultura greco-romana, chiamata a diventare il marchio distintivo delle nazioni europee occidentali.
Il problema dell’imperialismo romano è dunque fondamentale.
E non meno l’esame di tutte le sue conseguenze.
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Una prima osservazione si impone: la parola imperium è latina, così come è realmente e originariamente romano il concetto che essa ricopre.
E questo concetto conduce al primo tentativo vero e durevole di dominio universale.
Solo che per alcuni (T. Momsen, M. Holleaux, E. Badian) questo imperialismo non è stato offensivo: Roma ha risposto a guerre che gli erano state imposte, si è difesa.
Il Senato romano, in particolare, non ha avuto uan politica espansionista.
Per altri (da ultimo W. V. Harris) le conquiste sono state volute da tutti: dai senatori avidi di “gloria” e dei mezzi finanziari necessari alla loro carriera politica, dai cavalieri attenti allo sfruttamento finanziario dei paesi conquistatori, dai semplici cittadini attirati dalla possibilità di partecipare ai saccheggi e alla divisione dei bottini.
La guerra appare allora come una “operazione di conquista che spoglia il vinto e arricchisce il vincitore”.
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Infatti, vista la composizione del Senato romano e lo stato d’animo delle classi dirigenti, sembra che nessuno o quasi progettasse a Roma, alla fine del terzo secolo, di intraprendere uan politica decisamente imperialista.
Durante la prima guerra di Macedonia (217-205) la sola preoccupazione era di impedire il congiungimento di Filippo 5. con Annibale.
E’ solo dopo Zama, tra il 200 ed il 198, che Roma inizia ad interessarsi sul serio agli affari del mondo greco.
E, di fatto, è la seconda guerra di Macedonia (200-196) che costituisce l’atto di nascita dell’imperialismo romano.
Tuttavia, è giusto dire che l’idea era germogliata durante la seconda guerra punica nell’animo di alcuni influenti senatori, come gli Scipioni.
In fondo, è Annibale il principale responsabile del sorgere di quest’idea: lo scandalo della presenza punica sul suolo italico, la minaccia che era pesata sull’Urbs, il pericolo mortale dell’alleanza di Cartagine con la Macedonia costituivano realtà capaci di incitare alcuni patres a spingere i loro sguardi al di là del mare.
L’attacco condotto da Roma contro la Macedonia nel 200 avvia una nuova politica.
Si tratta, però, ancora di un imperialismo essenzialmente difensivo: fino al 168 le sole annessioni nel Mediterraneo orientale sono quelle di Zakynthos (Zante) e Cefalonia.
E’ un “imperialismo che ancora ignora se stesso”.
Tuttavia, si deve notare che in questo periodo, nel 188, si trova per la prima volta espressa esplicitamente la teoria imperialistica romana, ad opera del console Gn. Manlio Vulsone: secondo costui, è di urgente e di assoluta necessità per Roma assicurare la pace per terra e per mare da un lato, sorvegliare tutto l’Oriente dall’altro (Livio 39).
Politica da gendarme che doveva portare all’istituzione di protettorati su città e Stati-clienti e da lì all’annessione.
L’epoca delle annessioni si apre nel 148-146 a. C.: la riduzione a provincia romana della Macedonia, la successiva presa di Corinto e l’annessione dell’Acaia, infine la presa e la distruzione di Cartagine seguita dall’annessione dell’Africa marcano questa grande svolta.
Ormai trionfa l’imperialismo conquistatore che in poco più di un secolo condurrà alla formazione dell’Impero romano.
Non manca che la Mauretania, conquistata sotto Claudio (che aggiungerà la Britannia).
Più tardi Traiano annetterà la Dacia e l’Arabia.
E per un periodo la Mesopotamia estenderà la frontiera orientale fino al Tigri.
Pag. 99-100
Dal punto di vista economico hanno giocato diversi fattori che hanno contribuito a profonde trasformazioni.
Innanzitutto il saccheggio dei paesi attraversati e di quelli vinti.
Coem nota lo storico Flora (Epit. 1. 18) “così numerose furono le spoglie provenienti da nazioni opulente che Roma non era capace di contenere il frutto della sua vittoria”.
Taranto, Volsinii e Siracusa hanno pagato un tributo pesante di opere d’arte e denaro.
Per fare un solo esempio, Pompeo prelevò in Oriente, nel corso delle sue campagne asiatiche, somme corrispondenti all’incirca a 70 milioni di euro.
Questo flusso di oro determinò un enorme movimento di capitali in una città che fino a quel momento era stata legata soprattutto all’attività agricola.
Ai bottini si aggiungevano le indennità di guerra imposte agli sconfitti e i tributi gravanti sui provinciali.
Questo enorme afflusso di masse monetarie ha determinato movimenti di capitali ai quali Roma non era abituata, con riflessi sui salari e il costo della vita (che tesero ad aumentare a danno degli strati sociali più poveri) ma soprattutto sulla vita finanziaria (svalutazione del denaro) e sull’orientamento economico generale.
Quindi l’afflusso di schiavi (per citare solo due esempi, furono 50000 i prigionieri di guerra resi schiavi dopo la presa di Cartagine, e 140000 i cimbri e i teutoni che ebbero analoga sorte nel 104) e soprattutto i cambiamenti nella condotta bellica, con l’allontanarsi dei teatri di guerra che impediva per lunghi anni ai soldati di coltivare le loro terre e la necessità di rifornire gli eserciti con grandi quantità di cereali, olio e vino, hanno comportato profonde trasformazioni nell’agricoltura italica, tenuto anche conto, peraltro, che l’afflusso di grano straniero rendeva la cerealicoltura in Italia un’attività di scarso interesse commerciale.
Per i piccoli contadini (che costituivano la maggioranza) non vi erano che due soluzioni: vendere i loro terreni (con conseguente esodo rurale e proletarizzazione della popolazione urbana e soprattutto di quella di Roma) o cambiare – con pesanti costi – le pratiche colturali, diversificando le produzioni e piantando viti e olivi.
Il risultato è una prima concentrazione di proprietà di cui profittano quanto traevano beneficio dalla guerra 8generali e negotiatores) ed una diversificazione delle colture in Italia che comporta a sua volta lo sviluppo di una attività commerciale rurale (con l’organizzazione dei mercati) laddove fino ad allora ci si era sforzati di vivere il più possibile autarchicamente.
L’evoluzione verso un’economia di scambio è peraltro uno dei tratti nuovi del secondo secolo.
L’aprirsi si Roma al mondo esterno, l’attività degli uomini d’affari, l’afflusso monetario, la crescita dei bisogni legata a nuove condizioni di vita, hanno spinto romani e italici a lanciarsi in grandi imprese commerciali.
Nel 218 uan lex Claudia ha cercato di impedire ai senatori ogni attività lucrativa basata sul commercio; la legge è stata aggirata facendo ricorso a prestanomi.
Depositi di capitali, prestiti finanziari (a tassi spesso usurarii) diventano le principali preoccupazioni dei ricchi.
L’isola di Delo diventa un grande centro commerciale e un importante mercato di schiavi.
I Romaioi sono presenti e attivi in tutti i porti del Mediterraneo.
Essi cominciano ad organizzarsi in società per azioni nelle mani dei repubblicani che spremono i provinciali.
Gli odi si accumulano!
Pag. 111-112
Nello stesso tempo si assiste all’ascesa dell’ordine equestre, che si è costituito nel corso del terzo secolo.
Tra la nobilitas senatoria tradizionale e i “proletari” è venuta ad inserirsi non una “classe media” (che a Roma non esisteva) bensì una categoria di cittadini privilegiati - figli di senatori, funzionari, ricchi proprietari fondiari, pubblicani – ai quali lo Stato conferisce il cavallo pubblico (sono definiti equites equo publico).
Tra la classe senatoria, che ha per base una fortuna fondiaria, e la plebe si trova posto un “ordine” equestre la cui base economica può essere non necessariamente fondata sul possesso fondiario.
Nel secondo secolo questi cavalieri, che hanno sempre un ruolo fondamentale nell’assemblea centuriata per le elezioni dei magistrati, aspirano a svolgere un ruolo più attivo nella vita sociale e soprattutto in quella giudiziaria, ove i tribunali sono controllati dai senatori.
Ciò è in contrasto con i loro interessi, soprattutto dopo che nel 149 uan legge Calpurnia ha creato dei tribunali permanenti (quaestiones perpetuae) incaricati di giudicare i promagistrati (i governatori di provincia) con i quali hanno a che fare i cavalieri impegnati negli affari commerciali e finanziari delle province.
La potenza politica dei cavalieri si affermerà sempre di più a partire dai Gracchi.
Il rischio di conflitti aumenta maggiormente in quanto anche la stessa classe dirigente politica subisce delle trasformazioni.
Se la classe senatoria detiene sempre il monopolio delle funzioni maggiori (Senato e magistrature) nonché ricchezze e fortuna fondiaria (il censo minimo richiesto è di 400000 sesterzi come per l’ordine equestre), ha ormai smesso di essere un gruppo sociale omogeneo.
Vi sono sempre da una parte i patrizi e dall’altra i plebei, ma ormai adesso vi è soprattutto un gruppo di nobiles, vale a dire i magistrati superiori e i loro discendenti.
Alla fine del secondo secolo questo gruppo si riduce ai discendenti dei soli consoli.
Sono dunque le stesse famiglie (gentes) che si accaparrano le magistrature superiori.
Di fronte ai nuovi senatori e alle ambizioni dei cavalieri, questo gruppo dirigente appare come bloccato e allorché si formano fortune, queste non sono sempre nelle sue mani.
Questa disparità sempre crescente di rendite e di peso politico si accentua tanto più che la plebe libera, se beneficia di alcuni effetti sociali delle conquiste (sviluppo di un artigianato urbano e rurale; sviluppo di un piccolo commercio grazie all’estendersi degli scambi all’interno dell’Italia e con l’esterno).
In effetti, a Roma si forma una infima plebs (un proletariato libero) costituito da esclusi dal mondo rurale, da piccoli bottegai (i tabernarii), da senza lavoro – disoccupati cronici o vittime della concorrenza della manodopera servile.
Costoro formano una “classe pericolosa” di individui pronti a costituire un esercito delle sommosse.
Si vede però apparire anche un gruppo sociale che si rivelerà sempre più attivo sia prima nella vita economica che in seguito nella vita politica: sono liberti, schiavi (spesso di grandi doti o astuti) che hanno ottenuto l’affrancamento.
Divenuti liberti (cittadini liberi ma con diritti politici ridotti), restano al servizio dei loro ex padroni in qualità di clienti.
Si forma così nel secondo secolo una clientela che serve soprattutto gli interessi politici dei “padroni”: in occasione delle elezioni magistratuali sono i loro attivi sostenitori.
Quando G. Gracco scende nel Foro, è accompagnato da 3000 amici, vale a dire clienti, che gli fanno corteo.
E’ facile immaginare quali pressioni possano avere esercitato.
Da queste nuove condizioni economiche, sociali e politiche hanno avuto origine tre grandi conflitti che hanno profondamente marcato la storia di Roma e, in una certa misura, preparato il declino della Repubblica.
Pag. 113-114
La legislazione agraria graccana fu modificata piuttosto che abolita.
Il problema agrario sarebbe ritornato più di una volta nel dibattito politico.
Si deve sottolineare che essa è stata motivo dei primi scontri violenti tra cittadini.
Essa segna dunque il primo episodio delle tragiche guerre civili che avrebbero determinato rapidamente la fine della Repubblica.
Primo episodio tanto più pericoloso in quanto in quello stesso frangente cominciavano anche le guerre servili.
Pag. 118
Alimentate da un clima ideologico e da un supporto religioso, queste rivolte collettive furono difficili da domare.
Solo nel 134 il console Calpurnio Pisone riuscì a riprendere Messina e poté cominciare l’assedio di Enna nel 133.
La città non cadde che nel 132: Cleone fu ucciso e subito dopo analoga sorte toccò a Euno, sorpreso in una caverna.
……..
E’ in Italia nel 73 che scoppia l’ultima e la più celebre delle ricolte servili, quella di Spartaco.
Diversa dalle altre per la sua vicinanza a Roma (che ne avvertì più forte la minaccia), per la sua origine (l’azione di un gladiatore trace che operò sulle scuole gladiatorie di Capua), per la personalità del suo animatore, Spartaco, più greco che barbaro, per l’impreparazione del movimento, la rivolta ebbe inizio con l’occupazione del cratere del Vesuvio e una vittoria sul pretore incaricato di sloggiare gli insorti.
Pag. 119
La rivolta di Spartaco non ebbe le stesse conseguenze dei moti servii siciliani.
Non comportò una nuova legislazione ma ci si contentò di assicurare la repressione.
Ma la paura che essa aveva prodotto era stata nem più grande in quanto ancora alimentata dal ricordo e dagli strascichi della guerra sociale.
Per tre anni, la “grande guerra” (coem la definisce Diodoro Siculo) ha visto “tutta l’Italia levarsi contro Roma” (Vell. Pat., 2, 15).
Per un motivo apparentemente sorprendente: il rifiuto di Roma d’accordare agli italici la cittadinanza romana che costoro desideravano.
La questione si poneva dalle guerre del terzo secolo.
Da allora, l’Italia si presentava come un groviglio di territori e uomini con statuti giuridici diversi.
Pag. 120
Nel 123 Gaio Gracco aveva avanzato la proposta di dare la piena cittadinanza ai latini e il diritto latino agli “alleati”.
Non solo il Senato respinse questa proposta ma decise anche di espellere da Roma il latini e i socii che non avevano il diritto di voto.
La questione si ripropose negli anni 95-91 quando furono prese nuove misure per combattere l’infiltrazione dei latini e degli alleati italici a Roma.
Pag. 121
Si è talvolta paragonata la guerra sociale alla guerra di secessione americana.
Vi furono manifestazioni feroci di odio: ad Ausculum (Ascoli), nel Piceno, le donne romane furono scalpate prima di essere uccise; a Grumento, in Lucania, la piccola guarnigione romana fu passata a fil di spada e la popolazione civile massacrata.
Molto presto, i marsi ei sanniti, i più accesi tra i rivoltosi, diedero vita a due Stati coniando moneta (segno di sovranità): presso i marsi, questa moneta recava la legenda Italia, presso sanniti, in osco, Vitalia.
Si diedero proprie istituzioni ed uan capitale, Corfinio, ribattezzata Italia.
Dinanzi a questa secessione e ad un contingente federale forte di 100000 uomini, Roma ebbe paura e adottò uan misura fortemente repressiva (lex Varia) prima di inviare contro gli insorti i suoi migliori generali, G. Mario e L. Silla, che ottennero alcuni successi.
Pag. 122
Le conseguenze furono considerevoli:
- la concessione agli italici della cittadinanza romana determinò una larga diffusione del diritto romano e accelerò il processo di romanizzazione della penisola.
Sola restava ancora un poco in una condizione diversa la Cisalpina, sempre provincia amministrata coem tale fino all’età di Cesare;
- a causa della guerra si formarono in Italia delle clientele talora enormi, come ad esempio quella di Gneo Pompeo Strabone nel Piceno, dove aveva proprietà assai estese. Costui era il padre di Pompeo Magno.
- si ebbe l’ingresso nella classe dirigente di cittadini provenienti dalle colonie e municipi italici che a poco a poco avrebbero sostituito nelle magistrature e nel Senato le antiche famiglie romane. Si prepara l’avvento di una nuova società.
Le conquiste hanno avuto come si vede effetti decisivi sull’evoluzione politica, economica e sociale di Roma.
Non meno importanti sono state le loro conseguenze nella vita culturale e spirituale dei romani.
I contatti diretti con ma Magna Grecia e con il mondo ellenistico, l’afflusso a Roma e in Italia di stranieri e soprattutto di schiavi, lo sviluppo dei viaggi e degli scambi nel Mediterraneo hanno avuto l’effetto di trasformare gli stili di vita soprattutto a Roma, dove si osserva nel secondo e nel primo secolo a. C. un’evoluzione nella cultura materiale come nella morale, nella vita intellettuale e spirituale.
Pag. 123-124
Già Catone, durante la sua censura, aveva preso delle misure contro il lusso delle donne, contro il lusso della tavola, ecc.
Nel 161 una legge ha vietato di ingrassare le pernici; ma di essa ci si fece beffa.
E’ senz’altro Sallustio che ha denunciato con maggior forza le ragioni morali del declino della Repubblica nella congiura di Catilina, opera in cui tira in ballo non solo l’aumento del lusso e del desiderio di piacere, ma anche il “disprezzo degli dèi” e la corruzione degli uomini di potere.
Contemporaneo di Cesare, Sallustio ha vissuto egli stesso le esperienze politiche di Silla e di Pompeo con le orribili guerre civili che avrebbero insanguinato Roma e l’Italia.
Osservatore della crisi politica nell’ultimo secolo della Repubblica, ha saputo descriverla.
A fianco di un vero “Rinascimento” delle lettere e delle arti, le conquiste hanno portato a Roma i fermenti di gravi disordini nella vita politica e sociale tradizionale e creato le condizioni di uno stravolgimento dei valori tradizionali.
Tutto ciò esploderà nell’ultimo secolo prima della nostra era.
Pag. 127
Cap. 6. Crisi e fine della Repubblica
Già la crisi graccana, a causa dei rivolgimenti istituzionali che aveva innescato, per il ricorso alla violenza che aveva provocato, aveva dato inizio alle gravi difficoltà che hanno investito la Repubblica romana, vittima dei suoi successi in Italia e nel Mediterraneo.
Successivamente, le guerre servili e soprattutto la guerra sociale hanno rivelato tutta la debolezza di un regime e id una società costruiti per una città-stato ma che nel frattempo era divenuta un impero territoriale dalla dimensioni inusitate.
Per Sallustio e Varrone, Gaio Gracco è all’origine delle guerre civili che insanguineranno l’ultimo secolo della Repubblica.
Diciamo almeno che i tribunati dei Gracchi costituiscono il primo episodio della grande crisi politica che scuoterà Roma, dominata da tentativi di instaurazione di poteri personali e dai conflitti tra le ambizioni di Mario Silla, di Pompeo e Cesare, e infine di Marco Antonio e Ottavio.
L’ultimo secolo della Repubblica romana è per molti aspetti un momento decisivo per la storia di Roma: non solo perché è un’epoca in cui, come scrive Appiano “la violenza regola tutto”, la sorte degli uomini e quella della res publica, ma anche perché si assiste al crollo dei valori tradizionali, sostituiti da nuove mentalità e dall’aspirazione a nuove condizioni di vita.
Pag. 129
Parte seconda. Roma padrona del mondo, 31 a. C.-235 d. C.
Cap. 7. Il mondo romano nel 31-28 a. C.
Questo impressionante insieme che si articola attorno ad Azio lascia apparire le linee di forza di un’ideologia “ottaviana”.
Nel cuore di quest’ultima, l’idea di vittoria.
Essa sarà al centro della mistica imperiale.
Ottavio deve direttamente questa vittoria agli dèi olimpici e agli auspici che egli detiene.
Infine, insistendo sulla difesa dell’ellenismo di fronte alla barbarie egiziana, tirando un parallelo tra Salamina e Azio, essa dà ad Ottavio la possibilità di riconciliare abilmente l’Oriente greco e l’Occidente: è sulla riva di Azio che Virgilio farà celebrare ad Enea giochi troiani.
Pag. 169
Nell’agosto del 29, allorquando celebra a Roma i suoi tre trionfi, il mondo che egli domina non è più quello che esisteva due anni prima.
C’è il mondo romano prima di Azio e quello dopo Azio.
Fine dalla Repubblica romana, fine dell’epoca ellenistica; inizio del regime imperiale e dell’organizzazioni unitaria del mondo: frattura formale? Forse.
Ma già alcuni storici antichi (Cassio Dione) la consideravano fondamentale, opinione che condivide una buona parte dei moderni.
A partire dagli anni 76-75 a. C. l’apparizione sempre più frequente del globo sulle monete romane non lascia alcun dubbio: Roma aspira ad essere la garante dell’ordine del mondo.
E la pace di Ottavio, lungi dall’essere uan apce di fatalità, vuole essere conquistatrice.
Più tardi, egli si vanterà di aver raggiunto i limiti del mondo.
“Roma, alla lettera, non ha conquistato il vecchio mondo, ma tutto il vecchio mondo ha potuto venire ad essa” (C. Nicolet).
Perché tra il mondo romano e il resto del mondo, i collegamenti sono numerosi: commerciali, culturali o militari
Pag. 178-179
Cap. 8. Il Principato augusteo: nascita di un regime
31 a. C.? 29 a. C.? 27 a. C.? 23 a. C.?
Quattro date che sono state considerate da vari storici ognuna come l’inizio del nuovo regime.
Esitazione significativa: essa traduce l’imbarazzo davanti ad un modo di governare di cui ci si trova ora d’accordo nel riconoscere la natura monarchica dietro una facciata istituzionale ambigua e complessa.
E piuttosto che di un nascere, conviene parlare di un lento affiorare, tanto i tratti della monarchia augustea, quelli che riprenderanno i suoi successori, si sono disegnati poco a poco, pennellata dopo pennellata sullo sfondo repubblicano.
Perché attuato lentamente, arricchito e modificato secondo le circostanze, adattato alla volontà di Ottavio Augusto di conservare il potere, il Principato non è stato creato ex nihilo, né secondo un piano precostituito.
Pag. 184
Il compromesso istituzionale, 29-23
Ostacoli ed elementi a favore
Il trionfo del 29 significava la fine della guerra contro Cleopatra e il ritorno ad uno stato di diritto.
Ma quale?
Per instaurare apertamente un regime monarchico, Ottavio superare numerosi e potenti ostacoli.
- In primo luogo, il titolo di re, o tutto ciò che poteva evocarlo (il nome di Romolo, il portare il diadema) conservava a Roma uan sufficiente carica emotiva per condurre all’assassinio: era la lezione delle Idi di Marzo.
- In secondo luogo, il senato depositario del mos maiorum, aveva conservato il suo prestigio, anche se il suo potere si era indebolito.
Ignorarlo, sottovalutarlo, opporsi ad esso, significava esporsi ad un’ostilità delle grandi famiglie, ostilità tanto più vivace in quanto esse consideravano la Res Publica come una proprietà personale e in quanto la loro clientela era estesa.
- In terzo luogo, la personalità di Ottavio era contestata.
Gli si rimproverava, sulla scia di Antonio nel 43, di dovere il suo successo ad un nome, quello di Cesare.
Di fatto, il suo prestigio militare era appannato e criticato, e le sue origini familiari ispiravano chiacchiere e pettegolezzi.
In realtà, suo padre, G. Ottavio, inizialmente cavaliere, fu il primo della sua famiglia a compiere il cursus honorum.
Quanto alla sua azione, ognuno ricordava che egli era stato un capo di fazione spietato, crudele dicevano i suoi avversari, durante le guerre civili.
- In quarto luogo, la posizione istituzionale di Ottavio era vaga per il presente e incerta per il futuro.
Dal 32 i suoi poteri triumvirali erano teoricamente cessati.
Gli restavano dunque tre elementi del potere: il consolato che egli riveste ogni anno a partire dal 31, ma che non gli conferisce alcuna responsabilità militare; la sacrosanctitas dei tribuni della plebe e la potestà tribunizia (cioè il potere dei tribuni senza essere uno di loro), entrambe a cita, ricevute rispettivamente nel 36 e nel 30; il giuramento di fedeltà che gli avevano prestato l’Italia e le province d’Occidente nell’autunno del 32.
Ora, nel 28, la crisi provocata da M. Licinio Crasso rivelò la precarietà di questa situazione.
Domandando di celebrare un trionfo e di deporre delle spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio, il nipote del triumviro rivaleggiava con la preminenza militare di Ottavio.
Per converso, Ottavio disponeva di appoggi di prim’ordine.
- E’ il figlio del Divus.
Questa filiazione prestigiosa lo collega non solo a Cesare, l’unico divus di Roma, ma anche a Venere.
Due fatti rendono nuovamente attuale questa ascendenza.
Nell’agosto del 29, nel Foro, si dedica il tempio del Divo Giulio e si inaugura la nuova curia, iniziata da Cesare, la Curia Iulia.
Davanti alla facciata del tempio, una tribuna ornata dai rostri dei vascelli catturati ad Azio; in fondo alla Curia, una statua della Vittoria che Ottavio aveva portato da Taranto e davanti ad essa un altare, dunque un culto.
Due modi di celebrare il padre, richiamando i meriti del figlio.
- E’ alla testa di un esercito formidabile e unico, poiché le truppe di Antonio erano passate dalla sua parte: più di sessanta legioni, senza contare le truppe ausiliarie.
Naturalmente, egli ne smobilita rapidamente più della metà, e sistema dei veterani; ciò non impedisce che il suo peso militare reale sia schiacciante.
- E’ immensamente ricco.
Si stimano in un miliardo di sesterzi le spese fatte tra il 30 e il 29 a. C.
Questa fortuna proviene dalle eredità del padre naturale e del padre adottivo, ma soprattutto dal bottino egizio, al quale bisogna aggiungere le confische di terre e le vendite dei beni dei nemici.
E’ l’uomo più ricco della sua epoca e può criticare una politica di evergetismo su scala imperiale.
- Nel 43 a. C. Ottavio era stato acclamato imperator.
Dal 40 egli aveva trasformato questo titolo onorifico in un elemento del suo nome, collegandolo definitivamente alla sua persona, come un vero prenome, senza dubbio per manifestare “il possesso di un primato d’onore e di uan superiorità di potenza”.
- Egli appariva contemporaneamente come l’uomo della vittoria e come l’uomo della pace.
Oltre al suo trionfo del 29, una serie di iniziative prese dal Senato mentre Ottavio si trovava in Oriente, gli assegna questo doppio merito: il 1. gennaio del 20, il Senato concede la sua auctoritas a tutti i suoi atti precedenti; l’11 il tempio di Giano è chiuso per la terza volta nella storia di Roma.
Inoltre Ottavio è salutato col titolo di “salvatore dello Stato”.
Un arco è innalzato nel Foro, in suo onore, tra il tempio del Divo Giulio e quello di Castore.
Su questo primo arco di trionfo, si poteva leggere Republica conservata.
Meglio, al momento del trionfo, mentre secondo la tradizione, magistrati e Senato aprivano il corteo, per la prima volta è l’imperator, Ottavio, che lo guida.
Così gli elementi di cui dispone Ottavio sono numerosi.
Egli ha saputo utilizzarli con abilità, prendendo decisioni, o facendole prendere, con il solo scopo apparente di restaurare il passato , mentre egli sperimentava delle innovazioni che sembrano minori, ma che sono di importanza decisiva.
Il suo genio politico fu proprio quello di capire che, per meglio instaurare un potere personale, doveva ocnservare la Repubblica, consolidare anche le apparenze delle sue istituzioni al fine di meglio vuotarle del loro contenuto.
Dal 28 al 23 a. C. s’organizza, con pragmatismo e lentezza, un evidente compromesso istituzionale.
Pag. 187-189
Capitale della Proconsolare, terza città dell’Impero, Cartagine è una città importante del mondo romano.
Popolata da parecchie centinaia di migliaia di abitanti, è stata sistemata con grandiosità dagli Antonini (acquedotto, terme, teatro, foro).
Tuttavia, questa città non è isolata: almeno 200 città per la sola Proconsolare, di cui 161 come minimo nel nord-est della Tunisia attuale!
Tra essi grandi nomi: Leptis Magna, Sabratha in Tripolitania; Hadrumetum, Thysdrus (la capitale dell’olivo), Utica, Ippona, Cirta, ecc.
In totale, si stima che il quarto o il terzo della popolazione abitava in città, città agricole o città portuarie, e spesso el due cose insieme.
Si comprende allora che, attraverso il successo municipale, in Africa più che altrove, i notabili abbiano adottato uno stile di vita romano e abbiano tenuto un ruolo considerevole non solo nel quadro della loro città o della loro regione, ma sempre più in quello dell’Impero.
Due esempi molto differenti: a Ostia, intorno al piazzale delle corporazioni, le compagnie africane sono le più numerose, tra gli ufficiali e i magistrati dell’epoca di Commodo, gli africani occupano un numero elevato di posti e costituiscono un gruppo di pressione informale e potente.
Tuttavia sussistono nelle campagne numerose zone in cui il punico è ancora parlato.
Ma il suo uso scritto scompare nel corso del secondo secolo.
Pag. 325
Le Tre Gallie (la Lugdunense, l’Aquitania, la Belgica) raggruppano uan sessantina di città che si riuniscono uan volta all’anno per celebrare il culto di Roma e di Augusto, certamente, ma anche per deliberare in un Consiglio dei Galli, in una sorta di distretto federale, a Condate, sulle pendici della Croix-Rousse, tra Rodano e Saona, di fronte alla colonia di Lione.
In questo senso, formano incontestabilmente un’entità politica e territoriale su cui pesa, sempre meno via via che ci si allontana dal Reno, il peso dell’esercito in particolare nell’orientamento della produzione economica; così i cereali e la lana che producono le città del Nord (le attuali Artois e Piccardia) sono rivolti verso le legioni del Reno.
Vari prodotti agricoli (grano, legname, ricco bestiame, vini, piante tessili), tecniche moderne (falce, “mietitrice”, marnatura), un solido artigianato (ceramica, tessitura, metallurgia), uan rete stradale migliorata da Antonino, fiumi navigabili, commercianti attivi (come i mercanti di Lione o quelli di Treviri), fanno sì che le Tre Gallie conoscano nel secondo secolo una brillante prosperità materiale che ravviva lo splendore delle città.
Al primo posto Lione, che gli Antonini arricchirono; poi Treviri, Bordeaux, che divenne nel corso del secondo secolo la capitale dell’Aquitania, Autun, Reims, e dietro, tra le grandi città, Metz, Poitiers, Limoges, Lutezia.
Dei vuoti immensi: il Sud- Ovest, il Centro, l’Ovest, il Nord dove l’urbanizzazione è molto debole.
Malgrado questi limiti, questa rete urbana modella in gran parte la rete attuale.
Pag. 326-27
In confronto all’Occidente, l’Oriente dà l’illusione di un’entità politica più monolitica.
Non è affatto vero: la varietà etnica e culturale qui può persino essere più importante.
Come le province d’Occidente, quelle d’Oriente conoscono nel secondo secolo una brillante prosperità.
Ma l’equilibrio che si percepisce alla metà del secolo tra le due parti dell’Impero nasconde in realtà un dinamismo ineguale: le province d’Occidente hanno raggiunto il loro apogeo, che esse non conserveranno molto, salvo l’Africa, al di là del secolo; quelle d’Oriente, malgrado alcuen ombre, mantengono più a lungo i loro successi economici, amplificano la loro preminenza intellettuale e diventeranno nel secolo successivo il centro vitale dell’Impero.
Così lo studio provincia per provincia si inserirà nel quadro dell’Impero nel 325.
Questo progresso globale dell’Oriente a scapito di un Occidente che si immobilizza nella sua “età dell’oro” si segnala dalla seconda metà del secolo degli Antonini.
Ma le ragioni sono più antiche.
Innanzi tutto queste terre d’Oriente sono tutti territori di antiche e grandi civiltà che non avevano mai cessato di essere virtualmente ricche, tanto la memoria, la cultura e l’esperienza degli uomini qui erano state importanti in tutti i campi (tecniche, commerci, vita sociale, politica, economica, spirituale).
Ma la pirateria e il brigantaggio, le conquiste e i loro saccheggi, le guerre civili e le loro distruzioni avevano indebolito e diviso queste regioni, conducendole ad un certo ripiegamento.
Pag. 330
Così preparata da un secolo, la prosperità della parte orientale dell’Impero poggia forse su fondamenta più solide di quelle della parte occidentale, o almeno, più estranee alla tradizione romana.
In ogni caso, le sue manifestazioni, spesso brillanti, toccarono tutti i settori dell’attività umana.
Pag. 333
Uan reale ricchezza economica.
Malgrado alcune regioni che vivacchiano (Beozia, est dell’Anatolia), l’impressione che domina è quella di un’incontestabile prosperità, perfino di un’opulenza agricola, artigianale, industriale e commerciale.
In questo settore economico, i siriani in particolare si distinguono.
Essi dominano il piccolo e grande commercio; li si trova in tutto l’Impero, da Gades a Colonia, da Ostia a Lione, dove l’iscrizione funeraria di un mercante di Laodicea precisa che egli è venuto a portare “ai celti e alla terra d’Occidente tutto ciò che Dio ha stabilito di portare alla terra d’Occidente tutto ciò che Dio ha stabilito di portare alla terra d’Oriente, feconda di ogni prodotto”.
Quanto al commercio a lunga distanza, cioè con la Cina e con le Indie, è un’esclusiva orientale e passa per Petra, Palmira o per Alessandria, secondo gli itinerari e secondo i prodotti.
Pag. 334
Si sa che esiste un pensiero economico presso i romani ma la sua razionalità non è la stessa della nostra.
Altrimenti detto: la realizzazione dell’Impero romano, in quanto spazio politico e geografico, è accompagnata da un’organizzazione economica che da liberale ai suoi inizi sarebbe diventata statalista nella tarda antichità?
Sembra di no.
Il pensiero economico, a Roma, “non è che l’elemento di una riflessione globale che mette in realtà al centro di tutto la città, nella sua totalità, concepita come il luogo ineguagliato delle relazioni umane, e di cui bisogna dunque preservare ad ogni costo la coesione e i valori.” (C. Nicolet).
E’ l’equilibrio morale della città che importa.
Ci sarà sempre confusione tra morale ed economia: così le ricchezze che apporta il commercio possono essere considerate nello stesso tempo come una risorsa economica, come il segno di un dominio politico e come un rischio di corruzione morale.
Ciò detto, la storia economica ha fatto enormi progressi in pochi anni.
Se non è possibile avere visioni generali su tutto l’Impero (gli studi economici sono per lo più generali), si arriva malgrado tutto a raccogliere sufficienti informazioni per studiare i grandi settori economici.
Non è questione di presentare qui l’insieme di questi risultati, ma di dare alcune indicazioni sulla vita economica nel secondo secolo dell’Impero.
Un richiamo, le condizioni della vita economica sono estremamente favorevoli alla sua fioritura.
C’è la pace e anche una rete di strade costantemente sottoposte a manutenzione e perfezionate, un insieme di fiumi che permettono di raggiungere l’interno dei territori a partire dal Mediterraneo, il mare stesso, divenuto sicuro, ma che non è molto frequentato da novembre a marzo (il mare è chiuso, dicono i romani), dei porti sistemati continuamente (Ostia, Cartagine, Alessandria, Leptis Magna, Seleucia di Pieria, ecc.), l’estensione stessa dell’Impero che permette di avere risorse diverse e complementari, l’esistenza di enormi centri di consumo (Roma, le grandi città, le zone frontaliere), i progressi del lusso e lo sviluppo di una società in cui si consuma sempre di più, una moneta quasi stabile (nonostante un indebolimento sotto Marco Aurelio) e un aumento della popolazione che incita a sfruttare terre nuove,
In complesso, un’era di prosperità economica così evidente che i suoi risultati impressionano uno scrittore di temperamento polemico, Tertulliano: “Constatiamo con certezza – scrive verso il 210 – che il mondo è di giorno in giorno meglio coltivato e meglio provvisto di tutto che nel passato.
Tutto è accessibile, tutto è conosciuto, tutto è lavorato, dei fondi rurali molto gradevoli hanno fatto arretrare deserti celebri, i solchi hanno domato le foreste, le greggi hanno messo in fuga le bestie feroci, le distese di sabbia sono seminate, si aprono vie nelle rocce, si prosciugano le paludi, esistono tante città quante case un tempo […].
Ovunque abitazioni, ovunque popoli, ovunque città, ovunque vita!”
Pag. 335-36
Questi traffici con l’esterno non avevano quasi contropartita.
Roma pagava in oro.
Per molto tempo si è parlato a questo proposito di emorragia d’oro.
Si sa ora che queste considerazioni si iscrivono nella tradizione romana del discorso contro il lusso e che questi cento milioni di sesterzi non mettevano in pericolo l’economia dell’Impero.
Nelle città mercantili, soprattutto d’Occidente, gli artigiani, i mercanti, i battellieri si raggruppano in corporazioni costituite sul modello delle curie municipali.
Essa hanno anche uno scopo religioso, poiché garantiscono ai loro componenti di ricevere funerali adeguati e giocano nella città un ruolo non trascurabile, come , a Lione, la corporazione dei mercanti di vino.
Pag. 342
Con Augusto era nato un nuovo esercito, l’esercito imperiale.
Questo “esercito sperimentale”, i suoi successori lo trasformano in “esercito permanente” (P. Le Roux), con una missione principale – difendere l’Impero contro ogni aggressione esterna -, una funzione secondaria –assicurare l’ordine all’interno delle frontiere (sorvegliare le strade, controllare i nomadi, prevenire la pirateria, ecc.) – e delle funzioni accessorie (compiti amministrativi, corrispondenza ufficiale, lavori pubblici).
Pag. 343
Quando, sotto i Flavii, furono nuovamente installate le legioni sul Reno, si rimpiazzarono gli accampamenti invernali rudimentali (in legno e in terra) con dei campi costruiti in pietra.
Questo cambiamento di modo di costruzione è forse il primo segno di una nuova strategia.
All’Impero “egemonico” dei Giulio-Claudii succede l’Impero “territoriale”, che inaugura uan strategia di difesa del perimetro: “avendo raggiunto le frontiere “scientifiche”, non si decide più alcuna operazione ulteriore, in ogni caso non al di là della portata delle basi fisse” (E. Luttwak).
Dopo le spedizioni di Traiano, questa concezione di difesa preventiva si impone su tutte le frontiere, cioè 10200 km contando la Dacia (9600 senza), più 4500 di coste.
Questo dispositivo si chiama limes.
Pag. 346-47
Questi elementi naturali del limes non sono che lo scheletro del sistema.
Bisogna immaginare delle pattuglie, delle azioni diplomatiche, degli scambi, dei trasferimenti incessanti di soldati, ecc., e molteplici adattamenti secondo i luoghi.
Qui si utilizzerà un fiume, là una montagna o un deserto.
Pag. 347-48
In definitiva, la potenza militare dell’Impero è in primo luogo uno strumento diplomatico; la minaccia del suo impiego dissuade il nemico che mai nel secondo secolo offre una forza in grado di inquietare le legioni.
Ma sarebbe bastato che fuori dalle frontiere apparisse uan federazione di tribù o un altro impero perché il sistema di difesa, concepito in funzione di minacce di piccola ampiezza, non potesse farvi fronte; l’estremo dilatarsi delle unità non permette in effetti di prelevarne uan parte importante da un fronte per inviarla altrove.
Il sistema manca di flessibilità.
Che cosa accadrebbe allora se in due punti lontani l’uno dall’altro, dei popoli di frontiera organizzati attaccassero l’uno dall’altro, dei popoli di frontiera organizzati attaccassero contemporaneamente?
In fin dei conti, l’esercito sotto gli Antonini ha raggiunto il suo obiettivo: garantire una sicurezza permanente alle popolazioni che vivono all’interno delle frontiere dell’Impero.
In ciò, partecipa ai disegni supremi di questo stesso Impero: creare una nuova società in cui i barbari al di qua, sempre più integrati nel mondo romano, sempre più separati dai barbari che vivono al di là, sono sul punto di divenire i provinciali del vasto impero.
“Era un vero melting-pot”, osserva uno storico anglosassone parlando dell’Impero o ad esaminarlo molto sommariamente nella sua varietà religiosa, non si può evitare di essere colpiti dall’abbondanza di credi religiosi”.
Un’abbondanza che bisogna preservare nella sua nella sua interezza, se non si voglia correre il rischio di non comprenderne la vitalità.
E Ramsey MacMullen rifiuta nel suo studio (Paganism in the Roman Empire, New Haven, 1981) di analizzarne “(le) parti costituenti, (i) culti particolari, le loro derivazioni e la loro natura” per guardare al sistema complessivo e ai suoi cambiamenti.
Ha senza dubbio ragione.
Almeno conviene riconoscerne gli elementi essenziali: la religione romana tradizionale, i culti indigeni di sui certi superano la loro regione di origine, il culto imperiale.
Pag. 350
Sotto il termine generale per “religioni indigene” intendiamo tutte le religioni dell’Impero ad eccezione delle religioni “italiche”, pur se indigene.
Questo semplice enunciato permette di comprendere l’ampiezza di tale questione che non si può, neanche superficialmente, affrontare qui.
Entrare nel dettaglio rende necessario fare un tour dell’Impero provincia per provincia, perfino regione per regione.
E nessuna visione d’insieme è veramente pertinente: queste religioni esistono, proprio, solo per il fatto che non hanno vocazione all’universalismo e sono radicate in un territorio, in una storia e in una società precisa.
Tutt’al più si possono presentare alcuni elementi evolutivi comuni a queste religioni, religioni di popoli vinti, che persistono nel secondo secolo e anche dopo.
Pag. 355
Cap. 12. Il regno degli africani e dei siriani.
Le caratteristiche di questi anni di guerra
- Il Senato con i suoi voltafaccia, le sue indecisioni, i suoi rinnegamenti scompare completamente dal novero delle forze politiche
- L’esercito provinciale, e non più i pretoriani, è la forza determinante nella scelta dell’imperatore.
Il soldato delle frontiere danubiane è divenuto il padrone dell’Impero
- Il conflitto ha preso l’aspetto di guerre interprovinciali, in cui, su scala regionale, le rivalità tra città hanno avuto un ruolo di primo piano
- Tra queste province, tre aree acquistano importanza: la Britannia, le province danubiane, l’Oriente.
Esse segnalano in definitiva il nuovo asse di scambi (Reno-Danubio-Siria) che controbilancia l’asse mediterraneo (Oriente-Roma-Occidente).
A breve termine, si profila un problema cruciale, che pressioni esterne potevano aggravare, quello dell’unità dell’Impero.
Pag. 369-70
Vitalità, energia, attivismo, le parole ritornano senza posa per qualificare l’opera di Severo che, per la sua azione personale o perché era in accordo con la sua epoca, apportò grandi cambiamenti nella pratica del potere e accentuò certi aspetti del regime: monarchia dinastica, monarchia anti senatoria, monarchia assoluta.
Pag. 372-73
A partire da Settimio Severo si svela completamente l’assolutismo intrinseco al regime imperiale ma che, fino ad allora, si nascondeva dietro un paravento di istituzioni e di abitudini, sebbene questo tendesse sempre più a sgretolarsi.
Così l’orazione del Principe al Senato diventa fonte ufficiale del diritto.
E i giuristi che circondano l’imperatore mettono la loro scienza al servizio del potere: “ciò che piace al principe ha valore di legge”, “il principe è al di sopra delle leggi”, dicono.
Migliaia di istanze (circa 1500 per anno) affluiscono da tutto l’Impero al Consiglio del Principe.
Se si aggiunge a ciò l’aumento dei posti di procuratori, si comprende che il numero degli uffici e degli impiegati aumenta.
L’Impero comincia a burocratizzarsi.
Così la res privata (l’amministrazione dei beni personali dell’imperatore), gonfiata dalla confisca dei beni degli oppositori, ha raggiunto un’estensione tale da divenire un ufficio a tutti gli effetti, distinto dai beni della corona (il patrimonium).
Altri esempi: lo sviluppo dei servizi all’annona, l’intrusione dello Stato nell’organizzazione delle società commerciali e artigianali, l’ampliamento del fenomeno associativo nel mondo contadino favoriscono lo sviluppo degli uffici centrali.
Pag. 378-79
Nondimeno non bisogna immaginarsi questa burocrazia come quella di uno Stato moderno.
La nascita di una vita di corte con uno stile inusitato testimonia ancora l’assolutismo del potere severiano.
Itinerante o fissa, essa si caratterizza per un’etichetta sempre più minuziosa, ricalcata sul modello orientale: seggio, corone, vesti, atteggiamenti sono codificati e l’adventus Augusti (l’arrivo dell’imperatore) o l’apoteosi di Settimio Severo si svolgono secondo un cerimoniale dal formalismo mai raggiunto prima.
Quest’ultima cerimonia tuttavia non è nuova.
Il suo scopo ultimo non è fondamentalmente cambiato, si tratta sempre di divinizzare l’imperatore defunto.
Tuttavia, se la tradizione persiste, si sono notati degli elementi che prefigurano il terzo secolo.
In un certo senso, un riassunto dell’opera di Settimio Severo.
Pag. 380
Per accattivarsi la fedeltà dei partigiani sei Severi (in particolare dei soldati), prende come, cognomen Severus, fa proclamare Caracalla divus dal Senato e dà al suo giovane figlio, Diadumeniano, contemporaneamente il cognomen di Antoninus (come Caracalla) e il titolo di Cesare.
Ma nello stesso tempo, per legare a sé gli oppositori dei Severi, ritorna sulle misure di Caracalla (riporta l’imposta sulle successioni al 5%), versa al re parto un’indennità di 200 milioni di sesterzi per lasciare immutate la frontiera romano-partica e le zone di influenza (Armenia) e riduce delle metà il soldo delle nuove reclute.
Per di più, la sua origine oscura, le sue azioni maldestre (rifiuto del resto giustificato di recarsi a Roma, nomina alla prefettura della città del suo collega al pretorio, ecc.) gli alienano le poche simpatie che aveva saputo suscitare.
E vi trovava del tutto incapace di opporsi alle macchinazioni delle principesse siriache.
Pag. 284-85
Africano, siriaci, un trace alla guida dell’Impero: è evidente che le province, e in particolare quelle della parte orientale dell’Impero, forniscono il personale politico e militare, desideroso di assumere i più alti incarichi.
Questa preminenza si ritrova in campo intellettuale: così si vede un Latino di Preneste che non lascerà mai Roma, Eliano (?170-235?), scrivere in greco le sue Storie degli animali.
Due aspetti meritano attenzione – il movimento religioso, il movimento intellettuale – perché essi annunciano un altro universo mentale, un altro modo di vedere le cose.
Si è spesso attribuita ai Severi un’orientalizzazione della religione romana.
Forse si è andati troppo lontano su questa strada coem hanno fatto osservare numerosi ricercatori anglosassoni?
Ma ciò non toglie che sotto l’influenza della corte, delle imperatrici, dei mercanti, dei giuristi, un’estensione delle “religioni orientali” è percepibile in quest’epoca: nei paesi in cui erano già introdotte esse prendono più piede, mentre si diffondono là dove non erano ancora penetrate.
Tuttavia, al di fuori del caso di Elagabalo, non si colgono sempre i rapporti tra queste religioni e l’azione imperiale.
Qualche esempio.
- Si nota ovunque un ritorno di favore per Cibele.
Tauroboli e crioboli si moltiplicano alla fine dell’età degli Antonini e all’epoca dei Severi, spesso associati al culto imperiale.
- Il culto di Iside e quello di Serapide beneficiano dei favori imperiali.
Sui denarii di Giulia Domna, Iside allatta Horus, con la leggenda “Felicità del secolo”, allusione alla maternità dell’imperatrice.
Quanto a Caracalla, egli consacra un culto particolare a Serapide che figura dal 212 sul rovescio delle sue monete.
D’altronde l’imperatore è definito “beneamato da Serapide” e a questa divinità fa costruire un tempio grandioso sul Quirinale
- Giove Dolicheno conosce il suo apogeo sotto i Severi, prima di crollare brutalmente (se si presta fede alle iscrizioni) dopo il 220 circa.
Strettamente legato ai soldati, recluta i propri fedeli nell’ambiente militare da dove non esce quasi.
Lo si trova dunque sui differenti limes.
- E’ ancora sotto i Severi che le dediche mitriache “per la salvezza dell’imperatore…” sono più numerose.
Ma questa constatazione richiede due correzioni.
Da una parte tutte le iscrizioni, quali che siano, seguono la stessa curva.
D’altra parte tra le divinità invocate per la salvezza degli Augusti, Iuppiter Optimus Maximus è di gran lunga in testa.
Si potrebbero fornire altri esempi.
Non si arriverebbe a meglio delineare l’articolazione tra l’attività dei Severi e l’orientalizzazione della religione, salvo per alcune divinità locali, legate all’origine stessa della famiglia imperiale: Aziz di Emesa, onorato a Intercisa per la salvezza di Severo Alessandro; Liber pater e Ercole di Leptis Magna, i cui nomi latinizzati nascondono divinità di origine semitica, Shadrafa e Melqart.
Più chiare sono le tendenze che questa oscura orientalizzazione rivela.
Ce ne sono due.
Semplificando, potrebbero ricondursi alle due politiche religiose di Elagabalo e di Severo Alessandro.
Con il primo è affermata a vantaggio del Sole (Helios) l’idea abbastanza comune di un dio unico la cui forza è molteplice e di cui le altre figure divine sono le espressioni.
Il Sole sarà il grande dio beneficiario del vasto movimento sincretista del terzo secolo.
Con il secondo si evidenzia un altri tipo di sincretismo, che mette le divinità sullo stesso piano, senza privilegiarne una o escluderne un’altra, perché sono tutte riflesso di una divinità superiore che i filosofi del terzo secolo cercheranno di definire.
In seno a queste due tendenze, il posto che occupano i filosofi va crescendo: le filosofie si impegnano sempre più di spirito religioso.
Infine, l’ultimo aspetto dell’”orientalizzazione” della vita religiosa, l’espansione del cristianesimo.
Dall’epoca di Marco Aurelio la situazione giuridica dei cristiani non si era modificata.
Nel 202 Settimio Severo vieta il proselitismo giudaico e cristiano.
E’ il primo atto giuridico direttamente portato contro i cristiani.
Ci fu un editto di persecuzione?
Malgrado un passo dell’Historia Augusta, non sembra.
Si conoscono allora dei martiri a Cartagine e ad Alessandria in particolare, ma nono il risultato di pogrom locali (movimenti di folla, eccessi dei governatori) e non dell’applicazione di un editto generale che nessuna utore cristiano ricorda.
Salvo questa misura, i Severi mostrarono una neutralità, talvolta benevola, verso il cristianesimo.
E le testimonianze contemporanee segnalano il numero crescente dei cristiani in tutte le regioni ei n tutte le classi della società.
Un testo della fine del secondo secolo precisa: “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini, né per il paese, né per la lingua, né per le vesti. […].
Il loro genere di vita non ha niente di singolare […].
Essi si conformano agli usi locali per l’abbigliamento, l’alimentazione e il modo di vita”.
Partecipano dunque alla vita economica, anche politica, ma vogliono viverle da cristiani.
Cosa che non avviene senza porre qualche problema, come l’uso delle terme, certi spettacoli o anche l’istruzione dei fanciulli.
Ma, nel complesso, tranne dei cristiani intransigenti (come i montanisti o come lo scrittore Tertulliano, che creò la sua setta) che chiamano alla diserzione e invitano a rifiutare tutti i mestieri, i cristiano condividono la vita quotidiana dei loro compatrioti.
Con in più la coscienza di appartenere ad un’altra comunità, una comunità di fede, che senza sosta si ingrandisce e si organizza sempre meglio (primi cimiteri cristiani a Roma, diaconesse, prima arte cristiana, parrocchie, chierici inferiori, ecc.).
Da tre centri importanti (Roma, già alla testa di tutte le chiese, Cartagine, Alessandria) partono delle missioni.
Tuttavia è l’Oriente che resta la prima terra cristiana per importanza: l’ultimo re di Ostoene si è fatto battezzare: a Daura Europos appare il più antico edificio del culto cristiano e ad Alessandria prospera il Didaskaleion, cioè una scuola di filosofia cristiana.
Pag. 390-393
Nella sua interezza, è portato dal fermento intellettuale dell’Oriente e della corte delle principesse siriache, un vero laboratorio di idee.
Nessun campo sfugge agli autori di lingua greca.
Nella storiografia, Cassio Dione ed Erodiano dominano la loro epoca.
Il primo è di Nicea, il secondo forse dell’Asia Minore.
Tutti e due (soprattutto Cassio Dione, console due volte) hanno avuto importanti responsabilità, sono stati i testimoni privilegiati dell’epoca dei Severi, imperatori che hanno servito prima di ritornare, alla fine della loro vita, nella loro patria d’origine per mettere qui per iscritto le loro esperienze del mondo.
Nel campo del diritto, la scuola di Berito (Beirut) domina completamente con Papiniano e i suoi allievi che impongono, si è notato, le loro opinioni presso gli imperatori.
In filosofia l’apporto dell’Oriente è, ancora uan volta, fondamentale.
Poiché le filosofie danno meno certezze, ci si volge verso il passato cui si domandano precetti e modelli, che appassionano tanto più quanto più sono nascosti e rivelati ai soli iniziati.
Così Filostrato l’Ateniese scrive una Vita dei Sofisti e, su richiesta di Giulia Domna, una Vita di Apollonio di Tiana, un taumaturgo neopitagorico che era vissuto nella seconda metà del primo secolo d. C.: egli compiva miracoli, onorava la divinità suprema con la purezza del suo cuore e sapeva tutto ciò che si poteva sapere.
Il romanzo, pieno di anacronismi, conobbe un vero successo: il meraviglioso e l’irrazionale, che questa biografia svelava, si accordavano allo spirito del tempo.
Più piatte, ma derivate dallo stesso processo, sono le compilazioni di Diogene Laerzio di Cilicia (Vita, dottrine e sentenze dei filosofi illustri di ogni setta) e di Ateneo di Naucrati (Il banchetto dei Sofisti).
L’epoca conosce anche filosofi di grande personalità: Alessandro di Afrodisia, detto l’Esegeta, che cura i testi della tradizione aristotelica, con le varianti e un ampio commentario; Sesto Empirico, medico greco, che, da perfetto scettico, critica tutte le sette filosofiche per arrivare ad una filosofia dell’esperienza; Ammonio Sacca, il primo grande neoplatonico, che fonda verso il 200 uan scuola filosofica ad Alessandria e che ebbe per discepoli Plotino (204-270) e Origene (circa 185-dopo il 251), i due più grandi pensatori del terzo secolo e tr ai più grandi del mondo antico.
Con questo neoplatonico e questo cristiano intransigente, si entra in un altro universo intellettuale.
L’ultimo apporto dell’Oriente al movimento intellettuale è l’apparizione di un’importantissima letteratura cristiana in lingua greca.
Questa letteratura esisteva dagli ultimi anni del primo secolo, ma essa fiorisce alla fine del regno degli Antonini e sotto i Severi, con quattro autori: Ireneo, originario dell’Asia, secondo vescovo di Lione e fondatore della teologia cattolica (morto – martire? – sotto Settimio Severo); Ippolito (circa 170-235), un prete di Roma che compone in greco il più antico trattato esegetico che si sia giunto; Clemente di Alessandria (scrive sotto i Severi), un convertito fornito di un’erudizione strabiliante e che non esita, dice, “a utilizzare i migliori elementi della filosofia e della cultura” (Stromati, 1., 1, 15) per elaborare la prima grande sintesi del cristianesimo e della filosofia; Origene (circa 185-dopo il 251), autore di un’opera gigantesca (forse 2000 libri, di cui 800 titoli ci sono giunti), al contempo esegeta, filosofo, filologo, biblista, asceta, mistico, predicatore, insegnante, e “uno dei più potenti geni del cristianesimo antico” (C. Mondésert).
Accanto a questi giganti della letteratura cristiana greca, un autore di lingua latina si impone, Tertulliano (circa 160-circa 220).
Africano, esaltato, intransigente, polemista adombrato con il mondo intero, è anche uno scrittore e un teologo notevole.
Il cristianesimo si è dato una dimensione intellettuale.
E’ una novità fondamentale, risultato di questo crogiolo di culture che era l’Oriente.
Duecentoventi anni e sette mesi dopo la morte di Augusto si estingueva tragicamente la dinastia dei Severi.
Apparentemente l’Impero era cambiato poco.
Vi si potevano sempre ritrovare gli elementi costitutivi del governo imperiale e le sopravvivenze dei secoli passati.
In realtà, l’Impero si era evoluto con una elasticità straordinaria.
Evitando tanto di fossilizzarsi quanto di sfasciarsi in mutamenti brutali, si era adattato alle situazioni nuove molto felicemente.
Aveva saputo aggregare l’élite delle province ai suoi senatori e ai suoi cavalieri, mantenere il prestigio di un corpo politico senza potere – il Senato -, assorbire degli omicidi di governanti e due guerre civili, estendere la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi senza sopprimere il loro legame con la “piccola patria”, dare quasi a tutti la sicurezza e una certa prosperità.
Naturalmente il sistema aveva mostrato delle debolezze.
Funzionava forse male, ma funzionava.
Una tomba modesta di un africano ucciso nel 238, durante la rivolta contro Massimino, giudicato barbaro e tirannico, dice di più sul successo di Roma che un lungo discorso.
Vi si può leggere difatti: “Morì per amore di Roma”.
Pag. 363-95
Parte terza. Un altro mondo romano, 3. -5. secolo
Il periodo inaugurato dall’anno 235 non può più essere studiato oggi come lo è stato fino a qualche decennio fa: i progressi della ricerca hanno radicalmente modificato l’idea che se ne facevano gli storici.
Certo, esso corrisponde essenzialmente alle tre tappe ben distinte dalla tradizione storiografica.
L’innovazione va dunque cercata non nelle cesure cronologiche, ma nelle caratteristiche di ciascuna di queste fasi.
Così, gli anni dal 235 al 284, che attualmente sono in genere considerati come l’ultima parte dell’Alto Impero, furono segnati da molteplici e gravi crisi, che colpirono tutti i campi della vita pubblica (politica, difesa, economia, società, mentalità collettive, ecc.).
Ma ai nostri giorni si insiste di più sui limiti di queste crisi, che furono più o meno profonde secondo le regioni e le epoche: l’Africa e la penisola iberica, per esempio, ebbero a soffrire meno della Gallia.
Inoltre, sono bene attestate reazioni che la maggior parte degli storici attribuisce agli “imperatori illirici”.
A partire dal 284 iniziò quello che prima veniva chiamato “Basso Impero”, definizione talvolta ancora adoperata.
Questa espressione aveva finito per prendere un senso deteriore, ed era diventata sinonimo di decadenza profonda e generale, o di declino.
Di fatto oggi gli studiosi insistono, al contrario, sulla rinascita che ha riguardato un gran numero di settori: si instaura un altro ordine.
Così, alcuni studiosi preferiscono ora parlare di “tarda antichità” piuttosto che di “Basso Impero”.
Lo Stato fu riorganizzato; il potere politico, l’esercito, le istituzioni presentarono un volto differente, quello di una monarchia rafforzata, ancora più sacrale e personale che nei secoli precedenti.
Molti settori dell’economia ritrovarono il loro dinamismo, mentre i contrasti sociali si accentuarono senza per questo provocare gravi agitazioni.
Allo stesso modo, la cultura e la vita religiosa conobbero un nuovo slancio, e il conflitto tra cristianesimo e paganesimo diede uan grande vitalità all’uno e all’altro.
Con gli anni 370-400 si assiste all’apparizione di una divergenza di destini che separò l’Oriente dall’Occidente.
Ad Ovest cominciò uan nuova crisi, grave e profonda, simboleggiata da due date: nel 406 vandali, alani e svevi attraversarono il Reno senza che nessuno li potesse arrestare; nel 410 Alarico si impadronì di Roma.
Ciononostante, in alcune zone esisteva ancora una certa vitalità, e organi come la Chiesa, per esempio, riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni create dalla storia, prolungando così la “tarda antichità”.
L’est, al contrario, vide levarsi l’alba di una nuova civiltà; è certamente a prezzo di qualche dolore che nasce il mondo bizantino.
Pag. 399-400
Ma la grande innovazione di quest’epoca è lo straordinario sviluppo della letteratura cristiana.
La crisi ariana ha permesso ad Eusebio di Cesarea e a sant’Atanasio di manifestare il loro talento.
Ma in questo campo si possono distinguere vere e proprie “scuole” regionali o locali, fiorite in Cappadocia (san Basilio, san Gregorio di Nazianzio, san Gregorio di Nissa), ad Antiochia (san Giovanni Crisostomo), ad Alessandria (Origene, Claudiano), in Africa (san Cipriano, Arnobio, Lattanzio, sant’Agostino) e in Spagna (Orosio e Prudenzio).
Un po’ in disparte da questo movimento, per l’importanza del loro messaggio teologico, sant’Ambrogio, vescovo di Milano, e il dalmata san Girolamo, sono un esempio dei cosiddetti “Padri della Chiesa”.
Utili sono anche le letterature periferiche, giudaica (Talmud di Babilonia e soprattutto di Gerusalemme), siriaca ed armena, e la letteratura tarda (bizantina).
Pag. 401
Presentare l’archeologia è ancora più difficile, nella misura in cui la massa dei documenti si presenta schiacciante.
Un’unica parola designa, in effetti, discipline molto differenti, dai mille progetti, che vanno dal fermaglio e dalla fibbia di cinturone, alla villa e alla città, passando per la ceramica e ogni tipo di monumento; si parlerà in seguito di statue (gruppo dei tetrarchi a Venezia), di monumenti (arco di Tessalonica), di abitazioni (Piazza Armerina, Montmaurin), di palazzi (Spalato), di chiese (san Clemente, san Martino ai Monti), di campi militari (Luxor, forti della Siria), ecc.
Questo quadro permette di comprendere quello che è, dal punto di vista delle fonti, il compito appassionante dello storico, in particolare quando studia il terzo e quarto secolo; per ricreare in realtà, egli deve utilizzare tutti i tipi di documenti che si trovano a sua disposizione, non senza averli preliminarmente passati al setaccio della sua critica: egli deve sapere quello che può attendersi e quello che non deve attendersi.
La principale difficoltà risiede proprio qui, e presenta due aspetti: molti documenti sono poco conosciuti, e molti altri ancora non sono mai stati studiati scientificamente.
Ci sono ancora molte ricerche da fare.
Pag. 403
Cap. 13. Un certo equilibrio: l’anno 235
Nel 235, quando muore l’ultimo dei Severi, l’Impero ha raggiunto un certo equilibrio (oggi non si crede più che l’avvento di Settimio Severo, nel 193, abbia segnato l’inizio di una grande crisi).
Si è persa la memoria dell’allarme e degli anni terribili di Marco Aurelio, e le difficoltà che si presentano qua e là sono generalmente percepite come seccature tutto sommato normali e provvisorie.
Quando al pessimismo visibile negli scrittori, esso deriva da un luogo comune letterario, il rimpianto die tempi passati.
Certo, questo equilibrio è minacciato; ma in quel momento non se ne accorge nessuno, tranne alcuni spiriti elevati che sentono di vivere in un periodo di crisi che è, ai loro occhi, biologica e morale.
Pag. 405
Rimasta relativamente stabile nelle sue linee essenziali a partire da Augusto, la società aveva la tendenza a cristallizzarsi.
I senatori avevano perduto il loro ruolo politico, ma conservavano il loro posto nell’amministrazione provinciale e nell’esercito.
Nel consiglio dell’imperatore e nei grandi servizi statali, il loro ruolo diminuiva a vantaggio dei cavalieri in piena ascesa.
Inoltre, si distinguevano sempre più le élite provinciali i cui membri entravano in Senato e nell’ordine equestre.
Dal secondo secolo si era manifestata una reazione contro questa mobilità.
Ulteriore fermento di disunione: l’espansione del cristianesimo.
Pag. 406
L’Oriente di lingua greca era stato organizzato, come l’Occidente, in diversi, vasti comprensori, quattro dei quali sono chiaramente distinguibili: la penisola balcanica, l’Anatolia, la Siria e l’Egitto.
Sottomesse al potere di Marco Antonio durante la guerra civile conclusa nel 31 a. C., durante il regno di Augusto queste regioni non sempre furono privilegiate dal potere centrale.
Ma Atene, la Macedonia, Pergamo, il paese dei Galati, la Siria, l’Egitto beneficiavano di un retaggio culturale ed economico e nel 235 si trovavano in una situazione generale molto buona.
Pag. 413
Dunque, il peso del clima e della storia, il ruolo del potere politico e le relazioni interprovinciali si adoperavano a cancellare le differenze tra le parti dell’Impero.
E’ però difficile parlare dell’Impero nel terzo secolo senza parlare dei suoi vicini.
Conviene distinguere, a questo proposito, tre grandi settori, e l’evoluzione degli effettivi militari romani mostra quali nemici temeva lo stato maggiore (il che non vuol dire che quest’ultimo qualche volta non si sbagliasse).
I nemici forse più pericolosi, in proporzione al loro numero, erano senza dubbio i Britanni, che vivevano a nord dei valli di Adriano e Antonino Pio; Pitti e Scoti potevano facilmente attaccare sia da terra che dal mare.
Contro di loro era stato necessario mobilitare (e tenere bloccate) tre legioni, più di un decimo dell’esercito imperiale.
Sul continente, oltre il Reno e il Danubio, vivevano i Germani.
La loro demografia e la loro efficacia in combattimento ne facevano dei nemici terribili.
Fino ad allora essi erano vissuti in piccole comunità, molto aggressive e, per fortuna, per lo più prive di coordinamento.
Ma ecco che all’inizio del terzo secolo si costituirono delle leghe; gli Alamanni affacciavano sull’angolo formato dai corsi superiori del Reno e del Danubio; i franchi erano stanziati al di là del corso medio ed inferiore del Reno.
E non è tutto: il goti, ai quali soprattutto il re Kniva diede un’organizzazione unitaria, scendevano verso sud e sud-est.
Non è sicuro che i movimenti di popolazioni attestati per quest’epoca in Estremo Oriente, possano aver avuto ripercussioni profonde e rapide sul settore renano-danubiano del limes.
Ma è certo che la situazione di degradava.
Pag. 418-19
La seconda maggiore fonte di pericolo si trovava in Asia.
Forse meno terribile sui campi di battaglia, l’Iran era però il solo grande Stato organizzato capace di controbilanciare la potenza di Roma, e il numero di legioni incaricate di sorvegliarlo (nel terzo secolo era arrivato a dieci) non aveva cessato di crescere dall’epoca di Augusto.
Il problema era tanto più importante, in quanto il grande commercio di prodotti pregiati dall’Estremo Oriente passava in parte per il territorio iraniano.
Tra Iran e Roma c’era un eterno pomo della discordia: l’Armenia.
Pag. 419
Quando si occupava della sua “frontiera” meridionale, l’imperatore era meno preoccupato.
Gli eventuali nemici non avevano nessuna unità politica, né potenziale demografico, e non rappresentavano un pericolo militare, se non per la mobilità legata al nomadismo.
Pag. 420
Nel 235 l’Impero sembrava aver raggiunto un certo equilibrio; malgrado alcune difficoltà, l’ordine e la prosperità regnavano in maniera molto generalizzata.
Si potrebbero tuttavia rilevare due possibili fonti di inquietudine.
Da una parte, l’Oriente e l’Occidente, che costituivano due entità differenti, non erano progrediti con la stessa velocità; l’Occidente latino era forse partito prima dell’Oriente greco, dall’età augustea.
Ma ad essere precisi, la fase di sviluppo durava da molto più tempo, e si affievolì, mentre l’Oriente conobbe un grande dinamismo nel secondo secolo e all’inizio del terzo secolo.
D’altra parte il limes che separava Roma e i barbari funzionava ancora in modo soddisfacente.
Ma germani e iranici modificarono le proprie strutture politiche, sociali, militari.
Da questi due lati difficoltà si erano manifestate a partire da Marco Aurelio; l’ultimo dei Severi dovette combattere contro persiani e alamanni.
Gli assassini di Severo Alessandro – i suoi stessi soldati – ignoravano che essi aprivano una nuova era.
Pag. 421
Cap. 14. Un ordine che si sfalda: le crisi, 235-284
A partire dal 235 l’Impero precipitò in una crisi che gli autori contemporanei hanno descritto con accenti tragici.
Di fatto, è impossibile negarne la gravità e la portata generale.
La ricerca recente, tuttavia, tende a mettere in rilievo alcuni limiti di questo crollo, e constata l’esistenza di reazioni.
Forse conviene non cedere al pessimismo assoluto degli scrittori di quest’epoca.
Pag. 423
Ma l’Impero non era ancora arrivato al fondo della rovina: è con il regno di Valeriano (253-259/260) che conobbe i momenti più difficili.
Il nuovo sovrano apparteneva alla crema dell’aristocrazia; di origine illustre, aveva percorso la carriera senatoria, il che non gli aveva risparmiato le critiche dei suoi pari.
Senza dubbio, Valeriano fu più sfortunato che male intenzionato.
Pag. 426
E’ certamente attorno al 260 che si situò la fase più tragica della crisi; invasioni e usurpazioni si sommavano in uan sinistra contabilità.
I Rossoliani e i Sarmati avevano investito la Pannonia; gli Alamanni avevano invaso la Gallia, minacciando l’Italia dove Gallieno riuscì a fermarli solo dopo che avevano invaso il nord della penisola.
Sotto la monarchia di Odenato, Palmira si era staccata dall’Impero; sempre in Oriente, conosciamo almeno due usurpatori, Macriano e Quieto.
Sul Danubio, Regaliano, dopo aver sconfitto i Rossolani, si proclamò imperatore.
A Colonia, Postumo aveva voluto anche lui vestire la porpora, ma limitava il suo impero alla Gallia.
Valeriano il giovane, figlio e nipote dei sovrani, era assassinato.
Ma non finisce qui.
Doveva consumarsi l’umiliazione suprema: l’imperatore Valeriano, che era stato catturato dai persiani forse nel 529, fu messo a morte al più tardi nel 260, e le sue spoglie (o le vesti da schiavo che era stato costretto ad indossare) furono esposte nelle principali città dell’Iran (il bassorilievo di Bishapur permette di comprendere meglio questa storia).
Sapor si poté vantare di questa vittoria totale nella celebre iscrizione di Naqs-i-Rustem, chiamata Res Gestae Divi Saporis (“Le imprese del divin Sapor”), per analogia con le Res Gestae Divi Augustii (“Le imprese del divino Augusto”).
Pag. 427
Caratteri e limiti della crisi
Si conoscono da molto tempo i principali caratteri della grande crisi del terzo secolo.
Si tratta in gran parte di una crisi di origine militare.
Per la prima volta il nemico attaccò simultaneamente o quasi su due fronti, e con attacchi incessanti.
Bisognava respingere i germani a nord, sia sul Reno che sul Danubio, e i persiani a est.
Gli imperatori dovevano correre senza sosta da un capo all’altro dell’Impero e sguarnire una provincia per difenderne un’altra.
Questa situazione incoraggiò alla rivolta altri popoli, che, senza questo contesto, sarebbero rimasti tranquilli.
La sconfitta rivelò inoltre altre due debolezze della strategia augustea.
Da una parte, uan volta sfondato il limes, i barbari non incontravano più alcun ostacolo: l’insieme dell’esercito era stato disposto lungo una stretta linea di demarcazione che separava il mondo romano dal mondo barbaro.
D’altra parte il comando non disponeva di nessuna riserva di effettivi, per cause sia economiche che demografiche: la politica di qualità praticata al momento del reclutamento o restringeva le scelte e costringeva a pagare salari congrui.
Le sconfitte trascinarono con sé uan crisi politica: alla guerra esterna, contro i barbari, si aggiunse la guerra civile, tra romani.
I soldati intervenivano spesso, poiché ritenevano il loro capo supremo responsabile delle loro disgrazie; essi eliminavano il sovrano in carica e gli davano un successore secondo un processo ben noto: il prefetto del pretorio faceva assassinare l’imperatore, prendeva il suo posto e nominava un prefetto del pretorio che, a sua volta, lo faceva mettere a morte.
L’Impero, privo di una dinastia, era diventato “una monarchia assoluta regolata dall’assassinio”, di qui la brevità dei regni.
Questa situazione, per giunta, eccitava gli appetiti, e gli ambiziosi che avevano truppe a disposizione rivestivano la porpora, a volte non senza successo: un imperatore legittimo spesso non era che un usurpatore vittorioso.
In queste condizioni nessuno poteva godere della continuità necessaria a una politica di ripresa.
Le sconfitte militari trascinarono con sé anche una crisi economica.
Per tradizione nell’antichità gli invasori si abbandonavano al saccheggio: il bottino costituiva il loro obiettivo dichiarato e distruggevano quello che non potevano portare con sé.
Dopo essersi serviti, i barbari devastavano le città, sterminavano le greggi, incendiavano i raccolti.
La mancanza di sicurezza tagliava le vie commerciali.
I disordini facevano rinascere brigantaggio e pirateria.
L’evoluzione della moneta permette di seguire l’evoluzione della crisi: in effetti le invasioni, per il blocco degli scambi che causavano, costituivano un primo fattore di inflazione, al quale si aggiungevano le promesse sconsiderate fatte ai soldati dagli usurpatori, le spese inerenti a guerre lunghe e dure, e i tributi versati ai barbari.
La situazione finanziaria dell’Impero si trovava in un equilibrio instabile da molto tempo: il commercio con i paesi al di là del limes era deficitario ei salari versati ai militari divoravano già in tempi normali il grosso del bilancio statale.
Pag. 427-28
Queste difficoltà economiche trascinarono con sé, come ci si doveva aspettare, una crisi sociale.
I poveri furono resi ancora più poveri dalle invasioni e dalla crescente pressione fiscale.
L’iscrizione di Scaptopara, in Tracia, dell’età di Gordiano 3., trova un’eco nei lamenti dei coloni imperiali di Aragoé di Frigia, durante il regno di Filippo l’Arabo; tutti protestavano contro requisizioni giudicate abusive.
I notabili municipali, resi responsabili del prelievo dell’imposta, prima rallentarono, quindi interruppero completamente i loro atti di evergetismo.
Anche i ricchi patirono per le circostanze, ma non tutti.
Infine, indici di un’epoca di crisi, brigantaggio, pirateria e peste fecero la loro riapparizione.
Queste sciagure, ancora più gravi nella percezione dei contemporanei, provocarono una crisi morale.
Non sapendo come scongiurare la rovina, gli uomini vivevano nello smarrimento.
Le loro incertezze furono trasportate sul piano religioso, , come è normale trattandosi di romani.
Ma ben pochi misero in dubbio la volontà degli dèi e, a più forte ragione, la loro esistenza.
La domanda che ci si poneva era semplice: “Perché gli dèi (che senza dubbio esistono) non ci proteggono più?”.
La risposta veniva da sé: “La pace degli dèi è stata infranta perché esiste nel seno dell’Impero uan setta ampia, che non li onora”.
Il lettore avrà indovinato che si tratta dei cristiani.
Di qui le persecuzioni.
Pag. 429
La guerra su due fronti ebbe dunque l’effetto di disarticolare la vita politica, economica, sociale dell’Impero, e di provocare le persecuzioni.
A questa origine, largamente accettata tra gli studiosi, bisogna forse aggiungere altre cause di crisi.
In primo luogo, ci si deve domandare se non bisogna chiamare in causa quella che gli economisti chiamano la congiuntura, soprattutto riguardo alle province di Occidente.
L’economia, a partire dall’età di Augusto, non aveva smesso di crescere, ad un ritmo sempre più rapido: al lento sviluppo dell’età giulio-claudia era seguita l’accelerazione dovuta all’opera dei Flavi e un apogeo che si situò sotto gli Antonini e i Severi.
E’ risaputo che normalmente uan lunga fase ascendente (di sviluppo) è seguita da una fase discendente (di crisi).
Ma, da una parte, non disponiamo ancora di una documentazione dettagliata che ci consenta di circoscrivere bene questo fenomeno; d’altra parte, non è per niente sicuro che le economie antiche abbiano strettamente seguito quello schema.
La congiuntura non è, dunque, che un’ipotesi.
In secondo luogo, e questo punto sembra più sicuro, la crisi del terzo secolo appare anche come una crisi di adattamento.
Le istituzioni politiche, l’amministrazione territoriale e locale, così come l’esercito, risalivano, nelle linee generali, all’epoca di Augusto che a sua volta aveva raccolto l’eredità della Repubblica.
Ora si ponevano problemi completamente nuovi: al principato era seguito il dominato, la guerra era stata aperta su due fronti, e non si sapeva come comportarsi con i cristiani, che bisognava integrare poiché non era possibile sterminarli, ecc.
L’anima romana era tutta impregnata di diritto: per apportare nuove soluzioni a questi nuovi problemi, essa sentiva il bisogno di nuove istituzioni.
Le ricerche recenti impongono comunque di marcare bene i limiti di questa crisi del terzo secolo.
La messa a punto riguarda tre aspetti principali.
SI tratta in primo luogo della cronologia.
Oggi non si ritiene più che il regno dei Severi vada compreso nell’età della crisi, salvo per qualche caso eccezionale: è anzi vero il contrario, l’epoca severiana corrisponde per molte province ad un apogeo, per esempio in campo economico.
Le difficoltà cominciarono solo nel 235 e l’Impero sprofondò sempre più nella crisi fino al 260.
Tuttavia, anche alle prese con le peggiori difficoltà, il potere non rimase mai inattivo; alle reazioni militari, bisogna aggiungere altre misure come, per esempio, la creazione di zecche periferiche a partire dal 250.
Il secondo aspetto di cui bisogna tener conto è la geografia.
Non c’è alcun dubbio che i nemici più pericolosi siano stati da una parte i persiani, dall’altra i germani, in particolare i franchi, gli alamanni e i goti.
Le province più esposte ai loro attacchi soffrirono di più e più precocemente delle altre.
L’Egitto, per esempio, fu seriamente coinvolto solo a partire dal 260; le campagne si spopolarono, le terre ai margini del deserto furono abbandonate: anche il Fayoum fu interessato.
Tuttavia, anche di fronte al nemico, alcuni settori seppero resistere meglio di altri: la città di Olbia nel Ponto non fu abbandonata che alla fine del terzo secolo.
Tra le regioni meno toccate dalla crisi bisogna segnalare l’Africa e la penisola iberica, in particolare, rispettivamente, l’Africa Proconsolare centrale e meridionale, e la Lusitania, allora in pieno sviluppo.
Tuttavia, in Africa, un’onda di ribellione partì dalla Mauretania Cesariense e debordò in Numidia; disordini sono ancora attestati nel 260.
Usurpazioni e secessioni, quella di Postumo in Gallia e di Odenato a Palmira, in particolare, mostrano sia la debolezza del potere centrale che la volontà di resistenza dei provinciali.
Non è infatti un caso che le due secessioni più importanti siano scattate là dove la pressione era più forte: in Gallia e a Palmira, esposte agli attacchi, rispettivamente, di germani e persiani.
Pag. 430-32
Interzo luogo, bisogna osservare che non tutti i settori di attività furono investiti con la stessa durezza.
La ricchezza fu in parte redistribuita.
La vita è cambiata.
Certo, alcune città si cinsero di mura che comprendevano uan superficie inferiore a quella dei secoli precedenti.
Ma, è questo il punto, esse sono state in grado di costruire queste informazioni.
Si assiste inoltre all’inizio di un ritorno alla terra, che si manifesterà chiaramente solo nel secolo seguente; i potenti si stabilirono in maniera più duratura nelle loro proprietà fondiarie.
Infine, malgrado le persecuzioni, o forse a causa di queste persecuzioni, il cristianesimo continuò a svilupparsi.
Nella seconda metà del terzo secolo Dionigi di Alessandria (apologeta e vescovo) e la “scuola” di Antiochia contribuirono all’approfondimento della dottrina.
La stessa gnosi può essere interpretata come un segnale di vitalità: divisa in più sette, questa teologia eterodossa proponeva la conoscenza (in greco: gnosis) perfetta di un dio puro spirito, essa affermava che la ricerca del bene conduce la rifiuto della materia, fonte del male.
Ma la migliore prova di vitalità del mondo romano è fornita dal comportamento del potere centrale.
Pag. 432
La reazione del potere centrale, 260-284
In effetti, il periodo che va dal 260 al 284 è segnato da una reazione continua contro questa crisi.
Lo stesso Giuliani, che visse in un momento così fosco, non restò inattivo, contrariamente a quando pretendeva la tradizione storiografica senatoria.
E i suoi successori, designati con la definizione generale di “imperatori illirici” per l’origine geografica della maggior parte di loro, ristabilirono gradatamente la situazione.
Pag. 433
Eredità di una crisi
Germani e persiani avevano fortemente intaccato l’organizzazione del 235.
Il potere imperiale aveva dovuto rafforzarsi, l’esercito acquisire maggiore mobilità.
L’organizzazione economica era stata sconvolta, allo stesso modo delle strutture sociali e delle mentalità collettive.
Ma restavano ancora molti problemi da risolvere e bisognava tener conto di tutta un’evoluzione.
Spettava al vincitore di Carino assumersi il compito di stabilire un nuovo ordine.
Pag. 436
Cap. 15. L’instaurazione di un altro ordine, 284-361
I disordini e le distruzioni del terzo secolo ebbero come conseguenza l’instaurazione di un altro ordine e permisero di costruire o ricostruire un mondo differente.
Utilizzando e sistematizzando l’opera dei loro predecessori, Diocleziano e poi Costantino riorganizzarono lo Stato, l’economia, la società.
Un nuovo equilibrio fu raggiunto a metà del quarto secolo, sotto Costanzo 2.
Nello stesso tempo si sviluppò una cultura materiale e spirituale riconosciuta oggi come a un tempo originale e brillante.
Diocleziano e la Tetrarchia, 284-305
Nato verso il 245 in Illiria, in una famiglia umile, Diocleziano percorse una carriera militare che lo portò al comando dei protectores di Caro; dopo l’assassinio di questo imperatore, nel 284, egli non era che l’ultimo di una lunga serie di usurpatori.
Ma Diocleziano seppe approfittare del vuoto creato dalle distruzioni del terzo secolo, come anche delle prime misure di salute pubblica applicate dai suoi predecessori, gli “imperatori illirici”, di cui lui stesso none ra che l’ultimo rappresentante.
Agendo con ingegno e spirito empirico, godette di un lungo regno (venti anni di potere).
La sua politica, in apparenza contraddittoria, fa di lui da una parte un riformatore e persino un creatore (istituzioni, esercito), d’altra parte un reazionario nel senso preciso del termine (nel campo religioso egli volle tornare ad una fase precedente).
Fu tuttavia il salvatore dell’unità dell’Impero.
Pag. 439
Costantino, 306-337
Anche Costantino poté contare su un lungo periodo di regno; all’inizio proseguì l’opera riformatrice di Diocleziano e la completò prima di ristabilire l’unità del potere, ma se ne scostò, e in maniera radicale, nel campo religioso.
Figlio di Costanzo Cloro e di Elena, che forse era stata cameriera in una taverna, Costantino nacque a Nis verso il 280.
Come Diocleziano, era un soldato (guerra in Egitto nel 295-296, quindi contro i sarmati) e un pragmatico.
Non possedeva l’attitudine del teorico e le sue capacità di concettualizzazione sembrano essere state molto limitate; malgrado lunghe sedute di spiegazione, vescovi che lo consigliavano non sembrano essere riusciti a fargli ben comprendere la differenza che separava l’ortodossia dall’arianesimo.
In breve, un uomo “di fronte stretta, ma forte mascella” (J.-P- Callu).
Pag. 443
Ad ogni modo, questa conversione fu preceduta da un atteggiamento di reale simpatia per il cristianesimo: le persecuzioni furono abbandonate.
Galerio aveva promulgato un editto di tolleranza nel 311 e Massimino Daia un editto di persecuzione nel 312.
Con l’editto di Milano Licinio e Costantino stabilirono nel 313 la “pace della Chiesa”: la libertà di culto era assicurata e i beni confiscati furono restituiti.
In più, il potere intervenne in due conflitti: il donatismo fu condannato come scisma dal sinodo di Arles del 314 e l’arianesimo come eresia dal concilio di Nicea del 325.
Pag. 443
I figli di Costantino
La storia, alla metà del quarto secolo, fu dominata da tre problemi: il potere, la cristianizzazione, i barbari.
Dal punto di vista politico la grande impresa dell’epoca consistette nel ristabilimento dell’unità, in un primo momento con l’eliminazione di tutti gli imperatori legittimi, finché non ne restò che uno.
Nel 337, e dopo tre mesi di intrighi, Dalmazio du assassinato.
Ci si divise allora l’Impero in tre: : Costantino 2., che esercitava la sua autorità sul collegio imperiale, si occupava della Gallia, della Britannia e della Spagna, Costante dell’Africa, dell’Italia e dell’Illirico e Costanzo 2. dell'Oriente.
Nel 340 Costante riunificò l’Occidente a suo vantaggio dopo aver sconfitto e ucciso Costantino 2., che aveva cercato di allargare il suo potere a spese del primo.
Costante fu a sua volta sconfitto ed ucciso da un usurpatore, Magnenzio, lui stesso sconfitto a Mursa nel 351 ed eliminato solo nel 353.
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Cronologia dei figli di Costantino
337 salgono al trono Costantino 2., Costanzo 2. E Costante
338 assedio di Nisibi
340 Morte di Costantino 2.
343 Costanzo 2. in Adiabene
350 usurpazione di Magnenzio
354 esecuzione di Gallo Cesare
355 Giuliano nominato Cesare
357 battaglia di Strasburgo; viaggio di Costanzo 2. a Roma
360 Giuliano proclamato Augusto
361 morte di Costanzo 2.
Tre imperatori e la loro opera
Il periodo che va dal 284 al 361 è stato dominato da tre personalità, quelle di Diocleziano, di Costantino e di Costanzo 2.
Le misure prese da ciascuno di loro hanno contribuito a far nascere un altro modo romano, con nuove istituzioni, con un’economia, strutture sociali e una civiltà originali.
Il pericolo, in particolare quello rappresentato dai barbari, si era fatto, malgrado tutto, meno pressante.
Pag. 448
Cap. 16. Altre istituzioni: la riorganizzazione
L’Impero romano nel quarto secolo più che mai, restò uan monarchia assoluta.
Ma la finzione del principato era stata abbandonata e non si esitava a parlare apertamente di “dominato”.
Il sovrano diventò onnipresente attraverso uan burocrazia capillare; nelle sue mani l’esercito restava uno strumento di potere fondamentale.
Tuttavia, davanti alle difficoltà che si accumulavano, egli era sempre più costretto alla divisione del potere, divisione dell’impero.
Pag. 449
La crisi del terzo secolo, che aveva provocato uan profonda modificazione dello Stato, aveva avuto conseguenze anche sull’esercito, tanto più che essa era stata in primo luogo una crisi militare.
Dal punto di vista dell’organizzazione non si può dimenticare l’eredità di Gallieno: egli aveva sviluppato la cavalleria e creato una riserva mobile alle spalle della frontiera.
Non bisogna neanche dimenticare il ruolo dell’esercito, che interveniva in numerosi settori della vita pubblica, e soprattutto nella politica.
Era l’esercito che aveva fatto e disfatto gli imperatori, ma il rafforzamento dell’autorità del sovrano e il parallelo degrado di questo stesso esercito, gli avevano a poco a poco fatto perdere questo potere.
Comunque, la sola presenza di una guarnigione modificava le strutture economiche, culturali, religiose del territorio di pertinenza.
Pag. 455
I figli dei soldati, “nati nel campo” (castris) , formavano una buona parte degli effettivi e, quando mancavano le reclute tradizionali, si accettavano volontari barbari.
Pag. 457
Con il tempo il reclutamento fece sempre più spesso appello ai barbari, in particolare a gruppi di franchi; costoro scalarono lentamente la gerarchia, fino a raggiungere i gradi più alti.
Pag. 461
L’esercito romano del quarto secolo sembra comunque aver perso parte dell’efficacia che aveva posseduto il suo antenato alto imperiale.
Questa evoluzione è certamente la conseguenza di un certo indebolimento del reclutamento, a sua volta conseguenza delle difficoltà finanziarie in cui versava lo Stato.
L’autore del De rebus bellicis ha senza dubbio visto giusto su questi argomenti.
Lo Stato doveva assicurare l’ordine alle frontiere e anche all’interno dell’Impero.
A questo fine, e conformemente al gusto dei romani per il diritto, esso ricorse ad un sistema complesso di istituzioni, in parte ereditate dall’Alto Impero; ma il contenuto di ciascun organo poteva variare, e i nomi corrispondevano spesso a realtà differenti.
Così, esisteva ancora un’organizzazione dello spazio in province.
Per di più, l’Italia stessa aveva perso tutti i suoi privilegi ed era stata equiparata al modello amministrativo delle altre parti del mondo romano.
Diocleziano aveva spezzettato le province, portandone il totale da 47 a 85.
Si sa che Byzacena e Tripolitania, sottratte all’Africa, furono create tra il 294 e il 305.
Il primo praeses di Byzacena porta il titolo supplementare di perfecissimus, i suoi successori, tra il 312 e 322, diventarono clarissimi, e sono chiamati talvolta “consolari”.
Invece, tutti i loro omologhi attestati in Tripolitania restarono perfectissimi.
I governatori ebbero il titolo di praeses; quelli di Asia e Africa restarono proconsoli, gli altri furono chiamati consulares o correctores.
Essi persero definitivamente e completamente i loro poteri militari con Costantino.
Non restava loro che un’importante funzione giudiziaria, che essi rivestivano d’altronde da molto tempo: la loro presenza è attestata ancora all’inizio del quinto secolo (in particolare in Africa, contrariamente a quanto si riteneva fino ad ora).
Si deve ancora a Diocleziano il raggruppamento delle province in diocesi.
A capo di ciascuna si trovava un personaggio importante, in un primo momento semplice collaboratore del prefetto del pretorio, che ebbe in seguito il titolo di vicario.
Il numero e la composizione di questi raggruppamenti hanno variato nel corso del tempo, per restare all’incirca tredici.
Pag. 463
Il quarto secolo, come l’Alto Impero, ha conosciuto il regime della monarchia assoluta.
Ma ora il potere diventa più presente, pressante o oppressivo.
Il personale al servizio dello Stato, senza raggiungere le cifre del 21. secolo, diventa certamente più numeroso e la burocrazia più pignola.
Soldati e funzionari occupavano uno spazio crescente nella società del tempo.
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Cap. 17. Un altro contesto socioeconomico: la ripresa e la statalizzazione
Percepibile negli anni fra il 275 e il 300, la ripresa economica si affermò nettamente con l’epoca di Diocleziano.
I segni di una nuova crisi fecero tuttavia la loro apparizione dopo il regno di Giuliano (361-363): bisogna quindi stabilire i limiti, nel tempo e nello spazio, di questo sviluppo.
La situazione particolare così creatasi, ma anche l’eredità dei disordini del terzo secolo e le esigenze, tanto civili che militari, dello Stato, spiegano i caratteri specifici della società del quarto secolo.
Pag. 471
Così, dal punto di vista della cronologia, si conosce bene il caso dell’Africa.
La ripresa si manifestò dal 276, e fu molto netta sotto Diocleziano; la guerra civile provocò un rallentamento, seguito da una nuova fase di sviluppo sotto Costanzo 2., con un apogeo sotto Giuliano.
Una prosperità certa durò fino all’epoca di Teodosio.
Ma la fine del quarto secolo vide il ritorno della crisi, ben evidente sotto Onorio.
Quanto alla diversità geografica, essa permette di distinguere regioni più minacciate, la Gallia, la Britannia e le province che confinavano con Reno e Danubio, particolarmente bersagliate dalle invasioni barbariche.
L’Egitto, con l’eccezione di Alessandria, non aveva mai conosciuto una vita municipale molto attiva.
Italia e Spagna si mantennero relativamente bene.
In Anatolia e anche nella Siria di Libanio, ad Antiochia, c’erano ancora uomini che si appassionavano all’amministrazione della propria città.
L’Africa, infine, offre un esempio di buona salute municipale; sono stati enumerati 332 cantieri per il quarto secolo e in Proconsolare e Numidia anche le montagne erano romanizzate.
Ma si trattava si trattava soprattutto di lavori di restauro, e le Mauretanie e la Tripolitania seguivano a fatica il movimento generale.
Pag. 472
La prima vera e grande riforma si deve a Diocleziano nel 294.
Si mise in piedi un nuovo sistema, con nuovi pesi e nuove denominazioni; il fatto che si sia ufficialmente conservato il sistema bimetallico non deve far dimenticare la realtà: l’oro acquistò uan parte crescente negli scambi, il che si spiega con un maggiore dinamismo dell’Oriente in materia di commercio.
L’instaurazione di questo sistema provocò uan grave crisi finanziaria segnata da un aumento generalizzato del costo della vita.
Lo Stato si sforzò di reagire.
Nel 300 si ordinò uan indagine estesa a tutto l’Impero per stabilire il valore di merci e lavoro.
Quindi l’editto sui prezzi massimi (301), conosciuto grazie all’epigrafia, fissò un tetto da non superare per ciascun prezzo e ciascun salario.
Il testo, esposto in greco e in latino, doveva essere applicato in tutte le province e i contravventori rischiavano la pena di morte!
Contrariamente a quanto sostenuto da certi commentatori, questa misura conobbe un successo almeno relativo: i ricchi furono soddisfatti perché essa contribuiva alla stabilizzazione dei prezzi, i poveri perché ritoccava i bassi salari.
Pag. 472-73
Spesso soggetti al regime del colonato, i barbari stanziati nell’Impero erano inquadrati in differenti categorie giuridiche: 1: i deditici, sconfitti in guerra, dovevano pagare la capitazione e prestare servizio militare; essi vivevano su proprietà imperiali o private; 2: i federati, quelli che avevano ottenuto da Roma un trattato (foedus), avevano ricevuto il diritto di proprietà (commercium); 3: i leti (i franchi rientravano in questa categoria) fornivano reclute in cambio di terre; essi occupavano dunque una posizione intermedia tra deditici e federati; 4: i gentiles (soprattutto sarmati) avevano lo stesso statuto dei leti.
Questi nuovi venuti presentavano un vantaggio, fornire un rinforzo alla manodopera, ma ponevano un problema, poiché non si assimilavano.
Pag. 475
In linea di generale, lo Stato riflette la società del suo tempo.
L’Impero romano nel quarto secolo conobbe una situazione originale: lo Stato si sforzò di modificare la società affinché essa soddisfacesse i suoi bisogni.
Beninteso, lo Stato non conobbe un successo totale in questa impresa.
Ma solo il fatto che ci fosse questa volontà fece sì che la società del quarto secolo fu una società per ordini più di quanto lo fosse stata in passato.
L’imperatore, con una legislazione sempre più abbondante, definiva con sempre maggior precisione le gerarchie e i posti in queste gerarchie.
Dal punto di vista giuridico si operò la fondamentale opposizione tra l’élite degli honestiores e la massa degli humiliores, in virtù della quale le due categorie non avevano diritto ad un trattamento uguale davanti ai tribunali; per uno stesso delitto i primi erano puniti meno severamente dei secondi.
E’ innegabile che si trattasse anche di una società divisa in classi.
E’ chiaro che la concentrazione fondiaria, cui già si è fatto cenno, implicava, con tuta evidenza, una concentrazione di ricchezze.
Uan minoranza sempre più ristretta accaparrava una parte crescente dei beni; per quanto motivo la maggioranza diventava contemporaneamente più numerosa e più povera.
Pag. 477
Questa società del quarto secolo appariva insomma come molto legata al potere politico che interveniva dappertutto: era questa la statalizzazione.
Questa società sembra anche più frammentata in gruppi, in cellule, che ordinatamente disposta in strati orizzontali.
Un’altra originalità dell’epoca attiene ai nuovi rapporti che si stabiliscono tra città e campagna.
Esiste un’immagine tradizionale del quarto secolo, su questo argomento: declino delle città e ripiegamento sulle campagne.
Le ricerche recenti hanno rimesso in discussione questo schema.
Pag. 485
Dall’epoca di Costantino sono attestate grandi basiliche, San Pietro e soprattutot il Laterano, più tardi Santa Maria Maggiore.
Fuori della città le catacombe, come quelle di Domitilla e di San Callisto, permettevano di onorare tutti i defunti e in particolare i martiri.
Il caso di Costantinopoli è già stato ricordato prima.
Pag. 486
Un carattere generale del quarto secolo è costituito dallo sviluppo di centri economici di altra natura, le ville rustiche, soprattutto in Occidente.
Non bisogna certo immaginare un esodo immenso dalla città verso la campagna, nondimeno lo sviluppo della villa rustica rappresenta la manifestazione del dislocarsi dei centri di gravità in più luoghi.
In Africa l’archeologia ha portato in luce numerose fattorie fortificate e ville a torre, che sfoggiano gli stessi grandi mosaici di Cartagine e di Tabarka.
A Piazza Armerina, in Sicilia, un’immensa dimora decorata da bei mosaici potrebbe essere stata occupata da Massimiano fino al 309, secondo alcuni studiosi; di fatto, non esistono prove che la villa sia stata la dimora del tetrarca dopo il suo ritiro.
La famosa villa di Mantmaurin, in Gallia meridionale, si estendeva per quattro ettari nella sua parte centrale, per più di 200 ambienti e 18 ettari in tutto.
Si potrebbero citare molti altri esempi di questo genere di residenze, la “piccola eredità” di Ausonio o la villa di Nennig: il fenomeno raggiunse in effetti le Germanie.
Pag. 487-88
Cap. 18- Una civiltà diversa: tra paganesimo e cristianesimo, la rinascita
Da qualche decennio, gli storici che studiano il terzo e quarto secolo arrivano, nella loro maggioranza, ad una stessa conclusione: dopo la crisi – di cui conviene, anche e soprattutto qui, sottolineare i limiti – non si assiste ad un declino ma a una rinascita.
E’ bene comunque fare alcune distinzioni.
Per cominciare, si deve sottolineare che le difficoltà del terzo secolo, militari, politiche, economiche, non hanno comportato un arretramento generale delle attività intellettuali ed artistiche.
Al contrario, in certi campi, si constata che i creatori hanno continuato a perfezionare le loro tecniche di produzione: è in particolare il caso dei busti e dei sarcofaghi scolpiti: alcuni storici considerano proprio quest’epoca come un apogeo.
E il quarto secolo vide la prosecuzione di questo sviluppo, in particolare per il mosaico: immensi tappeti di tessere decorano le grandi dimore; essi si caratterizzano per le loro dimensioni, la pesantezza delle decorazioni ed una crescente indifferenza per la prospettiva.
La produzione del Maghreb, in particolare a Cartagine ea Tabarka, ha permesso di credere nell’esistenza di una scuola africana alla quale è stata attribuita, tra altre realizzazioni, la decorazione di Piazza Armerina, in Sicilia (qui hanno operato almeno cinque maestri, all’inizio del quarto secolo).
E’ comunque necessario notare i limiti di questa rinascita che non ha interessato in egual misura tutti i settori della produzione; lo si vedrà in seguito.
Pag. 489
Se tutti gli spiriti partecipavano dello stesso gusto per il passato e l’irrazionale, alcuni elementi di diversità cominciano a diffondersi.
Durante l’Alto Impero le tendenze unificatrici avevano prevalso: l’Urbe, Roma, l’imperatore e la sua famiglia costituivano modelli universali.
Si è osservato nelle produzioni artistiche un cambiamento che si produsse all’epoca di Costantino, un’epoca di transizione; dalla metà del quarto secolo, le opere presentano uan grande varietà, non solo da una regione all’altra, ma anche da una bottega all’altra.
Bisogna d’altra parte rilevare un certo numero di contrasti, che traggono origine dall’Alto Impero, ma che si accentuarono nel corso del quarto secolo.
Artisti e intellettuali erano presi tra indipendenza e servitù.
Pochi uomini disponevano di mezzi sufficienti per essere veramente liberi: molti dipendevano da benefattori.
E tutti dovevano fare i conti con il peso del potere politico, della Chiesa e delle mentalità dominanti, tutte costrizioni più soffocanti che nei secoli passati.
Bisognava sempre più scegliere tra greco e latino.
Ma gli abitanti della parte orientale si disinteressavano progressivamente al latino mentre si contavano sempre meno occidentali che usavano il greco.
Infine c’è il conflitto, più che il contrasto, che oppose pagani e cristiani.
La lotta non impediva tuttavia le influenze reciproche.
I pagani, allontanandosi dalla gaiezza dell’epicureismo volgare, gareggiarono in austerità con la morale cristiana; essi giustificavano allora questo atteggiamento con il neoplatonismo più che con lo stoicismo.
I cristiani, dal canto loro, si sforzavano di recuperare tutte le forme di arte o di pensiero possibili: piuttosto che distruggere, essi “battezzavano”.
Pag. 491
Bisogna evitare un facile anacronismo: all’inizio del quarto secolo non tutto era perduto per il paganesimo, che si trovava ancora in posizione di persecutore e che poggiava su una filosofia sempre più elaborata.
Pag. 492
Anche se aderì completamente al cristianesimo solo molto tardi e senza averlo compreso a fondo, Costantino inferse al paganesimo un colpo discreto ma ben più duro di quanto non si sia detto talvolta.
Ispirata dalla pietà o dall’interesse, o da entrambi, la legge del 331 che ordinava l’inventario dei beni dei templi, comportò confische che permisero la costruzione di Costantinopoli.
Ma la legge distrusse il potere economico del paganesimo, indebolimento che ebbe notevoli conseguenze.
Pag. 493
Agli occhi dei romani, l’appartenenza al giudaismo si definiva come l’appartenenza al tempo stesso ad una nazione e ad una religione.
Pag. 494
Niente autorizza a pensare che, dal punto di vista economico, i giudei si siano distinti dagli altri abitanti dell’Impero.
E’ in campo religioso che essi impiegavano le loro energie.
Si ammise che la Bibbia era giunta al termine: dal secondo al quarto secolo si cominciò a commentarla: quesot fu il Talmud.
Due scuole, una a Tiberiade, l’altra in Mesopotamia, raccolsero i pareri dei rabbini, raggruppandoli in numerosi trattati; la scuola di Tiberiade elaborò il Talmud di Gerusalemme (di fatto, di Tiberiade), quella mesopotamica il Talmud di Babilonia, l’uno e l’altro opere maggiori della spiritualità giudaica.
Pag. 498
La conversione dell’imperatore al cristianesimo ha costituito, per le sue conseguenze, uno degli aspetti principali del quarto secolo, lo si è visto.
Tra cristiani, giudei e pagani le relazioni erano complesse e arrivavano a volte allo scontro a volte alla pacificazione, ma erano sempre gravide di influenze reciproche.
Tutto dipendeva dai rapporti di forza.
Per quanto riguarda la “nuova fede”, la situazione variava in ragione della geografia (essa ebbe successo molto più presto in Oriente), e anche in funzione della cronologia: perseguitata durante la Tetrarchia, lo si è visto, la Chiesa conobbe “la pace” con Costantino, poi si trasformò a sua volta in organo di persecuzione, in particolare Graziano e Teodosia, come si vedrà ancora nel capitolo successivo.
Pag. 499
Nei campi della religione, della vita intellettuale e delle arti, la situazione non fu la stessa di quella descritta per l’economia.
Pagani, giudei e cristiani si opponevano gli uni agli altri, ma così si arricchivano reciprocamente.
Non c’è dubbio che furono il paganesimo, e in misura minore il giudaismo, a riuscire sconfitti: ma il loro declino fu lungi dall’essere totale.
Dal punto di vista delle lingue, si deve distinguere l’Occidente latino dall’Oriente greco.
Se rottura ci fu, essa riguardò soprattutto l’Occidente, in particolare dopo gli avvenimenti del 406 e 410; queste date, che non hanno un grande significato per il cristianesimo, riguardano soprattutto le questioni politiche e militari.
Pag. 508
Cap. 19. Verso la fine del mondo romano?
Nonostante le convenzioni accademiche, è difficile fissare una data per chiudere una storia romana.
Si può solamente osservare un processo complesso, differente secondo i settori di attività e secondo le regioni.
Si deve constatare tuttavia l’importanza almeno simbolica di alcuni avvenimenti e l’emergere di una crisi a partire dal 363.
Pag. 508
Il periodo che fu caratterizzato da una crisi analoga a quella del terzo secolo: essa traeva origine dalle guerre.
La nuova ondata di invasioni presentava caratteri particolari: in generale, ma ci furono delle eccezioni, si trattava di infiltrazioni lente e progressive.
I Barbari ammiravano Roma, ma si rivelarono incapaci o poco desiderosi di assimilarsi.
Questa situazione ebbe come conseguenza una divisione dell’Impero; ma mentre l’Occidente sprofondava nei disordini, l’Oriente fece passare la tempesta e preparò l’emergere di una nuova civiltà.
Il solo elemento d’unità venne dalla politica dinastica che fu allora seguita: a partire dal 364 e fino all’inizio del quinto secolo, uno stesso sangue continuò a scorrere nelle vene degli imperatori, eccezion fatta per Teodosio.
Per comodità espositiva si distingueranno tre epoche caratterizzate ciascuna da una personalità, Valentiniano 1., Teodosio e Stilicone.
Pag. 512
Fu dunque il tutore Stilicone a passare allora in primo piano.
Flavio Stilicone era nato verso il 360 in una famiglia di vandali stabilitasi nell’Impero e convertita al cristianesimo, ma di tendenza ariana.
Questa personalità è stata molto discussa, presentata da alcuni come un barbaro amico del capo dei goti, Alarico, da altri come un romano, difensore dell’Urbe; di fatto, egli si comportò come un barbaro romanizzato.
E’ questo ciò che mostrano la sua carriera e le sue relazioni con Claudiano.
Pag. 516
La fine di Roma?
Lo storico si trova sempre in difficoltà quando deve scegliere una data per chiudere una storia di Roma.
In effetti al momento della scelta si pongono tre domande: che cos’è successo? In che modo ciò è successo? E solo alla fine: in quale momento ciò è successo? Per riassumere: cosa, come e quando?
Alla prima domanda (“che cosa?”) sono state date molte risposte, dagli studiosi, tre tesi tengono oggi il campo.
Molti studiosi, e da molto tempo hanno parlato di decadenza.
Dall’antichità, questa idea costituiva un luogo comune della letteratura, e i cristiani rincararono la dose: la fine di Roma era una punizione inviata da Dio.
Durante il Rinascimento sono state cercate di nuovo cause morali: Biondo e Machiavelli vi aggiunsero il declino demografico; ancora nel Settecento Montesquieu e Gibbon non davano risposte diverse.
Alcune ricerche più recenti accusano l’inadeguatezza delle istituzioni, con G. Ferrero, o un crollo generale, secondo J. Carcopino, secondo cui l’Impero romano era morto di morte naturale.
Da ultimo un libro di M. Le Glay adopera di nuovo il termine “decadenza”, anche se a proposito della Repubblica, è vero.
La “teoria dell’assassinio” è più recente.
Costatando che la situazione delle province, secondo i dati archeologici, si presentava sotto una luce meno cupa di quanto si fosse creduto, A. Piganiol sostenne nel 1947 una tesi originale: erano stati i barbari ad assassinare un mondo romano in buona salute.
H. I. Marrou, che aveva parlato di decadenza nel 1938, ritrattò nel 1949, e si allineò all’idea di A. Piganiol, criticato nel frattempo da J. Carcopino, come si è detto.
Questa storia rinviava ogni crisi od ogni declino all’Alto Medioevo, al che si sono opposti alcuni medievisti.
Infine, recentemente, alcuni ricercatori, senza dubbio ispirati da una concezione del progresso, che non soffre di alcuna restrizione, si sono sforzati di dimostrare che non ci sarebbero state altro che trasformazioni e che si poteva rinunciare alle nozioni di declino e, a maggior ragione, di decadenza.
Per meglio rispondere alla prima domanda, bisogna porsi la seconda: come è successo? Il quarto secolo si caratterizza di fatto con la sua complessità: vi coesistono elementi dell’Alto Impero e novità; queste possono sia sembrare creazioni, e sarebbero dunque elementi di forza, o al contrario esse possono costituire elementi di debolezza, di crisi.
Questa complessità stessa impone di stabilire distinzioni, e da questo punto di vista tre coppie attirano la nostra attenzione.
In effetti, non bisogna considerare allo stesso modo Oriente e Occidente: mentre a est nasceva l’Impero bizantino, i provinciali dell’Occidente vedevano lo Stato indebolirsi e l’esercito sparire (esso non ha potuto impedire ai barbari di traversare il Reno nel 406 né di prendere Roma nel 410).
La forza dei germani spiega in parte questo declino.
I rinforzi ricevuti (popoli dell’est) e la loro migliore organizzazione (federazione di popoli) hanno contribuito al loro successo, allo stesso modo della burocrazia e della crisi economica (carenza di moneta e squilibrio città-campagna) che indebolivano Roma.
Seconda coppia da mettere in opposizione, la città e la campagna hanno in effetti conosciuto destini contrapposti e non più complementari.
Si ammette in generale una permanenza almeno relativa delle città, ma la ripartizione ineguale delle imposte pesava più sulle fasce rurali che sui cittadini, per di più, allo stesso modo, pesava più sui poveri che sui ricchi, in linea di massima (almeno era così che la situazione era vissuta e percepita).
Allo stesso tempo, una minoranza di privilegiati dilapidava sempre più senza risparmio.
Bisogna infine distinguere due culture, il paganesimo e il cristianesimo, che certo non sono totalmente estranee l’una all’altra, ma che talvolta si sono scontrate con durezza.
La tradizione fu preservata, certo, ma per diventare un oggetto di studio; essa non creò più, se non opere universitarie (Marziano Capella); il paganesimo conobbe un declino ma sopravvisse.
Il cristianesimo, al contrario, non smise mai di progredire, e questo sviluppo era accompagnato dalla nascita di nuove forme di arte e di pensiero.
Inoltre, secondo A. Piganiol, questa religione “favoriva la formazione di un’ideologia internazionalista che non conosceva più frontiere”.
Beninteso, tutti questi cambiamenti non sono avvenuti simultaneamente. DI qui la terza domanda: quando?
Durante l’ultimo terzo del quarto secolo, si assiste allo svolgimento di una crisi economica che accompagna il rallentamento dell’evergetismo.
Ma già Oriente e Occidente andavano incontro a destini diversi.
Per l’epoca successiva, alcuni avvenimenti principali hanno attirato l’attenzione degli storici.
Questi avvenimenti si situano sia all’inizio che alla fine del quinto secolo.
Gli ultimi anno di Stilicone furono segnati da un dramma che si consumò la notte del 31 dicembre 406: vandali, alani e svevi attraversarono il Reno che si era gelato.
Percorsero la Gallia, al Spagna e l’Africa (passaggio dello stretto di Gibilterra nel 429); i vandali finirono per fare di Cartagine la loro capitale.
Niente poté arrestarli.
Questa invasione provocò l’usurpazione di Costantino in Gallia, una nuova offensiva dei visigoti di Alarico, più fortunata, ed una reazione generale; il consigliere Olimpio, Galla Placidia, sorella dell’imperatore e l’esercito si unirono contro Stilicone che fu arrestato e decapitato, insieme alla moglie e ai figli, il 23 agosto del 408.
Galla Placidia emerse allora come un personaggio importante, al centro della sua epoca.
La morte di Stilicone non impedì ad Alarico di prendere Roma nel 410; la città fu abbandonata al saccheggio, che rappresenta anch’esso una data essenziale ai nostri fini.
Ormai l’Occidente romano era diventato di fatto l’Occidente barbarico.
Per quasi tutto il quinto secolo (dal 410 al 471-472) i destini delle due parti dell’Impero presero direzioni opposte.
In Occidente il debole Onorio, morto nel 432, aveva lasciato passare in primo piano Costanzo (411-421), l’effimero Costanzo 3. (421).
Fu poi il turno di Valentiniano 3. (425-455), con Ezio magister militum, comandante supremo dell’esercito; essi dovettero affrontare subito il capo degli eserciti d’Africa, Bonifacio, poi Attila, re degli unni, che fu sconfitto nel 451 al campus Mauriacus.
Ma questo potere centrale funzionava solo ad intermittenza: i visigoti passarono dall’Italia all’Aquitania; i franchi e i burgundi si insediarono in Gallia; vandali, alani e svevi proseguirono nella loro avventura.
Dal 457 al 472 fu il magister militum RIcimero, uno svevo, ad imporre il suo protettorato sull’Occidente.
In Oriente, anche se la situazione presentava talvolta caratteri analoghi a quelli descritti per l’Occidente, le condizioni generali, interne ed esterne, migliorarono durante il regno di Teodosio 2. (408-450), in particolare per le molteplici imprese di Antemio.
A quest’epoca risale l’elaborazione del Codice Teodosiano.
La tregua alle frontiere permise comunque dei conflitti interni: massacro della filosofa pagana Ipazia da parte della folla di Alessandria nel 415, disputa monofisita (i monofisiti credevano nella “unità di natura” del Cristo, contro Nestorio, il quale affermava che Gesù possedeva sia la natura umana che quella divina); il Concilio di Efeso nel 431 condannò i nestoriano.
Ma dal 450 al 471 l’Oriente conobbe la stessa sorte dell’Occidente, con una sola differenza: fu un alano, Aspar, ad imporre il suo protettorato.
La fine del secolo fu segnata da due avvenimenti di forte valore simbolico.
Nel 475 Oreste, già segretario di Attila, aveva cacciato da Roma l’imperatore Nepote e dato la porpora a suo figlio, Romolo Augustolo, dai nomi quanto evocativi!
Lo Sciro Odoacre, che aveva anche lui frequentato la corte di Attila, diventò re degli eruli e chiese lo status di federato.
Davanti al rifiuto che gli fu opposto, cacciò Romolo Augustolo e rispedì a Costantinopoli le insegne imperiali (476).
Odoacre diventò “patrizio”, “re dei popoli barbari” e costituì un proprio dominio (Italia-Sicilia-Dalmazia).
L’imperatore Zenone, nel 488, incaricò l’ostrogoto Teodorico di riconquistare l’Occidente; quest’ultimo, dopo l’assassinio di Odoacre nel 493, si impadronì di Roma e dell’Italia.
Ormai l’Occidente romano era diventato, di diritto, l’Occidente barbaro.
Ma il quinto secolo non rappresentò una fine in tutit i campi, poiché lasciò un’eredità.
In oriente si diede forma ad un impero romano originale, che era legato alla civiltà bizantina e che sparì solo nel 1453.
In Occidente l’idea imperiale restò molto forte; ne sono testimonianza la creazione del “Sacro Romano Impero Germanico” e la diffusione del titolo di “Cesare”.
Esso perdurò fino al 1917 in Russia (assassinio dell’ultimo “Czar” Nicola 2.), fino al 1918 in Germania (abdicazione dell’ultimo “Kaiser” Guglielmo 2.) e addirittura fino al 1946 in Bulgaria.
La Francia all’inizio del terzo millennio porta ancora, anch’essa, l’impronta di Roma; i nostri contemporanei non se ne rendono sempre conto.
E tuttavia, noi parliamo una lingua latina.
I principi del nostro diritto vengono dal diritto romano.
La nostra urbanizzazione e i nostri paesaggi rurali hanno venti secoli di storia.
La nostra vita quotidiana (festività, nomi propri…) reca l’impronta del cristianesimo.
La nostra arte, la nostra letteratura e la nostra filosofia, dopo il Rinascimento, che fu rinascita di Roma, si ispirano molto spesso ad opere della Repubblica e dell’Impero.
I nostri valori infine (Libertà, Giustizia, Diritto, Onore, Coraggio…) hanno venti secoli.
In certo modo, Roma vive ancora.
Roma vive in noi.
Storia di Roma di Adam Ziolkowski
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Cap. 2. La Roma dei Tarquini
Roma emerge definitivamente dalle tenebre dalla protostoria alla fine del 6. secolo a. C. nel momento dell’istituzione della Repubblica. La monarchia lasciò in eredità la potenza politica (l’ampiezza dell’ager Romanus, l’egemonia sul Lazio), quella economica e culturale, e istituzioni civiche di una raffinatezza pari a quella delle strutture delle poleis più progredite della Grecia arcaica. Anche se poco più tardi l’egemonia sul Lazio subì una temporanea eclissi ed entro la comunità scoppiò un conflitto sociale lungo e accanito, le istituzioni politiche, l’ampiezza del territorio e le tradizioni egemoniche sopravvissero, rendendo possibile cent’anni dopo la caduta della monarchia la ripresa dell’espansione.
L’elemento cruciale di questa eredità – l’emergere di Roma come un gigante tra le città latine – fu, come abbiamo visto, opera delle prime generazioni dell’età monarchica. Gli altri elementi sono collocati dalla tradizione nei tempi dei tre ultimi re, che costituiscono una vera e propria dinastia: Lucio Tarquinio Prisco (616-578), il genero di costui Servio Tullio (578-534) e il genero, cognato (e uccisore) di Servio, Lucio Tarquinio il Superbo (534-509), figlio di Tarquinio Prisco. E’ per questo che Giorgio pasquali intitolò il suo celebre articolo del 1936, che valorizzava la tradizione della potenza romana nel 6. secolo, La grande Roma dei Tarquini. La mostra del 1990, intitolata allo stesso modo, consacrò – a quanto pare definitivamente – l’uso di questa espressione.
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Cap. 3. La prima Repubblica (509-396 a. C.)
Da tutto questo consegue che la forma romana del potere – due magistrati di pari grado, detentori del pieno imperium dei re – nacque assieme alla Repubblica. L’obiettivo degli autori di questa eccezionale soluzione costituzionale risulta chiaramente dal fatto che nel caso del dissenso tra i consoli aveva la meglio il principio della protesta: si cercava così di mettersi al sicuro dalla possibilità di un abuso del suo enorme potere da parte del console. L’altro principale mezzo di protezione fu naturalmente la limitazione dei poteri dei consoli a un anno. Il padre della Repubblica, Publio Valerio Publicola, ricoprì il consolato senza interruzione per i primi tre o quattro anni del nuovo regime, ma presto prevalse la regola per cui nessuno poteva detenere il potere supremo per due anni di seguito.
La sola eccezione al principio di collegialità fu la dittatura, attestata per la prima volta nel 501. Il dittatore, detentore del potere supremo, veniva nominato da uno dei consoli con un mandato che prevedeva un incarico concreto che esigeva il possesso dell’imperium maximum, come poteva essere un’emergenza militare o conficcare il chiodo nel muro del tempio capitolino; dopo la nomina il dittatore designava il suo magister equitum. Il dittatore poteva tenere la carica per sei mesi al massimo, ma normalmente abdicava dopo aver compiuto il suo incarico. La sola garanzia contro il potere in tutto e per tutto regale del dittatore era la regola secondo la quale il console che faceva la nomina aveva la facoltà di scegliere chiunque, anche il suo collega, ma non se stesso.
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Cap. 5. La conquista dell’egemonia nel Mediterraneo
Secondo la prospettiva delle radici greco-romane della nostra civiltà i più importanti conflitti armati dell’antichità furono indubbiamente le guerre persiane e quelle puniche: le prime, in quanto salvaguardarono l’indipendenza e l’identità culturale dei greci, consentendo loro di sviluppare senza più ostacoli la loro inconfondibile civiltà; le seconde, perché decisero una volta per tutte che Roma avrebbe dominato il mondo. Le guerre puniche – e concretamente la prima (264-241) e la seconda (218-201) – furono peraltro il maggiore conflitto armato dell’antichità anche il senso letterale, in considerazione della loro durata, dell’entità delle forze impegnate e dell’ampiezza delle perdite di entrambe le parti. La terza (149-146), più che una guerra, fu l’omicidio premeditato di una vittima inerme.
Le fonti conservate delle guerre puniche sono esclusivamente romane o filoromane e dunque tendenziose; questa constatazione va riferita in egual misura al greco Polibio, che passa per un modello di obiettività, e al romano Livio, del tutto innocente nel suo sciovinismo acritico. L’aver messo sullo stesso piano i due antagonisti è forse la deformazione più grave derivante dall’ottica romana delle nostre fonti, il fatto di guardare al conflitto romano-cartaginese come allo scontro di due imperialismi equivalenti, tutti e due decisi a neutralizzare il rivale e a conquistare, in una prospettiva ulteriore, il dominio del mondo. Questi sono scopo che si potevano semmai attribuire a Roma (che però costituiva un’assoluta eccezione tra le città stato mediterranee), in considerazione non tanto delle sue smanie imperialistiche in quanto tali, ma della formazione di meccanismi che fecero della continua espansione armata un suo tratto costitutivo e che le permisero di valersi di ogni nuova conquista per potenziare il proprio potenziale militare. Cartagine, come già in passato Siracusa, Sparte o Atene, possedeva, da parte sua, un proprio impero, ma non aveva realizzato una simile macchina da espansione militare; questo significa tra l’altro che le sue possibilità – e i suoi appetiti – di conquista erano incompatibilmente più modeste. Le guerre puniche furono lo scontro dell’imperialismo romano, del tutto unico e incontenibile nella sua sete di possesso, con il più efficace degli imperialismi di tipi tradizionale, di carattere e portata limitati.
In questo scontro Roma fu fin dall’inizio superiore al rivale in quanto a potenziale demografico, economico e militare; da questo punto di vista è possibile sostenere che i destini del mondo fossero decisi già dopo Sentino e che le guerre puniche furono semplicemente il banco di prova, peraltro severissimo, che misurò la potenza dell’Impero italico della repubblica e la sua resistenza, e allo stesso tempo il momento in cui le dimensioni di quella potenza si rivelarono al mondo intero. D’altra parte, anche se i romani intrapresero le guerre con Cartagine del tutto consapevoli della propria superiorità, il loto andamento fu per loro assolutamente sorprendente e lo stesso risultato finale rimase aperto fino all’ultimo momento. I Cartaginesi si dimostrarono altrettanto resistenti dei Sanniti; oltretutto, per vincere contro di loro la prima di queste guerre, degli animali terricoli come i Romani furono costretti a dominare un elemento che fino ad allora era per loro sconosciuto e che si rivelò più che mai impegnativo, il mare. Nella seconda, invece, il loro impero venne a trovarsi sull’orlo del baratro a causa di un fattore il cui peso, nonostante il precedente di Pirro, non era prevedibile: un condottiero dell’inimmaginabile genio tattico.
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Quando poi il successore di Filippo, Perseo (dal 179), tentò di riallacciare le relazioni interrotte con gli stati greci, e in particolare con il più forte e autonomo di essi, la Lega achea, il senato prese le decisioni di distruggere il suo regno. La propaganda romana accusò il re di accingersi alla vendetta, ; il pretesto arrivò da una provocazione allestita grossolanamente dal compiacente Eumene di pergamo, il quale, mentre faceva ritorno nel 173 a Roma, dove era andato per aizzare la repubblica contro Perseo, mise in scena un attentato contro se stesso in prossimità di Delfi, incolpandone il re di Macedonia.
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In realtà questi casi sono solamente la prova della propria assoluta superiorità sugli altri, di cui si diceva poc’anzi. Azioni volte a salvare la faccia sono tipiche di chi è cosciente della propria inferiorità. Fu esattamente il senso della propria debolezza che nel 1914 spinse la Russia a ritenere inammissibile un’ulteriore umiliazione da parte dell’Austria-Ungheria e di conseguenza a lasciarsi trascinare in una guerra i cui effetti catastrofici per il suo impero erano ben chiari a tutti quelli che avevano preso quella decisione. Roma, invece, non lasciò mai che l’attenzione per le questioni altrui dettasse la propria politica, né a lungo né a breve termine. Tanto per ricordare un caso, a suo modo estremo, come quello che ebbe luogo in Siria nel 162: se nel 219 Annibale aveva reagito in modo sorprendentemente rapido e risoluto alle provocazioni saguntine, tanto peggio per i Saguntini. I Romani avevano preso già le loro decisioni sulla politica di quell’anno, specialmente quella di mandare entrambi i consoli in Illiria; rimasero pertanto a osservare inerti un assedio di otto mesi, finito con la distruzione dell’alleato, che essi stessi avevano spinto a muoversi contro i Cartaginesi. La coscienza della grandezza della propria potenza e della sua preponderanza sugli altri, quale era stata raggiunta nella seconda guerra punica e verificata poi a fondo nei primi decenni del 2. secolo, fece si che le decisioni romane se intervenire o non intervenire, guerra o pace, annessione o non annessione, furono dettate fondamentalmente da considerazioni interne. Questa era la sostanza dell’imperialismo romano all’epoca dell’espansione della repubblica al di là del mare.
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Cap. 6. Società e Stato in età mediorepubblicana
Esamineremo ora le vicende interne della repubblica che avevamo lasciato agli anni 343/341, nel momento in cui l’inizio della seconda fase dell’espansione militare di Roma, questa volta inarrestabile, rese acuto il problema delle modalità con cui sfruttare la vittoria. Il “contratto sociale” concluso attorno al 342/341, che garantiva alla comunità romana la partecipazione ai profitti derivanti dall’impero, rimase in vigore per duecento anni, prima di venire apertamente rotto da una delle parti nel 133. Nel frattempo la repubblica, da principale potenza laziale, era cresciuta fino a diventare la signora del mondo, il corpo della sua cittadinanza si era decuplicato, la sua struttura economica e sociale si era trasformata completamente, le istituzioni dello Stato e le regole della vita politica avevano subito una profonda evoluzione. Ciò nonostante gli anni 343/341.133 costituiscono per la storia di Roma un periodo profondamente unitario proprio perché fu questa l’epoca di quel “contratto sociale” dal quale derivò una relativa pace interna. La stasis (“turbolenza interna”) era iscritta nella natura della città-stato antica; Roma però per duecento anni seppe tutelarsi dalle sue troppo violente e in particolare dallo spargimento di sangue dei suoi cittadini per ragioni di politica interna, arte che non le era riuscita in precedenza e non le riuscirà più in seguito.
Cap. 7. La “rivoluzione romana” e la fine della repubblica
- I Gracchi e la rottura del contratto sociale repubblicano (133-91 a. C.)
Gli antichi erano consapevoli del fatto che il tribunato di Tiberio Gracco fu un momento di svolta nella storia della repubblica. Dopo il 133 niente restò più come prima; ma, soprattutto, il colpo inferto con la gamba di una panca che spezzò la vita di Tiberio fu l’inizio di un secolo di lotte fratricide, alle quali pose fine l’instaurazione di un dispotismo militare detto convenzionalmente “impero”. Anche gli studiosi contemporanei guardano agli eventi del 133 più che altro secondo la prospettiva di quello che accadde più tardi, chiedendosi se i meccanismi propulsivi della rivoluzione romana che furono messi in moto dal tribunato di Tiberio avrebbero potuto svilupparsi nel quadro dell’ordinamento esistente; in altre parole la rivoluzione romana era evitabile?
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Caio, Flacco e i loro partigiani si ritirarono armati sull’Aventino, la tradizionale rocca plebea, dalla quale tentarono un accordo con il console.
[Ecco il precedente dell’Aventino del 20. secolo]
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La municipalizzazione in molti casi significava l’urbanizzazione o almeno la creazione del nucleo religioso-amministrativo del nuovo centro. Unitamente alle distruzioni della guerra sociale e della guerra civile, che ne era la continuazione, e probabilmente con al disponibilità delle somme che un tempo venivano spese per l’allestimento e il mantenimento dei contingenti per l’esercito romano, questo fatto provocò un vero boom edilizio, che durante l’ultima generazione della repubblica trasformò profondamente il paesaggio italico. L’elemento urbanistico più caratteristico delle città italiche del tempo fu non i templi e i fori, ma le raffinate fortificazioni, testimonianza non solo di orgoglio e di patriottismo locali, ma anche della condizione di inquietudine (guerre civili e servili, banditismo) nella quali la penisola sarebbe rimasta fino ai tempi di Augusto. Dei cambiamenti particolarmente importanti intervennero nei territori transpadani, dove l’acquisizione dello ius Latinum accompagnò non solo la trasformazione dei locali centri in imponenti città, ma anche la centuriazione associata a una bonifica dei terreni di campagna.
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Nel 55 e nel 54 Cesare passò in Britannia e al di là del Reno, contro i germani, ma gli eventuali piani di conquista su questi territori andarono a monte per il fermento insorto tra i Galli, che si erano resi conto che alleanza con Roma significava sottomissione. Nel 53 insorsero i popoli renani, appoggiati dai Germani, mentre nell’inverno del 53/52 si giunse persino a una sommossa generale di quasi tutta la Gallia sotto la guida di Vercingetorige del ceppo reale degli Arverni. La soluzione arrivò nel 52 ad Alesia, dove Vercingetorige si era chiuso, assediato da Cesare, La disfatta dell’armata mandata in soccorso e formata da contingenti di tutti gli stati della coalizione antiromana, oltra la capitolazione di Vercingetorige, ebbe come conseguenza la fine dell’insurrezione; nel 51 vennero liquidati gli ultimi punti di resistenza.
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Questi esperimenti e anche il suo aperto disprezzo per le inefficienti istituzioni repubblicane, ma soprattutto il fatto imperdonabile che un singolo esercitava e intendeva continuare a esercitare un potere che spettava a tutta l’élite lo portarono a morte per mano dei membri di una congiura organizzata da Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Longino; tra essi, accanto agli ottimati e ai pompeiani, si trovarono alcuni dei suoi amici più stretti (Decimo Giunio Bruto Albino, Caio Trebonio), incapaci di accettare le aspirazioni monarchiche del capo.
[Esempio di capo solo al comando]
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Cap. 8. Augusto e la formazione del principato (30 a. C.-14 d. C.)
- La monarchia del restitutor rei publicae
Nessuno, a quanto pare, dopo Azio si aspettava che il giovane Cesare cedesse il potere (come aveva più volte promesso durante la guerra di propaganda con Antonio); ed è anche poco probabile che fossero in molti a desiderarlo sinceramente. I gruppi che contavano – la plebe urbana, i veterani, i soldati – avevano già da prima optato per il monarca. Meno di tutti erano interessati al rovesciamento del nuovo stato di cose coloro che a fianco dei triumviri avevano conseguito posizioni più importanti e colossali patrimoni, , dando vita a un’élite nuova ed eterogenea (gli Italici che avevano ricevuto la cittadinanza nell’88/89 più gli eredi dei migliori cognomi storici di Roma). Ma anche costoro, ai quali gli anni che seguirono la morte di Cesare avevano portato solo perdite, probabilmente non rimpiangevano la “libera” repubblica. I lamenti per gli orrori delle lotte fratricide, la stanchezza per la guerra in generale, la nostalgia per la pace, che affiorano in quasi tutte le opere letterarie conservate di questi anni, dovevano essere universalmente condivisi.
Altrettanto universale era la consapevolezza che a recare tale pace poteva essere solo il potere di un singolo. I “liberatori” potevano ancora illudersi che, uccidendo il tiranno, avrebbero riportato la libertà; dopo le esperienze degli anni 44-30 fu chiaro che, qualora fosse andata a buon fine una delle numerose congiure contro il vincitore, ormai il suo unico risultato sarebbe stato la sostituzione del signore assoluto.
Nessuna congiura ebbe successo e il diciannovenne, che all’inizio della sua carriera era il più giovane dei signori della guerra del tramonto della repubblica, visse ancora 57 anni, 43 dei quali come signore esclusivo di tutto l’impero. Quando morì, la forma di governo da lui creata esisteva nei suoi elementi fondamentali già da una generazione. Questo lunghissimo regno (in seguito il maggior rivoluzionario porporato, Costantino, regnò “solo” 31 anni, di cui 13 su tutto l’impero) doveva essere la sua carta decisiva, quella che gli diede ciò che era mancato a suo padre: il tempo necessario per creare e rafforzare quel nuovo regime che dopo la sua morte sarebbe durato per più di 200 anni,
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L’istituzione repubblicana alla quale Augusto riconobbe il ruolo più importante del proprio sistema di potere fu il Senato. Mommsen non esitò a dichiarare che la formula che meglio esprime l’essenza del principato è quella della diarchia del principe e del Senato (beninteso, esclusivamente nell’ottica particolare, cioè giuridico-formale, del suo opus magnum, che il principato fosse de facto una monarchia assoluta egli lo sapeva non meno di Syme che su questo punto lo criticò in “The Augustian Aristocracy”). Le competenze formali della curia e la loro evoluzione sotto il principato verranno illustrate in seguito; qui è sufficiente ricordare le sue due funzioni principali. In primo luogo, come abbiamo visto, appartenervi era il segno distintivo e la condizione dell’appartenenza al gruppo che occupava tutti i posti importanti dello Stato (sotto Augusto in pratica l’unica eccezione a questa regola era il posto di prefetto dell’Egitto). In secondo luogo il Senato conservò il ruolo di principale foro del dibattito politico e dei contatti ufficiali con il mondo; e anche se le decisioni negli affari di Stato venivano prese nel “gabinetto” del principe, la loro presentazione in Senato e il relativo senatusconsultum costituiva lo stadio successivo e indispensabile della loro promulgazione (a differenza dei comizi legislativi, convocati solo per le questioni di particolare rilievo).
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Cap. 9. Il principato e l’integrazione dell’impero
Convenzionalmente i termini temporali del principato, cioè l’autocrazia mitigata dalle forme repubblicane, sono: la determinazione da parte di Augusto della propria posizione nello Stato negli anni 27/23 a. C. da un lato e, dall’altro, il tracollo del sistema politico da lui creato nel suo punto più debole, la trasmissione del potere, negli anni 235/244/249 d. C. Questi termini coprono con buona approssimazione l’epoca della pax romana, quella della pace interna e (a partire dai successori di Augusto) del venir meno dell’aggressività verso l’esterno, quando, a parte le truppe concentrate ai confini, la popolazione dell’impero conosceva le guerre e le rivoluzioni dai racconti e dalle letture, e lo spargimento di sangue dai giochi dei gladiatori.
Esagerando un po’ si può dire che i 200 anni di storia politica dello Stato comprendente il bacino del mare Mediterraneo, l’Occidente europeo e i Balcani, si esauriscono – a parte due guerre civili (69-70 e 193-197), una fase di espansione esterna (101-117) e una grande guerra difensiva (166-180) – con le biografie dei singoli imperatori: i loro rapporti con il Senato, le occasionali spedizioni fuori Roma, la vita privata: tutti aspetti che per il ungo tempo ebbero un’influenza minima sul funzionamento della macchina statale e sulla vita della stragrande maggioranza degli abitanti dell’impero.
Nel frattempo nel quadro istituzionale e territoriale creato da Augusto ebbero luogo fenomeni dei quali almeno due avrebbero avuto un’importanza storica infinitamente maggiore – tanto in una dimensione universale che dal punto di vista dell’ulteriore storia di Roma – di qualsivoglia iniziativa dei sovrani nella sfera politica: la romanizzazione delle province, ma specialmente la nascita e lo sviluppo del cristianesimo. L’effetto cumulativo dei cambiamenti che intervennero nell’impero nel corso dei 200 anni successivi alla morte di Augusto non fu minore di quello arrecato dai 40 anni del suo regno; quelli però erano in maggioranza fondamentalmente di un’altra natura ed ebbero luogo per lo più fuori dal centro di potere, Roma, e persino fuori d’Italia.
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- L’esercito, i confini e la politica estera
Verso la vien del 2. secolo i territori sotto la diretta amministrazione di Roma erano decisamente più estesi che al momento della morte di Augusto. In Africa, dopo l’annessione del regno di Mauritania (40), il potere romano arrivava sino all’Atlantico e, all’interno del continente, fino a Casablanca e Atlas Tellien. In Asia la conversione in provincia Arabia del regno di Nabateo (107) fece avanzare l’impero fino ai margini della zona semi desertica, su tutta l’area compresa fra l’Eufrate e il Mar Rosso oltre l’Eufrate, sui territori compresi tra l’odierna frontiera siriano-irachena a sud (Dura Europos) quasi fono al Tigri a nord (SIngara), sorsero le province di Osroena (195) e di Mesopotamia (198); a sua volta l’annessione di Cappadocia (17) e del Ponto orientale (64) sottomise al potere di Roma tutta l’Asia Minore fino ai confini con l’Armenia. In Europa vennero ad aggiungersi nuove province: nel 43 la Britannia, nel 44 la Tracia e nel 107 la Dacia (Transilvania); contemporaneamente, sotto l’amministrazione romana si venne a trovare un cuneo tra l’alto Reno e l’alto Danubio (85), i cosiddetti agri decumates (“terre sottomesse alla decima”).
Dall’altro lato, in conformità con l’antica concezione dell’impero composto di province e di regni, l’unica acquisizione territoriale di Roma nel Vicino Oriente fu la Mesopotamia; nei rimanenti territori, un tempo sottoposti ai re-clienti, avvenne un passaggio da un controllo indiretto a uno diretto. Identica natura ebbe l’espansione romana in Asia Minore, Africa e Tracia. Nel giro dei 200 anni successivi alla morte di Augusto l’impero si accrebbe in termini reali della Mesopotamia, della Dacia, della Britannia e degli agri decumates. Fatto il paragone con il ritmo delle conquiste dei secoli precedenti, abbiamo pertanto il diritto di affermare che l’avvento del principato significò l’abbandono della politica di espansione svolta per 400 anni.
Abbiamo visto in precedenza che Augusto aveva le sue ragioni per porre un freno alle sue conquiste. Ma perché i suoi successori, con poche eccezioni, continuarono questa stessa politica? La domanda è tanto più opportuna se si riflette che la causa principale dell’arresto dell’espansione negli anni 6-9 d. C. – l’impossibilità di continuare le conquiste e allo stesso tempo di controllare i territori già conquistati con el stesse forze, relativamente esigue – ben presto cessò di esistere. Il processo di romanizzazione delle élites locali sotto il principato fu talmente rapido che la necessità di mantenere degli eserciti di occupazione nelle province veniva meno in media nel corso della terza generazione dopo la conquista. Nella seconda metà del 1. secolo era già possibile concentrare quasi tutto l’esercito sui confini dell’impero senza il timore che scoppiasse la rivolta tra i popoli battuti. Dalla volontà dell’imperatore dipendeva il suo impiego come strumento di ulteriori conquiste o come guardia di frontiera. Per quale ragione quasi tutti gli imperatori lo utilizzassero come guardia di frontiera è la domanda più importante di tutta la storia del principato. Il tentativo di rispondervi richiede però in primo luogo una presentazione di questo stesso esercito e dei modi della sua utilizzazione, cioè in pratica la presentazione della politica estera dell’impero.
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Questa decisione trasformò uno dei più grandi – e pagati a più caro prezzo – trionfi militari della storia di Roma in una delle sue maggiori sconfitte. Per 150 anni, avendo fissato per i barbari la frontiera non oltrepassabile sul Reno e sul Danubio, Roma era stata costantemente presente in Europa centrale, specialmente nella sua parte meridionale, tra i Carpazi e il Danubio, facendo sì che questa piano piano si integrasse politicamente ed economicamente, anche se non culturalmente (in mancanza di urbanizzazione), con il resto dell’impero. Le guerre marcomanne costituirono la crisi generale del sistema di stati vassalli, che Marco Aurelio aveva deciso di risolvere con la loro annessione. La decisione di suo figlio significò de facto la ritirata dell’Europa centrale. Reno e Danubio divennero il confine non solo per i barbari ma anche per i Romani.
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Per la maggior parte dell’epoca del principato il cristianesimo compare come fenomeno secondario: una setta diffusa, ma non troppo numerosa, fuori dal comune più che altro per il fatto che anche la sola appartenenza ad essa era un crimine, punibile in linea di principio con la morte. D’altra parte, appena 15 anni dopo la morte di Alessandro Severo, la Chiesa venne riconosciuta dal potere imperiale quale nemico degno della prima azione generale contro un gruppo religioso dai tempi della sanguinosa repressione sei seguaci di Bacco nel 186 a. C.; del resto vale la pena di aggiungere: stavolta con scarsi risultati per lo stesso potere (a dire il vero i mezzi usati furono completamente diversi). Senza sopravvalutare quindi il grado di penetrazione del cristianesimo nella società dell’impero fino all’inizio del 3. secolo, sono almeno due le questioni di fondo che occorre cercare di affrontare: i meccanismi che provocarono il costante sviluppo della Chiesa, nonostante la generale ostilità verso di essa (in altre parole: che cosa spingeva la gente verso il cristianesimo e faceva sì che perseverasse, nonostante i problemi e i pericoli che ciò comportava?), e la reazione nei suoi confronti della società e del potere imperiale (altrimenti detto: che cosa fece sì che essi vedessero nei cristiani i loro nemici, come manifestarono la propria ostilità nei loro confronti e perché le persecuzioni furono così poco efficaci?).
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Cap. 10. La crisi, la ristrutturazione e la spartizione (235-295)
La profonda crisi politica e militare il cui inizio, come si è visto, si può datare al 235, si aggravò nel terzo quarto del 3. secolo a tal punto da mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’impero. Ciò costrinse gli imperatori a ricorrere a misure straordinarie, con conseguenze economiche e sociali di ampia portata che, a loro volta, resero necessarie altre riforme. Risultato finale di questo processo furono una completa trasformazione delle strutture dello Stato e, per conseguenza, un cambiamento radicale del modo di governare. La creazione di un “nuovo impero”, per molti aspetti interamente diverso dal vecchio, non fu tuttavia la sola novità rispetto all’età del principato: la novità più importante fu l’impetuosa espansione del cristianesimo, contemporanea alla crisi e alla ristrutturazione dello Stato che ebbe come risultato, prima della fine del secolo 4., la quasi totale cristianizzazione dell’impero.
La nuova forma statale continuò a esistere fino agli inizi del 7. secolo ; anche l’organizzazione urbana della società si mantenne in molte parti dell’impero almeno sino alla catastrofica pestilenza della metà del 6. secolo (non meno rovinosa di quella che avrebbe devastato l’Europa verso la metà del 14. secolo). Fino a quel tempo non possiamo ancora parlare di una civiltà cristiana; gli abitanti dell’impero erano ancora, culturalmente, dei Romani di fede cristiana. Tuttavia, per quell’organismo politico che era lo Stato romano, la cesura decisiva fu l’anno 395. La divisione dell’impero che fu fatta in quell’anno – di per sé non dissimile dalle divisioni che erano state fatte più volte a partire dalla fine del 3. secolo allo scopo di rendere più efficiente il governo di un territorio immenso – si rivelò duratura a causa delle invasioni barbariche che inondarono una delle parti dell’impero quasi immediatamente dopo quella data.
Il caso fece sì che la divisione amministrativa decisa nell’anno 395 coincidesse quasi perfettamente con la divisione linguistico-culturale dell’impero che esisteva da secoli, e cioè con la divisione in una parte occidentale in cui dominava la lingua latina e in una parte orientale in cui dominava la lingua greca. L’inaspettata decadenza dell’Occidente latino intensificò le differenze culturali, ebbe dunque come conseguenza una divaricazione sempre maggiore delle due parti, tanto più che l’Oriente greco disponeva ormai di un proprio centro politico e ideale, di una nuova Roma: Costantinopoli. L’Impero romano, il cui centro si trovava nel Bosforo, mentre sulle rive del Tevere comandavano, dapprima de facto, più tardi de jure, capi, più o meno romanizzati, di bande germaniche, era cosa radicalmente diversa dall’impero di una volta: di qui la scelta dell’anno 395 come data finale di questo libro.
Il mezzo secolo di crisi tra il 235 e il 284 può essere diviso in tre fasi. Gli anni 235-249/51 sono quelli dei prodromi della crisi, l’epoca dell’erosione del precedente sistema di successione nella misura in cui cresceva la minaccia esterna e, collegata ad essa, un senso di impotenza fino ad allora ignoto ai Romani. Nella fase delle più gravi sconfitte militari, cominciata con la sconfitta di Decio nel 251 e che durò fino alla vittoria di Nasso nel 267, quando fu evidente che l’esercito non era l’unica istituzione a mantenere in vita l’impero, il patriottismo o l’istinto di autoconservazione indussero la maggior parte di esso a restare al fianco della famiglia imperiale, la cui autorità rese possibile la concentrazione delle forze per il raggiungimento del fine più importante: battere i nemici esterni. L’ultima fase fu la conseguenza della presa del potere supremo da parte di un gruppo di militari professionisti, che non possedeva un meccanismo definito di conquista o di trasmissione del medesimo; questo fece sì che i vittoriosi anni 268-284 fossero di nuovo una catena di cesaricidi e usurpazioni che resero difficile l’opera della restituzione dell’ordine nello Stato dopo le convulsioni degli anni precedenti.
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Cosa altrettanto importante, nonostante la perdita del controllo su parte del territorio e la disorganizzazione provocata dalle invasioni, lo Stato fu un grado anche negli anni peggiori di mantenere un enorme esercito, il quale, se pure non crebbe numericamente, richiedeva spese sempre maggiori, se non altro a causa del ruolo crescente della cavalleria, particolarmente costosa nel mantenimento. Tenendo presenti le condizioni nelle quali si era trovato l’impero, questa necessaria impennata delle spese statali doveva aver luogo nell’ambito del sistema fiscale esistente. In questa situazione l’unica via d’uscita era l’aumento dell’emissione di moneta, cosa che, di fronte alla mancanza di riserve di metalli pregiati, significò la drastica riduzione del loro contenuto nelle monete, specialmente quelle d’argento, la vera base della circolazione monetaria. La spirale della svalutazione messa in moto in questo modo in poco più di 10 anni distrusse il sistema monetario dell’impero.
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Riassumendo: negare la crisi o metterla tra virgolette è il frutto di una profonda incomprensione, derivante dall’assolutizzazione di certe categorie di dati – secondo Tamara Lewit non ci fu nessuna crisi, dal momento che (secondo lei!) gli studi del territorio dimostrano che l’estensione delle aree coltivate nel 3. E nel 4. secolo rimase fondamentalmente la stessa – oppure dalla limitazione dell’ottica di indagine ai territori dove si manteneva la prosperity: come se l’interrotta espansione delle esportazioni in Africa fosse in grado di cancellare lo stato di rovina nel quale nello stesso tempo era caduta la Gallia. Sembra che il merito principale dei revisionisti sia la messa in discussone della convinzione – condivisa da autori che hanno una visione storica assai differente, come Mario mazza da una parte e Gèza Alfoldy dall’altra - secondo cui la catastrofe che si abbatté sull’impero alla metà del 3. secolo dovette essere provocata prima di tutto da profonde cause interne, alle quali la peste, i barbari e i Persiani, consentirono di venire ala luce. Non sembra che la crisi delle strutture statali negli anni 235-284 fosse l’effetto inevitabile di una crisi sociale ed economica più fondamentale; al contrario: la crisi sociale ed economica fu il risultato di una crisi politica e militare, suscitata da un unico fattore esterno – la comparsa di organismi aggressivi nei confronti dell’impero, dotati di una forza superiore alla capacità di resistenza del sistema militare esistente – al quale se ne sovrappose un altro, la peste.
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- La ristrutturazione: il nuovo impero (284-395)
La crisi dell’impero fece si che le considerazioni militari, prioritarie solo in alcuni momenti eccezionali nel periodo della pax romana, si venissero a trovare permanentemente in primo piano, subordinando a sé tutte le altre. L’adattamento delle istituzioni politiche dell’impero alla nuova situazione, iniziato da Diocleziano, venne fondamentalmente portato a termine sotto Costantino e, dunque, durò per due generazioni (284-337 circa). Effetto dell’azione degli imperatori riformatori fu quella fase dell’impero che tradizionalmente viene definito come “dominato” e, secondo la feconda definizione di Timoty Barnes, come “nuovo impero”. Il potere imperiale era quanto mai pronto a questo mutamento: gli imperatori erano sempre prima di tutto imperatori, bastò mettere definitivamente da parte la maschera dei principes con la quale per tre secoli si erano presentati all’élite e alla società. Per il Senato, invece, il processo di ristrutturazione non fu così facile; Costantino, a dire il vero, lo tirò fuori dalla soffitta nel quale era rimasto da Gallieno a Diocleziano, ma al prezzo di un significativo rovesciamento dei ruoli: una volta, per far carriera, bisognava diventare senatore; adesso l’ingresso in Senato era il segno della carriera compiuta. Ma soprattutto il nuovo impero metteva in discussione il paradigma, risalente ancora all’epoca ellenistica, del grande stato territoriale, che si accontentava in pratica di due soli livelli istituzionali: al vertice un centro autoritario, sotto di esso centinaia di migliaia di comunità autonome, le città. Le soluzioni dell’epoca della crisi – l’affidamento dell’amministrazione delle province agli ufficiali e la copertura dello sforzo militare mediante le requisizioni, pseudo-ricompensate con una moneta che si svalutava a un ritmo pauroso – erano semplici palliativi. Dopo che la situazione politica si stabilizzò, il gruppo al governo cominciò a creare una struttura intermedia, il cui compito era quello di trasmettere alla popolazione la volontà di potere e di vigilare che essa venisse eseguita, ma soprattutto di tenere sotto controllo i partner del potere da esso accettati a malavoglia e cioè le élites locali. La comparsa di un apparato burocratico, un vero e proprio corpo estraneo al mondo della civiltà greco-romana, fu la novità maggiore, dalle ripercussioni importantissime, anche se spesso contrarie a quelle volute, tanto per la società che per il potere.
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Ciò nonostante l’impotenza militare dell’Oriente durò in pratica fino alla fine del secolo, il che fece sì che esso non fosse in grado di impedire la caduta dell’Occidente. La caduta dell’Occidente sarebbe stata un processo lungo e a tal punto di difficile percezione (“la caduta senza rumore di un impero”, come scrisse Arnaldo Momigliano) che, anche se siamo d’accordo con l’opinione tornata nuovamente di moda che tra le date in lizza per segnare la sua fine il 476 è quella migliore, fu necessaria ancora una generazione, prima che a Costantinopoli qualche intellettuale riconoscesse che in quell’anno era successo qualcosa di importante. L’equivalente dello shock che sarebbe stato per l’Europa medievale l’anno 1453, per gli antichi fu il sacco di Roma da parte die Goti del 410. Ed è anch’esso una data simbolica: gli eventi che resero inevitabile la caduta dell’antica Roma occorsero principalmente negli anni 395-408
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